Opere complete di Carlo Goldoni - Volume I/Prefazioni dell'edizione Pasquali/Tomo XI

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Tomo XI

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Prefazioni dell'edizione Pasquali - Tomo X Prefazioni dell'edizione Pasquali - Tomo XII

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L’AUTORE

A CHI LEGGE.

(Tomo XI)


P
IACCIAVI, Lettori umanissimi, di accompagnarmi ancora pazientemente per quella via che mi ha condotto al Teatro. Il viaggio non sarà lungo.

Alla fine del mio ragionamento nel Tomo decimo voi mi lasciaste nella Barca, o sia Burchiello di Padova, di cui avete la descrizione nel primo Tomo de’ miei componimenti diversi. Immaginatevi con qual rammarico e con qual pena intrapresi un viaggio suggeritomi dalla disperazione. La buona compagnia del Burchiello servì a divertirmi, ed il mio facile temperamento non tardò ad arrendersi alle circostanze. Giunto a Padova, vi passai la notte, e il giorno dopo mi condussi a Vicenza. Fatta colà una visita al nobile e virtuoso Cavaliere, il Signor Conte Parmenione Trissino, quegli a cui è dedicata la mia Commedia del Giocatore, mi obbligò egli cortesemente di alloggiare nel suo palazzo. Mi trattenni sei giorni. Si parlò molto fra noi del nostro antico genio per la Commedia. Ci comunicammo a vicenda le riflessioni, gli studj e le scoperte, che fatte avevamo collo studio e col tempo; e si concluse, che il Teatro andava di male in peggio, ed aveva bisogno di una riforma. Il talento fecondo ed universale del fu Signor Marchese Maffei di Verona credette degna di lui quest’opera meritoria, e pubblicò il suo Teatro, consistente in una Tragedia e in due Commedie; ma quanto applauso gli recò la sua Merope, altrettanto furono malgustate dal pubblico le Cerimonie ed il Raguet. Ne esaminammo col Signor Conte Trissino le ragioni, e si concluse che la Riforma propostasi dal Maffei col modello delle sue suddette Commedie era troppo violenta, e che bisognava condurre a poco a poco gli spettatori a gustare il meglio per innamorarli del buono. Passando di ragionamento in ragionamento gli feci parte della mia Amalassunta. Glie la lessi; me la lodò fred[p. 70 modifica]damente, e mi consigliò ad applicarmi piuttosto al genere comico, di cui l’Italia aveva più di bisogno, e per il quale gli pareva scoprire in me una disposizione più vera e più naturale. Presi la scarsa lode al mio Dramma per effetto della preferenza, ch’ei dar volea alla Commedia; gli promisi che mi vi sarei applicato col tempo, ma intanto l’Amalassunta mi lusingava.

Preso congedo dall’ospite generoso passai a Verona con animo di presentarmi al Marchese Maffei, e di fargli leggere ed esaminare il mio Dramma. Tre giorni prima il dottissimo Cavaliere era di là partito. Mi trattenni due giorni per vedere quella deliziosa Città ch’io non avea più veduta, indi proseguii il mio viaggio per Brescia. Giunto a Desenzano, ed alloggiato in quella stessa Osteria, dove mi arrivò l’avventura raccontata nel Tomo ottavo, seppi che il disgraziato, che volea assassinar me e la donna che mi ha salvato, era stato per altri delitti impiccato a Brescia. Passando colà la notte, mi venne in mente che a Salò, dodici miglia di là lontano, io possedeva una casa, di cui da molto tempo non ne aveva novella alcuna. Questo picciolo interesse, e il desiderio di vedere la Riviera amenissima del Lago di Garda, mi fe’ risolvere di allungare la strada e di condurmi a Salò. Le due intenzioni mi riuscirono fortunate. Mi divertì estremamente la deliziosa Riviera, e trovai qualche danaro ammassato degli affitti della mia casa, che servì ad accrescere un poco le mie scarse finanze. Partito di là per Brescia, trovai in quella ricca e popolosa città il Sig. Alessandro Novello di Castel Franco, ch’io aveva conosciuto Vicario a Feltre, ed era allora Assessore del pubblico Rappresentante di Brescia. Mi accolse con generosa amicizia, mi alloggiò seco lui nel Palazzo Pretorio e mi fece passare parecchi giorni felici. Sovvenendosi egli del mio genio poetico, per qualche cosa ch’io fatta avea, quand’eravamo impiegati a Feltre, mi chiese, s’io aveva niente del mio da fargli sentire. Gli parlai del mio Dramma; si mostrò desideroso di udirlo; si appuntò la sera per leggerlo, ed invitò un buon numero di letterati per ascoltarlo.

Qual consolazion fu la mia nel sentir lodare il mio Dramma [p. 71 modifica]da cinque o sei persone erudite? Brescia abbonda di eccellenti poeti, e quei che mi favorivano, erano de’ più scelti.

Trovarono che il carattere di Amalassunta era bene immaginato e ben sostenuto, e che poteva servire d’istruzione e di esempio alle Regine incaricate della tutela e dell’educazione dei reali figliuoli. Piacque loro infinitamente il contrasto de’ Cortigiani, due saggi e due discoli, e la catastrofe infelice del figlio Atalarico, abbandonato ai Consiglieri cattivi, ed il trionfo di Amalassunta, secondata dai buoni. Parve loro il mio stile meno poetico di quello che si accostuma nei Drammi per musica, ed avrebbero voluto ch’io levassi le Arie e le rime, per farne (dicevan eglino) una buona Tragedia. Fui contento del loro applauso, li ringraziai del loro consiglio, ma mi guardai bene dal seguitarlo. Qual profitto ne avrei ricavato? Qual utile mi avrebbe recato una Tragedia, quand’anche stata fosse di merito superiore? E levate le Arie e le rime, che sono il più forte della Drammatica Poesia, quanti maggiori difetti non si sarieno scoperti? Finalmente io aveva fondate le mie speranze sopra un Dramma per musica, che poteva fare la mia fortuna, e mi pareva di averla fatta; onde il giorno dopo mi congedai dall’amico, e m’incamminai novamente per la via di Milano.

Pria però di condurmi a questa magnifica Capitale della Lombardia Austriaca volli passar a Bergamo per vedere anche quella Città dello Stato Veneto, e per aver l’onore di presentarmi al pubblico Rappresentante, l’Eccellentissimo Sig. Francesco Bonfadini, oggi di gloriosa memoria, Cavalier magnanimo e generoso, che morì Senatore, e alla cui Sposa illustre, e virtuosa Dama, dedicata ho la Donna di garbo. Non so esprimere bastantemente con quai dimostrazioni di giubbilo e di bontà fui ricevuto a Bergamo dal Cavaliere umanissimo e dalla benignissima Dama. Le prime parole, che pronunciarono nel vedermi, furono queste: Ecco l’Astrologo; viva l’Astrologo; ben venuto l’Astrologo. Confesso il vero, restai alquanto sospeso e mortificato, non sapendo a che attribuire un titolo, con cui mi pareva di esser posto in ridicolo. Voltatosi il Cavaliere alle persone, ch’erano con esso lui e colla Dama, sedute [p. 72 modifica] al foco: Vi sovvenite (diss’egli loro) che la Contessa C...., per causa della sua eterna toeletta, il giorno di Santo Stefano, perdè la Messa? Goldoni, che qui vedete, l’ha predetto in un bizzarro Almanacco da lui composto. Tutti risero e mi applaudirono. Io mi rasserenai un poco, ma diedi a conoscere che non mi piaceva moltissimo il dover passare per fabbricator di Lunarj. Il Cavalier se ne accorse, e disse di me delle cose, che mi fecero non so s’io dica arrossire o insuperbire. Mi chiese in seguito, dov’io era alloggiato; dissi alle due Ganasse: mi rimproverò gentilmente di esser disceso all’albergo, mandò a prendere il mio baule, mi onorò di una camera nel suo Palazzo, mi tenne seco quindici giorni, e non contento di quanto aveva fatto per me, avendogli io raccontate le mie avventure, mi esibì protezione e danaro; due cose delle quali nella mia situazione d’allora aveva estremo bisogno. Lo ringraziai, pregandolo della prima, senza rifiutar la seconda, ed il Cavaliere amabile e generoso mi diede alquanti zecchini ed una lettera della Dama sua per sua Eccellenza il Sig. Orazio Bartolini Residente Veneto allora in Milano, e morto poscia nell’insigne carica di Cancellier Grande in Venezia.

Partito da Bergamo colmo di onori e di grazie, arrivai a Milano; presi alloggio all’Osteria del Pozzo, portai la lettera al Residente, che m’accolse con estrema bontà. Gli confidai la cagione della partenza mia di Venezia, ma niente gli domandai alla prima visita, poichè tutte le mie speranze erano fondate nella mia Amalassunta.

Era precisamente allora di Carnovale e rappresentavasi in quel Teatro il Demofoonte del Metastasio, e sosteneva la parte principale del Dramma il celebre Caffariello, ch’io conosciuto aveva in Venezia. Era il Direttore e compositore de’ Balli il Sig. Gaetan Grossa-Testa di Modena, passato poscia all’onorevole impiego di Maestro di ballo del Re di Napoli. Conosceva io questo degnissimo galantuomo e la gentilissima Signora Maria sua Consorte; onde col mezzo di queste tre conoscenze, e col merito del mio Dramma, sperai che gl’Impresarj l’avrebbero ricevuto, e me lo avrebbero ben pagato. Fatta dunque una visita alla bravissima [p. 73 modifica]danzatrice, e scelto il giorno di Venerdì in cui non vi è rappresentazione in Teatro, trovai da essa, oltre il Marito suo, il Caffariello ed altre persone di sua conoscenza, fra le quali eravi il Conte Prata Cavalier Milanese, gran conoscitor del Teatro, e dilettante di Musica e di Poesia teatrale. Comunicato il mio desiderio, tutti si offrirono per favorirmi, ma giudicarono prudentemente che, prima di esporre il dramma al giudizio degl’Impresarj, era bene di esporlo a quello de’ miei amici. Io, che niente più desiderava che leggere il mio Componimento, lo tirai di tasca, e li pregai di attenzione. Questi uditori non erano ne sì dotti, ne sì eruditi, come quelli di Brescia, ma resi dalla pratica più instruiti, non trovando il mio Dramma uniforme alle regole, cominciarono ad annoiarsi. Sbadigliavano alcuni, altri parlavan pian piano fra loro, e un Musico, che faceva l’ultima parte nel Demofoonte, prese una carta di musica e si mise a cantar sotto voce. Acceso d’entusiasmo e di collera, cominciai a declamare più forte per obbligarli ad ascoltarmi con più attenzione, ma ciò non servì che a far ridere alcuni e impazientar gli altri, e ad inquietare la Padrona di casa, che invano li eccitava al silenzio. Alfine facendomi ella le scuse le più gentili e polite, mi pregò di rimettere il resto ad un’altra volta. La ringraziai della sua cortese maniera, ma piccato principalmente contro dei Musici, voleva andarmene immediatamente. Il Conte Prata mi pregò gentilmente di passare seco lui in un’altra camera, e mi obbligò a terminargli la mia lettura. Lo feci con tanto maggior piacere, quant’io sperava che il suo suffragio mi avrebbe resa quella giustizia, che gli altri mi avevano indiscretamente negata. Ascoltò egli tutta l’opera pazientemente, ed ecco all’incirca quel ch’ei mi disse alla fine:

«La vostra Opera, se fosse scritta diversamente, potrebbe essere una buona Tragedia; ma il Dramma per musica, ch’è per se stesso un Componimento imperfetto, è stato suggettato dall’uso a delle regole, contrarie, egli è vero, a quelle di Aristotile, di Orazio e di tutti quelli che hanno scritto della Poetica, ma necessarie per servire alla Musica, agli Attori e ai Compositori. Il profondo Apostolo Zeno, il melifluo, elegante e dottissimo [p. 74 modifica]Metastasio si sono a queste regole conformati, e quel che parrebbe difetto in una regolata Tragedia, diviene una bellezza in un Dramma per musica. Leggete con attenzione i due Autori suddetti, comprenderete a poco presso che cosa è il dranuna di cui parliamo, e ne rimarcherete le regole. Io ve ne additerò alcune delle più materiali, la mancanza delle quali ha disgustato i Musici, che vi ascoltavano. Il primo Soprano, la prima Donna e il tenore, che sono i tre principali Attori del Dramma, devono cantare cinque arie per ciascheduno, una patetica, una di bravura, una parlante, una di mezzo carattere ed una brillante. Il secondo Uomo e la seconda Donna devono averne quattro per uno, e l’ultima parte tre, ed altrettante un settimo personaggio, se l’opera lo richiede; poiché (per parentesi) i personaggi non devono essere più di sei o sette, e voi ne avete nove nel vostro Dramma. Le seconde parti pretendono anch’esse le arie patetiche, ma le prime non lo permettono, e se la Scena è patetica, l’aria non può essere, che al più al più di mezzo carattere. Le quindici arie dei primi attori devono essere distribuite in maniera, che due non si succedano dello stesso colore, e le arie degli altri attori servono per formare il chiaro scuro. Voi fate cantare un personaggio, che resta in Scena, e questo è contro le regole. Voi all’incontro fate partire un attor principale senz’aria, dopo una Scena di forza, e questo ancora è contro le regole. Voi non avete nel vostro Dramma che tre cambiamenti di Scena, e ve ne vogliono sei o sette. Il terzo Atto del vostro Dramma è il migliore dell’Opera, ma questo ancora è contro le regole....»

Non potei più contenermi, mi levai con un movimento involontario, violento, gli chiesi scusa, lo ringraziai de’ suoi amichevoli avvertimenti, e conclusi dicendo che, scandalizzato dalle regole del Dramma facea proponimento di non comporne mai più. Mi congedai dal Cavaliere, lo pregai che, come pratico della casa, mi facesse sortire senza ripassar per la camera della Conversazione. Così fu fatto; me ne ritornai al mio albergo, feci accendere il foco, ed avendo ancora la bile in moto, bruciai a poco a poco [p. 75 modifica]la mia Amalassunta, l’unica copia che mi restava. Fatto il gran sagrifizio, rimasi stupido qualche tempo. Venne a scuotermi il Camerier colla cena. Lo rimandai bruscamente, chiusi la porta della mia camera, e mi abbandonai intieramente alla riflessione delle speranze perdute, e della situazione nella quale mi ritrovava. Ripensando di quando in quando al mio Dramma, mi sovvenne del giudizio favorevole dei Bresciani ben diverso da quello ch’io avea sofferto in Milano, e compresi allora, che un’opera riesce sovente buona o cattiva secondo le circostanze, e rapporto al gusto, o all’intelligenza, e alla disposizione dell’animo delle persone che la leggono, o che la vedono rappresentare. Ho avuto occasione coll’andar del tempo di ciò esperimentare ancor davantaggio, poiché varie Commedie mie, che piacquero in un Paese, dispiacquero in un altro, e talvolta nello stesso Paese furono aggradite da molti, e da altrettanti disapprovate.

Non poteva saziarmi di maledire e di detestare le regole stravaganti del Dramma per musica. Pensai che della mia Amalassunta avrei potuto fare una buona Tragedia, e riportarne, se non dell’utile, almen dell’onore; ma l’Opera era sagrificata allo sdegno, e mi pentii troppo tardi del mio trasporto.

Mi sovvenne del Conte Trissino, che consigliato mi aveva ad applicarmi al Teatro Comico, ch’è stata la prima mia inclinazione. Pensai che l’Italia avea più di bisogno di Autori Comici, che di Tragici e di Drammatici; e mi determinai a tentar questa strada, ed occuparmi in qualche comico componimento, fintanto che gli affari miei di Venezia si accomodassero, e ch’io potessi riprendere l’abbandonata carriera. Eravamo allora alla metà in circa del Carnovale. A Pasqua si apre ordinariamente il Teatro in Milano con una Comica Compagnia delle migliori d’Italia. Bisogna, dicea fra me stesso, bisogna attendere questo tempo e preparare intanto qualche commedia, per darla ai Comici che verranno.... Ma se avessero anch’eglino delle regole, ch’io non conosco? Converrebbe prima parlare con esso loro, esaminare con più attenzione le loro commedie, non per imitarle, poiché sono pessime, ma per accordare in quelle regole, che sono forse indispensabili, [p. 76 modifica]per contentare gli attori. Attendiamo dunque; ma intanto? Come aspettare? Come sussistere? Qual partito ho da prendere? Eccolo. Andar dal Veneto Residente; far valere la raccomandazione della Dama; profittare delle sue esibizioni; narrargli il mio caso; pregarlo della sua assistenza..... lo farà egli? Oh, lo farà senz’altro. Non vedo l’ora che sia domani. Contento del mio progetto, mi spoglio, vo a coricarmi e dormo la notte colla miglior pace del mondo. Io ho sempre avuto (sia per abito, o sia per temperamento) l’abilità di mettere, come suol dirsi, i pensieri sotto del capezzale, e per qualunque traversìa, dispiacere o disgrazia, non ho mai perduto nè il sonno, nè l’appetito. Svegliatomi alla mia ora solita, andiedi a far una visita al Residente, e pieno di fiducia e coraggio, gli raccontcìi la mia istoria, gli dipinsi il mio stato ed il mio bisogno, mi accolse colla solita sua gentilezza, rise delle mie avventure, fu contento della mia sincerità, mi promise assistenza; e come io domandava un impiego onesto ed a me convenevole, s’incaricò di procurarmelo al più presto che potuto l’avesse. Andava spesso a vederlo, e l’impiego ancor non si presentava. Un giorno finalmente gli dissi, che stanco d’importunarlo, era andato a prender congedo, e che lo pregava de’ suoi comandi. Per dove, diss’egli, per dove? Non lo so. Signore, risposi. Io devo partire, ma non so per dove. — Perchè partite? — Perchè mi manca il modo di sussistere più lungamente in Milano. Rise egli un poco della mia bizzarra risoluzione; stette qualche minuto senza parlare, poi voltatosi cortesemente, così mi disse: Voi domandate un impiego in Milano. Non mi è riuscito ancora di qui ottenervelo. Mi parete un giovine onesto, siete un uomo civile, siete Veneziano, mi dispiacerebbe che vi perdeste. Vi esibisco il posto di gentiluomo in casa mia, se vi compiacete accettarlo. — Come, Signore? S’io mi compiaccio? L’accetto col più gran contento e colla maggiore riconoscenza. — Ma io sono aggravato di troppe spese; non potrò darvi quegli appuntamenti.... — Non parliamo di questo, sono al di lei servizio. Quando vuol Ella, ch’io abbia l’onore di cominciare? — Quando volete. — Vado subito all’Osteria del Pozzo, vado a prendere il mio baule.... [p. 77 modifica]Ma oimè, Signore, arrossisco a dirlo. — Parlate. — Devo qualche filippo all’Oste, e non ho presentemente di che pagarlo. — Non importa; restate qui, manderò il mio Mastro di casa a pagar l’Oste, a far portare il vostro baule. Ehi! chi è di là? (entra un Servitore). Conducete il Sig. Goldoni nell’appartamento di sopra, dategli quelle due camere, che guardano sopra la strada. Poi a me voltandosi: andate, quello sarà il vostro alloggio. Pieno di consolazione, lo ringraziai coi dovuti termini di rispetto e di tenerezza, e andiedi a prender possesso del mio appartamento. Da lì a qualche tempo, quantunque avess’egli un abile Segretario, mi ammise alla confidenza del suo carteggio e de’ suoi dispacci, cosa che mi occupava con mio piacere, e m’instruiva negli affari politici e del governo. Contento egli della mia condotta e della mia abilità, si servia più di me che del Segretario, si tratteneva meco la sera in piacevoli ragionamenti, ed io era l’uomo il più contento del mondo, e non perdeva per ciò di vista il progetto delle Commedie. Mi divertiva nelle ore di libertà facendo qualche disegno e qualche nota principalmente sopra i caratteri, che mi si presentavano alla giornata e che mi parevano Comici, aspettando con impazienza quel tempo, in cui dovea riaprirsi il Teatro, ed informandomi qual era la Compagnia, che dovea occuparlo nella Primavera vicina. Seppi con mio rammarico, che le Compagnie di Venezia erano in quell’anno impegnate altrove, e che il Teatro di Milano correva pericolo di restar vuoto. In fatti arrivammo a Pasqua, senza che alcuna Compagnia si presentasse per occuparlo. Io era di ciò afflittissimo, ma la sorte da lì a poco mi ha favorito.

Giunse in Milano il famoso Anonimo, il quale provveduto di bastante scienza e di pratica sufficiente per fare il medico, sedotto da una vanità sconsigliata, per far pompa della sua eloquenza e della sua erudizione si era abbandonato all’esercizio del Ciarlatano. Era il suo vero nome Buonafede Vitali, nato in Parma di civile ed onesta famiglia, ed aveva occupata in Palermo una Cattedra di Medicina. Dodici anni prima l’aveva io veduto in Fossombruno al ritorno mio di Perugia. Saliva egli allora in banco con due semplici sonatori per invitare il Popolo ad [p. 78 modifica]ascoltarlo, indi lo tratteneva egli solo col facile ed erudito suo ragionare: invitando il pubblico a proporgli de’ quesiti difficili, e gli scioglieva felicemente; e per evitare il titolo e la taccia di Ciarlatano, diceva che Ciarlatani son quelli che si espongono al Pubblico con de’ Buffoni sul palco, e ch’egli all’incontro montava solo, affidato alla bontà de’ suoi medicamenti, i quali per verità erano universalmente apprezzati.

A Milano aveva egli rinunziato a questa bella difesa del suo mestiere; teneva una Compagnia completa di Commedianti, che montavano in banco con esso lui, e si framischiava egli nelle loro burlette, ed ha continuato a ciò fare, fintantocchè ritrovandosi parecchi anni dopo a Verona in tempo di una mortifera epidemia di mali di petto, trovato, non so se a caso o per istudio, il segreto di guarire una tal malattia colle mela appiole ed il vino di Cipro, fu dall’applauso universale e dalla protezione di quel pubblico Rappresentante elevato al grado di Protomedico di detta città, nel qual posto morì pochi mesi dopo, non pianto certamente da’ Medici di quel Paese.

La Compagnia de’ Commedianti al soldo dell’Anonimo (per rivenire al nostro proposito) era una delle migliori fra quelle che in Italia si chiamano Compagnie volanti. Fra i buoni attori, che la componevano, eravi il bravo Pantalone Francesco Rubini, che fu poi il successor di Garelli nel teatro Vendramini di San Luca, o sia di San Salvatore in Venezia, e l’onorato Gaetano Casali Lucchese, che passò da li a poco tempo in carattere di primo Amoroso nel teatro Grimani di San Samuele, e di cui avrò occasion di parlare più di una volta.

Trovandosi dunque questa Compagnia in Milano, ed essendo il Teatro disoccupato, i Direttori l’accordarono per la Primavera e l’Estate a que’ Comici, i quali lavorando (com’essi dicono) dentro e fuori, terminate le loro Farse in Piazza, davano delle Commedie dell’arte in quel gran Teatro. Non mancava io certamente di frequentarlo, e contento più degli Attori che delle loro comiche rappresentazioni, m’introdussi sulla scena, feci amicizia con alcuni di loro, e passava il mio tempo ad esaminare dappresso i loro [p. 79 modifica] caratteri, i loro costumi ed i loro maneggi. Trovando il Casali uomo onesto e civile, ed il meglio istruito degli altri nel suo mestiere, mi legai con esso lui particolarmente, gli svelai la mia inclinazione per li comici componimenti, il desiderio ch’io aveva di far una prova del mio talento, ed il bisogno ch’io avea di sapere, se i Commedianti aveano delle regole così insulse e così stravaganti, come avea trovato fra i Musici. Il Casali è uomo serio, ma non risparmia i termini, quando si tratta di dire la verità. Mi ha fatto un dettaglio esatto delle regole non della Commedia, ma dei Commedianti, che mi ha fatto talvolta ridere e talvolta arrabbiare. La regola la più ridicola delle altre, e che mi ha più disgustato, è questa: Le prime donne, i primi amorosi non cedono le prime parti a nessuno. Sieno vecchi, cadenti, non lasciano di rappresentare le parti di giovani amanti, di semplici giovanette, e che la Commedia precipiti, e che il Teatro perisca, piuttosto che perdere il diritto del loro posto. Questo non è ancor tutto. Se la prima donna è di carattere dolce, inclinata al patetico, e che la prima parte di una Commedia o di un’opera sia di un personaggio collerico, trasportato, furioso, la prima attrice preferisce di rendersi odiosa al pubblico, piuttosto che cedere ad una seconda la parte che meglio le converrebbe. Gli uomini fanno lo stesso, e quegli che si è acquistato del credito nel rappresentare un Bruto, un Cicerone, un Sansone, lo perde affatto volendo sostenere il carattere di un Don Gelsomino, di un Cicisbeo affettato, di un Discolo, di un Prodigo o di un Amoroso. Ma (diss’io allora) chi facesse un Componimento nuovo, e lo desse ai Comici, e li pregasse di arrendersi alla distribuzion delle parti?... Non Signore (m’interruppe il Casali), voi non fareste niente. Voi riuscireste a far cedere i Comici in tutti gli altri articoli delle loro regole; ma in questo non lo sperate.

Bisognerebbe dunque (ripresi a dire) comporre un’opera precisamente adattata ai caratteri personali di quei che devono rappresentarla. Oh! sì (rispose), sì certamente, se un Autore volesse a ciò suggettarsi, sarebbe quasi certo della riuscita. In fatti il Casali avea gran ragion di così parlarmi. L’ho provato in seguito [p. 80 modifica]per esperienza. Sono i Comici tutti, e buoni e cattivi, e Italiani e Francesi, inflessibili su questo punto, e tutte le opere Teatrali, che ho poi composte, le ho scritte per quelle persone ch’io conosceva, col carattere sotto gli occhi di quegli attori, che dovevano rappresentarle, e ciò, cred’io, ha molto contribuito alla buona riuscita de’ miei componimenti, e tanto mi sono in questa regola abituato, che trovato l’argomento di una Commedia, non disegnava da prima i Personaggi, per poi cercare gli attori, ma cominciava ad esaminare gli attori, per poscia immaginare i caratteri degl’Interlocutori. Questo è uno de’ miei secreti. A poco a poco svelerò a’ miei leggitori tutti i misterj dell’arte. Contento della sincerità del Casali, andava sovente a passar la sera nel suo camerino, dove i suoi compagni e le sue compagne si ragunavano qualche volta, e divenni in poco tempo sì familiar sulla Scena, ch’io ne faceva le mie delizie. Ah, non sapeva allora, quanta fatica e quanti dispiaceri mi doveva costar la Scena! Informati i Comici, e le donne principalmente, ch’io avea desiderio di far qualche cosa per il Teatro, mi caricarono di commissioni per impinguare il loro generico, ed empiei in pochissimo tempo una quantità di fogli di soliloquj, di rimproveri, di disperazioni, di dialoghi, di dichiarazioni e di concetti amorosi, cose che furono estremamente aggradite, e che facevano augurare ai Comici ch’io sarei divenuto un bravo Poeta alla loro foggia, e che avrei composto un giorno i più bei Soggetti del mondo.

Eranvi nella Compagnia dell’Anonimo due o tre persone, che cantuzzavano passabilmente, ed eravi un Suonator di violino Veneziano, che montava in banco cogli altri e sapeva compor di musica. Mi pregarono di comporre un Intermezzo a due voci. Lo feci; il Suonator di violino vi fece la musica. Lo cantarono nel Teatro, e fu applaudito. Il Barcarolo Veneziano era il titolo dell’Intermezzo. Lo troverete stampato nel quarto Tomo delle operette mie Musicali, e questo è il primo componimento ch’io ho lavorato pe’ Comici, ed il primo che ho esposto al pubblico, pria sulle Scene e poi colle stampe. Picciola cosa, è vero, ma come da un picciolo ruscelletto scaturisce talvolta.... scusatemi. Leggitori [p. 81 modifica] carissimi, ho la testa calda, mi pareva di essere ancora a Milano, mi pareva di scriver concetti.

Rimettiamoci in carreggiata. Intesi una sera invitare, cioè annunziare dai Comici il Bellisario, e l’annunziarono sei giorni prima, come cosa eccellente, che meritava il concorso e l’attenzione del più fiorito uditorio. Attesi anch’io con impazienza la prima recita; v’andiedi pieno di curiosità e di prevenzione; ma fui sì annoiato e sì stomacato, che non potei restarvi sino alla fine. Cosa più scellerata non avea mai veduta; e non fui solo a crederla tale, ma tutti gli spettatori invitati sprezzavano l’opera e si lamentavano degli attori. Il giorno dopo mi portai dal Casali. Appena mi vide, si mise a ridere, e dissemi con un’aria scherzevole: che cosa dice del bellissimo Bellisario? M’accorsi allora ch’egli pure lo condannava, e dissi con tuono patetico: Perchè annunziarlo con tanta pompa, se sapevate ch’egli è cattivo? Voi non sapete le regole, ei mi rispose; questa chiamasi un’arrostita. — Che vuol dire arrostita? Vuol dire, che quando si vuol far una piena, si invita il popolo sei giorni prima; noi facciamo il possibile, perchè piaccia, e se non piace, non è colpa nostra. Ma il danaro (risposi) non torna indietro. — Non Signore. — Ora capisco, che cos’è l’arrostita. Mi dispiace, soggiunsi, che avete arrostito anche me, e che avete abbrustolato e ridotto in cenere il povero Bellisario. È vero, disse il Casali, è verissimo, io amo moltissimo le Tragedie, ho la mia passione per le parti eroiche, sostenute, imperiose, mi piace il carattere di Bellisario, e mi duole il cuore di vederlo sì maltrattato. Voi, soggiunse, Signore, voi dovreste render l'onore a questo gran Capitano e cominciar da quest’opera la carriera, che desiderate intraprendere. Ma questa, dissi, non è Commedia. Non importa, rispose, vi sarà più facile cominciare da una Tragedia... Credete voi, ripresi, la Tragedia più facile della Commedia? Non lo so, dic’egli, ma vorrei vedere rifatto il mio Bellisario. Fino, soggiunsi, fino una Tragicommedia.... vorrei provarmi. Animo, esclamò il bravo comico, fate una bella Tragicommedia, e accomodatemi il mio Bellisario. Presi l’impegno di farlo; mi si posi dietro con estremo piacere. Il mio Signor Residente era [p. 82 modifica] passato a Venezia con permissione del pubblico per suoi affari particolari; aveva tutto il tempo di scrivere, l’opera era bene avanzata, ma non ebbi tempo di terminarla in Milano per due accidenti, coi quali finirò il mio presente ragionamento.

Andando un giorno al passeggio fuor delle porte della Città in compagnia di un amico, giugnemmo ad un’osteria, detta della Cazzola, mezzo miglio in circa distante. In Milano non dassi divertimento alcuno senza mangiare. Feste, Teatro, conversazioni, passeggj, si mangia per tutto, e non è senza ragione, che i Fiorentini, economi, chiamano i Milanesi lupi Lombardi; lupi però generosi ed umani, che non mangiano quello d’altrui, ma danno volentieri a mangiar del proprio, e non vi è Paese, dove il forestiere sia meglio accolto e meglio trattato. Arrivati dunque a quell’osteria, l’amico propose subito la merenda, e fu bentosto ordinata. Intanto che ci preparavan la tavola in un giardinetto, passeggiando per il cortile, vidi alla finestra dell’osteria una giovane, che mi parve bella. M’informai chi era, mi dissero, che non la conoscevano, ch’eran tre giorni, ch’era stata colà condotta da un forestiere, che poi non avean più veduto; che al discorso la credevano Veneziana, e che la povera giovane pareva afflitta. Giovane, Veneziana, ed afflitta? Andiamo, dissi all’amico, andiamola a consolare. Montiamo le scale, picchiamo all’uscio, non vuole aprire, ma annunziandomi per Veneziano, spalanca le porte e piangendo si raccomanda. Che bello spettacolo è una bella donna piangente! Mi offersi a servirla, e le domandai per quale avventura colà si trovava. La sua narrativa fu un po’ lunghetta; l’amico mio, più interessato per la merenda che per l’incognita, fece portar nella stessa camera le polpettine, i miulfini, ì gamberi ed il vino bianco, e a tavola ci terminò la giovane il suo racconto. In ristretto: ella era, a quel che diceva, una Cittadina, fanciulla, e chiamavasi Margherita Biondi (seppi poi, ch’ella non era nè Cittadina, nè fanciulla, nè Margherita, nè Biondi), che un suo Zio, che si chiamava Leopoldo N.... l'avea condotta a Crema per una lite; che questi per una rissa era stato posto colà in prigione, e che un suo parente l’aveva condotta a Milano per presentarla al Conte [p. 83 modifica] Tadini di Crema per implorare la protezione di quest’autorevole ed illustre Cavaliere in favore dello zio carcerato. Finì dicendo che il suo parente l’avea colà abbandonata, che non l'avea più veduto e che era disperatissima. Io l’ascoltava con attenzione; l'amico mio mangiava e rideva. Compresi anch’io ch’ella non diceva la verità; ma una compatriotta, bella, giovane ed afflitta meritava di essere assistita, e non di essere mortificata. Mi esibii di servirla, le offersi di parlar per lei al Conte Tadini: mi ringraziò colla maggior tenerezza, ma mi fece comprendere che una giovane, com'ella era, non poteva restar lungo tempo in un’osteria di campagna. Trovai ch’ella avea gran ragione; dissi che le avrei procurato un alloggio in Milano, s’ella si degnava riceverlo; lo accettò gentilmente; ci congedammo da lei e ce ne ritornammo in Città. L’amico ebbe buon dirmi ch’io badassi bene pria di impegnarmi; mi premeva troppo l’onor della patria per abbandonare una bella compatriotta. La mattina dopo cercai un alloggio, e lo trovai sulla Piazza del Castello in casa di una Vedova onesta, che non ebbe difficoltà di ricevere una forestiera per la buona opinione, ch’ella aveva di me. Andai subito con una carrozza a prendere la Veneziana, pagai l’oste per lei, la condussi al suo nuovo albergo, e andando sera e mattina a vederla per il corso di quindici giorni incirca, la trovai sì saggia ed onesta, che a poco a poco cominciava ad accendermi. Cercai in questo tempo di vedere il Conte Tadini, ma egli era alla Campagna, ed io aspettava il di lui ritorno. Feci scrivere intanto con altro mezzo per la liberazione dello Zio carcerato, e feci cercar per tutto Milano il parente che l’avea abbandonata, e che mi pareva le stesse a cuore più dello Zio medesimo, ma non fu possibile di rinvenirlo. Dormiva in questo mentre il mio Bellisario, e i Comici, che più non mi vedevano comparire al teatro, erano inquieti. Venne il Casali a vedermi; gli dissi qualche cosa della mia avventura; voleva anch’egli cercare d’aprirmi gli occhi, ma io non ascoltava ragioni.

Una mattina entra prima del solito il Servitore nella mia camera, e narrami una novità strepitosa: ecco il secondo accidente, che ho accennato qui sopra. Quindici mila Savojardi, parte a piedi, [p. 84 modifica] parte a cavallo, erano entrati in Milano, ed erano squadronati sulla Piazza del Duomo. Una tale sorpresa, inaspettata, non penetrata da chi che sia, fece stordir tutto il mondo, e fu quello il cominciamento della guerra de’ Gallo-Sardi contro degli Alemanni nell’anno 1732. Scrissi immediatamente, e spedii una staffetta al mio Residente in Venezia, che prese le poste ed arrivò due giorni dopo a Milano.

Cresciuto il numero de’ Gallo-Sardi in Milano, si disposero all’attacco di quel Castello. Fecero sloggiare immediatamente tutti quei che abitavano il luogo di quella Piazza, e la mia Compatriotta fu obbligata sortire. Accorsi alla notizia ch’ella mi fece avere di ciò, ed obbligato a ripiegar nel momento, la collocai con estrema fatica in casa di un Genovese venditor di limoni, dove non mi era permesso vederla che in mezzo ad una numerosa e fastidiosa famiglia.

Tre giorni dopo arrivò un Corriero estraordinario della Repubblica Serenissima con un dispaccio al Veneto Residente, in cui gli ordinava di partir subito di Milano, e di condursi e di stabilirsi a Crema, città del Dominio Veneto, quaranta miglia di là distante. Si dispose il Signor Residente a partir bentosto. Io era in dubbio di seguitarlo, ma essendosi egli disfatto con tal occasione del suo Segretario, offrì a me un tal posto, e in una tal congiuntura, in cui mi poteva far dell’onore, non ebbi cuore di ricusarlo.

Raccomandai la giovane al Genovese, dissi addio ai Comici, impacchettai il mio Bellisario e lo portai meco a Crema. Appena colà arrivato, cercai del Zio della Veneziana, ma in virtù delle mie raccomandazioni era sortito di carcere, ed era andato a Milano ad unirsi con sua Nipote. Sentirete nel Tomo seguente chi era questo Zio, chi era questa Nipote. Vedrete il mio Bellisario finito, e mi vedrete, fra le armi e fra le disgrazie, giungere al desiderato impiego di Compositor di Commedie. [p. - modifica]