Odissea (Pindemonte)/Libro VI

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Libro Sesto

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Omero - Odissea (Antichità)
Traduzione dal greco di Ippolito Pindemonte (1822)
Libro Sesto
Libro V Libro VII

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LIBRO SESTO


ARGOMENTO.


Pallade va nell’isola de’ Feaci, ed appare in sogno a Nausica, figlia del Re Alcinoo; e l’esorta condursi al fiume a lavar le vesti, avvicinandosi il giorno delle sue nozze. Nausica, ottenuto dal padre il cocchio, esce della città. Lavate le vesti, mettesi a giuocare alla palla con le sue ancelle. Lo strepito risveglia Ulisse, che ancor dormia, e che, presentatosi alla Principessa, pregala di sovvenimento. Ella il soccorre di cibo, e vestito; e guidalo alla città.






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     Mentre sepolto in un profondo sonno
Colà posava il travagliato Ulisse,
Minerva al popol de’ Feaci, e all’alta
Lor città s’avviò. Questi da prima
Ne’ vasti d’Iperéa fecondi piani5
Far dimora solean, presso i Ciclopi,
Gente di cor superbo, e a’ suoi vicini
Tanto molesta più, quanto più forte.
Quindi Nausitoo, somigliante a un Dio,
Di tal sede levolli, e in una terra,10
Che dagli uomini industri il mar divide,
Gli allogò, nella Scheria; e qui condusse
Alla cittade una muraglia intorno,
Le case fabbricò, divise i campi,
E agl’Immortali i sacri templi eresse.15
Colpito dalla Parca, ai foschi regni
Era già sceso, e Alcinoo, che i beati
Numi assennato avean, reggea lo scettro.

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     L’occhicilestra Dea, che sempre fissa
Nel ritorno d’Ulisse avea la mente,20
Tenne verso la reggia, e alla secreta
Dedalea stanza si rivolse, dove
Giovinetta dormia, che le Immortali
D’indole somigliava, e di fattezze,
Nausíca, del Re figlia; ed alla porta,25
Che rinchiusa era, e risplendea nel bujo,
Giacean due, l’una quinci, e l’altra quindi,
Pudiche ancelle, cui le Grazie istesse
Di non vulgar beltà la faccia ornaro.
     La Dea, che gli occhi in azzurrino tinge30
Quasi fiato leggier di picciol vento,
S’avvicinò della fanciulla al letto,
E sul capo le stette, e, preso il volto
Della figlia del prode in mar Dimante
Molto a lei cara, e ugual d’etade a lei,35
Cotali le drizzò voci nel sonno:
Deh, Nausíca, perchè te così lenta
La genitrice partorì? Neglette
Lasci giacerti le leggiadre vesti,
Benchè delle tue nozze il dì s’appressi,40
Quando le membra tue cinger dovrai
Delle vesti leggiadre, e a quelli offrirne,
Che scorgeranti dello sposo ai tetti.

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Così fama s’acquista, e ne gioisce
Col genitor la veneranda madre.45
Dunque i bei panni, come il cielo imbianchi,
Vadasi a por nell’onda: io nell’impresa,
Onde trarla più ratto a fin tu possi,
Compagna ti sarò. Vergine, io credo
Non rimarrai gran pezza; e già di questo,50
Tra cui nascesti e tu, popol Feace
I migliori ti ambiscono. Su via,
Spuntato appena in Orïente il Sole,
Trova l’inclito padre, e de’ gagliardi
Muli il richiedi, e del polito carro,55
Che i pepli, gli scheggiali, e i prezïosi
Manti conduca: poichè sì distanno
Dalla città i lavacri, che del cocchio
Valerti, e non del piede, a te s’addice.
     Finiti ch’ebbe tali accenti, e messo60
Consiglio tal della fanciulla in petto,
La Dea, che guarda con azzurre luci,
All’Olimpo tornò, tornò alla ferma
De’ sempiterni Dei sede tranquilla,
Che nè i venti commuovono, nè bagna65
La pioggia mai, nè mai la neve ingombra;
Ma un seren puro vi si spande sopra
Da nube alcuna non offeso, e un vivo

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Candido lume la circonda, in cui
Si giocondan mai sempre i Dii beati.70
     L’Aurora intanto d’in su l’aureo trono
Comparve in Orïente, e alla sopita
Vergine dal bel peplo i lumi aperse.
La giovinetta s’ammirò del sogno,
E al padre per narrarlo, ed alla madre75
Corse, e trovolli nel palagio entrambi.
La madre assisa al focolare, e cinta
Dalle sue fanti, e con la destra al fuso,
Lane di fina porpora torcea.
Ma nel caro suo padre in quel che al grande80
Concilio andava, ove attendeanlo i Capi
De’ Feacesi, s’abbattè Nausíca,
E, stringendosi a lui, Babbo mio dolce,
Non vuoi tu farmi apparecchiar, gli disse,
L’eccelso carro dalle lievi ruote,85
Acciocchè le neglette io rechi al fiume
Vesti oscurate, e nitide le torni?
Troppo a te si convien, che tra i soprani
Nelle consulte ragionando siedi,
Seder con monde vestimenta in dosso.90
Cinque in casa ti vedi amati figli,
Due già nel maritaggio, e tre, cui ride
Celibe fior di giovinezza in volto.

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Questi al ballo ir vorrian con panni sempre
Giunti dalle lavande allora allora.95
E tai cose a me son pur tutte in cura.
     Tacquesi a tanto; chè toccar le nozze
Sue giovanili non s’ardia col padre.
Ma ei comprese il tutto, e sì rispose:
Nè di questo io potrei, nè d’altro, o figlia,100
Non soddisfarti. Va: l’alto, impalcato
Carro veloce appresteranti i servi.
Disse; e gli ordini diede, e pronti i servi
La mular biga dalle lievi ruote
Trasser fuori, e allestiro, e i forti muli105
Vi miser sotto, e gli accoppiaro. Intanto
Venia Nausíca con le belle vesti,
Che su la biga lucida depose.
Cibi graditi, e di sapor diversi,
La madre collocava in gran paniere,110
E nel capace sen d’otre caprigno
Vino infondea soave: indi alla figlia,
Ch’era sul cocchio, perchè dopo il bagno
Sè con le ancelle, che seguianla, ungesse,
Porse in ampolla d’òr liquida oliva.115
Nausíca in man le rilucenti briglie
Prese, prese la sferza, e diè di questa
Sovra il tergo ai quadrupedi robusti,

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Che si moveano strepitando, e i passi
Senza posa allungavano, portando120
Le vesti, e la fanciulla, e non lei sola,
Quando ai fianchi di lei sedean le ancelle.
     Tosto che fur dell’argentino fiume
Alla pura corrente, ed ai lavacri
Di viva ridondanti acqua perenne,125
Da cui macchia non è, che non si terga,
Sciolsero i muli, e al vorticoso fiume,
Il verde a morsecchiar cibo soave
Del mele al pari, li mandaro in riva.
Poscia dal cocchio su le braccia i drappi130
Recavansi, e gittavanli nell’onda,
Che nereggiava tutta; e in larghe fosse
Gïanli con presto piè pestando a prova.
Purgati, e netti d’ogni lor bruttura,
L’uno appo l’altro gli stendean sul lido,135
Là dove le pietruzze il mar poliva.
Ciò fatto, si bagnò ciascuna, e s’unse,
E poi del fiume pasteggiâr sul margo:
Mentre d’alto co’ raggi aureolucenti
Gli stesi drappi rasciugava il Sole.140
Ma, spento della mensa ogni desio,
Una palla godean trattar per gioco,
Deposti prima dalla testa i veli;

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Ed il canto intonava alle compagne
Nausíca bella dalle bianche braccia.145
Come Diana per gli eccelsi monti
O del Taigeto muove, o d’Erimanto,
Con la faretra agli omeri, prendendo
De’ ratti cervi, e de’ cinghiai diletto:
Scherzan, prole di Giove, a lei d’intorno150
Le boscherecce Ninfe, onde a Latona
Serpe nel cor tacita gioja; ed ella
Va del capo sovrana, e della fronte
Visibilmente a tutte l’altre, e vaga
Tra loro è più qual da lei meno è vinta:155
Così spiccava tra le ancelle questa
Da giogo marital vergine intatta.
     Nella stagion, che al suo paterno tetto,
I muli aggiunti, e ripiegati i manti,
Ritornar disponea, nacque un novello160
Consiglio in mente all’occhiglauca Diva,
Perchè Ulisse dissonnisi, e gli appaja
La giovinetta dalle nere ciglia,
Che de’ Feaci alla cittade il guidi.
Nausíca in man tolse la palla, e ad una165
Delle compagne la scagliò: la palla
Desviossi dal segno, a cui volava,
E nel profondo vortice cadè.

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Tutte misero allora un alto grido,
Per cui si ruppe incontanente il sonno170
Nel capo a Ulisse, che a seder drizzossi,
Tai cose in sè volgendo: Ahi fra qual gente
Mi ritrovo io? Cruda, villana, ingiusta,
O amica degli estrani, e ai Dii sommessa?
Quel, che l’orecchio mi percosse, un grido175
Femminil parmi di fanciulle Ninfe,
Che de’ monti su i gioghi erti, e de’ fiumi
Nelle sorgenti, e per l’erbose valli
Albergano. O son forse umane voci,
Che testè mi feriro? Io senza indugio180
Dagli stessi occhi miei sapronne il vero.
     Ciò detto, uscia l’eroe fuor degli arbusti,
E con la man gagliarda in quel, che uscìa,
Scemò la selva d’un foglioso ramo,
Che velame gli valse ai fianchi intorno.185
Quale dal natio monte, ove la pioggia
Sostenne, e i venti impetuosi, cala
Leon, che nelle sue forze confida:
Foco son gli occhi suoi; greggia, ed armento,
O le cerve salvatiche, al digiuno190
Ventre ubbidendo, parimente assalta,
Nè, perchè senta ogni pastore in guardia,
Tutto teme investir l’ovile ancora:

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Tal, benchè nudo, sen veniva Ulisse,
Necessità stringendolo, alla volta195
Delle fanciulle dal ricciuto crine,
Cui, lordo di salsuggine, com’era,
Sì fiera cosa rassembrò, che tutte
Fuggiro qua e là per l’alte rive.
Sola d’Alcinoo la diletta figlia,200
Cui Pallade nell’alma infuse ardire,
E francò d’ogni tremito le membra,
Piantossigli di contra, e immota stette.
In due pensieri ei dividea la mente:
O le ginocchia strignere a Nausíca,205
Di supplicante in atto, o di lontano
Pregarla molto con blande parole,
Che la città mostrargli, e d’una vesta
Rifornirlo, volesse. A ciò s’attenne:
Chè dello strigner de’ ginocchi sdegno210
Temea, che in lei si risvegliasse. Accenti
Dunque le inviò blandi, e accorti a un tempo.
     Regina, odi i miei voti. Ah degg’io Dea
Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna
Sei delle Dive, che in Olimpo han seggio,215
Alla beltade, agli atti, al maestoso
Nobile aspetto, io l’immortal Diana,
Del gran Giove la figlia, in te ravviso.

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E se tra quelli, che la terra nutre,
Le luci apristi al dì, tre volte il padre220
Beato, e tre la madre veneranda,
E beati tre volte i tuoi germani,
Cui di conforto almo s’allarga, e brilla
Di schietta gioja il cor, sempre che in danza
Veggiono entrar sì grazïoso germe.225
Ma felice su tutti oltra ogni detto
Chi potrà un dì nelle sue case addurti
D’illustri carca nuzïali doni.
Nulla di tal s’offerse unqua nel volto
O di femmina, o d’uomo, alle mie ciglia:230
Stupor, mirando, e riverenza tiemmi.
Tal quello era bensì, che un giorno in Delo,
Presso l’ara d’Apollo, ergersi io vidi
Nuovo rampollo di mirabil palma:
Chè a Delo ancora io mi condussi, e molta235
Mi seguia gente armata in quel viaggio,
Che in danno riuscir doveami al fine.
E com’io, fissi nella palma gli occhi,
Colmo restai di meraviglia, quando
Di terra mai non surse arbor sì bello,240
Così te, donna, stupefatto ammiro,
E le ginocchia tue, benchè m’opprima
Dolore immenso, io pur toccar non oso.

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Me uscito dell’Ogigia isola dieci
Portava giorni e dieci il vento, e il fiotto.245
Scampai dall’onda ieri soltanto, e un Nume
Su queste piagge, a trovar forse nuovi
Disastri, mi gittò: poscia che stanchi
Di travagliarmi non cred’io gli Eterni.
Pietà di me, Regina, a cui la prima250
Dopo tante sventure innanzi io vegno,
Io, che degli abitanti, o la campagna
Tengali, o la città, nessun conobbi.
La cittade m’addita, e un panno dammi,
Che mi ricopra; dammi un sol, se panni255
Qua recasti con te, di panni invoglio.
E a te gli Dei, quanto il tuo cor desia,
Si compiaccian largir: consorte, e figli,
E un sol volere in due; però ch’io vita,
Non so più invidïabile, che dove260
La propria casa con un’alma sola
Veggonsi governar marito, e donna.
Duol grande i tristi n’hanno, e gioja i buoni:
Ma quei, ch’esultan più, sono i due sposi.
     O forestier, tu non mi sembri punto265
Dissennato, e dappoco, allor rispose
La verginetta dalle bianche braccia.
L’Olimpio Giove, che sovente al tristo

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Non men, che al buon, felicità dispensa,
Mandò a te la sciagura, e tu da forte270
La sosterrai. Ma, poichè ai nostri lidi
Ti convenne approdar, di veste, o d’altro
Che ai supplici si debba, ed ai meschini,
Non patirai disagio. Io la cittade
Mostrarti non ricuso, e il nome dirti275
Degli abitanti. È de’ Feaci albergo
Questa fortunata isola; ed io nacqui
Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma
Del poter si restringe, e dell’impero.
     Tal favellò Nausíca; e alle compagne,280
Olà, disse, fermatevi. In qual parte
Fuggite voi, perchè v’apparse un uomo?
Mirar credeste d’un nemico il volto?
Non fu, non è, non fia, chi a noi s’attenti
Guerra portar: tanto agli Dei siam cari.285
Oltre che in sen dell’ondeggiante mare
Solitarj viviam, viviam divisi
Da tutto l’altro della stirpe umana.
Un misero è costui, che a queste piagge
Capitò errando, e a cui pensare or vuolsi.290
Gli stranieri, vedete, ed i mendichi
Vengon da Giove tutti, e non v'ha dono
Picciolo sì, che lor non torni caro.

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Su via, di cibo, e di bevanda il nuovo
Ospite soccorrete; e pria d’un bagno295
Colà nel fiume, ove non puote il vento.
     Le compagne ristéro, ed a vicenda
Si rincoraro; e, come avea d’Alcinoo
La figlia ingiunto, sotto un bel frascato
Menaro Ulisse, e accanto a lui le vesti300
Poser, tunica, e manto, e la rinchiusa
Nell’ampolla dell’òr liquida oliva:
Quindi ad entrar col piè nella corrente
Lo inanimiro. Ma l’eroe: Fanciulle,
Appartarvi da me non vi sia grave,305
Finchè io questa salsuggine marina
Mi terga io stesso, e del salubre m’unga
Dell’oliva licor, conforto ignoto
Da lungo tempo alle mie membra. Io certo
Non laverommi nel cospetto vostro:310
Chè tra voi starmi non ardisco ignudo.
     Trasser le ancelle indietro, ed a Nausíca
Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo
Nettunio sal, che gl’incrostò le larghe
Spalle, ed il tergo, si togliea col fiume,315
E la bruttura del feroce mare
Dal capo s’astergea. Ma come tutto
Si fu lavato, ed unto, e di que’ panni

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Vestito, ch’ebbe da Nausíca in dono,
Lui Minerva, la prole alma di Giove,320
Maggior d’aspetto, e più ricolmo in faccia
Rese, e più fresco, e de’ capei lucenti,
Che di giacinto a fior parean sembianti,
Su gli omeri cader gli feo le anella.
E qual se dotto mastro, a cui dell’arte325
Nulla celaro Pallade, e Vulcano,
Sparge all’argento il liquid’oro intorno
Sì, che all’ultimo suo giunge con l’opra:
Tale ad Ulisse l’Atenéa Minerva
Gli omeri, e il capo di decoro asperse,330
Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte,
Su la riva sedea del mar canuto,
Di grazia irradïato, e di beltade.
     La donzella stordiva; ed all’ancelle
Dal crin ricciuto disse: Un mio pensiero335
Nascondervi io non posso. Avversi il giorno,
Che le nostre afferrò sponde beate,
Non erano a costui tutti del cielo
Gli abitatori: egli d’uom vile e abbietto
Vista m’avea da prima, ed or simíle340
Sembrami a un Dio, che su l’Olimpo siede.
Oh colui fosse tal, che i Numi a sposo
Mi destinaro! Ed oh piacesse a lui

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Fermar qui la sua stanza! Orsù, di cibo
Sovvenitelo, amiche, e di bevanda.345
     Quelle ascoltaro con orecchio teso,
E il comando seguîr: cibo, e bevanda
All’ospite imbandiro; e il pazïente
Divino Ulisse con bramose fauci
L’uno, e l’altra prendea, qual chi gran tempo350
Bramò i ristori della mensa indarno.
     Qui l’occhinera vergine novello
Partito immaginò. Sul vago carro
Le ripiegate vestimenta pose,
Aggiunse i muli di forte unghia, e salse.355
Poi così Ulisse confortava: Sorgi,
Stranier, se alla cittade ir ti talenta,
E il mio padre veder, nel cui palagio
S’accoglieran della Feacia i Capi.
Ma, quando folle non mi sembri punto,360
Cotal modo terrai. Finchè moviamo
De’ buoi tra le fatiche, e de’ coloni,
Tu con le ancelle dopo il carro vieni
Non lentamente: io ti sarò per guida.
Come da presso la cittade avremo,365
Divideremci. È la città da un alto
Muro cerchiata, e due bei porti vanta
D’angusta foce, un quinci, e l’altro quindi,

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Su le cui rive tutti in lunga fila
Posan dal mare i naviganti legni.370
Tra un porto, e l’altro si distende il foro
Di pietre quadre, e da vicina cava
Condotte, lastricato; e al foro in mezzo
L’antico tempio di Nettun si leva.
Colà gli arnesi delle negre navi,375
Gomene, e vele, a racconciar s’intende,
E i remi a ripolir: chè de’ Feaci
Non lusingano il core archi, e faretre,
Ma veleggianti e remiganti navi,
Su cui passano allegri il mar spumante.380
Di cotestoro a mio potere io sfuggo
Le voci amare, non alcun da tergo
Mi morda, e tal, che s’abbattesse a noi,
Della feccia più vil, Chi è, non dica,
Quel forestiero, che Nausíca siegue,385
Bello d’aspetto, e grande? Ove trovollo?
Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli,
Che da noi parte il mar, ramingo giunse,
Ed ella il ricevè, che uscia di nave:
O da lunghi chiamato ardenti voti390
Scese di cielo, e le comparve un Nume,
Che seco riterrà tutti i suoi giorni.
Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia

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D’uom d’altronde venuto, e a lui donossi,
Dappoi che i molti, che l’ambiano, illustri395
Feaci tanto avanti ebbe in dispetto.
Così diriano; e crudelmente offesa
Ne saria la mia fama. Io stessa sdegno
Concepirei contra chiunque osasse,
De’ genitori non contenti in faccia,400
Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto
Fosse delle sue nozze il dì festivo.
Dunque a’ miei detti bada; e leggiermente
Ritorno, e scorta impetrerai dal padre.
Folto di pioppi, ed a Minerva sacro405
Ci s’offrirà per via bosco fronzuto,
Cui viva fonte bagna, e molli prati
Cingono: ivi non più dalla cittade
Lontan, che un gridar d’uomo, il bel podere
Giace del padre, e l’orto suo verdeggia.410
Ivi tanto, che a quella, ed al paterno
Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta
Mi crederai, tu pur t’inurba, e cerca
Il palagio del Re. Del Re il palagio
Gli occhi tosto a sè chiama, e un fanciullino415
Vi ti potria condur: chè de’ Feaci
Non sorge ostello, che il paterno adegui.
Entrato nel cortil, rapidamente

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Sino alla madre mia per le superbe
Camere varca. Ella davanti al foco,420
Che del suo lume le colora il volto,
Siede, e, poggiata a una colonna, torce,
Degli sguardi stupor, purpuree lane.
Siedonle a tergo le fantesche, e presso
S’alza del padre il trono, in ch’ei, qual Dio425
S’adagia, e della vite il nettar bee.
Declina il trono, e stendi alle ginocchia
Della madre le braccia; onde tra poco
Del tuo ritorno alle natíe contrade,
Per remote che sien, ti spunti il giorno.430
Studiati entrarle tanto o quanto in core;
E di non riveder le patrie sponde,
Gli alberghi aviti, e degli amici il volto,
Bandisci dalla mente ogni sospetto.
     Detto così, della lucente sferza435
Diè su le groppe ai vigorosi muli,
Che pronti si lasciaro il fiume addietro.
Venian correndo, ed alternando a gara,
Bello a vedersi, le nervose gambe;
E la donzella, perchè Ulisse a piede440
Lei con le ancelle seguitar potesse,
Attenta carreggiava, e fea con arte
Scoppiare in alto della sferza il suono.

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Cadea nell’acque Occidentali il Sole,
Che al sacro di Minerva illustre bosco445
Furo; ed Ulisse ivi s’assise. Quindi
A Minerva pregava in tali accenti:
Odimi, invitta dell’Egïoco figlia,
Ed oggi almen fa pieni i voti miei
Tu, che pieni i miei voti unqua non festi,450
Finchè su l’onde mi sbalzò Nettuno.
Tu dammi, che gradito, e non indegno
Di pietade, ai Feaci io m’appresenti.
     Disse, e Palla l’udì: ma non ancora
Visibilmente gli assistea per tema455
Del zio possente, al cui tremendo cruccio
Era pria, che i natíi lidi toccasse,
Bersaglio eterno il pari ai Numi Ulisse.