Ricordi di viaggio in Italia nel 1786-87/Parte II/Napoli

Da Wikisource.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Napoli

../../Parte II ../Sicilia IncludiIntestazione 22 gennaio 2020 100% Da definire

Parte II Parte II - Sicilia
[p. 195 modifica]

NAPOLI




Velletri il 22 febbraio 1787.

Siamo arrivati qui con tempo buono. Fin d’avantieri questo si era guastato; il sole era scomparso; dall’aria però si poteva pronosticare che il tempo si sarebbe aggiustato di bel nuovo, e così avvenne difatti. Cominciarono a squarciarsi le nubi, ad apparire quà e là l’azzurro del cielo, e per ultimo uscì fuori il sole, ad illuminare la nostra strada. Passammo per Albano, dopo esserci fermato alquanto, presso Genzano, all’ingresso di un parco tenuto, e non già mantenuto, dal principe Chigi proprietario di quello, in un modo strano, ed appunto per questo motivo, non ne consente a veruno l’ingresso. Si direbbe quella una foresta. Alberi, piante, arbusti, cespugli, erbe, tutto vi cresce in piena vita, vi secca, vi cade, vi si corrompe. Ogni cosa cresce nella località che più le torna adatta, e quindi tanto più rigogliosa. Il punto dove stà l’ingresso è di una bellezza indicibile. La valle è chiusa da un alto muro, e da una cancellata in ferro si può vedere all’interno la strada, la quale, salendo, porta sulla collina dove sorge il castello. Un abile pittore potrebbe trovare colà il soggetto di un bel paesaggio.

Non oserei proseguire la descrizione. Dirò soltanto, che pervenuti in cima al monte di Sezza, lo sguardo si [p. 196 modifica]stendeva sulle paludi pontine, sul mare, sulle isole, nel momento in cui un forte acquazzone venuto dal mare, si scaricava sulle paludi, mentre le luci e le ombre si cangiavano, si alternavano, su quella deserta pianura. Facevano bellissima vista poi, illuminate dal sole, parecchie colonne di fumo, le quali sorgevano dalle meschinissime capanne, che sparse quà e là, a mala pena si vedevano.

Velletri sorge piacevolmente sopra una collina volcanica, la quale verso tramontana soltanto trovasi unita alla catena di cui fa parte; dagli altri tre lati, ha libera la vista sulla pianura.

Visitammo colà il gabinetto del cavaliere Borgia, il quale, per la sua parentela con il cardinale, per le sue relazioni colla propaganda, ha avuto mezzo, di radunare antichità stupende, ed altre cose rare: idoli egiziani, formati di pietra di straordinaria durezza; piccole figure in metallo di tempi anteriori, e posteriori; ed inoltri oggetti lavorati in terra cotta, scoperti nelle vicinanze della città, i quali darebbero argomento di ascrivere ai Volsci, uno stile loro proprio e speciale.

Trovansi inoltre in quel museo rarità di varie altre specie. Osservai due cassettine chinesi, sull’una delle quali trovasi rappresentata tutta la vita del baco da seta, e sull’altra tutte le fasi della coltivazione del riso, il tutto per ver dire con una rara ingenuità, ma con una squisita finitezza di esecuzione. Sia quelle cassettine, siano le loro custodie, ovvero coperture, sono di tutta bellezza, e possono stare a fianco dei libri della biblioteca della Propaganda, dei quali ho fatta parola di già con encomio.

Non si sa spiegare per dir vero come non siano più conosciuti, e maggiormente visitati oggetti cotanto preziosi, i quali si trovano in tanta vicinanza di Roma. Forse ne sono cause il disagio della gita, ed il fascino che trattiene a Roma, chi vi ha posto una volta il piede. Mentre ce ne tornavamo alla locanda, talune donne, le quali stavano sedute sulla porta delle loro case, ci domandarono se non avessimo per caso desiderio di fare acquisto di oggetti [p. 197 modifica]antichi, ed avendo noi risposto loro che volontieri ce li saressimo procacciati, trassero fuori pentole vecchie, mollette da fuoco, ed altre masserizie di casa di nessun valore, ridendo sgangheratamente alle nostre spalle, per averci burlati. Per dir vero, stavamo sul punto di dimostrarci offesi, quando la nostra guida ci tranquillò, assicurandoci essere quello, scherzo il quale si praticava con tutti i forastieri, nessuno dei quali si poteva sottrarre a quel tributo.

Scrivo queste cose in una pessima locanda, dove mi difettano la forza, ed il comodo di proseguire. Pertanto e senza più, felicissima notte!


Fondi, il 25 Febbrajo 1787.

Stamane di buonissima ora, fin dalle tre, eravamo in carrozza. Allorquando spuntò il giorno, ci trovammo nelle paludi pontine, le quali non hanno poi quell’aspetto così triste, che in generale loro si attribuisce a Roma. È vero però, che nell’attraversarle soltanto, non si può portare giudizio intorno ad un opera cotanto colossale, quale il loro prosciugamento, a cui si è posto mano; però mi sembra che i lavori ordinati dal Papa, non potranno a meno di ottenere, in parte almeno, lo scopo ch’egli si è prefisso. Imaginatevi un ampia valle, la quale corre con poca pendenza da mezzodì a tramontana, alquanto più bassa a levante, verso i monti, che non a ponente, verso il mare.

Trovasi percorsa nel senso della sua lunghezza totale dall’antica via Appia, ristabilita di recente; ed alla diritta di questa fu scavato il canale maestro dove l’acqua corre lentamente, prosciugando i terreni alla diritta verso il mare, i quali furono resi adatti alla coltivazione; trovansi difatti coltivati in buona parte, e lo potrebbero essere tutti, ad eccezione di alcuni tratti troppo depressi, quando si trovassero mezzadri.

La parte a sinistra della strada, verso i monti, presenta [p. 198 modifica]maggiori difficoltà. Per dir vero furono scavati canali trasversali, i quali passando sotto alla strada, portano le acque nel canale maestro, ma i terreni in maggiore vicinanza dei monti, essendo troppo bassi, ignoro come potranno essere prosciugati. Mi si disse, che si abbia intenzione di scavare un altro canale maestro, ai piedi dei monti. Ampi tratti di terreno, specialmente in vicinanza di Terracina, sono ridotti già a pascoli, ovvero piantati di pioppi.

Trovammo una stazione postale, la quale consisteva in una semplice capanna, ricoperta di paglia. Tischbein la volle disegnare, e ne ottenne in ricompensa una soddisfazione, ch’egli solo è in grado di apprezzare. Un cavallo bianco si era staccato, in un tratto di terreno prosciugato, e si godeva la sua libertà, correndo rapido quale il lampo, su quella terra nera, e producendo per dir vero un effetto che giustificava il piacere provato da Tischbein, nell’ammirare quella vista.

Colà dove sorgeva una volta il villaggio di Meza, il Papa ha fatto costrurre un edificio bello e grandioso, il quale segna il centro della pianura; e la vista di quello ispira speranza e fiducia, per la buona riuscita dell’intrapresa. Proseguimmo per tal guisa il nostro viaggio, trattenendoci piacevolmente, senza darci pensiero dell’avvertenza dataci, non essere cioè prudente il lasciarsi cogliere dal sonno in questa strada, tuttochè un certo vapore, il quale fin di questa stagione sorge dal suolo ad una certa altezza, ci fosse indizio di aria malsana. Ci riuscì quindi tanto più grata, e tanto più accetta la vista della rupe di Terracina; ed appena avevamo cominciato a goderci questa, ci apparve il mare; e poco dopo, l’altro versante del monte, a cui si appoggia la città, ci offrì lo spettacolo di una vegetazione nuova. I fichi d’India sviluppavano le loro foglie ampie, grasse, fra i mirti bassi, e di un verde grigio; i melagrani, di un verde giallicio e gli olivi di verde cupo. Nei prati erano in fiore i narcisi e gli adoni.

La strada corre per un tratto fra il mare a destra, e [p. 199 modifica]monti calcari a sinistra. Sono questi la continuazione de gli Apennini, i quali da Tivoli, scendono al mare, da cui sono separati, prima dalla Campagna di Roma, quindi dai monti volcanici di Frascati, di Albano, di Velletri, finalmente dalle paludi pontine; ed è probabile che il monte Circello, il quale sorge di fronte al promontorio di Terracina, colà dove finiscono le paludi pontine, sia quello pure, di formazione calcare.

Allontanatici dal mare, entrammo nell’amena pianura di Fondi. Questo piccolo tratto di terreno, fertilissimo, ben coltivato, attorniato da monti non troppo selvatici, non può a meno di apparire ridente a chicchessia. Gli aranci pendono tuttora in buon numero dagli alberi, i seminati, i prati, sono del più bel verde; nei campi si scorgono gli olivi, ed in fondo sorgono villaggi. Vedemmo pure una palma, e la onorammo di nostro saluto. E basti per questa sera. Siate indulgenti verso la penna la quale corre rapida, imperocchè io devo scrivere senz’avere agio neanco, a riflettere a quanto io scriva.

Le cose che vorrei dire sono mai tante; mi trovo cotanto a disagio, eppure è vivissima la mia brama di affidare qualcosa alla carta. Siamo giunti qui che scendeva la notte, ed è tempo oramai di andare cercare riposo.


S. Agata, il 24 Febbrajo 1787.

Mi è forza darvi notizia di una bella giornata, in una stanza fredda. Faceva giorno quasi, allorquando partimmo da Fondi, salutati bentosto dagli aranci, i quali crescevano lungo i muri che fiancheggiano la strada. Quelle piante n’erano cariche per modo, che non si sarebbe potuto desiderare di più. Le foglie recenti in alto, hanno una tinta gialliccia; ma quelle al basso della pianta, e nelle parti inferiori di questa, sono del più bel verde. Mignon aveva pure ragione, nel ricordare con desiderio queste contrade!

Traversammo quindi campi ben coltivati, seminati a [p. 200 modifica]grano, e piantati pure, quà e là, di olivi. Il vento agitava questi ultimi, mettendo in evidenza la parte inferiore delle loro foglie di tinta argentea, ed i rami si muovevano, e si piegavano con tutta facilità. Il cielo era coperto; ma un forte vento di tramontana prometteva sgombrarlo presto dalle nuvole.

La strada non tardò ad entrare in una valle, fra campi sassosi, però ben coltivati, dove i seminati si porgevano verdissimi, e rigogliosi. Di quando in quando si scorgono spazi di forma circolare, selciati, circondati da un muricciuolo; ed ivi si battono i grani, senza che sia d’uopo portarli, in manipoli, a casa. La valle era angusta, la strada correva in fondo a quella, fiancheggiata da ambi i lati da colline di natura calcare. Il tempo era freddo; tirava vento, e cadeva una specie di neve gelata, la quale si scioglieva con difficoltà.

Ci recarono stupore alcuni muri antichissimi, costrutti in quella foggia a cui i Romani davano nome di opus reticulatum. Le alture sono sassose, però coltivate ad olivi, dovunque si è potuto radunare terra vegetale a profondità bastante. Giungemmo in una pianura coltivata questa pure ad olivi, quindi incontrammo una piccola città. Notammo nelle mura di quella altari, antiche lapidi sepolcrali, frammenti di ogni sorta, nelle mura di cinta dei giardini; come parimenti i piani sotterranei di antiche ville di ottima costruzione, ma attualmente ingombri di terra vegetale, dove rigogliosi crescono gli olivi. Finalmente scorgemmo il Vesuvio, dalla cui vetta sorgeva una colonna di fumo.

A Mola di Gaeta fummo allietati di bel nuovo dalla vista di stupende piante di agrumi. Ci fermammo colà alcune ore, ammirando la vista bellissima del piccolo golfo. Seguendo coll’occhio le sponde del mare a diritta, si scorge all’estremità del semicerchio ed a poca distanza la fortezza di Gaeta, la quale sorge sopra uno scoglio. A sinistra la vista si stende maggiormente; si scorgono dapprima una catena di monti, poscia il Vesuvio, per ultimo le isole, e di fronte, quasi nel mezzo, sorge Ischia. [p. 201 modifica]

Ivi trovai sulla spiaggia le prime stelle, ed i primi ricci di mare. Trovai del pari foglie di un verde bellissimo, liscie al pari di carta velina e pietre curiosissime. Vi abbondano, poi come d’ordinario quelle di natura calcare, ma vi si trovano pure serpentine, diaspri, quarzo graniti, breccie, porfido, marmi di varie specie, cristalli, di tinta verde ed azzurrina. È difficile che queste ultime qualità di pietre appartengano a queste contrade; provengono, secondo ogni probabilità, da rovine di edifici antichi, e scorgiamo pertanto sotto i nostri occhi le onde, le quali scherzano per così dire, colle reliquie dei tempi trascorsi. Ci trattenemmo volontieri alcun poco colà, prendendo pure piacere ad osservare i costumi degli abitanti i quali sono affatto primitivi. Partendo da Molo si hanno sempre punti di vista bellissimi, eziandio allorquando la strada si scosta dal mare. Abbiamo disegnato un piccolo seno di questo, graziosissimo. Trovammo un bellissimo verziere circondato e chiuso da piante di aloe, ed incontrammo le rovine pittoriche di un acquedotto, il quale scendeva dai monti.

Dopo varcato il Garigliano, si percorre, schivando un monte, una contrada abbastanza fertile, senza nulla incontrare di rimarchevole; finalmente si arriva alle prime colline di ceneri volcaniche. Ivi comincia una contrada stupenda, chiusa all’orizzonte da monti, le cui vette si scorgono ricoperte di neve; e sull’altura la più vicina si stende in lungo una città. In fondo alla valle giace S. Agata, dove trovammo una buona locanda, con un gabinetto, dove nel camino ardeva un bel fuoco; se non che la nostra stanza è fredda, non vi sono vetri alle finestre, ma unicamente imposte in legno, che io mi affrettai di chiudere.


Napoli, il 25 Febbrajo 1787.

Finalmente siamo arrivati qui felicemente, e con buoni pronostici. Vi ho tenuto discorso, anche oltre il dovere, [p. 202 modifica]del nostro viaggio. Partimmo all’alba da S. Agata; soffiava alle nostre spalle un vento freddo, fra tramontana e ponente, il quale durò tutta quanta la giornata, e prima di mezzodì aveva sgombrato il cielo dalle nubi; però soffrimmo il freddo.

La strada correva fra colline volcaniche, dove non mi parvero esistere, se non per eccezione, roccie calcari. Finalmente entrammo nella pianura di Capua, e più tardi in Capua stessa, dove sostammo verso il mezzodì. Nel pomeriggio attraversammo una bella pianura. La strada correva fra campi di grani di un verde stupendo, e le piante di quello raggiugevano l’altezza di un palmo. I campi erano circondati da piante di pioppi, e da queste pendevano ad una certa altezza i tralci della vite. Si arriva per tal guisa a Napoli, traversando una contrada di terreno fertile, leggiero, diligentemente coltivato, dove i tralci delle viti, rigogliosi quanto mai si possa dire, si stendono da una pianta di pioppo all’altra, formando quasi una specie di rete.

Il Vesuvio sorgeva di continuo alla nostra sinistra, sprigionando vortici di fumo, ed io me ne stava silenzioso, assaporando la soddisfazione di potere contemplare pure questo fenomeno meraviglioso. Il cielo era sempre limpido; finalmente il sole spuntò alla nostra dritta, e venne inondare di luce la nostra ristretta abitazione temporaria, e mobile. L’atmosfera diventava più pura, a misura ci venivamo avvicinando a Napoli, e finalmente ci trovammo in una contrada propriamente nuova. Le case, con i tetti piani a foggia di terrazzo, accennavano a diverso cielo, tuttochè poi io non li trovi di aspetto molto piacevole. Tutti stanno sulla strada a godere il sole finchè questo splende. I Napoletani ritengono possedere il paradiso, ed hanno una tristissima idea delle contrade settentrionali. «Sempre neve, dicono, case di legno; grande ignoranza, ma danari assai.» Tale si è l’idea poco lusinghiera, che si formano dei nostri paesi.

Il primo aspetto di Napoli è lieto, animato, vivace; la [p. 203 modifica]folla inonda le strade, si agita in quelle; il re si trova a caccia, la regina è di buon’umore; le cose non potrebbero andar meglio.


Napoli, lunedì 26 Febbrajo.

«Alla locanda del signor Mariconi, al largo del Castello.»

Tale si è l’indirizzo pomposo e sonoro, col quale ci perverranno quindinnanzi lettere, dalle quattro parti del mondo. In vicinanza al mare, ed al grandioso castello, si stende un ampio spazio libero, il quale, tuttochè attorniato di case dai quattro lati, non ha già nome di piazza, ma bensì largo probabilmente fin dal tempo in cui non era circondato ancora da abitazioni. Sorge su questo largo, o piazza, un grandioso casamento quadrato, ed ivi prendemmo alloggio, in una vasta sala d’angolo, la quale prospetta sulla piazza, sempre affollata di persone. Corre davanti a parecchie finestre un balcone, con ringhiera in ferro, il quale gira pur anco attorno alla cantonata. Se non soffiasse cotanto molesto il vento, non si muoverebbe più di colà.

La sala è dipinta a vivaci colori, ed i rabeschi specialmente dei vari scompartimenti del soffitto, accennano la vicinanza di Ercolano e di Pompei. Tutto questo sarebbe bello e buono; se non chè la mancanza totale non solo di fuoco, ma pur anco di camini si fa sentire in modo incomodo assai; febbraio, qui pure, mantiene i suoi diritti. Io provavo un intenso desiderio di scaldarmi alquanto.

Mi si recò un trepiede abbastanza alto, per potervi tenere comodamente le mani sopra. In cima a quello era posta una bacinetta poco concava, ripiena di carbone minuto, acceso, e ricoperto di ceneri. Con una piccola paletta si smuove di quando in quando la cenere, in modo da scoprire il carbone, che sprigiona alquanto di calore. Ma se si avesse troppa premura di scaldarsi, se si rimuovesse troppo di frequente, o con troppa forza il carbone, allora questo non tarderebbe a consumarsi, e [p. 204 modifica]sarebbe duopo far riempire di bel nuovo la bacinella, pagando un’altra volta la somma fissata per questo.

Non mi sentivo troppo bene, e per dir vero avrei desiderato qualche maggior comodo. Mi riparai con una stuoia dal freddo del pavimento, ed essendo inutile pensare a domandare pelliccie, che qui non sono in uso, mi decisi ad indossare una cappa da marinaio che avevamo acquistata quasi per ischerzo, ma della quale mi trovai soddisfattissimo, sovra tutto dopo che io l’ebbi stretta attorno al corpo, con una fune, tolta da quelle che legavano i nostri bauli. Tischbein il quale ritornava da far visita ad alcuni amici, non si pote trattenere dalle risa, scorgendomi mascherato in quella foggia, per metà da marinaro, e per metà da cappuccino.


Napoli, il 27 Febbrajo 1787.

Ieri sono stato in riposo per curare in tempo una leggiera indisposizione; oggi poi mi sentivo bene, ed ho impiegata tutta quanta la giornata a visitare queste magnificenze. Si dica, si narri, si dipinga tutto quanto si vorrà, si troverà qui sempre di più. La spiaggia, il golfo, il porto, il Vesuvio, la città, i sobborghi, i castelli, le passeggiate! Siamo stati pure, verso sera, alla grotta di Posilippo, nel momento appunto in cui all’estremità opposta tramontava il sole. Sono indulgente per coloro i quali delirano per Napoli, e ricordai con commozione il mio povero padre, il quale aveva serbata una memoria incancellabile di tutto quanto specialmente, io vidi oggi per la prima volta. E nella stessa guisa che si suol dire, non potere essere lieto più mai, quegli a cui sia apparso una volta uno spettro, si potrebbe sostenere, in senso inverso, non potere essere più totalmente infelice, chi possa ricordare di avere visto una volta Napoli. Io mi trovo ora totalmente tranquillo, a modo mio, e soltanto apro larghi larghi addirittura gli occhi, allora quando scorgo cose troppo pazze. [p. 205 modifica]


Napoli, il 28 Febbrajo 1787.

Oggi siamo stati far visita a Filippo Hackert, il rinomato pittore paesista, il quale gode di tutti i favori, e di una singolare fiducia del re. Gli venne assegnato un ampio quartiere nel palazzo Francavilla, ch’egli ha fatto adattare con gusto squisito d’artista, e che molto si compiace d’abitare. Egli è uomo aggiustato, prudente, il quale sà ad un tempo lavorare assiduamente, e godere la vita.

Siamo andati dopo sulla sponda del mare, ed ho visto trarre fuori da quello pesci di ogni specie, e delle forme le più strane, e le più curiose. Il tempo era splendido, e la tramontana non era neanco troppo molesta.


Napoli, il 1° Marzo.

Già fin dal mio soggiorno in Roma, mi era stato forza rinunciare più di quanto avrei voluto, e desiderato al mio proposito di vita solitaria. Per dir vero parrà strano a più d’uno l’idea di girare il mondo per rimanere soli. Non avevo potuto sottrarmi fra le altre alle istanze vivissime del principe di Waldeck, il quale mi fece accoglienza onorevolissima, e che col suo nome, e colla sua influenza, mi procacciò molti vantaggi. Ora eravamo giunti appena a Napoli, dove egli si trovava già da alcun tempo, ch’egli ci porse invito a volerlo accompagnare in una gita a Porzuoli, e nei dintorni. Per dir vero io avevo pensato a salire prima di ogni cosa in cima al Vesuvio; se non chè Tischbein volle che accettassimo l’invito del principe, ripromettendosi molto piacere da quella escursione con un tempo bellissimo, ed in compagnia di un gentiluomo altrettanto colto quanto distinto. Parimente abbiamo conosciuto a Roma una bella signora, ed il suo marito, inseparabili dal principe, e questi due pure verranno, cosicchè la gita promette riuscire piacevolissima. [p. 206 modifica]

Del resto tutta questa compagnia mi conosce di già intimamente; il principe, la prima volta che mi vidde, mi domandò a che cosa io stessi lavorando, ed una sera ho dovuto esporre minutamente in casa sua il piano e lo svolgimento della mia Ifigenia. Accennarono esserne soddisfatti, se non che, ho creduto osservare che si aspettavano da me qualcosa di più vivo, di maggiore energia.


Alla sera.

Mi sarebbe difficile il rendere conto di questa giornata. Chi non ha osservato talvolta, che la lettura rapida di un libro il quale rapisce, incanta, esercita talora la più grande influenza sulla vita, tale che non potrebbe produrla maggiore una lettura ripetuta, ed un attento studio. Tal cosa mi avvenne una volta con Sacontala, e non può accadere allo stesso modo, con uomini di merito distinto? Una gita per mare a Pozzuoli, un breve tratto di strada per terra, passeggiate piacevoli nella contrada la più amena del mondo. Il suolo il più infido, sotto il cielo il più limpido! Acque bollenti, grotte le quali sprigionano vapori zolforosi, monti calcari, decomposti, selvaggi, ostili alla vita delle piante, ed ad onta di ciò, vegetazione rigogliosa quanto si possa vedere dovunque; la vita che trionfa sulla morte; stagni, ruscelli, e per ultimo una foresta stupenda di querce, sulla pendice di un antico volcano.

Il pensiero ricorre ivi, ora alla natura, ora alla storia dei popoli scomparsi. Si vorrebbe riflettere, meditare, ma non vi si riesce. Intanto sorride intorno a noi la vita, della quale pure non si può fare a meno. Ci stanno attorno persone colte, le quali conoscono il mondo, la sua essenza, ma per squisitezza di tatto sanno astenersi dallo abbandonarsi a considerazioni troppo serie. Vista poi illimitata della campagna, del mare, del cielo, a fianco di donna giovane, piacevole, assuefatta e disposta a gradire omaggi.

In mezzo a tutta quella fantasmagoria, non ho però [p. 207 modifica]mancato di osservare parecchie cose, e mi gioveranno un altra volta a darne conto, alcuni appunti presi sul luogo, ed uno schizzo di Tischbein; questa sera mi sarebbe di di tutta impossibilità, aggiungere un parola sola a quanto ho scritto.


Il 2 Marzo.

Sono salito in cima al Vesuvio, tuttochè il tempo fosse cupo, e la vetta del monte coperta di nuvole. Mi recai in carozza sino a Resina, di là salii il monte fra le vigne, a cavallo di un mulo; quindi proseguii a piedi, sulla lava del settantuno, la quale è già ricoperta di vegetazione; poi presi a camminare sulla lava, lasciando alla mia sinistra, in alto, la casipola dell’eremita. Di là convenne salire per le ceneri, e fu dura impresa. Il monte era ricoperto per un terzo dalle nuvole. Finalmente arrivammo all’antico cratére, ora riempito; trovammo lava recente di due mesi, di quindici giorni, di quella pure recentissima di cinque giorni, già raffreddata. Varcata quella, arrivammo ad una sommità volcanica, dove il fumo usciva da ogni parte; il vento però lo allontanava alquanto da noi, ed io volli avvicinarmi al cratére, se non che, fatti forse una cinquantina di passi il fumo diventò così fitto, che a mala pena io poteva vedere i miei piedi. A nulla mi giovava il tenere il fazzoletto davanti alla bocca; avevo perduto di vista la mia guida pure; il camminare sulle scorie eruttate dal volcano diventava pericoloso, e ritenni prudente ribattere strada, e riservarmi ad altra giornata più chiara, ed in cui fosse minore il fumo, per godere la vista che io mi riprometteva. Intanto ho provato per esperienza quanto sia malagevole cosa il respirare in quell’atmosfera.

Del resto il volcano era tranquillissimo. Non si scorgevano fiamme; non si udivano boati; il monte non lanciava sassi per aria, siccome ha fatto sempre da alcun tempo. Potrei dire averlo esplorato, per poterlo prenderlo d’assalto, non sì tosto il tempo si farà migliore. [p. 208 modifica]

La lava che viddi mi era di già nota; se non che ho scoperto un fenomeno il quale mi parve singolare, che voglio esaminare meglio, ed intorno al quale intendo domandare spiegazioni agl’intelligenti ed ai conoscitori. Si è questo un rivestimento a forma di stalattiti, di un forno volcanico, il quale un tempo doveva essere fatto a volta, ed ora sorge dal cratére chiuso e colmato. Questa pietra dura, di tinta grigia a foggia, come dissi, di stalattite, mi sembra dovere essere formata dall’emanazioni di ogni specie, del vulcano, senza che vi abbiano concorso nè l’umidità, nè la fusione, e può dare occasione ad indagini, e scoperte ulteriori.

Oggi tre di marzo il cielo è coperto, e soffia il scirocco, tempo favorevole, per giorno di posta.

Del resto ho visto in buon numero uomini di ogni condizione, bei cavalli, e pesci di forme strane.

Non aggiungerò parola intorno alla posizione della città, alle sue magnificenze, le quali furono descritte e lodate le tante volte. Vedi Napoli, e poi muori! sogliono dire qui.


Napoli, il 3 Marzo.

Non si potrebbe fare colpa ai Napoletani, se nessuno di essi vuole allontanarsi dalla sua città, nè ai suoi poeti se parlano in modo iperbolico della felicità, che qui si gode, quand’anche sorgessero in vicinanza non uno, ma due Vesuvi. Nessuno qui può ricordare Roma; a fronte di questa stupenda posizione, la capitale del mondo fa la figura di un antico monastero, il quale sorga in una località infelice.

Il mare, le navi, porgono, desse pure, spettacolo affatto nuovo. Ieri una fregata partiva per Palermo, con vento fresco di tramontana, e questa volta per certo non impiegherà più di trentasei ore nella traversata. Con quale desiderio non ho seguito io, le vele spiegate del bel legno, mentre passava fra Capri, ed il capo Minerva, poi disparve! Quando si vedesse partire a quel modo una persona amata, [p. 209 modifica]si dovrebbe morire di angoscia. Oggi regna il scirocco, e per poco che il vento soffiasse più gagliardo, le onde supererebbero il molo.

Oggi venerdì è giorno di passeggio di gala della nobiltà, ed ognuno vi produce suoi equipaggi, e specialmente i cavalli. È impossibile vedere animali più belli, ed è la prima volta che abbiano destato questi in me, sentimento d’invidia.


Napoli il 3 marzo.

Acchiudo a questa mia alcuni biglietti cortesi, quali testimonianza dell’accoglienza che ho trovata qui, e vi unisco la busta, affumicata in un angolo, della vostra ultima, la quale varrà a provarvi, che io ho portate meco sul Vesuvio. Non vi dovrete però figurare, nemmeno per sogno, che io abbia corso qualche pericolo; state pur sicuri, che dove vado io, non vi ha maggior pericolo di quanto se ne possa incontrare sul viale del Belvedere. Io non vado in traccia di avventure per distinguermi; voglio solo vedere le cose bene, addentrarmi quanto possa fare qualunque altro, nei loro particolari. Neppure in Sicilia vi ha maggiore pericolo. Pochi giorni sono è partita una fregata per Palermo, con vento favorevolissimo di tramontana; lasciò Capri sulla sua destra, e pervenne per certo in trentasei ore alla sua destinazione; ed anche colà non vi ha in sostanza nessuno di quei pericoli, che si suppongono facilmente, stando lontani.

Per ora non si parla punto di terremoto nell’Italia meridionale; in quella centrale ebbero a soffrire alquanto Rimini ed alcune località vicine. Non vi si bada guari più qui, che da noi al vento ed alla pioggia, ovvero che agl’incendi in Turingia.

Ho udito con piacere che siate stati soddisfatti della novella forma che ho dato all’Ifigenia; però mi sarebbe tornato più accetto ancora, lo apprendere che aveste [p. 210 modifica]meglio avvertita la differenza. So quanto io abbia fatto, e posso parlare, imperocchè avrei potuto andare più oltre ancora. Se la è grande soddisfazione il godere il bene, la è maggiore ancora quella di comprendere, di sentire il meglio; e nell’arte il meglio è abbastanza bene.


Napoli, il 3 Marzo.

Abbiamo impiegata la seconda domenica di quaresima a girare da una chiesa all’altra. Nella stessa guisa che in Roma tutto è serio, solenne, qui ogni cosa assume e porge aspetto ilare, piacevole. Conviene del pari vedere Napoli, per comprendere ed apprezzare la scuola di pittura napoletana. Qui si vede con meraviglia tutta intiera la facciata di una chiesa dipinta, dall’alto al basso; sopra la porta, Cristo il quale scaccia dal tempio venditori e compratori, i quali spaventati ruzzolano giù tutti dalle scale, a destra ed a sinistra. Nell’interno di un altra chiesa, la volta tutta quanta è ricoperta di una pittura a fresco, la quale rappresenta la cacciata di Eliodoro dal tempio. Luca Giordano doveva pure lavorare in fretta, per portare a compimento opere di quell’importanza. Parimenti il pulpito qui non è sempre, come dovunque altrove, una cattedra, un seggio per una persona sola; ma bensì una specie di galleria, dalla quale un cappuccino va sù e giù schiamazzando, rimproverando, ora ad una estremità, ora all’altra, dettando al popolo i suoi precetti. Quanto non vi sarebbe a dire, se si volesse tutto narrare!

Se non chè, non è fatta nè per narrare nè per descrivere, una notte splendida di plenilunio, quale si è quella di cui godiamo, passeggiando per le strade, per le piazze, a Chiaia, nel giardino pubblico lungo la spiaggia del mare!


Napoli, il 5 Marzo.

Voglio farvi parola, almeno in breve, di un uomo distintissimo che ho conosciuto in questi giorni. Desso si è il [p. 211 modifica]cavaliere Filangieri, rinomato per la sua opera sulla legislazione. Egli appartiene a quella gioventù pregevolissima, la quale si propone la felicità dell’uman genere, ed una libertà temperata. Il suo contegno rivela ad un tempo il militare, il cavaliere, l’uomo di mondo, raddolcito però dall’espressione di animo gentile, sensibile, il quale si palesa in tutta la sua persona, in ogni sua parola, in ogni suo atto. Egli pure è devoto in fondo al suo re, alla monarchia, tuttochè non approvi tutto quanto accade; ma egli pure trovasi invaso dal timore di Giuseppe II. L’imagine di un despota, per quanto possa essere vaga, basta ad incutere timore all’uomo dabbene. Egli mi parlò con tutta franchezza di quanto Napoli aveva a temere da quella parte. Parlò pure volontieri di Montesquieu, di Beccaria, de’ suoi scritti stessi, e sempre nel senso di un animo mite, buono, mosso da intenso desiderio giovanile di operare il bene. Non avrà guari più di trent’anni.

Non tardò a farmi fare la conoscenza di un vecchio scrittore, che i giovani italiani, i quali propendono per le idee nuove, tengono in singolare pregio per la profondità somma del suo ingegno, e che pongono al di sopra di Montesquieu. Egli ha nome Giovanni Battista Vico. Da un rapido colpo d’occhio dato al libro di questi, il quale mi venne affidato quale oggetto sacro, mi pare contenga pronostici sibillini del retto e del bene che verrà un giorno, ovvero che dovrebbe venire, derivandoli da serie considerazioni intorno alla tradizione, ed alla vita. La è singolare ventura per un popolo, il possedere un patriarca di tal fatta; col tempo Haman1 forse sarà un codice di quella specie per i Tedeschi. [p. 212 modifica]


Napoli, il 6 Marzo 1787.

Tuttochè mal volontieri, pure per dovere di amico, Tischbein mi ha voluto oggi accompagnare sul Vesuvio. A lui, artista distinto, il quale di continuo si studia, si affatica a riprodurre le forme umane, quelle degli animali, sotto il migliore aspetto, che riesce colla squisitezza del suo gusto ad abbellire gli oggetti i meno belli, non poteva guari sorridere la vista di quella mole cupa, terribile, la quale di continuo si distrugge, si consuma, e che ha dichiarata la guerra ad ogni bellezza di natura, e dell’arte.

Partimmo in due carozzelle, imperocchè non ci arrischiammo a guidare noi stessi i cavalli, fra mezzo al brulichio di persone, le quali formicolano per la città. Il cocchiere, o vetturino che sia, è obbligato a gridare di continuo largo! largo! per allontanare asini carichi di legna, o di spazzature, di concime, altri calessini i quali corrono a precipizio, facchini carichi ovvero liberi, vecchi, ragazzi, per aprirsi il varco senza fare danno a veruno, in quel vortice.

La strada traversa i sobborghi della città, e fra i giardini ed orti che a quelli succedono, cominciava ad avere carattere diabolico, imperocchè non avendo piovuto già da molto tempo, erano ricoperte di fitte polvere cenerina le foglie delle piante, degli alberi sempre verdi, i tetti delle case, le cornici di queste, tutto quanto in somma porgeva un punto di sporgenza, di appoggio. Tutto era di uguale tinta grigia, e l’azzurro soltanto del cielo, e lo splendore del sole, valevano a far testimonianza, che non ci trovavamo già nel regno delle ombre, ma bensì ancora fra gente viva.

Ai piedi della rapida salita fummo accolti da due guide, uno giovane e l’altro più attempato, uomini forti però entrambi, e robusti. Il primo trascinò me, il secondo Tischbein sù per il monte. Dico che ci trascinò, [p. 213 modifica]imperocchè quelle guide tirano sù per mezzo di una leggiera correggia attorniata alla vita del viaggiatore, questi che li segue, il meglio che può, appoggiandosi nel salire sopra un bastone.

Pervenimmo per tal guisa sulla pianura, dove sorge il cono del monte, a tramontana delle rovine del Somma.

Gettai di là uno sguardo sui dintorni del monte a ponente, il quale dissipò, quanto avrebbe potuto fare un bagno fresco, il calore, la stanchezza della salita, e presimo allora a girare il cono che romoreggia di continuo, eruttando sassi e ceneri; e tenendoci a distanza di quello, per quanto lo spazio lo consentiva, era spettacolo propriamente grandioso. Si udiva dapprima quasi un cupo romoreggiare di tuono, nelle profondità dell’abisso; quindi si scorgevano a migliaia sassi di varie dimensioni lanciati per aria, circondati da una nuvola di ceneri La maggiore parte di quei sassi ripiombavano nell’abbisso; gli altri rotolando da ogni parte, lungo le pareti esteriori del cono, producevano un fracasso d’inferno; i più pesanti ripiombando nell’abisso, producevano un tonfo; i più piccoli fa cevano un romore più acuto, e le ceneri crepitavano. Tutti questi fenomeni si succedevano ad intervalli regolati, dei quali, con attenzione, si sarebbe potuto benissimo misurare la durata.

Tra il Somma ed il cono, lo spazio era abbastanza ampio; però cadevano sassi attorno a noi, i quali rendevano il passaggio per quella via, tutt’altro che piacevole. Tischbein in cima al monte era sempre più malcontento, trovando tutto quel chiasso non solo ingrato, ma ancora pericoloso.

Siccome però, anche la presenza di un pericolo porge una certa attrattiva, la quale provoca lo spirito di contraddizione inerente alla natura umana a sfidarlo, pensai se non fosse possibile, approffittando dell’intervallo fra due eruzioni, lo arrivare in cima al cono, presso il cratére, scendendone parimenti fra una eruzione e l’altra.

Domandai consiglio al riguardo alle nostre guide, mentre [p. 214 modifica]ci stavamo in tutta sicurezza rifocillando, colle provviste che avevamo portato con noi, sotto la sporgenza di una rupe del Somma, dove avevamo cercato rifugio. La guida più giovane si decise ad arrischiarsi meco a quell’impresa; ci guarentimmo il capo, riempiendo i nostri cappelli di fazzoletti di tela e di seta, e partimmo, aggruppandomi io alla cintura della guida, nel mentre tenevo in mano il bastone. Continuavano attorno a noi a schioppettare i lapilli, a crepitare le ceneri, alloraquando l’ardito giovane mi trasse su per l’infuocata pendice. Ci trovammo allora sul margine dell’immensa voragine; un’arietta allontanava da noi il fumo, che usciva da innumerevoli fessure, e ci impediva di scorgere il fondo dell’abisso. In un intervallo di riposo del volcano, potemmo scorgere quà e là le pareti sassose della voragine. Quella vista, per dir vero, non era nè istruttiva, nè piacevole; se non che, per la ragione appunto che non si vedeva nulla, ci fermavamo nella speranza di riuscire pure a vedere qualcosa. Trascurammo di badare agli intervalli delle eruzioni, ci trovammo propriamente sul margine della voragine quando tutto ad un tratto prese a romoreggiare il tuono, e la scarica terribile ci passò davanti, sollevandosi in alto. Ci curvammo per un atto involontario, quasi avesse ciò potuto guarentirci dalla caduta dei massi, i lapilli continuavano a scoppiettare, quando senza pensare che avressimo potuto approffittare di un intervallo di riposo, lieti di essere scampati al pericolo, ruzzolammo in tutta fretta alla base del cono, dove arrivammo coperti tutti di cenere.

Accolto amorevolmente da Tischbein, riposato, rifocillati, potei dedicare tutta la mia attenzione alla lava antica e recente. Il più attempato fra le nostre guide, sapeva indicare il loro corso in ogni anno. La lava più antica era già ricoperta di cenere, ed appianata; quella più recente, e specialmente se aveva avuto un corso lento, offeriva un aspetto strano; imperocchè, dopo avere trascinati seco per un certo tratto i massi caduti sulla sua superficie, questi avevano finito per fermarsi, accumulandosi [p. 215 modifica]gli uni contro gli altri, e consumati per così dire dall’ardore di quel torrente di fuoco, erano diventati simili a scorie di ferro. Tramezzo a tutte queste materie trasformate, si scorgevano pure massi di maggiore dimensione, i quali si sarebbero potuto dire estratti da una cava aperta di recente, e le nostre guide pretendevano essere quest’ultimi pezzi di lava antica, che di quando in quando la voragine caccia fuori.

Nel fare ritorno a Napoli osservai casipole di forma strana, ad un solo piano, e senza finestre di sorta, per modo che le stanze ricevono luce unicamente dalla porta, la quale si apre sopra la strada.

L’aspetto diverso della città, tutta in moto alla sera, mi fece nascere il desiderio di potermi fermare alquanto, per provare a riprodurne l’imagine sulla carta, se non che, non mi sarà tanto facile il riuscirvi.


Napoli, martedì 7 marzo 1787.

In questa settimana, Tischbein mi ha fatto vedere coscienzosamente, e spiegatomi buona parte della rarità artistiche di Napoli. Conoscitore profondo, ed abile disegnatore di animali, egli aveva fissata già dapprima la mia attenzione sopra una testa di cavallo in bronzo, la quale si trova nel palazzo Colombrano, ed oggi ci siamo portati colà. Questa reliquia artistica trovasi collocata nel cortile del palazzo, in una nicchia sopra una fontana, precisamente di fronte alla porta d’ingresso, e reca propriamente stupore; e quando quella testa trovavasi riunita alle altre membra dell’animale, il complesso doveva pure produrre un’effetto meraviglioso. Il cavallo doveva essere di mole superiore a quelli che stanno sulla chiesa di S. Marco, e la testa, comtemplata da vicino, ed in tutti i suoi particolari, ne rivela e ne fa risaltare con tanto maggiore evidenza, la forza, ed il carattere. Quale fronte stupenda, quale narici, quali orecchie tese, in atto di attenzione! [p. 216 modifica]quanta forza in quella criniera! Dovette pure essere un bello e forte animale.

Ci volgemmo indietro per osservare una statua di donna, la quale trovasi collocata in una nicchia sopra l’ingresso dell’atrio, all’interno. Fu ritenuta già da Winckelmann per una copia di una danzatrice, imperocchè gli artisti solevano rappresentare nell’atto di muovere quelle dive, che ora ci si presentano sotto aspetto di divinità, ovvero di ninfe al riposo. Del resto quella figura è bella, ed ha molta leggerezza; il capo era infranto, ma venne ristaurato con molta maestria, e quella statua, la quale trovasi in complesso ben conservata, meriterebbe essere allogata in sede più conveniente.


Napoli, il 9 marzo.

0ggi ho ricevuto le vostre care lettere del 16 febbraio. Continuate a scrivermi. Ho provveduto perchè mi sia ricapitata a dovere la mia corrispondenza, e continuerò a farlo, quand’anche dovessi andare più oltre. Mi fa un singolare effetto il leggere a tanta distanza che i miei amici non si sono visti; eppure spesse volte è naturalissimo che non si vedano, quelli i quali sono cotanto vicini gli uni agli altri.

Il tempo si è guastato; varia ad ogni momento, è cominciata la primavera, e verranno giornate di pioggia. La vetta del Vesuvio non è stata più scoperta come nel giorno in cui sono salito lassù. Nelle ultime notti si viddero di quando in quando fiamme colà, ora il volcano bolle all’interno, e si aspetta un’eruzione più forte.

Le burrasche di questi giorni ci hanno fatto vedere il mare nella sua imponenza, e si poteva studiare ed ammirare la forza delle onde; la natura si è pure il solo libro che offra ammaestramenti sublimi ad ogni pagina. Per contro il teatro non mi reca più soddisfazione. Si recitano qui durante la quaresima opere sacre in musica, le [p. 217 modifica]quali in nulla si distinguono da quelle profane, toltone che non vi ha ballo fra un atto e l’altro; del resto lo spettacolo è gaio e variato, per quanto è possibile. Al teatro S. Carlo si recita, La distruzione di Gerusalemme per opera di Nabucodonosorre. Mi parve cosa da lanterna magica, ovvero convien dire che io non abbia più genio per tal fatta di spettacoli.

Oggi siamo stati col principe di Waldeck a Capo di Monte, dove vi ha una grande collezione di quadri, di monete, e di altre varietà. Il tutto trovasi allogato alquanto alla rinfusa; però vi sono oggetti molto pregevoli, e le mie idee in quel ramo si vanno sempre più ordinando. Le monete, le gemme, gli aranci i quali crescono artificialmente in vasi nelle contrade settentrionali, fanno tutt’altra figura qui, nel loro suolo indigeno, dove si vedono in grande quantità, imperocchè dove le opere d’arte scarseggiano, basta la rarità a dare loro pregio; qui per contro, quelle cose sole si apprezzano, le quali hanno merito reale, intrinseco.

Ora qui si pagano a caro prezzo i vasi etruschi specialmente, e per dir vero ve ne sono stupendi. Non havvi viaggiatore, il quale non voglia portare via qualche oggetto d’arte; non si bada alla spesa quanto si farebbe in patria, ed io stesso ho timore, di cedere alla forza dell’esempio.


Napoli venerdì 9 marzo 1787.

Fra i piaceri del viaggiare, havvi quello pure che le cose le più abituali, per la novità e per la singolarità dell’aspetto, aquistano il carattere quasi, di un avventura. Tornato di Capo di Monte fui ancora alla sera a fare una visita in casa Filangeri e trovai seduta sul canapè accanto alla padrona di casa una signorina, il cui aspetto esteriore non mi parve corrispondere alla franchezza soverchia, ed alla libertà di tutto il suo contegno. Vestita di un abito di seta leggiero, a striscie, pettinata in una [p. 218 modifica]foggia bizzarra, quella piccola creaturina mi fece l’impressione di una pettinatrice, di una modista, le quali, intente tutte a far brillare le altre, poco o nulla badano a se stesse. Assuefatte a vedere corrisposta con danaro l’opera loro, non comprendono come possano fare qualcosa pure a gratis per sè stesse. Senza lasciarsi punto disturbare nel suo cicaleggio dalla mia venuta, narrò una serie di storielle ridicole, che l’erano capitate nella giornata, o che per meglio dire, aveva dessa provocate colla sua vivacità, ed irrequietezza.

La padrona di casa volle dare mezzo a me pure di prendere parte alla conversazione; parlò della posizione stupenda di Capo di Monte, delle rarità che colà si trovano, ed allora quella donnetta si alzò tutta ad un tratto, e mi parve, stando in piedi, più graziosa ancora, che seduta. Si congedò, e nel passare rapidamente davanti a me per uscire dalla stanza, mi disse «I Filangieri verranno uno di questi giorni a pranzo da me; spero di vedere voi pure!» Ed intanto era uscita prima che io le avesse potuto dare risposta. Seppi allora che la signorina era la principessa X parente dei Filangieri. Questi non sono guari ricchi, e vivono modestamente. Mi colpì pertanto il titolo di principessa, tuttochè non sia questo raro nell’alta società di Napoli. Intanto presi nota del nome, del giorno, dell’ora, del luogo, e non mancherò per certo di accettare il gentile invito.


Napoli domenica 11 marzo 1787.

Siccome il mio soggiorno a Napoli non sarà lungo, visito per le prime le cose le più lontane, quelle più vicine cadono per così dire sott’occhio. Sono stato con Tischbein a Pompei, e nel vedere attorno a noi, alla nostra destra ed alla nostra sinistra tutte quelle viste stupende, le quali ci sono note per le moltiplici stampe, ci apparvero queste, nel loro complesso più meravigliose ancora. Pompei [p. 219 modifica]reca stupore poi ad ognuno, per le sue dimensioni ristrette e meschine. Sono strettissime le strade, tuttochè fornite da ambi i lati di marciapiedi; le case piccole, senza finestre, e le stanze illuminate unicamente dalle porte, le quali si aprono nelle corti, ovvero nei portici che circondano queste. Gli edifici pubblici stessi, il foro presso la porta, il tempio, una villa pure presso questo, si direbbero piuttosto trastulli da ragazzi, modelli in piccole dimenzioni di edifici, anzichè veri edifici. Quelle stanze poi, quegli anditi, quelle gallerie, sono tutte dipinte nel modo il più gaio, le pareti con un soggetto nel centro, attualmente rovinate per la maggior parte, ed i bordi e gli angoli con rabeschi leggieri, di gusto squisito, fra cui si vedono talvolta puttini, figure di ninfe, ed in altre, ghirlande ricche di fiori, animali addomesticati. Accenna per tal guisa la triste condizione di questa città, ricoperta per tanti secoli dai lapilli e dalle ceneri, ed ora risorta alla luce, a tale amore di tutto un popolo, per le arti figurative, di cui non può avere idea nè senso, ne provare bisogno ai giorni nostri, il dilettante, il conoscitore il più appassionato.

Se si pon mente alla distanza di Pompei dal Vesuvio, si comprende che la mole ingente di prodotti volcanici i quali l’hanno ricoperta, non potè essere ne’ qui lanciata da un eruzione, nè trasportata da un colpo di vento; è forza supporre di preferenza, che quelle ceneri, che tutti quei lapilli dovettero rimanere sospesi un certo tempo per aria quasi una nube, infine a tanto precipitarono sull’infelice città.

Volendosi rappresentare colla maggiore evidenza quel fenomeno, si potrebbe prendere a considerare un villaggio di montagna, sepolto sotto le nevi. Gl’intervalli fra gli edifici, gli edifici stessi sfondati nei tetti, rimasero sepolti, dai materiali caduti, ed intanto poterono continuare a sussistere i muri quando posteriormente, in tempi più o meno remoti, venne coltivata a viti la collina sorta sulla città, o ridotta ad orti, ed a giardini. È certo poi, che parecchi [p. 220 modifica]proprietari lavorando profondamente i loro terreni, devono avere fatto scoperte di rilievo. Si trovarono parecchie stanze vuote, ed in una di queste si rinvennero piccole masserizie, ed utensili di casa, non che lavori artistici, nascosti in un mucchio di ceneri.

Ci sottraemmo all’impressione strana, però ingrata in complesso, di quella città pietrificata, quando seduti in vidinanza al mare, sotto il pergolato di una modestissima osteria, femmo una frugale refezione, godendoci l’azzurro del cielo, la luce splendida del mare, nella speranza di poterci trovare qui di bel nuovo, quando questo angolo venga ad essere coperto dalle foglie della vite.

Mi colpirono ancora una volta nelle vicinanze della città, quelle casipole, le quali sono una imitazione esatta di quella di Pompei. Domandammo il permesso di entrare in una di quelle, e la trovammo molto pulita. Vi trovammo sedie di canna, di forma svelta ed elegante, un armadio dipinto con fiori, a colori vivacissimi sù fondo d’oro, in guisa chè, dopo tanti secoli, dopo tanti avvenimenti, dopo tante trasformazioni, gli abitanti di queste contrade serbano tuttora i costumi, le abitudini, i gusti, le inclinazioni, dei popoli che li precedettero sù questo suolo.


Napoli, lunedì 12 marzo.

Oggi ho vagato quà e là per la città senza scopo fisso secondo il mio costume, osservando e notando varie cose, delle quali però mi duole non avere ora agio a dar conto particolareggiato. Dal complesso potrei dedurre che un suolo felice, il quale provvede largamente, facilmente ai bisogni principali, dà origine ad un razza felice d’uomini, i quali senza pensieri, possono ritenere che il domani non sarà diverso dall’oggi, dal ieri; e che pertanto, vivono senza preoccuparsi menomamente dell’avvenire. Hanno soddisfazioni momentanee, piaceri moderati, dolori passeggieri, e soffrono allegramente. Voglio addurre [p. 221 modifica]un esempio abbastanza curioso, di quest’ultimo particolare.

Stamane il tempo era piuttosto freddo, umido; aveva piovuto alquanto. Arrivai sopra una piazza, dove le pietre larghissime del selciato apparivano pulite con molta cura, e viddi con mio stupore attorno a quello spazio di terreno pulito, un certo numero di ragazzi o giovanetti cenciosi, i quali curvi tenevano le mani stese sopra il suolo, in atto di volerle scaldare. Da principio credetti si trattasse di un giuoco, di uno scherzo, ma poi nell’osservare le fisonomie serie e tranquille, quasi di chi sta provando una soddisfazione, crebbe la mia curiosità; ma tant’era, non venivo a capo di comprendere che cosa diavolo stessero facendo, tutti quei scimiotti radunati in circolo, in quella strana posizione. Dovetti domandarlo.

Allora seppi che un fabbro ferraio, il quale aveva colà vicina la sua bottega aveva ivi fatto arroventare il cerchio di una ruota, la qual cosa si pratica con il metodo seguente. Il cerchio viene collocato sul suolo, e ricoperto tutto all’ingiro di tanto carbone che basti, per portarlo al grado voluto di calore. Si accende il carbone, la lamina viene allogata attorno alla ruota, e si raccolgono con diligenza le ceneri. Tutti quei piccoli selvaggi, si affrettano di trarre partito del calore rimasto al suolo, e non si scostano, in fino a tanto lo abbiano tutto goduto, scaldandosi le mani. Si potrebbero addurre molti altri esempi della premura usata da questo popolo, per trarre profitto di cose, le quali, diversamente operando, anderebbero perdute. Egli è accorto ed industrioso, non già per diventare ricco, ma bensì per potere vivere senza pensieri.


Alla sera.

Per essere sicuro di trovarmi oggi all’ora fissa presso la curiosa principessina, e per non sbagliare alle volte di casa, presi meco un domestico di piazza. Egli mi portò [p. 222 modifica]davanti alla porta di un bel palazzo, e non aspettandomi io, a trovare una cotanto splendida abitazione, gli feci ripetere, compitandolo, il nome della dama, ed egli mi assicurò che non aveva preso sbaglio. Entrai allora in una corte ampia, tranquilla, deserta, pulitissima, circondata dall’edificio principale, non che dagli accessori di un abitazione signorile. Tanto l’architettura quanto le tinte, erano quelle generalmente in uso a Napoli, di aspetto allegro. Sotto l’atrio, di fronte a me, sboccava una ampia scala, comodissima a salire, e su quella erano disposti in ordine dai due lati lacchè in grande livrea, i quali mi fecero profondi inchini, mentre passavo fra mezzo ad essi. Mi pareva essere diventato il sultano delle storie delle fate di Wieland, e seguendo l’esempio di quello, presi coraggio. Giunto in cima alla scala fui ricevuto da altri domestici, finalmente mi si aprì la porta di una vasta sala, la quale in tutta la sua ampiezza era vuota, e deserta di persone. Nel passeggiare sù e giù per quella, potei vedere in una galleria laterale una tavola, stupendamente preparata, per quaranta persone all’incirca. Arrivò finalmente un abate, il quale senza domandarmi nè chi io fossi, nè d’onde io venissi, mi trattò come se mi avesse conosciuto, parlandomi di varie cose.

Tutto ad un tratto si aprirono i due battenti di una porta, per dare passo ad un signore attempato, quindi tosto si chiusero di bel nuovo. L’abate ed io ci avvicinammo a lui, salutandolo con poche parole cortesi, alle quali rispose borbottando e potrei quasi dire abbaiando, in modo che non riuscii a comprendere una sillaba del suo dialetto da Ottentoto. Allorquando egli si accostò al camino, l’abate ed io ci traemmo in disparte. Entrò allora un monaco benedettino, corpulento, accompagnato da un giovane fraticello. Salutarono quelli pure il vecchio, il quale ricominciò a borbottare e ad abbaiare; quindi si avvicinarono a noi che ci eravamo ritirati nel vano di una finestra. I monaci, specialmente quando vestono con eleganza, godono grandi privilegi in società; [p. 223 modifica]il loro abito indica l’umiltà, l’abnegazione, ma in pari tempo loro conferisce molta dignità. Nel loro contegno possono comparire modesti, senza punto cadere nell’abbiezione, e quando si sollevano da quello stato, acquistano una certa imponenza, la quale non compete tanto facilmente, alle persone di diversa condizione. Domandai a quel monaco informazioni di Montecossino, ed egli m’invitò a portarmi colà, assicurandomi che vi avrei trovata ottima accoglienza. Intanto la sala si era popolata; erano giunti ufficiali, gentiluomini, sacerdoti, ed alcuni cappucini pure. Fino allora non era arrivata nessuna dama, ma non dovevano mancare queste neppure. Tornarono ad aprirsi ed a chiudersi i due battenti di una porta, e questa volta era entrata una vecchia signora, più attempata ancora che il vecchio signore giunto prima, e la presenza della padrona di casa non mi lasciò più dubbio, che io mi trovavo in un palazzo forastiero, sconosciuto affatto alle persone le quali lo abitavano. Erano già state portate le vivande in tavola, ed io stavo sempre a fianco del mio abate, per avviarmi sotto la sua egida nel paradiso della tavola da pranzo, quando tutto ad un tratto comparve Filangieri colla consorte, chiedendo scusa per essere arrivati tardi. Poco dopo entrò nella sala saltellando la principessina, la quale passando fra saluti, inchini, genuflessioni, si avanzò senz’altro verso di me «Benissimo, disse, mi avete mantenuta parola! Prendete posto a tavola al mio fianco. Avremo i migliori bocconi. Aspettate un momento però. Conviene ch’io faccia prima ricerca del mio posto, quindi venite senz’altro vicino a me.» Invitato per tal guisa da lei, le tenni dietro in tutti i suoi giri e rigiri, finalmente sedemmo di fronte ai due frati benedettini, mentre Filangieri prese posto al mio fianco dall’altra parte. — «Il pranzo è propriamente buono disse’ella, siamo in quaresima, sono tutti cibi di magro, però squisiti; vi voglio accennare i migliori. Ora però mi voglio pigliare spasso dei preti. Non li posso patire. Quegl’indiscreti, frequentano ogni giorno la nostra [p. 224 modifica]casa, e vi raspano sempre qualcosa; quanto abbiamo, me lo vorrei invece godere coi nostri amici. Era stata servita la minestra. Il padre Benedettino mangiava con aria di componzione. «Non abbiate riguardo, reverendo, sclamò ella; il cucchiaio è forse troppo piccolo? Ve ne farò portare uno più grande. A voi signori non manca mai il buon appettito.» Il padre rispose. «Ogni cosa è cotanto squisito nella vostra casa, principessa, che qualsiasi convitato non potrebbe a meno di rimanere soddisfatto.»

Il padre prese un pasticcetto solo. «Avreste dovuto prenderne almeno una mezza dozzina, sclamò ella, lo sapete pure che la pasta sfogliata si digerisce facilmente.»

Il sant’uomo prese ancora un pasticetto per corrispondere alla gentile attenzione, quasi non avesse capito il frizzo. Ed anche quando fu recata una torta, ne tolse congiuntura la signorina di dare corso alla sua malizia, imperocchè, quando il padre ne prese un pezzo sul suo tondo, ne ruzzolò un secondo giù del piatto.» Prendetene un terzo, padre, diss’ella. Pare abbiate intenzione di allogare buone fondazioni all’edificio. «Quando i materiali sono di tanto buona qualità, replicò il padre, poco rimane, per dir vero, a fare all’architetto.» E la conversazione continuò su quel tuono, senz’altra pausa, fuorchè per accennarmi e farmi gustare le migliore vivande.

Intanto però, io parlavo pure coll’altro mio vicino di cose serie. Posso dire di non avere mai udito uscire dalla bocca di Filangieri una parola indifferente. Rassomiglia in ciò, coma in molte altre cose al nostro amico Giorgio Schlosser, se non che, Napoletano e gentiluomo, egli è d’indole più mite, e di commercio più facile.

Il buon umore della mia vicina non lasciò tregua durante tutto il tempo del pranzo ai poveri monaci; ed i cibi di magro specialmente, aggiustati in guisa da comparire in apparenza vivande di grasso, le somministrarono argomento a frizzi continui molto liberi, e poco religiosi, nel rivelare e nel giustificare il desiderio di cibi di grasso, [p. 225 modifica]e di compiacersi almeno dell’apparenza di quelli, in difetto della sostanza.

Osservai ancora molti altri scherzi e frizzi di tal fatta, che non ho il coraggio di qui riferire. Possono divertire usciti da una bocca giovanile e bella, ma consegnati alla carta, col nero sul bianco, perdono tutto il loro pregio, ed è pur forza ammettere, che la libertà soverchia di parola può divertire sul momento; narrata però, e ripetuta a sangue freddo, finisce per urtare i nervi, per riuscire spiacevole.

Erano state recate in tavola le frutta, ed io nudrivo timore che la conversazione continuasse ancora su quel tuono; se non che, tutto al contrario, la mia vicina si volse a me in aspetto tranquillissimo, dicendo «Lasciamo che i Siracusani si divorino a loro talento i preti; a me non riesce però ferirne uno a morte, e neanco torre loro l’appettito.»

Ora poi lasciate che io vi faccia parola di cose serie. Che piacere si prova nel conversare con Filangieri. Che uomo eccellente; e quanto lavora! Gli ho detto spesse volte, quando avrete fatte le nostre nuove leggi, converrà studiare il modo d’infrangerle, che gli antichi ce ne hanno dato esempio abbastanza. Osservate solo quanto è bello Napoli; gli uomini da tanti secoli vi conducono vita lieta, e senza pensieri; e tuttochè di quando in quando vi s’impicchi qualcuno, le cose vi procedono sempre allo stesso modo. Egli mi fece proposta di portarmi a Sorrento, dove possiede una vasta tenuta, e dove il suo mastro di casa mi avrebbe fatto mangiare pesce squisitissimo, e carni eccellenti di vitella mungana. Disse che l’aria pura di quella spiaggia, la limpidezza di quel cielo, mi avrebbero guarito di tutte le mie preoccupazioni filosofiche; che non avrebbe tardato a venirmi raggiungere colà, e che la vita piacevole che avessimo fatta assieme, avrebbe cancellata ogni traccia di rughe dalla mia fronte. [p. 226 modifica]


Napoli, il 13 marzo 1787.

Oggi pure voglio scrivere alcuni versi, acciò una lettera tenga dietro immediatamente all’altra. Tutto mi va a seconda; però io vedo meno di quanto dovrei. Questo cielo ispira la mollezza, il desiderio di vita comoda; intanto però, vado acquistando poco a poco, idea sempre più precisa della città.

Domenica siamo stati a Pompei. Avvennero molti infortuni a questo mondo, ma nessuno che valga ad arrecare cotanta soddisfazione ai posteri. Non ho visto finora cosa più interessante di quella città sepolta. Le case vi sono piccole, ristrette, però dipinte tutte all’interno nel modo, il più grazioso. La porta della città, come parimenti i sepolcri, sono meravigliosi. Viddi la tomba di una sacerdotessa, a forma di banco semicircolare, con spalliera, in pietra, e con una iscrizione incisa a grandi lettere. Si vedevano al di sopra della spalliera il mare, ed il sole che scendeva all’occaso. Località stupenda, degna del bel pensiero.

Trovammo colà buona ed allegra società napoletana. Gli uomini sovratutto sono pregevoli per naturalezza, e per spontaneità di pensiero. Pranzammo a Torre Annunziata, a contatto quasi del mare. La giornata era bellissima, e stupenda la vista di Castellamare, e di Sorrento. Tutti si sentivano al loro vero posto, e taluni esternarono l’opinione, non essere possibile il vivere, senza la vista del mare. Intanto a me potrà bastare lo averla impressa nella memoria, e poterla ricordare talvolta, quando avrò fatto ritorno fra i monti.

Per buona sorte trovasi qui un valente pittore di paesaggi, il quale sa riprodurre ne’ suoi quadri l’aspetto, il carattere di questa splendida natura. Egli ha fatto già alcuni disegni per me.

Ho pure studiato ora bene i prodotti del Vesuvio, i [p. 227 modifica]quali fanno tutt’altra figura, quando si prendono a considerare, gli uni in relazione cogli altri. Credo che se potessi dedicare quel tanto che mi dovrà sopravvanzare di vita all’osservazione, finirei per fare qualche scoperta, la quale allargherebbe la cerchia delle cognizioni umane. Vi prego far sapere ad Herder, che vado traendo sempre nuove deduzioni dalle mie teorie botaniche; il principio è sempre lo stesso, ma per svilupparlo a dovere, vi vorrebbe una vita intiera; forse riuscirò a stabilirne i punti principali.

Per ora mi godrò il museo di Pompei. Generalmente lo si vede fra le prime cose, e noi lo visiteremo per l’ultima. Non so bene ancora che cosa io farò; tutti vorrebbero che alla Pasqua io fosse di ritorno a Roma. Lascierò andare le cose come vorranno. Angelica ha preso a dipingere un quadro, togliendone l’argomento dalla mia Ifigenia. Il pensiero si è felicissimo, ed ella lo saprà svolgere stupendamente. Scelse il momento in cui Oreste rivede la sorella, e l’amico. Ha trovato modo di esprimere, in un gruppo ben disposto, quanto stanno dicendo quelle tre persone, e di tradurre in gesti, ogni loro parola. Si scorge in quella tela, quanto sia la squisitezza del suo sentire, non chè la sua valentia nell’esprimerlo. E per dir vero quel momento si è il perno di tutto il dramma.

Vivete felici, e vogliatemi bene. Qui tutti mi accolgono bene, quantunque non tutti si sappiano conformare alle mie idee. Tischbein è di contentatura più facile, ed alla sera talvolta si piega a disegnare loro teste di grandezza naturale, le quali provocono il loro stupore, quanto potrebbe produrre agli abitanti della nuova Zelanda, la vista di un legno da guerra. Voglio anzi narrarvi a questo proposito una storiella graziosa.

Tischbein possiede sovratutto una grande facilità di disegnare a penna figure di divinità, di eroi, di grandezza naturale. Tira pochi tratti, quindi con un grosso pennello vi aggiunge le ombre con tanta maestria, che le sue [p. 228 modifica]teste acquistano tosto rilievo. Una sera gli spettatori non si contentarono di ammirare quella facilità, di compiacersene, ma vollero provare pure a dipingere dessi a quel modo, se non che, dato di piglio al pennello, non riuscirono a far altro se non dipingersi la barba e lordarsi la faccia. Non havvi in questo fatto di nessuna importanza, un certo non so che, il quale fa pensare agli uomini primitivi? E badate che ciò succedeva in una società colta, nella casa di tale, che sà egli pure, disegnare, e dipingere a dovere. Non è possibile formarsi un idea di questa razza d’uomini, quando non la si abbia vista.


Caserta, mercoledì 14 marzo.

Mi trovo in casa di Hackert, nell’abitazione comoda e piacevole, che gli fù assegnata nell’antico castello. Il nuovo si è edificio immenso, quadrato, con parecchie corti; ricorda l’Escuride ed ha aspetto abbastanza regale. La posizione poi è stupenda; il nuovo palazzo sorge nella pianura la più fertile del mondo, ed i giardini si stendono fino ai monti. Un acquedotto grandioso trasporta da quelli un vero fiume, per uso del castello, non che per irrigare i dintorni, e facendo precipitare quella colonna d’acqua ingente, da roccie disposte artificialmente, si potrebbe ottenere una cascata stupenda. I giardini sono ben disegnati, e riescono a fare buona figura in una contrada la quale è già per sè un vero giardino.

Il castello propriamente regale non mi parve animato abbastanza, e troveressimo noi, poco comode quelle stanze immense. Sembra che il re attuale sia desso pure di questo avviso, imperocchè si sta facendo costrurre nei monti un casino per la caccia, è per diporto, di proporzioni molto più modeste.


Caserta, giovedì 15 marzo.

Il quartiere occupato da Hackert, nell’antico castello, è molto comodo, ed ampio abbastanza per esso, e per i suoi [p. 229 modifica]ospiti. Tuttochè occupatissimo di continuo nel disegnare, o nel dipingere, Hackert ama la società, sa radunare persone, e fa molti allievi fra queste. Ha fatto pure la mia conquista, usando indulgenza alla mia debolezza, insistendo anzi tutto per la precisione, quindi per la franchezza del disegno. Quando dipinge all’inchiostro della China, ha sempre pronte tre tinte, ed adoperando ora l’una, ora l’altra, produce in breve un quadro, senza che si riesca a comprendere, come vi sia riuscito. Si può dire che questo è finito, prima che si sia visto in qual modo lo abbia eseguito. Egli mi diceva, con quella franchezza pregevole, che gli è abituale; «Avete buone disposizioni; ma finora non potete fare nulla di buono. Trattenetevi un diciotto mesi presso di me, ed allora varrete a fare qualcosa che piacerà a voi, ed agli altri.» Non è questo un testo, sul quale si potrebbe predicare eternamente a tutti i dilettanti? Resta a vedere il profitto che ne saprò ritrarre.

Fanno prova della fiducia di cui gode presso la regina, non solo le lezioni di disegno che dà alle principessine, ma particolarmente l’essere chiamato spesse volte alla sera dalla regina, che vuole udire il suo avviso in tutte le cose le quali si riferiscono alle arti, e trattenersi talvolta seco lui, a parlare di queste. Egli prende allora per testo il dizionario di Sulzer, svolgendone a sua scelta, ora l’uno, ora l’altro articolo.

Mi fù forza riconoscere che in questa parte egli aveva ragione, e ridere di me stesso. Difatti, quanta si è la differenza fra un uomo il quale si vuole formare da sè una teoria per suo uso, e quegli il quale vuole esercitare influenza sulle persone, e dettare ammaestramenti per loro uso. La teoria di Sulzer non mi era mai andata a genio, a motivo de’ suoi principii fondamentali erronei, ed ora ho dovuto riconoscere, che la sua opera contiene molto più, di quanto occorre sapere alla generalità delle persone. Le molte sue cognizioni, il modo col quale davano queste coscienza del proprio valore, ad uomo valente quale era Sulzer, non dovrebbero forse bastare per la generalità? [p. 230 modifica]

Passammo molte ore con vera soddisfazione presso il ristauratore di quadri Anders, il quale, chiamato da Roma ed alloggiato egli pure nel castello, vi attende con molta assiduità a suoi lavori, a cui il re prende viva parte. Non potrei cominciare a parlare della sua rara perizia, nel richiamare a novella vita antichi dipinti, perchè converrebbe spiegare ad un tempo, il metodo di cui si vale nella sua difficile impresa, ed i risultamenti felici che ne ottiene.

Caserta, il 16 marzo 1787;

Ho ricevuto oggi le care vostre lettere del 19 febbraio, e voglio a mia volta, mandarvi tosto alcuni pochi versi. Con quanto piacere non fo ritorno sopra me stesso pensando a miei amici!

Napoli si è un vero paradiso; ognuno vi vive nell’ebbrezza di una specie di obblío di sè stesso, ed io fo come tutti gli altri; quasi più non mi riconosco, e mi pare essere divenuto altro uomo. Ieri io pensavo, o che ero pazzo in passato, ovvero che lo sono diventato ora.

Ho visitate pure di qui gli avanzi dell’antica Capua, ed i dintorni di quella città.

In queste contrade non si tarda a comprendere che cosa sia la vegetazione, ed il perchè si coltivi la terra. Il lino è bellissimo, già quasi in fiore, ed il formento ha raggiunta già l’altezza di un palmo e mezzo. Nei dintorni di Caserta non vi ha che pianura perfetta; i campi sono livellati, quanto le vaiuole di un giardino. Sono piantati tutti di pioppi, dai quali pendono, a foggia di festoni, i tralci della vite, e ad onta di quell’ombra, maturano sul suolo in abbondanza prodotti di ogni specie. Quale aspetto non porgeranno queste campagne, allorquando sara più inoltrata la primavera! Finora abbiamo avuto giornate belle di limpido sole, ma venti freddi, e sui monti è caduta neve di recente.

Fra due settimane dovrò decidere se anderò o no in [p. 231 modifica]Sicilia. Non mi è capitato ancora nella mia vita, di trovarmi in tanta incertezza. Oggi sono spinto da una circostanza a partire; domani ne sorge un altra, la quale mi trattiene. Mi trovo in balía di due forze, le quali contrastano fra di loro.

In tutta confidenza, e per le amiche soltanto, che gli amici non ne abbiano sentore! Scorgo benissimo la sorte capitata alla mia Ifigenia; si era cotanto assuefatti alla prima forma, si conoscevano le espressioni che si erano lette, rilette le tante volte; ora tutto è cambiato, ed in sostanza io scorgo benissimo, che nessuno mi sa tenere conto delle molte mie fatiche. Per tal guisa un lavoro non si può mai dire ultimato, eppure lo si deve dire ultimato, quando si è fatto tutto quello che il tempo e le circostanze consentivano.

Tal cosa però non mi deve punto dissuadere dall’intraprendere lavoro uguale col Tasso. Lo caccerei più volontieri sul fuoco; mi voglio impuntare nella mia risoluzione, e se non sarà cosa diversa, sarà, per dir vero, caso strano. Per questa ragione mi va propriamente a sangue, che la stampa delle mie opere proceda con tanta lentezza. Intanto è bene essere minacciato ad una certa distanza dal compositore, ed avere una spinta a lavorare.


Caserta, il 16 marzo 1787.

Mentre a Roma si può studiare volontieri, qui non voglio pensare ad altro che a vivere; vi si dimentica tutto il mondo, e sè stesso, e mi produce una singolare impressione, il trovarmi attorniato da persone, le quali non pensano ad altro che a godersi la vita.

Il cavaliere Hamilton2, il quale si trova tuttora qui, [p. 232 modifica]nella qualità di rappresentante d’Inghilterra, e dopo tanto amore per le arti, dopo tanto studio della natura, ha finito per rinvenire un vero capolavoro di natura e di arte, in una bellissima giovane, un Inglese di vent’anni all’incirca, che tiene presso di sè. Per ver dire ch’ella è propriamente bella, di figura e di persona! Le ha fatto fare un costume alla foggia greca, il quale le stà stupendamente; ella si scioglie i capegli, prende due scialli, e si presenta in una serie di posizioni, di attitudini, di gesti, che nel vederla, si crederebbe sognare. Si vedono in realtà, l’una dopo l’altra, quelle attitudini, quelle posizioni, che tanti e tanti artisti si studiarono a riprodurre nelle loro statue, nei loro dipinti. Ora sorge in piedi, ora s’inginocchia, ora siede, ora si corica, ora assume aspetto serio, ora malinconico, ora ironico, ora delirante, ora di penitente, ora di civetta, ora minaccioso, ora accorato; e tutto ciò, di seguito, rapidamente. Sa variare ad ogni diversa espressione le pieghe de’ suoi veli; sa pure formarsi con questi acconciature per il capo, le più svariate. Il vecchio cavaliere tiene il lume, e si abbandona con tutto l’animo alla contemplazione di quello spettacolo. Trova in quella giovane tutti i pregi dell’arte antica, il profilo delle monete siciliane, e quello pure, io credo, dell’Apollo del Bel vedere. Vuolsi ad ogni modo ammettere, che il passatempo non è d’indole volgare. Abbiamo passato già due sere a godercelo noi pure, e stamane di buon ora Tischbein ha disegnata la figura della bella Inglese.

Per potervi parlare del personale della corte, delle relazioni di questo, mi è d’uopo ancora sottoporre a disamina, e coordinare le mie osservazioni. Oggi il re è andato alla caccia del lupo, colla speranza di ucciderne cinque almeno.


Napoli, il 17 marzo.

Mentre vorrei scrivere parole, non si presentano alla [p. 233 modifica]mia mente fuorchè imagini; la terra fertilissima, l’ampio mare, le isole vaporose, il monte che fuma, e non riesco a trovare espressioni, per riprodurre tutte queste bellezze meravigliose di natura.

In questa contrada si comprende subito, come possa essere sorta nell’uomo l’idea di coltivare la terra, qui, dove tutto prospera in un campo, dove si può avere speranza di fare dai tre ai cinque raccolti in un anno. Mi si assicurò che nelle buone annate si raccoglie per fino tre volte in uno stesso campo, il grano turco.

Ho vedute molte cose e più ancora ne ho pensate; il mondo mi si allarga sempre più, e mi vado pure formando idea più precisa di quanto già sapevo. L’uomo è pure creatura la quale impara presto, ma che non riesce se non tardi, a trarre profitto di quanto apprese.

Mi spiace propriamente il non potere comunicare ad ogni momento le mie osservazioni; è bensì vero che ho presso di me Tischbein, ma sia qual uomo, sia qual artista, egli è sopra carico di pensieri, ha cento persone che chiamano la sua attenzione. Egli vive di vita propria, non può prendere parte ad altra esistenza, essendo operosa di già, ed attiva abbastanza la sua.

Per dir vero il mondo non è altro che una semplice ruota, uniforme nella sua circonferenza, la quale però ci si confà in modo meraviglioso, imperocchè giriamo con essa, noi pure.

Mi è capitato propriamente quanto avevo pensato sempre, vale a dire, che in questa contrada soltanto, sarei riuscito a rendermi conto di molti fenomeni di natura di molte opinioni intricate e confuse. Raccolgo molto, e lo porterò meco, compreso amore di patria, e soddisfazione nel vivere in compagnia di pochi amici.

Le sorti del mio viaggio di Sicilia sono tuttora sospese.

Gli Dei ora vi arridono, ora le contrastano.

Chi potrà mai essere l’amico di cui mi si annuncia con tanta segretezza la venuta? Purchè almeno io non manchi incontrarlo, quando realmente io mi debba imbarcare per l’isola. [p. 234 modifica]

La fregata è ritornata da Palermo, e fra otto giorni deve ripartire a quella volta; intanto io non so ancora se prenderò imbarco su quella, ovvero se farò ritorno a Roma per la settimana santa. Non mi è capitato mai di vivere in tanta indecisione; in un istante una cosa da nulla, potrà fare traboccare la bilancia, nell’uno o nell’altro senso.

Ora mai mi so meglio adattare a vivere colle persone; basta pesarle colle bilancie del merciaiuolo, e non con quelle scrupolose dell’orafo, alle quali spesse volte pur troppo, ricorrono fra di loro anche amici, per capricci, ipocondri, ovvero per esigenza soverchia.

Qui gli uomini non sanno guari nulla, gli uni degli altri; non fanno altro fuorchè correre tutto il giorno sù e giù per questo paradiso, senza guardarsi attorno, e quando la voragine infernale vicina comincia romoreggiare cupamente, allora ricorrono al sangue di S. Gennaro, come del resto il mondo tutto ricorre, o vorrebbe potere ricorrere al sangue, per difendersi contro la morte, e contro il diavolo.

La è cosa piacevole e salutare ad un tempo, lo aggirarsi in mezzo a questa folla sterminata, di persone sempre in moto, ed osservare come segua questa il suo corso, al pari di un fiume; ed intanto ognuno trova in tutta quella confusione la propria strada, raggiunge il suo scopo. In tanta agitazione, in mezzo a tante persone, io mi trovo solo e tranquillo, e tanto più lo sono, quanto maggiore si è il chiasso per istrada.

Penso molte volte a Rousseau, alle sue lamentazioni ipocondriache; però, comprendo benissimo come una natura cotanto eletta, abbia potuto sbagliare strada. Se io non prendessi tanta viva parte ai fenomeni di natura, se io non comprendessi come la confusione apparrente di cento osservazioni si possa districare, e porre in ordine, nella stessa guisa che l’agrimensore col trarre una sola linea verifica l’esatezza di molte misure, riterrei spesse volte essere pazzo io pure. [p. 235 modifica]


Napoli, il 18 marzo 1787.

Dopo avere tardato a lungo, non abbiamo dovuto differire più oltre a visitare Ercolano pure, ed a Portici la raccolta degli oggetti rinvenuti negli scavi. Quell’antica città, collocata ai piedi del Vesuvio, si trovava totalmente sepolta nella lava, la quale, accresciuta dalle eruzioni successive vi si era sollevata a tant’altezza, che attualmente gli edifici si trovano alla profondità di sessanta piedi sotto terra. La si scoprì trovando un pavimento in marmo nello scavare un pozzo. È da lamentare che gli scavi non siano stati eseguiti, in modo regolare, da minatori tedeschi; imperocchè, lavorando a caso, coll’avidità di fare scoperte, non vi ha dubbio, che molti oggetti preziosi dovettero andare dispersi. Si scende per mezzo di sessanta gradini in una cavità, dove si vede al chiarore delle fiaccole un teatro, il quale un tempo sorgeva all’aria libera, e colà vi narrano le scoperte ivi fatte.

Fummo benissimo accolti nel museo, grazie a buone raccomandazioni. È probabile però, che non ci fù permesso il prendere visione di taluni tra gli oggetti più rari, e forse per questo motivo abbiamo posta maggiore attenzione a quanto ci fu dato vedere, e c’ingolfammo tanto più nel passato, in cui tutti quegli oggetti servivano agli usi quotidiani, ovvero al diletto di coloro i quali li possedevano. Le case e le stanze, già cotanto piccole a Pompei, mi parvero quivi più ristrette ancora, e più ampie ad un tempo; più ristrette nell’imaginarmele ripiene di tanti oggetti rari e preziosi; più ampie, perchè quegli oggetti appunto non erano già oggetti volgari e di prima necessità, ma bensì prodotti d’arte squisita e graziosa, atti a rallegrare l’animo, non chè ad allargare le idee, più di quanto valesse a fare qualsiasi ampiezza di casa, e di stanze.

Vi si vede a cagion d’esempio uno stupendo secchio, con un bordo graziosissimo, e considerandolo più da vicino, si scorge che il bordo, diviso in due parti, si solleva [p. 236 modifica]in alto per modo, che quei due semicerchi riuniti, servono a foggia di manubrio, per reggere e trasportare il vaso. Le lampade sono ornate ad ogni lucignolo, di mascheroni, di rabeschi, in guisa che ogni fiamma porge un opera d’arte. Si scorgono fusti, ovvero piedi in bronzo, alti e sottili, destinati a reggere le lampade; quelle per contro, fra queste ultime, fatte per essere appese, sono ornate di figure graziose, di ogni forma atte a ricreare la vista, non appena la lampada si muova, od oscilli.

Nella speranza di potere tornare, visitammo rapidamente una stanza dopo l’altra, osservando quà e là, per quanto la strettezza del tempo il consentiva, tutto quello che ci pareva meglio addatto ad istrurre, ed a recare diletto.


Napoli, il 19 marzo 1787.

In questi ultimi giorni ho fatta una nuova relazione. Dopo chè in queste quattro settimane Tischbein mi fù compagno assiduo, e guida intelligente per apprezzare le bellezze di natura e d’arte, e dopochè fummo ieri ancora assieme a Portici, ci dovettimo persuadere entrambi che le sue mire artistiche, i passi ch’egli si trova costretto a fare in città, e presso alla corte, nella speranza di potersi creare una posizione a Napoli, non corrispondevano sempre a’ miei desideri, alle mie viste.

Bramoso però sempre di essermi utile, egli mi propose per compagno un giovane che avevo veduto già varie volte dacchè sono qui, e che mi era tosto andato a genio. Egli ha nome Kniep3, e dopo essersi trattenuto alcun tempo a Roma, si portò qui a Napoli, dove nella sua qualità di pittore di paesaggi, si trova nel suo vero elemento. Ne avevo udito parlare di già a Roma, quale di esperto di segnatore, se non chè gli si rimproverava di non essere guari assiduo al lavoro. Io l’ho già conosciuto abbastanza [p. 237 modifica]e crederei potere dare nome piuttosto d’indecisione a quel suo difetto, che mi riprometterei quasi di correggere, se dovessimo stare un certo tempo assieme. Questa lusinga mi è confermata dalle nostre prime relazioni, e quando la cosa mi riesca, saremo per certo ottimi amici, per il tempo che dovremo stare assieme.


Napoli, il 19 marzo.

Basta avere occhi, e camminare per istrada, si vedono dovunque quadri curiosi.

Al molo, uno dei quartieri più chiassosi della città, vidi ieri un pulcinella sopra un palco, il quale si stava disputando con una piccola scimmia, mentre dall’alto di un balcone li stava guardando una bella giovane, la quale contemporaneamente stava attendendo, per poco prezzo, gli avventori. A poca distanza dal palco del pulcinella, perorava un ciarlatano, vantando i pregi del suo cerotto per tutti i mali, alla folla d’imbecilli che si pigiavano per ascoltarlo; Gerardo Dow avrebbe potuto ricavare da quella scena il soggetto di un quadro, atto a ricreare suoi contemporanei, ed i posteri.

Oggi poi ricorreva la festa di S. Giuseppe, patrono dei friggitori, o frittaroli che sia, intendendo la parola nel senso il più ampio; e siccome l’arte di questi richiede di continuo fuoco vivo, ed olio bollente, ogni tormento per mezzo del fuoco entra nella competenza del santo; epperciò, fin di ieri sera le case, le botteghe dei frittaroli, erano ornate di quadri, di pitture, le quali rappresentavano il purgatorio, il giudizio universale, colle anime sottoposte alla pena delle fiamme. Ampie padelle stavano davanti alle porte, sopra focolari leggieri e portatili; un giovane porgeva il piatto dove stava la farina, un altro formava le fritelle, e le gittava nella padella dove bolliva l’olio, ed ivi un terzo giovane, muoveva con un asta in ferro le fritelle, le traeva fuori quando erano cotte a [p. 238 modifica]dovere, porgendole ad un quarto giovane, il quale le infilava in uno spiedo più leggiero, e le offeriva agli astanti. Questi due ultimi ragazzacci, avevano parrucche bionde voluminose, ricciute, e pretendevano raffigurare angeli. Compivano il gruppo altre figure d’individui, i quali porgevano vino ai lavoranti, bevevano per conto proprio, e gridavano a squarciagola, facendo gli elogi della loro merce; come del resto gridavano, schiamazzavano, cuochi ed angeli pure, in una parola tutti quanti. Il popolo si affollava attorno alle padelle, imperocchè in quella sera le fritelle si vendono a minor prezzo, ed anzi una parte n’è riservata per i poveri.

Si potrebbero narrare fatti infiniti di questa specie; ogni giorno si scorge qualche novità, qualche altra pazzia, non fossero altre che la varietà negli abbigliamenti delle persone che s’incontrano per le strade, che la folla, la quale formicola nella sola strada di Toledo.

Molte altre cose originali ancora si possono osservare, trattando con il popolo; desso è dotato di tanta naturalezza, che non si potrebbe fare a meno di accostarvisi, vivendo seco lui. Tale si è a cagion d’esempio il Pulcinella, la vera maschera locale, la quale corrisponde all’arlecchino di Bergamo, all’Hanswurst del Tirolo. Pulcinella è una specie di ribaldo, linguacciuto, non curante, pacato fino ad un certo grado, indifferente, poco meno che corrotto, ma però sempre frizzante e spiritoso; e tale lo si trova sempre, in tutte le parti che sostiene, e tali sono pure dovunque i garzoni di bettola, di locanda. Oggi il nostro mi ha fatto ridere di cuore. Non si trattava d’altro che di andarmi a fare acquisto di carta, e di penne; ma fra il suo non comprendere, il suo temporeggiare, il il suo buon volere, e la sua malizia, era nata una scena la più graziosa e la più ridicola, che si sarebbe potuto produrre con esito felice, sù qualsiasi teatro.


Napoli, martedì 20 marzo 1787.

L’annuncio di una recente eruzione di lava, la quale [p. 239 modifica]invisibile da Napoli scendeva verso Ottaiano, m’indusse a portarmi una terza volta al Vesuvio, ed appena giunto ai piedi del monte, e sceso dal mio legnetto a due ruote, tirato da un cavallo solo, mi si presentarono tosto quelle due guide, che mi avevano accompagnato nella mia precedente ascensione con Tischbein. Li presi entrambi, l’uno per abitudine e per riconoscenza, l’altro per la fiducia che riponevo in lui, ed entrambi poi, per maggiore mio comodo.

Giunti in alto, uno dei due rimase a custodia dei bagagli e dei viveri; il più giovane mi seguì, e ci avviammo corraggiosamente in direzione di un fumo denso, il quale sboccava dal monte, al basso del cono, dove si apre il cratére; scendemmo quindi alquanto sul fianco della pendice, finchè finalmente, vedemmo a cielo aperto sboccare la lava da quei cupi vortici, di denso fumo.

Per quanto si sia udito parlare le mille volte di una cosa, la vista immediata di quella, vale sempre meglio a farla comprendere, a darne idea, che qualsiasi discorso. Il torrente di lava era ristretto, non guari più largo forse, di dieci piedi; il modo però col quale correva lentamente, formando una superficie abbastanza piana ed uguale; era degno di essere osservato, imperocchè nel mentre seguendo il suo corso si va raffredando sui lati ed alla superficie, forma una specie di canale, il quale si va di continuo rialzando per la materia fusa, la quale corre al dissotto, e che rigetta scorie alla superficie a diritta ed a sinistra, in guisa che formano queste quasi due argini, fra cui il fiume di fuoco continua la sua strada, nè più nè meno, che il canale di un molino. Camminammo in cima ad uno di quegli argini, e le scorie rotolavano giù per i fianchi di quello sotto ai nostri piedi, e da alcuni vani del canale, potemmo osservare d’alto in basso il corso della lava al dissotto della crosta già quasi solidificata, del torrente infuocato.

Il sole era limpidissimo, e menomava lo splendore del fuoco, e poco fumo leggiero, si sollevava nell’atmosfera [p. 240 modifica]purissima, Avevo desiderio di accostarmi al punto dove la lava sbocca, dal monte; colà, mi accertava la mia guida formarsi una specie di volta, o di tetto, su cui egli era stato già di soventi. Per osservare questo particolare pure, risalimmo il monte, onde potere arrivare da tergo a quel punto. Per buona sorte, grazie ad un forte colpo di vento, trovammo quella località abbastanza sgombra dal fumo, non però totalmente, imperocchè quello usciva tuttora attorno a noi da innumerevoli fessure, e ci trovavamo propriamente su quella specie di volta o di tetto di lava raffreddata, il quale però si stendeva troppo in avanti, per permetterci di vedere la lava infuocata sboccare dal monte.

Provammo ad inoltrarci ancora un dodici passi, ma il suolo era sempre più ardente, soffrivamo di difficoltà di respiro, di capogiri. La mia guida fù la prima a volgersi addietro, e mi trascinò seco, fuori di quell’atmosfera d’inferno.

Dopo esserci riconfortato alquanto il palato e lo stomaco, con alcuni sorsi di vino, e di avere osservato alquanto il colpo d’occhio generale, girammo ancora alcun poco quà e là, per osservare varie particolarità del picco indemoniato, che sorge in questo paradiso. Mi colpirono alcune cavità, le quali a foggia di camini non tramandavano già fumo, ma bensì aria infuocata. Osservai che quelle cavità erano rivestite tutte di specie di stalattiti, a forme convesse, quasi di altrettante mammelle. Stante la disuguaglianza di quei camini volcanici, molte di quelle stalattiti si trovavano a nostra portata, e si sarebbero potuto staccare facilmente con un ascia, ed anche semplicemente con il nostro bastone. Avevo osservato di già prodotti di quella specie presso i fabbricanti di oggetti in lava, i quali li designavano col nome generico di lava, e fui lieto di scoprire essere quella, caligine volcanica per così dire, la quale, indipendentemente dal deposito dei vapori infuocati, contiene del pari sostanze minerali volatilizzate.

Nel mio ritorno mi recarono sollievo e riposo un magnifico tramonto, ed una sera stupenda; però sentivo, [p. 241 modifica]quasi vaneggiando, la grandezza del contrasto a cui mi trovavo in presenza. Il bello qui si trova accanto all’orribile; l’orribile accanto al bello; e tanto l’uno quanto l’altro, eccitano l’imaginazione, esercitano un fascino, e per certo che i Napoletani sarebbero popolo diverso, se non si trovassero cacciati a questo modo, fra Iddio e Satana.


Napoli, il 22 marzo 1787.

Se io non fossi spinto dall’indole tedesca, e dal desiderio di apprendere piuttosto e di operare, anzichè di godere, io mi tratterrei alcun tempo ancora in questo suolo, del vivere facile e piacevole, e cercherei trarne profitto. Dovrebbe pur essere un gran piacere lo stare qui, quando vi si possedesse una casa alquanto confortevole, e vi si potesse ordinare il proprio tenore di vita. Non si potrebbero mai lodare abbastanza la posizione della città, la mitezza del clima, se non chè, queste due cose sono pressochè le sole, le quali siano a disposizione dei forastieri.

Per dir vero chi abbia tempo, danaro, e sappia spenderli bene, può fare qui bella e buona vita. Hamilton, a cagione di esempio, seppe procurarsi un’esistenza piace vole, e se la gode, ora che la sua vita volge al tramonto. Il suo quartiere, che dispose ed arredò alla foggia d’Inghilterra, è graziosissimo, e la vista specialmente che gode da una camera di angolo, è forse unica al mondo. Vede il mare, in lontananza Capri, a destra Posilippo, più vicino la passeggiata della Villa reale; a sinistra un antico convento di gesuiti, e più lontano la riviera, da Sorrento al Capo Minerva. Credo sarebbe difficile rinvenire in Europa altra vista uguale, per lo meno al centro di città vasta e popolata.

Hamilton è uomo dotato di gusto squisito, e dopo avere vagato in tutti i regni del creato, ha finito per rinvenire il capo d’opera della creazione, in una bellissima giovane.

Intanto, in mezzo a tutti questi piaceri, le sirene mi allettano a portarmi al di là del mare, e se il vento vorrà [p. 242 modifica]soffiare propizio, partirò contemporaneamente a questa mia, dessa verso tramontana, ed io verso mezzodì. Lo spirito dell’uomo è indipendente, ed io, nel mio particolare, ho d’uopo di ampio spazio. Per il momento non devo tanto badare ad internarmi nelle cose, quanto a formarmene rapidamente un idea. Quando mi riesca vedere un oggetto, come si suol dire, per la punta delle dita, posso facilmente, coll’ascoltare e col riflettere, rappresentarmi la mano tutta quanta.

È strano come in questi giorni un amico sia venuto ricordarmi Wilhelm Meister, e mi abbia richiesto di continuarlo; la cosa non sarebbe però possibile sotto questo cielo; è però probabile che l’ultimo libro rivelerà traccia dell’influenza di quest’atmosfera. Potesse solo la mia esistenza svolgersi in modo, che i fusti crescessero in forza ed in altezza, da produrre fuori più copiosi, e più vaghi. Per dir vero sarebbe meglio addirittura che io non tornassi più costà, quando non vi dovessi tornare trasformato.


Napoli, il 22 marzo.

Oggi abbiamo visto un quadro del Correggio, che si vuole vendere. Per dir vero non è troppo ben conservato, ma però porta in modo evidente l’impronta autentica, di quel pennello felicissimo. Rappresenta la Madonna ed il Bambino, e quest’ultimo nell’atto che esita fra il seno della madre, ed alcune pere che gli sono offerte da un angioletto. Si potrebbe dire il Cristo divezzato. L’idea mi parve felice. La composizione è piena di grazia, di naturalezza, e trattata poi in modo stupendo. Quella tela mi ricordò lo sposalizio di S. Caterina, e non esiterei a dichiarare essere opera del Correggio.


Napoli, venerdì 25 marzo 1787.

Le mie relazioni con Kniep si sono stabilite, e rafforzate in modo soddisfacentissimo. Siamo stati assieme a Pesto, e sia nell’andata che nel ritorno, egli ha disegnato [p. 243 modifica]molto. I primi passi sono fatti, ed ora egli si compiace di questa vita attiva, laboriosa, la quale giova allo sviluppo di un talento, a cui egli stesso non prestava guari fede. Non si tratta più per lui che di perseverare, dacchè per certo non gli fanno difetto nè la precisione, nè l’abilità. Prima di accingersi a disegnare, egli non trascura mai di tracciare sulla carta un rettangolo, a modo di cornice; di temperare accuratamente i migliori lapis inglesi che abbia potuto trovare, di ritoccarli di continuo, provando in questi accessori quasi altrettanto piacere che nel disegnare; ma vuolsi pur dire, che suoi disegni corrispondano, a tutto quello che si possa desiderare.

Abbiamo stabiliti fra noi i patti seguenti. D’oggi in poi faremo vita, e viaggeremo assieme, senza ch’egli abbia a pensare ad altro, fuorchè a disegnare; siccome ha fatto in questi giorni. Tutti i disegni rimarranno mia proprietà, ed affinchè dopo il nostro ritorno egli abbia pure un certo profitto ed una spinta a lavorare, dovrà dipingere per una somma prestabilita per me, un certo numero dei disegni eseguiti, e questi a mia scelta; intanto si vedrà quale sia la sua perizia, la sua attitudine, nel prendere le viste dal punto migliore. Io sono soddisfattissimo di queste intelligenze passate fra noi, e ciò premesso, voglio darvi conto in breve della nostra gita.

Seduti entrambi in un legno leggerissimo, a due ruote, guidando noi a perfetta vicenda il cavallo, con un bravo ragazzo che ci stava alle spalle, correvamo a traverso quella contrada stupenda, che Kniep stava ammirando coll’occhio intelligente del paesista. Intanto arrivammo al piede dei monti, che colle loro roccie e colle loro selve bellissime si succedevano agli uni agli altri al nostro sguardo, mentre percorrevamo la strada piana e liscia. Giunti in vicinanza alla Cava, dove sorgeva davanti ai nostri occhi un monte bellissimo, che si profilava sull’azzurro del cielo, Kniep non si potè trattenere dal prenderne uno schizzo, il quale riuscì stupendamente; e ce ne rallegrammo entrambi, quasi di felice presagio del patto che avevamo stretto assieme. [p. 244 modifica]

Alla sera fù presa parimenti da una finestra di Salerno una vista, la quale mi può dispensare da qualunque descrizione ulteriore, di quella contrada piacevolissima, e fertile. Chi non avrebbe studiato volontieri in quella località, all’epoca in cui trovavasi in fiore la sua famosa scuola? Di buon mattino ci avviammo a traverso di una regione incolta e paludosa, verso due monti di forme bellissime, e giunti ad un torrente, vi potemmo scorgere buffali dall’aspetto selvaggio, cogli occhi infuocati.

La contrada sempre piana, diventava ognora più deserta, e la poca frequenza di abitazioni, spiegava come fosse per la massima parte incolta. Finalmente, incerti di sapere se camminavano fra roccie ovveto fra rovine, potemmo scorgere distintamente alcune moli grandiose, di forma quadrata, che ci erano apparse di già in distanza, e che riconoscemmo essere rovine di templi, di monumenti, di città, un tempo splendidissime. Kniep il quale lungo la strada aveva preso già uno schizzo di due monti, cercò tosto un punto di vista, dal quale potesse rappresentare sotto l’aspetto il meno sfavorevole, quella contrada tutt’altro che pittorica.

Intanto io mi feci introdurre da un contadino nell’interno di quegli edifici, e la mia prima impressione non potè essere altra, che di profondo stupore. Imperocchè, nella stessa guisa che i secoli da gravi e severi si trasformano in leggeri ed ameni, così pure avviene agli uomini, i quali nascono d’indole diversa. Ora gli occhi nostri assuefatti e portati pur anche da tutto il nostro tenore di vita, ad architettura di forme leggiere e svelte, non possono a meno di considerare quali tozze, pesanti, schiacciate, direi terribili, quelle colonne le quali sorgono in tanta vicinanza le une alle altre. Però non tardai a riavermi dalla mia sorpresa; ricordai la storia dell’arte, pensai ai tempi a cui corrispondeva il carattere di quell’architettura; mi rappresentai lo stile severo della plastica, ed in meno di un ora, non solo riacquistai la mia libertà di osservazione, ma mi trovai in grado di ringraziare il [p. 245 modifica]mio buon genio, di avere potuto vedere con i miei propri occhi quelle rovine così ben conservate, di cui nessun disegno, od incisione vale a dare idea esatta e precisa. Difatti, disegnate architettonicamente, appaiono più svelte; disegnate in prospettiva sembrano più tozze, e soltanto coll’osservarle da vicino, col girare in mezzo a quei ruderi, è possibile comprenderne il vero carattere, indagare quale sia stato il pensiero dell’architetto, quale lo scopo che si proponeva. Passai per tal guisa tutta la giornata, mentre Kniep attendeva assiduamente a suoi disegni; ed io mi rallegravo di non avere più a pensare a quel particolare, e di essere sicuro di portar meco ricordi ben migliori, di quelli che sarei stato capace eseguire io stesso. Disgraziatamente non vi era mezzo di passare colà la notte; ci fù forza ritornare a Salerno, di dove il mattino seguente ripartimmo per Napoli. Vedemmo da tergo il Vesuvio sorgere in una contrada fertilissima, e sul davanti la strada fiancheggiata da pioppi colossali, quadro graziosissimo, che sostammo alcun poco ad ammirare.

Giunti sulla vetta di una collina, ci si offrì allo sguardo una vista propriamente meravigliosa. Napoli in tutta la sua magnificenza; le case di questo le quali si stendevano per la lunghezza di parecchie miglia sulla riviera del golfo; i promontori, le lingue di terra, le rupi; e finalmente le isole, ed al di là di queste il mare, nella sua splendidezza ed immensità.

Tutto ad un tratto fui disturbato, e quasi spaventato da una voce orribile, o per dir meglio da un urlo ovvero grido di gioia, del ragazzo che stava dietro il nostro veicolo. Mi volsi con impeto verso di lui, che era buonissimo giovane, al quale non avevamo avuta occasione ancora di fare un rimprovero.

Tacque per un istante, quindi mi battè leggermente sulla spalla, e stendendo il suo braccio destro fra noi, coll’indice teso in direzione della città, disse «Signore perdonate; questa è la mia patria!» Con queste parole mi recò sorpresa una seconda volta, ed a me, povero [p. 246 modifica]abitante delle regioni nordiche, vennero quasi le lagrime agli occhi.


Napoli, il 25 marzo 1787.

Giorno dell’Annunciata.

Tuttochè Kniep mi avesse accertato che veniva volontieri meco in Sicilia, non tardai ad accorgermi che in certo modo gli spiaceva lasciare Napoli, e sincero quale egli è per natura, non tardò guari a confessare, ch’era qui trattenuto da un amoruccio. Mi divertì abbastanza, udire come avesse conosciuto quella giovane; quale fosse il contegno di lei; in quali relazioni si trovassero attualmente, ed egli finì per volere che io ne facessi la conoscenza, che potessi giudicare quanto la sua innamorata fosse graziosa. Fu stabilito a questo fine un appuntamento, e vi guadagnai di potere vedere ed ammirare una delle più belle viste di Napoli. Mi portò sul terrazzo di una casa, di dove si vedeva la parte bassa specialmente della città, in direzione del molo, del golfo, della costa di Sorrento. Tutta la parte poi dell’abitato la quale si stende a diritta, si trasformava da quel punto in modo strano, che non si sarebbe potuto imaginare senza averlo visto. Napoli è bella, anzi stupenda da ogni punto.

Mentre stavamo ammirando quello spettacolo meraviglioso, spuntò improvvisamente, tuttochè aspettata, una graziosa testolina dal suolo; imperocchè si arriva su quei terrazzi per mezzo di una ripida scala interna, e di una apertura di forma rettangolare nel pavimento, la quale si chiude con una porta orizzontale, che si abbassa nello scendere. E quando da quell’apertura venne fuori tutta la persona di quell’angioletto, mi sovvenne che gli antichi pittori nel dipingere l’Annunciata, rappresentano spesse volte l’angelo nell’atto di venire sù per una scala, e l’angioletto, che in quel momento mi compariva davanti, era per dir vero di forme bellissime, di aspetto grazioso, di contegno naturale, ingenuo, e mi rallegrai francamente [p. 247 modifica]nel vedere il mio novello amico cotanto felice, sotto il più bel cielo, ed in vista della più amena contrada. Egli mi confessò, dopo che la giovane si fù di bel nuovo ritirata, che per amore appunto di quella, si era sottoposto a ben molte privazioni; ma che sicuro qual era oramai, dell’amore di lei, non che della moderazione de’ suoi desideri, si allietava di potere col migliorare le proprie condizioni, procacciare all’amata donna, giorni più felici a sua volta.


Napoli, 25 marzo.

Dopo quella visita piacevole, passeggiai sulla spiaggia del mare; il tempo era bello e tranquillo, ed ivi mi venne un idea felice relativamente alla botanica. Vi prego voler dire ad Herder, che quanto prima verrò in chiaro circa la pianta originaria, se non che io temo che nessuno vorrà riconoscere le altre specie tutte, derivate da quella. La mia famosa dottrina intorno al Cotiledone, è diventato cotanto sublime, che oramai sarebbe difficile il poterla spingere più oltre.


Napoli, il 26 marzo 1787.

Domani questa mia partirà a codesta volta, e giovedì 29 finalmente partirò io pure per Palermo, sulla corvetta, che nella mia ignoranza di cose di mare, ho sollevata alla importanza di fregata, nelle mie lettere precedenti.

L’incertezza se io dovessi o no partire, funestava in qualche modo il mio soggiorno qui; ora, dacchè sono deciso, mi trovo più soddisfatto. Questo viaggio è giovevole, anzi necessario per il mio modo di pensare. La Sicilia non potrà a meno di aprirmi le vie dell’Africa, e dell’Asia, ed il fatto solo, di trovarsi su quel punto meraviglioso, dal quale si diramarono cotanti raggi nella storia universale, non è cosa di poca importanza.

A Napoli ho finito per vivere io pure alla foggia del paese; ero tutt’altro che operoso; però ho viste molte [p. 248 modifica]cose, e mi sono fatta un idea generale della contrada, de’ suoi abitanti, delle loro condizioni. Al mio ritorno voglio rivedere molte cose, o per dir meglio quelle che io potrò, imperocchè il 29 giugno voglio essere a Roma. Non ho vedute le funzioni della settimana santa, e voglio vedere almeno la festa di S. Pietro; il mio viaggio in Sicilia non deve poi farmi scostare del tutto da miei disegni precedenti.

Ieri l’altro abbiamo avuto un forte temporale, con lampi e tuoni, ed acqua a rovescio; oggi fa di nuovo bel tempo, soffia poi vento fresco di tramontana, e se vorrà continuare avremo traversata, buona e rapida.

Ieri sono stato con il mio compagno a visitare il nostro legno, ed a prendere cognizione dei camerini, che ci saranno destinati. Non avevo finora veruna idea di un viaggio di mare; questa piccola traversata, un’escursione forse sulle coste dell’isola, verranno in aiuto alla mia imaginazione, e mi allargheranno alquanto la cerchia del mondo. Il capitano è giovane disinvolto; la corvetta, costrutta in America, è di forme graziose, pulita, e buona veliera.

Qui la campagna comincia dovunque ad essere verde, in Sicilia la troverò più avvanzata ancora. Quando vi perverrà questa lettera, io sarò in viaggio per ritornare, ed avrò la Trinacria alle mie spalle. Tale si è l’uomo; il pensiero di continuo ora lo spinge in avanti, ora lo ritrae addietro; non sarò stato ancora colà, che sarò già di ritorno verso voi. Non mi vogliate però far colpa della confusione che regna in questa lettera; m’interrompono ad ogni istante, e farei pur meglio a deporre la penna.

Ho ricevuto in questo momento la visita di un marchese Berio, giovane che mi ha l’apparenza di possedere molta istruzione. Egli desiderava fare la conoscenza dell’autore del Werther. Del resto, è generale in questa città il desiderio di coltura, d’istruzione; purchè abbiano la sorte di trovare la retta via. Vorrei solo avere tempo [p. 249 modifica]per provarmi ad essere loro utile. Ma quattro settimane! Che cosa sono desse, poste a confronto di una lunga vita. Ed ora statemi bene. In questo viaggio imparerò sempre, se non altro, a viaggiare; ignoro se imparerò pure a vivere. Gli uomini, i quali posseggono questa scienza sono nel loro complesso troppo diversi da me, perchè io possa sollevare pretese a fare loro concorrenza.

State bene, e vogliatemi bene, quanto io ne voglio a voi.


Napoli, il 28 marzo 1787.

In questi giorni sono assorto nel pensiero dei bagagli, nel fare visite di congedo, nel pagare, nel correre quà e là; sono giornate perdute sterilmente.

Il principe di Waldeck poi, mi ha inquietato ancora di più, nell’atto che mi recai a prendere commiato da lui; voleva nientemeno che io al mio ritorno mi disponessi ad accompagnarlo in Grecia, e nella Dalmazia. Quando un uomo si è cacciato una volta nella società, si è mescolato a questa, non è più padrone di sè, se pure non corre rischio talvolta di dovere diventare pazzo. Sarei incapace di più scrivere, una sillaba sola.


Napoli, il 29 marzo 1787.

Da alcuni giorni il tempo era incerto, ma oggi, giorno stabilito per la partenza, è cotanto bello, che non si potrebbe desiderare di più. Soffia vento favorevole di tramontana, e l’atmosfera è di tale limpidezza, da non potersene dare idea con parole. Ed ora mando un addio di cuore, a tutti gli amici di Weimar, e di Gotha. Mi accompagni il vostro affetto, imperocchè potrebbe pure accadere che io ne avessi d’uopo. Questa notte sogno ancora una volta ai casi miei, quasi io non dovessi nè potessi scaricare altrove che presso voi altri, la mia barca di fagiani. Fosse ricco almeno, il carico di questa.


Note

  1. Denominato il mago del Nord, autore di opere di genere alquanto strano e sibillino. (Il Traduttore).
  2. Cultore appassionato delle arti e raccoglitore di antichità. Finì per sposare Emma Liona omiss Harte, conosciutissima per le sue relazioni colla regina Carolina di Napoli e con Nelson. Il Traduttore.
  3. Originario d’Hildesheim, pittore ad acquarello e valente disegnatore, passò tutta la sua vita a Napoli dove morì vecchio nel 1825. Il Traduttore.