Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/XX

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XX

STATO SOCIALE

osservazioni filologiche



GG
li Indiani del Gran Ciacco Argentino bisogna rilegarli addirittura tra i popoli i più barbari della terra.

Badiamo, dicendo barbari non intendo dire crudeli, poichè in quanto a crudeltà e ferocia credo che nelle pagine precedenti sia stato indicato sufficientemente, che popoli assai inciviliti danno dei punti, e di molti, a questi figli delle selve. S’intenda invece per barbari, selvaggi, cioè: gente con poche, o punte leggi, con poco, o punto ordinamento, con poche, o punte industrie, gente infine la più inferiore rispetto a noi negli elementi per la lotta della vita.

Già quei cenni, che abbiamo dato precedentemente, ci avranno fatto persuasi di ciò; e alcune altre indicazioni, che saremo per dare, ci confermeranno in questa opinione.

Tutti i filosofi sono d’accordo nell’assegnare essere un carattere distintivo e progressivo d’inferiorità d’un popolo, lo stato della numerazione presso di lui: non dico la numerazione scritta, ma quella parlata.

Darwin nella sua «Origine dell’Uomo» cita come carattere d’estrema umiltà nello stato civile degli abitanti della [p. 150 modifica]Terra del Fuoco, al Sud dello stretto di Magellano, il non sapere essi contare che fino a quattro. E si comprende: perchè, se la parola risponde alle idee e ai bisogni, qual patrimonio può averne chi non arriva più in là di un tal numero?

Or bene, tutti gli Indiani del Ciacco Argentino non contano più di quattro: sieno Toba, o Mattacchi, o Villela, o Mocoviti sieno vincitori o vinti tra loro.

Anche i Guarany che vissero e vivono, non so se molto mutati, da i tempi lontani, nel Paraguay, in parte del Brasile, in Corrientes e Misiones, e probabilmente anche più in giù in parte delle isole della cosidetta Mesopotamia Argentina, non contano che fino a quattro nella loro lingua. E un egual fatto fu riscontrato in altre parti del Continente Americano.

Nondimeno i Patagoni, secondo il signor Lista, viaggiatore Argentino, contano fino a dieci progressivamente. I Guarany pure hanno la espressione per dieci e per venti, ma la pigliano in prestito dalle mani e dai piedi, e dicono due mani per dire dieci, e due mani e due piedi per dire venti.

I Pampa, non meno selvaggi dei Patagoni e alla bassezza, non posso dire all’altezza quasi degli abitanti del Ciacco, contano però indefinitamente, come i loro fratelli Araucani o Cileni, già organizzati quest’ultimi quando piombò qua la conquista Spagnuola.

I Peruani, confinanti dei Cileni, e di cui ho detto più volte che formavano il grande impero degli Inca, detto da loro in Chicciua Tavantin-suju o le quattro parti del mondo! contavano pure indefinitamente; e lo stesso gli Aimarà, che abitavano e abitano nella città e nei pressi della Paz in Bolivia, e che probabilmente, prima di essere conquistati dai Chicciua o Peruani, si estendevano anche in Catamarca e forse in Jujui, come dinoterebbero alcune parole di località, per esempio, marca, pucará, huma-huaca che sarebbero in lingua aimarà popolo, fortezza, polla d’acqua. [p. 151 modifica]

Tutti questi popoli, che occupano o occupavano la Pampa e i due declivi, Atlantico e Pacifico della Cordigliera, e l’altipiano di Bolivia, devono tale attitudine, o allo stato di civiltà in cui già erano avanzati, come i Peruani e i Cileni, o alla prossima parentela e al contatto frequente tra loro, come i Pampa. Ed è perciò che mentre i numeri inferiori differiscono notabilmente nelle diverse lingue, alcuni di quelli superiori al quattro o al dieci si somigliano, e la costruzione per la quale sono formati obbedisce a una medesima regola.

Ciocchè rivelerebbe la unicità del centro da cui sarebbe emanato l’insegnamento.

Io non trovo qui opportuno di dilungarmi su questo soggetto: lo farò, spero, un’altra volta, e allora credo che potrò dimostrare la parentela dei linguaggi di diverse nazioni di questa parte del continente situate in condizioni di luoghi e di civiltà distantissime tra loro; ma a dimostrare l’influenza del contatto tra questi popoli vo’ citare una prova, che credo non abbia prodotto altri finora.

I Guarany contano, come abbiamo detto, fino a quattro, cioè quelli che abitano nella sinistra del Paraguay e del Paranà, che erano contornati o frontisti di popoli, che egualmente contavano fino a quattro. Invece, i Ciriguani, che non sono altro che Guarany i quali, o fossero stati tagliati fuori da altri selvaggi prima degli Spagnuoli, o lo fossero dopo l’arrivo di questi, in ogni modo abitano al confine che fu dell’Impero Peruano, come ce ne fanno fede gli storici della Conquista; questi Indiani a contatto con popoli che contavano indefinitamente e che oltre a ciò si trovavano in uno stato notevole di civiltà contano pure indefinitamente, benchè si trovassero in uno stato di civiltà moltissimo inferiore ai Peruani, come già lo abbiamo indicato.

Questo fatto, unito all’altro di alcune parole di numeri superiori, quali cento o mille, uguali in diversi di questi idiomi; [p. 152 modifica]e unito all’altro ancora della notoria superiorità in cui, almeno da quattro secoli prima degli Spagnuoli, si trovavano i Peruani per civiltà e per armi, che avevano lor fatto conquistare un immenso territorio maggiore di quello indicato dagli storici, come credo potere a suo tempo dimostrare. Tutto ciò dico mi fa pensare che l’artifizio della numerazione sia stato insegnato ai popoli di questa parte del continente che lo conoscevano, dai Peruani, che inoltre avevano anche il modo di fissar la numerazione col sistema dei nodi, che essi chiamavano chipu. Tal sistema, che alcuni storici affermano aver posseduto anche i Messicani, noi lo dobbiamo riguardare come il primo passo verso la scrittura, perchè già assuefaceva a fissare le idee con segni.

Un sistema analogo, permettetemi la digressione, l’ebbero anche i Chinesi, per mano del secondo imperatore semimitologico della China chiamato Soui-gin-chi, lo stesso che inventò il fuoco, che insegnò il commercio e che stabili il governo tra i suoi popoli. Secondo gli Annali del Tribunale della Storia questa mirabile istituzione, è tutta chinese, e data da molte migliaia di anni.

Non si creda però che a questa solenne inferiorità nella espressione dei numeri corrisponda negli abitanti del Ciacco un’uguale inferiorità nel rimanente del linguaggio. No; il linguaggio dei Ciacchegni, permettetemi la parola, è tanto ricco quanto qualsiasi quello di altri popoli. Se gli manca qualche parola relativa a idee astratte è perchè lor manca l’idea, ma del resto il loro linguaggio si presta ad esprimere idee e cose nuove fin d’ora: ed hanno tempi, modi, persone, numeri, perfino casi, pei verbi e pei nomi, che lo fanno anche troppo complicato.

Nè mancano loro nomi generali, come pesce, albero, uccello; ed hanno aumentativi, diminutivi, che si prestano benissimo ad accogliere cose nuove con nomi loro proprii, della conservazione dei quali curano il più che possono. [p. 153 modifica]

Già scrissi altra volta, che certi animali introdotti dagli Spagnuoli sono stati chiamati col nome indigeno di qualche animale affine, affettandolo di una particella distintiva: così, i Mattacchi chiamano il cavallo jelatách che vuol dire tapiro-grande, da jélach tapiro e túch particella aumentativa; pecora chiónatách da chiona gamma, e così via discorrendo. Non trovando nel loro repertorio il nome d’un animale affine, o avendolo esaurito per averlo già applicato, allora al nuovo oggetto danno il nome straniero pronunziato secondo la possibilità fisica della loro gola e l’indole della loro lingua. Così, capra la chiamano cailá, e Pedro Peiló: perchè non potendo pronunziare la r a cui sostituiscono la l, nè potendo pronunziare la bl e la dl a cui sostituiscono la i alla d, fanno di Pedro, Pedlo, Peilo, e Peiló accentuando la ultima sillaba secondo la indole della loro lingua. Trovata questa legge, alcune parole guarany si fanno simili ed uguali ad alcune mattacche cambiando la r in l, e così di alcune castigliane. Ma confesso che sul principio non ci raccapezzavo un ette, benchè ora spiattellata così, mi sembri una cosa molto facile.

E giacchè siamo in parlare di linguaggio, mi cade in acconcio, o parmi, muovere eccezione sopra una opinione che mi è parsa espressa da filologi sommi. Essi dicono che nel linguaggio si devono distinguere tre stadii per la sua formazione se mal non ricordo; il monosillabico, lo agglutinativo e quello a flessione. Si chiama agglutinativo il processo, quando, per esprimere una modificazione di una cosa, si usa la parola esprimente la cosa e un’altra esprimente l’idea della modificazione; invece si chiama per flessione se, la modificazione è espressa con una variazione nella forma della parola esprimente la cosa. Per esempio: se per dire uomo grande io dico uomo grande, unisco o agglutino due parole; se invece dico omone, esprimo la stessa idea con una flessione; se per dire nonna, dico mamma grande, procedo per agglutinazione, se dicessi mammona, per flessione; se per dire uomini dico [p. 154 modifica]uomo-molti, come si usa in molte lingue, formerei il plurale per agglutinazione, e se dico uomini, lo avrei formato per flessione.

Non sto a entrare ora a discutere se queste flessioni non sieno state parole a parte che abbiano perduto a poco per volta la loro parvenza per successive alterazioni, come potrebbe essere dei casi nella lingua latina e greca, e delle terminazioni nei tempi dei verbi. Per esempio, amerò, amerai, ccc. si può, e si deve, considerare per amare ho, amare hai, che significano ho da amare, hai da amare forma che indica una trasformazione nella costruzione dei tempi e dei casi. Non voglio discutere ciò, ma fo notare che alcuni filologi, affermano il processo agglutinativo precedere quello a flessione e che questo deve riguardarsi come proprio di uno stadio più avanzato nella civiltà.

Vedendo come gli studiosi di filologia e i grecisti mi perdoneranno, il quasi pleonasmo; vedendo come gli studiosi si attaccherebbero, come i naufraghi, perfino ai rasoi pur di assicurare un materiale a favore di una propria teoria e contro di quelle degli avversarii, io, benchè non filologo, mi trovo tentato a slanciarmi nell’agone, e dico:

Sta bene potersi affermare che il periodo, o la epoca, per dirlo come uno storico o come un geologo, che la epoca della flessione succeda a quella della agglutinazione, perchè pare veramente che a questo porti il processo logico naturale; ma deve anche potersi ritenere che all’epoca della flessione torni a succedere a sua volta altra di agglutinazione. In fatto con le successive alterazioni potrà dar luogo a una seconda, o ad una terza epoca di flessione, ogni qual volta si sia perduta di vista la genesi di una certa forma. Ammessa poi questa alterna vece, un linguaggio può essere in un periodo di agglutinazione e insieme di progresso sopra un attuale di flessione.

Lasciata da banda questa possibilità, è d’uopo dire che il periodo di flessione d’un linguaggio non risponde sempre a un maggior progresso nella intelligenza di chi lo impiega. Se questo si verifica tra i popoli asiatici, qua tra gli Americani non [p. 155 modifica]si conferma, e dimostrerò che è contradetto. In fatti, se tra popoli bruti vi è un popolo bruto, questo è il Mattacco: or bene i Mattacchi a esuberanza sono nel periodo di flessione, mentre molti popoli che li avvicinano ed altri molto più civili di loro sono in parte nel periodo di agglutinazione. Per esempio per esprimere il plurale i Chicciua usano la parola cuna, che non vuol dir molto, ma che però contiene il concetto di dignità, di superiorità; i Guarany usano hetá che vuol dire molti; i Ciulupi hu-ué che vuol dire molto; i Cileni, che hanno anche il duale, usano diverse particelle costanti; i Lules usano una parola che vuol dire parimenti molto: e queste parole le aggiungono al singolare.

I Mattacchi invece hanno nientemeno che quattro declinazioni almeno, tutte a flessione, e una per agglutinazione impiegando ntók, che vuol dir molto. Quelle flessioni sono ss, ess, i, l (l eguale quasi a ll spagnuola). Esempi: cavallo jélatách, cavalli jélatáss; questo tóch, questi tochéss; palo ac-ló, pali ac-lo-i; uomo icnú, uomini icnúl, quasi icnúil.

E nei verbi, oltre un ausiliare che impiegano spesso in alcuni tempi, e che è oit-tác, che vuol dire voglio usato solo, hanno le seguenti inflessioni: viene nóm, venne nommé, verrà nom-lá'; poi ne hanno tante, che non le ho ancora scoperte.

Intanto deve affermarsi che le lingue indigene americane non sono precisamente in nessuno dei tre stadii attribuiti alla formazione del linguaggio, e che invece li abbracciano, può dirsi, tutti e tre.

Questa così detta ricchezza del linguaggio dei selvaggi ha dato un’arma poderosa, o creduta tale, ai filosofi della Rivelazione, per dimostrare come tal lusso di forme grammaticali e di vocaboli fosse una conferma della provenienza tutta divina del linguaggio umano. Ma, indipendentemente da queste considerazioni io domando, procedendo logicamente, perchè questi signori selvaggi non sanno contare? E perchè lo apprendono colla civiltà? Se è un prodotto della loro maggiore in[p. 156 modifica]telligenza, progredita, l’artificio della numerazione, e non potrà esserlo anche quello di una forma grammaticale? e davvero che la numerazione è cosa tanto difficile quanto stabilire una forma grammaticale: e lo vediamo col fatto. E tal difficoltà ha continuato perfino nella numerazione scritta, in cui dalle cordicelle peruviane e dalle tavolette chinesi fino ai numeri romani e arabici, siamo giunti alla meravigliosa semplicità di questi ultimi, percorrendo più di tre stadii attribuiti al linguaggio, nel corso di migliaia di anni.

E poi su questa vantata ricchezza dei linguaggi antichi e primitivi, come per esempio il vasco e gli americani, che hanno nua farragine di forme a parte rispondenti a ogni relazione di tempo, di luogo, di persone, perfino di sesso, io ho una opinione. Credo che cotesti linguaggi stieno ai nostri, per esempio all’inglese così semplice eppur così chiaro, come un alfabeto di 40 000 caratteri a un alfabeto di 20 a 30 lettere; o come nei numeri il sistema di justaposizione e delle cifre romane, a quello delle cifre arabiche. Dico poi di quelle innumerevoli forme, che come simboli o figure particolarizzate, sono una conseguenza della inferiorità della intelligenza non ancora sviluppata da abbracciare le relazioni espresse dalla posizione relativa delle parole nel periodo. Come sarebbe di una mente capace di afferrare ciò che significa 1, 0.... e un segno che voglia dir cento, duecento.... ecc., isolati, ma che non arriva a ragionare, che 1 con due zeri può esprimere egualmente cento senza bisogno o di scrivere la parola o di marcare un geroglifico apposta. Sono intelligenze, poderose di memoria, ma tarde nel raziocinio. Di una lingua deve dirsi ciò che di una macchina: «È la migliore quella che dà lo stesso effetto utile con il minore sforzo.» Gl’Inglesi bravi meccanici hanno anche la lingua più semplice. Ho detto.