Misteri di polizia/XIX. Il Malcostume in piazza

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Il Malcostume in piazza

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XVIII. Il Malcostume nei palazzi XX. Libelli

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CAPITOLO XIX.

Il malcostume in piazza.

Se i palazzi, quanto a moralità, stavano male, non stava meglio la piazza. Gli esempi che venivano dall’alto non erano edificanti. In un rapporto del 31 luglio 1824, leggiamo: „Il malcostume di Firenze cresce a dismisura. La savia misura di tollerare delle donne di malavita a sfogo degli uomini libidinosi ed a tutela dei talami, manca al suo scopo. Dappertutto donne scostumate fanno concorrenza a quelle tollerate, cosicchè il numero di queste è diminuito. Tutti trovano pascolo alle loro voglie nelle famiglie d’ogni condizione1. Le ragazze di bassa condizione sono sottoposte a seduzioni d’ogni genere. 11 morbo venereo s’estende, essendone infetta anche la campagna. 11 numero delle tollerate, e quindi sottoposto alla visita, è di nove, le quali appunto perchè visitate non sono quasi mai ammalate. Fatto un censo delle donne di malavita, può ritenersi che la città ne conti cencinquantanove; ma non sono tutte; però nel predetto numero sono comprese le stradine, come le più distinte per alto maneggio, o per una fina e mascherata condotta.„

E cencinquantanove donne notoriamente conosciute come sacerdotesse di Venere Pandemia, in una città, che secondo un censimento fatto nell’aprile di quell’anno medesimo non dava che ottantottomila anime, diavolo, non erano pochine!2 [p. 149 modifica]

Abbozziamo in una macchietta la corruzione borghese della Firenze d’oltre cinquant’anni fa.

La macchietta ha per protagonista Tommaso Sgricci, il famoso poeta estemporaneo, succeduto, nell’arte parecchio ciarlatana d’improvvisare non solo sonetti e canzoni, ma sinanco tragedie in cinqu’atti, al non meno famoso Gianni, il poeta che, insieme al Monti, cantò, stipendiato e regalato, le vittorie di Napoleone I.

Lo Sgricci, che ai suoi tempi ebbe onori e trionfi quali non ebbero poi nè il Leopardi, nè il Manzoni, che ebbe lo spirito acuto e il frizzo mordace d’un fiorentino contemporaneo di Giovanni Boccaccio, quanto a morale, fu greco, greco sopratutto, in certi suoi amori infami. La sua vita classicamente turpe non era un mistero per alcuno, e benchè i suoi gusti fossero depravati, nè a Firenze, nè fuori, mancavano persone, anche rispettabilissime, che non onorassero in lui l’ingegno, che riputavano sovrumano, anche quando Pietro Giordani, insorgendo contro quel culto per un fabbricante di versi senza gusto e senza arte, scaraventò contro il beniamino dei pubblici dei teatri e delle accademie d’Italia, il suo famoso scritto sugl’improvvisatori.

Abitava egli, il poeta dagli amori greci, nel 1826, in un pianterreno in via dei Bardi, ove, per parecchie ore del giorno, si poteva vedere alla finestra, con un libro in mano, oppure, con penna, calamaio e carta in atto di meditare i suoi versi, interrompendo di tratto in tratto il leggere o lo scrivere con occhiate che lanciava sui passanti e che erano [p. 150 modifica]sempre accompagnate da un ignobile sorriso o da un non meno ignobile strizzare d’occhi, specie quando quelli erano giovani e bellocci. Quel sudicio civettone più frequentemente degnava di quei suoi sguardi e di quei suoi sorrisi i Granatieri che erano acquartierati nella vicina caserma, e che spesso pedinava raggiungendoli sulla Costa di San Giorgio, ove con esso loro s’intratteneva, quasi egli fosse un Anacreonte in parrucca e brache, e i suoi interlocutori dei Batilli, fioriti tra il fumo del tabacco e il rancio d’un quartiere.

„Verso sera — qui cediamo la parola all’Ispettore di Polizia — egli sorte di casa coi capelli bene acconciati, liscetto sul viso, petto scoperto, abito quasi succinto ed angusto artificialmente, per mostrare più che sia possibile all’occhio i fianchi, e con portamento ricercato si mette in giro per la città in cerca d’avventure, al pari delle femine di partito.„

In un rapporto posteriore (12 dicembre 1826) lo stesso funzionario riferisce che in quel giorno era pervenuto allo Sgricci, da Parigi, il conio della medaglia che colà i suoi ammiratori gli avevano fatto battere, e che egli presentò al Granduca; il quale, pel poeta infame, ebbe parole lusinghiere di lode e di ringraziamento, promettendogli che avrebbe fatto coniare e distribuire a sue spese la medaglia. La qual cosa saputasi nel pubblico, aveva destato una grandissima indignazione, essendo noto a tutti il malcostume del poeta. „Il signor G. B. Niccolini — aggiungeva l’Ispettore — segretario dell’I. e R. Accademia di Belle Arti, letterato e scrittore tragico, parlando di ciò e sostenendo l’enunciate massime, disse che questa è l’epoca dei ciarlatani e che non si conosceva per niente e si trascuravano i veri uomini di merito, nominando fra questi Domenico Valeriani, conoscitore di tante lingue orientali, e tale da stare in competenza con qualunque estero letterato.„

Ma quei trionfi lo Sgricci pagava caramente. Verso quel tempo fu divulgata in Firenze una incisione oscena. Questa rappresentava, in atteggiamento non onesto, lo Sgricci e don Camillo Borghese, il marito della bellissima Paolina: e la [p. 151 modifica]Polizia, se volle averne una copia, fu costretta a pagarla tredici lire. Almeno, nella nota delle spese segrete pel mese di gennaio 1827, tale si assicura essere stato il prezzo pagato.

Lo Sgricci, se visse da vero seguace d’Epicuro, morì cristianamente, come l'assicurava l’Ispettore (il 22 luglio 1836); ma alla sua morte, l’estro satirico dei fiorentini non potè trattenersi. Da una sconcia poesia, che la Polizia attribuiva al Pananti, togliamo le seguenti due strofe:

“Batillo il tragico
     Dai finti allori
     Stup.....va Apolline
     A post.....ri.

“Or per giustissimo
     Decreto eterno
     Stup..lo Satana
     Rege d’Averno.„

Anche il Giusti scagliò il suo frizzo sulla tomba dell’improvvisatore, e tra le poesie da lui rifiutate si legge quella in morte dello Sgricci:

     “Laudate pueri Dominum!
È morto chi profuse
A danno del preterito
L’entrata delle muse ec.„

Peraltro, in vita, come già abbiamo detto, gli amori d’indole classica non impedirono allo Sgricci che non fosse ammirato dalla facile turba di coloro che si lasciano prendere dalle apparenze. In un rapporto di polizia del 1826, l’Ispettore, dopo di avere chiamato lo Sgricci per quanto pregiatimo poeta altrettanto uomo turpe, scriveva: „Con sentimento del maggior piacere fu veduto nei giornali esteri e nella Gazzetta Toscana encomiato con somma lode il valore poetico dello Sgricci e con piacevole soddisfazione furono sentite le sovrane benefiche elargizioni a riguardo del di lui sorprendente, franco, pronto, vivace e sublime improvvisare; [p. 152 modifica]ma in ciascuna di simili occasioni si è ridestato nel pubblico il rammarico di trovare unito al genio di questo giovine di sublime talento, il nefando vizio ec. ec.„

La vita scostumata di Tommaso Sgricci, ci ricorda quella d’un altro poeta, l’abate Giuseppe Borghi, che quando la bufera degl’Inni tuffati nella pila dell’acqua santa imperversò coi suoi ottonari dall’un capo all’altro della penisola, facendo quasi supporre allo straniero che la terra ove erano nati ed avevano scritto Dante Alighieri, Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini e Paolo Sarpi si fosse addormentata carbonara nelle vendite del 1815 e del 1821 per svegliarsi biascicatrice di pater e di gloria nelle sagrestie e nelle canoniche, parve che meglio di qualsiasi altro manipolatore d’Inni si avvicinasse ad Alessandro Manzoni, capostipite e fondatore di quella dinastia di poeti intinti d’un cristianesimo inacquato e di manica larga. Donnaiuolo come un abate del secolo XVIII, il Borghi scriveva i suoi inni religiosi fra una conversazione galante e una cura di mercurio, perocchè il disgraziato poeta non pare che dalle lotte d’amore uscisse sempre colle membra sane. Nè, inoltre, pare che alla sola Venere dedicasse i ritagli del suo tempo. Nominato sotto-bibliotecario della Riccardiana, si attribuì a lui la sottrazione di alcuni preziosi manoscritti di quella biblioteca, alcuni dei quali poi furono ritrovati presso un libraio di Parigi, ove mano sconosciuta li aveva portati e venduti.

Nè questo abate travagliato dalla sifilide e fatto segno d’accusa che doveva essere falsa, se la giustizia non se ne immischiò, stonava di troppo nel quadro della società del tempo. Abbiamo già visto chi fossero coloro che concorrevano a formare il fior fiore della società, o, come oggi si direbbe, le classi dirigenti; ed a completare il quadro non manca che presentare al lettore il clero, che allora aveva nelle sue mani, insieme all’indirizzo delle anime, quello delle menti. [p. 153 modifica]

Quasi tutti i rapporti segreti della presidenza del Buon Governo riguardanti il clero, sono concordi nell’affermare come questo non fosse all’altezza della sua missione. Di preti buoni non c’era penuria; ma coloro che arrivavano alle alte dignità, coloro che avevano il mestolo delle faccende ecclesiastiche in mano, quando non erano tristi, erano inetti. Sopratutto si lamentava la mancanza della coltura, specie nelle campagne, e l’assenza della moralità non solo nei semplici preti e nei parrochi, ma financo nei vescovi, di cui le relazioni dei Governatori, dei Commissari Regi e dei Bargelli narrano avventure improntate ad una galanteria che si direbbe una copia di quella dei frati e degli abati delle novelle del Boccaccio e del Casti.

Ma la rilasciatezza del clero toccò nella diocesi di Firenze il suo apogeo sotto il Governo di monsignor Morali. Era questi uomo inettissimo, di poca coltura, e facile a lasciarsi menare pel naso, specie se la guida era in gonnella. Non sembra però che fosse un Lovelace in sottana; solamente pare che nel palazzo arcivescovile egli si fosse creata intorno a sè una famigliuola, come un prete russo o un pastore tedesco. Certamente i canoni del sacro Concilio di Trento ne rimanevano sforacchiati, ma i negozi ecclesiastici avrebbero fatto il loro corso naturale, se l’Arcivescovo non avesse abdicato il proprio potere nelle mani di coloro che dividevano il suo tetto e la sua mensa. Costoro, che forse in qualche storico ecclesiastico avevano letto come certi Papi vendessero e beneficî e indulgenze, avevano aperto bottega, dove a prezzi di tariffa si conferivano canonicati, prebende e parrocchie. Bastava che l’offerta fosse proporzionata al beneficio perchè fosse accettata, ed un bordelliere, o un ubbriacone, o un ignorante fosse sollevato alle dignità ecclesiastiche. La qual cosa, passata sotto silenzio per qualche tempo, per i lamenti e il parlare che ne facevano le persone oneste, si fece palese; e il Governo volle vedere e sentir chiaro: e ci vide proprio chiaro. Il Puccini, che nella sua qualità di presidente del Buon Governo era stato incaricato di far le indagini, nel luglio del 1823 riferì al Granduca come quasi tutti i benefici della diocesi di Firenze [p. 154 modifica]fossero stati accordati simoniacamente dall’arcivescovo monsignor Morali. Come si vede, la Toscana era ritornata ai tempi di Leone X, quando Lutero fulminava i venditori di Cristo e della sua Chiesa, allora accampati nelle stanze che Raffaello istoriava; quasi che l’arte col suo splendore potesse nascondere il marcio che sgambettava allegramente alla luce proiettata da quelle divine composizioni, che si chiamano la Disputa del Sacramento e la Scuola d’Atene.

Il Governo non rimase inerte dinanzi a quella corruzione innalzata a dignità d’istituzione, ed allontanò da Firenze quattro o cinque preti che formavano il consiglio intimo del simoniaco Arcivescovo; il quale, meno la paura e la vergogna, non ebbe a risentire altro danno da quello scandalo, che la sua condotta d’indegno pastore d’anime aveva sollevato.

Ma quando egli morì (8 Ottobre 1826), gli epigrammi sanguinosi, le poesie mordaci, fioccarono da ogni parte sulla sua tomba; e non fu certamente colpa degli autori di quegli epigrammi e di quelle poesie, se il nome di monsignor Pier Francesco Morali, come quello di Ruggiero Arcivescovo di Pisa, non fu tramandato ai posteri in versi da assicurargli in eterno la riprovazione dei giusti.

Uno di quegli epigrammi, sotto forma di epigrafe, diceva:

     “Qui riposa in santa pace
Pier Francesco sommo prete;
Ricco egli era tra i suoi pari,
Ma se gemme, se denari
Dissipò, qual meraviglia,
Era padre di famiglia!„



Note

  1. Il corsivo è del redattore della nota.
  2. Nel predetto anno, con gran mistero, tanto che gli atti figurano nell’Archivio Segreto della Presidenza del Buon Governo, si fece la statistica della popolazione di Firenze non che quella dei reati commessi nel Granducato nell’ultimo decennio. La popolazione della Capitale risultò distribuita nel modo seguente; noi tre quartieri in cui allora si divideva la città: Quartiere S. Croce, 31976; Quartiere S. Maria Novella, 32404; Quartiere S. Spirito, 23708: totale 88088. Nel decennio 1815-24 furono perpetrati nel Granducato 37524 reati, dei quali 2349 nella sola giurisdizione di Firenze distribuiti — i principali — nelle seguenti rubriche: Parricidi, 11 (nessuno a Firenze) — Fratricidi 15 (1 a Firenze) — Assassinî 3 (1 a Firenze, 1 a Siena, 1 a Pietrasanta) — Omicidi proditorii 84 — Omicidi dolosi semplici 384 — Ferimenti gravi 219 — Ferimenti leggieri 260 — Furti tentati 1316 — Furti domestici 166 — Furti impropri 185 — Furti qualificati 8442 — Furti sacri 169 — Furti semplici 1345 — Furti violenti 72 — La statistica fu fatta sulle relazioni periodiche dei commissari, dei vicari regi e dei giusdicenti.