Ricordi di viaggio in Italia nel 1786-87/Parte II/Sicilia

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Sicilia

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Parte II - Napoli Parte II - Napoli. Ad Herder

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SICILIA



In mare, giovedì 29 marzo.

Non soffiava più questa volta, come all’ultima partenza del postale un vento fresco, da tramontana e levante, ma pur troppo un vento contrario tiepido, da mezzodì e ponente, il peggiore di tutti; e ci toccò apprendere per propria esperienza, come il navigante si trovi in balìa de’ capricci del tempo, e dei venti. Passammo il mattino impazienti, parte sulla spiaggia, parte in un caffè; finalmente verso il mezzodì salimmo a bordo, e potemmo godere con un tempo stupendo, di una vista magnifica. La corvetta si trovava all’ancora, a poca distanza dal molo. Il sole era limpido, l’atmosfera vaporosa, e le coste di Sorrento comparivano di una bella tinta azzurrina. Napoli illuminato, pieno di vita, brillava di tutti i colori i più vivaci. Col cadere del sole il legno si cominciò a muovere, lentamente però, dal suo posto; se non chè il vento contrario ci spingeva verso Posilippo, ed oltre la punta di quello. Il legno continuò a camminare tutta la notte; costrutto in America era buon veliero, e fornito all’interno di parecchi camerini, e di vari comodi. La Società era allegra, e variata; vi erano, fra gli altri, cantanti e ballerini, scritturati per il teatro di Palermo.


Venerdì 30 marzo.

Allo spuntare del giorno ci trovammo fra Ischia e Capri, alla distanza di un miglio all’incirca da quest’ultima, ed un sole stupendo sorgeva dietro le alture di Capri, e del Capo Minerva. Kniep era intento a disegnare le viste dell’isole, delle coste, ed il cammino lento della nave tornava favorevole al suo lavoro. Proseguivamo il nostro viaggio con poco vento, debole. Verso le quattro [p. 251 modifica]scomparve ai nostri occhi il Vesuvio, mentre vedevamo tuttora Ischia ed il Capo Minerva, che perdemmo di vista verso sera. Il sole scese in mare circondato di nuvole, segnando una larga striscia della lunghezza di parecchie miglia, di una splendida tinta purpurea. Kniep volle disegnare pure questo fenomeno. Oramai non si scorgeva più terra, tutt’intorno all’orizzonte, non si vedeva più che mare; la notte era chiara, e splendeva bellissima la luna.

Pur troppo io non potei godere che per pochi istanti di quel bello spettacolo, essendo stato colto dal mal di mare. Dovetti scendere nel mio camerino, sdraiarmi sul letto, astenendomi da qualunque cibo e da qualunque bevanda, ad eccezione di poco pane bianco, e vino rosso, e me la passai ancora discretamente. Estraneo a tutto il mondo esteriore, ridotto all’unica occupazione di pensare, procurai assegnarmi un compito, per non lasciare vagare di troppo l’imaginazione. Di tutti i miei scritti non avevo portato meco in mare che i due primi atti del mio Tasso, dettati in prosa poetica. Quei due atti pressochè simili nei pensieri e nello svolgimento al dramma attuale, ma scritti un dieci anni prima, porgevano un non so chè di debole, di nebuloso, il quale non tardò a scomparire, quando badando più alla forma che alla sostanza, attesi a verseggiarli.


Sabbato 31 marzo.

Il sole uscì chiaro e limpido, dal mare. Verso le sette raggiungemmo una nave francese, la quale era partita due giorni prima di noi, la qual cosa ci provò, che il nostro legno era migliore veliero d’assai, ma intanto non ci accorgevamo ancora, di potere toccare al termine del nostro viaggio. Ci recò qualche conforto la vista dell’isola d’Ustica, che pur troppo ci fù forza lasciare alla nostra sinistra, allo stesso modo che avevamo dovuto prima lasciare Capri alla nostra destra. Intanto il mare era ingrossato, ed a bordo, tutti, più o meno soffrivano.

Io continuavo a starmene sdraiato, verseggiando per [p. 252 modifica]quanto potevo, il mio dramma. Le ore scorrevano le une dopo le altre, ed io non avrei segnato il loro corso, se quel malizioso di Kniep, sul cui appettito non avevano influenza di sorta le onde, nel recarmi il mio pane ed il mio vino, non mi avesse vantata la squisitezza del pranzo, la cortesia e l’allegria del capitano, il quale si doleva, non potessi io pure, far onore alla sua mensa. Nè contento di questo, scherzava pure Kniep sul mal di mare, e siccome tutti i passeggieri più o meno vi pagavano il loro tributo, non gli difettavano materia ed argomento a storielle graziose.

Verso le quattro del pomeriggio il capitano diede altra direzione alla corvetta. Fece ammainare di bel nuovo le vele maggiori, e drizzò la prora sull’isola d’Ustica, al di là della quale vedemmo con nostra grande soddisfazione spuntare all’orizzonte, i monti della Sicilia. Il vento pure si piegò a nostro favore; ci accostavamo alla Sicilia, scorgendo alcune altre piccole isole, mentre il sole scendeva in mare, velato dalle nebbie. Il vento si mantenne favorevole tutta la sera, se non che verso la mezzanotte cominciò il mare ad essere molto agitato.


Domenica 1 aprile.

Verso le tre del mattino imperversò la burrasca. Fra il sonno e la veglia, io continuavo a pensare al mio dramma, mentre sopra il mio capo, sul ponte, tutti erano in moto. Si dovettero ammainare tutte le vele, ed il legno era lanciato in alto, precipitato in basso, a vicenda dai marosi. Verso lo spuntare del giorno il tempo si calmò, l’atmosfera divenne più limpida, intanto avevamo lasciata l’isola di Ustica totalmente alla nostra sinistra. Ci fecero osservare in distanza una testuggine voluminosa, la quale stava nuotando, e diffatti con il canocchiale potemmo persuaderci, che quel piccolo punto nero era un essere animato. Verso il mezzodì potemmo vedere distintamente le coste della Sicilia, con i loro promontori, i loro golfi; ma il vento era diminuito di molto, e non potevamo far [p. 253 modifica]altro che bordeggiare, e sempre bordeggiare; dopo il mezzodì ci eravamo avvicinati alquanto alla costa occidentale, scorgendola distintamente dal Lilibeo al Capo Gallo, essendo limpidissima l’atmosfera, e splendido il sole.

Il nostro legno era preceduto da ambi i lati da un branco di delfini, ed era piacevolissimo il vederli ora cacciarsi sott’acqua, ora balzar fuori dalle onde, spiccando salti, e facendo brillare, alla luce del sole, le varie tinte della loro pelle.

Trovandoci affatto sotto vento, il capitano portò il legno in un seno precisamente a tergo di Capo Gallo, e Kniep non trascurò quell’occasione di disegnare alcuni bei punti di vista, che si offerivano al suo sguardo. Caduto il sole, il capitano riportò il legno in alto mare, dirigendolo verso tramontana e levante, per procurare di raggiungere l’altezza di Palermo. Mi arrischiai parecchie volte a salire sul ponte, senza perdere però di vista il mio compito poetico, e riuscendo a disimpegnarne buona parte. Il cielo era nuvoloso; splendeva però la luna, e quel contrasto di luce e di oscurità, faceva bellissimo effetto in mare. I pittori per produrre effetto ci lasciano spesse volte supporre, che il riflesso sull’acqua della luce del cielo, possegga piuttosto estensione, che intensità. Se non chè quivi si scorgeva il contrasto all’orizzonte, sotto forma di una piramide, la quale veniva a finire nelle onde, attorno al legno. Durante la notte il capitano variò ancora altre volte le sue manovre.


Lunedì 2 aprile alle 8 del mattino.

Siamo in vista di Palermo. Ho cominciata bene la giornata. Lasciai il mio dramma riposare al basso, nel ventre della balena, e trovandomi abbastanza bene potei salire sul ponte, per osservare attentamente le coste della Sicilia. Kniep continuò a disegnare, e colla sua abilità riuscì a fissare in parecchi fogli, i ricordi di questa remota contrada. [p. 254 modifica]


Palermo, lunedì 2 aprile 1787.

Finalmente dopo molti sforzi, siamo arrivati circa le tre del pomeriggio nel porto, dove ci si offrì una vista piacevolissima, e trovandomi pienamente ristabilito, ho potuto goderla a mio bello agio. La città giace in pianura, ai piedi di un monte, volta verso il mare a tramontana, ed era oggi illuminata da un sole limpidissimo; scorgevamo il profilo di tutti gli edifici, illuminati dal riflesso di quello. Sorgeva a destra il monte Pellegrino, di forma bellissima, ed a sinistra si stende in lontananza la spiaggia, con seni, capi, e promontori. Contribuivano poi molto ad abbellire il colpo d’occhio, le frondi verdeggianti di alberi graziosissimi, le cui cime illuminate da tergo, brillavano per le tinte cupe degli edifici, quasi a foggia di lucciole vegetali. La limpidezza dell’atmosfera, dava tinta azurrina a tutte le ombre.

A vece di provare impazienza di scendere a terra ci fermammo sul ponte in fino a tanto vennero cacciarci di là; dove mai avessimo potuto trovare punto di vista più favorevole?

Entrammo nella città per la porta meravigliosa formata da due immensi pilieri, i quali non sono chiusi in alto da arco, acciò vi possa passare senza incontrare ostacolo, il carro colossale, nell’occasione delle famose feste di S. Rosalia; e girando a sinistra, appena entrati, trovammo una locanda. L’albergatore, vecchietto di modi piacevoli, assuefatto ad accogliere forastieri di tutte le nazioni, ci portò in una vasta camera, dalla cui finestra si scorgevano il mare, la strada ed il monte di S. Rosalia, la spiaggia, e dalla quale potemmo vedere pure il legno, da cui eravamo scesi poco prima. Soddisfatti della bella vista che si godeva dalla nostra stanza, non osservammo neppure dapprima, che in fondo a quella si apriva un’alcova chiusa da cortine, dove stava un letto immenso, con un padiglione in seta, il quale corrispondeva pienamente al resto del mobiglio, ricco, e di forme antiche. Tutta quella [p. 255 modifica]splendidezza ci pose in un certo imbarazzo, e domandammo fare i nostri patti per il prezzo; ma il vecchietto ci rispose non esservi d’uopo di patti, o di condizioni; bastargli solo che il tutto fosse di nostra convenienza. Pose parimenti a nostra disposizione l’anticamera aderente alla nostra stanza, la quale era fresca, ariosa, con vari balconi.

Ci godemmo per tanto la vista bella e variata, cercando formarcene idea precisa dal lato pittorico, imperocchè poteva porgere argomento al pennello, ed alla matita di un artista.

La luna, la quale splendeva limpida, c’invitò a girare ancora alla sera per istrada, e tornati a casa, ci trattenne buona pezza sul balcone. La luce era meravigliosa; regnavano un silenzio, ed una quiete piacevolissimi.


Palermo, martedì 3 aprile 1787.

I nostri primi passi furono diretti a formarci un’idea generale della pianta della città, la quale è cosa facile, e malagevole ad un tempo; facile, in quantochè una strada lunghissima la percorrete tutta quanta dall’alto al basso, dal mare per la porta dove eravamo entrati verso i monti, ed inquantochè, verso la metà, questa strada è tagliata ad angolo retto da un altra via, e su queste linee è facile lo orizzontarsi; ma fuori di queste, la città porge un vero laberinto intricato di strade, e stradicciuole, per entro al quale un forastiero non si può raccapezzare, senza il soccorso di una guida.

Verso sera fissò la nostra attenzione il corso delle carozze, ossia la solita passeggiata delle persone distinte, le quali escono di città in carrozza, per godersi il fresco, trattenersi all’aperto, ed all’occorrenza corteggiarsi a vicenda.

Due ore prima che sottentrasse la notte, la luna splendeva nel suo pieno, e la sera era propriamente stupenda. La posizione di Palermo, che guarda settentrione, fa si, [p. 256 modifica]che la città e la spiaggia non sono mai rischiarate da luce soverchia, e che non si scorge nell’onde il riflesso di quella del cielo; ed oggi difatti, tuttochè la giornata fosse chiarissima, il mare presentava una tinta azurrina scura, di aspetto serio, mentre a Napoli, cominciando dalle ore del mezzo giorno, è sempre di aspetto più gaio e più piacevole, per quanto si stende la vista.

Kniep mi aveva lasciato, già fin d’oggi, fare le mie escursioni e le mie osservazioni tutto solo, attendendo a prendere la vista del monte Pellegrino, il più bel promontorio del mondo.


Palermo, il 3 aprile 1787.

Voglio radunare ancora, alla buona, in questo foglio alcuni ricordi rimasti addietro.

Siamo partiti di Napoli giovedì 29 marzo sul tramonto, e dopo quattro giorni approdammo, verso le tre, nel porto di Palermo. Unisco alla presente un diario succinto, il quale vi farà conoscere in modo più particolareggiato, le nostre vicende. Non ho fatto mai viaggio più tranquillo; non ho mai goduto una quiete così perfetta, quanto in questa traversata, resa lenta dalla persistenza di vento contrario, anche nella prima giornata, che dovetti passare tutta quanta nel mio ristretto camerino sdraiato sul letto, a motivo del male di mare. Ora io penso di bel nuovo tranquillamente a voi altri, imperocchè se vi poteva essere per me avvenimento d’importanza, si era questo viaggio.

Chi non si sia visto circondato in ogni parte dal mare, non può dire di avere un idea precisa del mondo, e delle sue relazioni con questo; e nella qualità poi di pittore di paesaggio, quella linea grandiosa, semplice, mi rivelò un orizzonte del tutto nuovo.

Rileverete dal diario, che in questo breve viaggio abbiamo subite varie mutazioni di tempo, e provate in piccole proporzioni, le sorti comuni ai naviganti. Del resto [p. 257 modifica]non potrei lodare abbastanza la sicurezza, ed i comodi del nostro legno. Il capitano era capace, e persona propriamente di bei modi; la compagnia teatrale poi che si trovava a bordo, era composta di persone abbastanza educate, e piacevoli. L’artista mio compagno è uomo provato, di buon cuore, di umore allegro, e che disegna con una rara precisione: egli prese le viste di tutte le isole, di tutte le coste, e ne rimarrete soddisfatti, quando ve le potrò far vedere. Per abbreviarmi le lunghe ore della traversata egli mi ha spiegato il metodo pratico della pittura ad acquarello, la quale in oggi è coltivata con molto successo in Italia; mi ha spiegato vale a dire, come si debbano usare, mescolare certi colori, per produrre certe tinte, senza il cui segreto non si riuscirebbe a nulla di buono. Mi ero formata già bensì una qualche idea di quel genere di pittura a Roma, però molto superficiale, ed incompleta. Gli artisti l’hanno ridotta adattissima ad una contrada, quale si è l’Italia. Non saprei trovare parole per descrivere e riprodurre la limpidezza vaporosa dell’atmosfera di queste spiaggie, quando arrivammo a Palermo nel pomeriggio di una bellissima giornata, tanta era la purezza dei contorni, la morbidezza del tutto, la varietà delle tinte, la perfetta armonia fra cielo, terra, e mare. Chi lo ha visto una volta, non può a meno di ricordarlo per tutta la sua vita. Ora soltanto, posso dire di comprendere, e di essere capace di apprezzare, e nutro speranza di poterne portare meco il ricordo nel settentrione, l’aspetto magico di queste contrade. Valesse quello almeno a cancellare se non altro la meschinità delle idee de’ miei disegni di capanuccie, con il tetto di paglia. Vedremo che cosa sarà capace di produrre, questa regina delle isole.

Non posso esprimervi con parole l’accoglienza che ci ha preparata la natura, con piante di gelso rivestite di frondi recenti, con leandri sempre verdi, con siepi di agrumi, e via via. In un giardino pubblico ho visto varie aiuole di ranuncoli, e di anemoni. L’aria è mite, [p. 258 modifica]tiepida, odorosa; il vento è quasi caldo. La luna è sorta or ora, dietro un promontorio, ed illumina il mare; e tutte queste soddisfazioni, dopo essere stato cullato per quattro giorni, e per quattro notti, sulle onde! Scusatemi se vi scrivo queste cose alla diavola con una penna scellerata, che intingo nell’inchiostro della China, in una conchiglia, la quale servì ai disegni del mio compagno. Intanto, vi giunge quasi un susurro, che io stò preparando per tutti quanti mi amano, un altro ricordo di queste ore felicissime. Ma non vi voglio dire che cosa sarà, e non vi posso dire neanco quando sarete per riceverlo.


Palermo, martedì 3 aprile 1787.

Vorrei che questo foglio vi potesse far godere, miei cari, della vista della bellezza inarrivabile di questo golfo, partendo da levante, dove sporge in mare un promontorio piano, le cui pareti rocciose rivestite di boschi, e di belle forme, scendono fino ai sobborghi della città, dove stanno le case dei pescatori, ai quali tien dietro la città stessa; e le case all’estremità di questa, al pari della nostra locanda, hanno tutte quante la vista sul porto, fino alla porta la quale siamo entrati.

Di là proseguendo verso ponente si va al punto abituale di sbarco, dovo stanno i legni di minore portata, fino al molo, sul porto propriamente detto, dove approdano le navi di maggiore grandezza. Colà vicino, sorge a ponente, quasi per proteggere tutti quei legni, il monte Pellegrino di forme bellissime, separato da quella che si potrebbe nomare quasi la terra ferma, da una valletta amena e graziosa, la quale scende fino al mare.

Kniep disegnava; io me ne stavo fantasticando, entrambi con grande soddisfazione, e quando tornammo a casa lieti, non ci sentimmo più, nè l’uno nè l’altro la forza, nè la volontà di formare per il momento ulteriori disegni. Non abbiamo pertanto progettato nulla per ora, e questo foglio non deve valere ad altro, se non a farvi [p. 259 modifica]testimonianza della nostra incapacità di potere vedere tutto, o piuttosto della nostra mancanza di pretese di riuscire a tanto, sovra tutto in tanta ristrettezza di tempo.


Palermo, mercoldì 4 aprile 1787.

Nelle ore del pomeriggio abbiamo visitata la valle fertile ed amena, la quale scende a Palermo dai monti che sorgono a mezzodì della città, e lungo la quale corre il fiume Oreto; ed anche ivi, un occhio pittorico ed una mano abile, può trovare il soggetto di un bel paesaggio, e Kniep scelse un punto, in cui l’acqua, è trattenuta da una steccaia a metà rovinata, ombreggiata da un gruppo di piante, al di là delle quali la vista si stende sulla parte superiore della valle, e sovra alcune case campestri.

La giornata stupenda di primavera, la fertilità di quelle campagne, dava a tutta quella contrada un aspetto di quiete e di tranquillità, che mi veniva alterrato dalla erudizione di un malaugurato cicerone, il quale mi narrava i particolari di una battaglia data di Annibale, e di altri fatti da anni succeduti in quella località. Mandai al diavolo la sua evocazione di tutti quegli spettri del passato. È già troppo, che i campi e le messi debbano essere da quando a quando calpestate, rovinate, dagli uomini e dai cavalli, senza che sia d’uopo farvi intervenire ancora gli elefanti; ed è un vero delitto il turbare i piaceri tranquilli dell’imaginazione, con quei ricordi orribili.

Il mio cicerone stupiva che io non tenessi conto delle sue cognizioni classiche, ma io non gli potei nascondere, come non mi andasse per nulla a sangue quella mescolanza del passato e del presente. Ma fù ben maggiore la sorpresa della nostra molesta guida, allorquando mi vide intento a far ricerca ed a raccogliere sassolini di tutte le varie specie che potei trovare sugli spazi lasciati asciutti dalle acque, nel letto del fiume. Però io non gli potevo spiegar come non vi sia metodo più sicuro di formarsi prontamente un idea precisa della natura di una contrada [p. 260 modifica]montuosa, che quello di osservare i sassi e le pietre che si rinvengono nei corsi d’acqua i quali scendono dalle alture, e come anche in questa occasione, si cerchi rappresentarsi per mezzo di quelle reliquie, l’età classica del nostro globo.

La mia raccolta di sassi nel letto dell’Oreto fu abbastanza copiosa; radunai all’incirca un quaranta campioni, i quali però, per dir vero, si possono classificare in poche categorie. La maggior parte erano disapri, pietre cornee, e schisti argillosi di forme rotonde, altre di forme irregolari, ovvero anche romboidali, con grande varietà di colori. Trovai pure varie specie di antiche pietre calcari, non poche breccie collegate con calce, e formate di diaspri, ovvero di pietre calcari. Non mancavano neppure formazioni di conchiglie, collegate con calce.

I cavalli sono qui nudriti con orzo, paglia tagliata, e trifoglio; nella primavera loro si dà orzo fresco per rinfrescarli, come sogliono qui dire. Non essendovi praterie, non si falciano fieni. Sui monti vi sono alcuni pascoli, anche nei campi, i quali si lasciano riposare ogni tre anni. Mantengono poche pecore, di razze queste, originarie della Barberia, e mantengono parimenti più muli che cavalli, ai quali meno si confanno i prodotti di questo suolo caldo, ed asciutto.

La pianura dove giace Palermo, come pure i dintorni della città, che portano il nome collettivo ai Colli, e così pure parte della Bagheria, sono di natura rocciosa calcare e di là vennero estratti i materiali impiegati nella costruzione delle case; difatti scorgonsi tuttora aperte ed in attività, parecchie cave di quei sassi.

Nelle vicinanze del monte Pellegrino si coltivano queste in certi punti alla profondità di ben cinquanta piedi, egli strati inferiori, sono di tinta affatto bianca. Si trovano talvolta in quei sassi coralli, spoglie di animali, sovratutto poi conchiglie pietrificate. Per contro negli strati superiori, trovansi argille di tinta rossa, e difettano del tutto, o quanto meno scarseggiano, le conchiglie. Lo strato [p. 261 modifica]superficiale poi, è sempre di argilla rossiccia, di poca consistenza.

Il monte Pellegrino sorge in mezzo a quei terreni, costituito di roccie calcari di antica formazione, porose ed abbondanti di screpolature, le quali, tuttochè a primo aspetto appaiono irregolari, esaminate attentamente, si scorgono seguire la direzione, e l’ordine dei vari strati. Quelle roccie poi sono dure, e percosse, rendono un suono metallico.


Palermo, giovedì 5 aprile 1787.

Oggi impiegammo la giornata specialmente a girare la città. Lo stile architettonico delle costruzioni, ricorda per lo più quello di Napoli; però vi sono alcuni monumenti pubblici, per esempio fontane, i quali si potrebbero quasi dire di gusto puro. Non havvi qui, come a Roma, uno spirito artistico il quale dia norma ai lavori; gli edifici sorgono a caso, ed a capriccio. E difatti sarebbe stato difficile il costrurre una fontana la quale forma l’ammirazione delle popolazioni di tutta l’isola, se la Sicilia non fosse stata ricca di marmi bellissimi, di vari colori, e se non fosse stata a quell’epoca in favore uno scultore, abile sovratutto nel riprodurre le forme, e l’aspetto degli animali. Sarebbe difficile dare una descrizione di questa fontana. Sovra una piazza di mediocre ampiezza, sorge a poca altezza un edificio architettonico di forma circolare; il zoccolo, il basamento, e le cornici sono di marmo a colori; nel basamento trovasi praticata una serie di nicchie, dalle quali escono, tendendo il collo, figure di ogni specie di animali, in marmo bianco; vi si scorgono cavalli, leoni, camelli, elefanti, e non si riterebbe trovare nel centro di questo serraglio una fonte, alla quale si sale passando per vani, od interstizi lasciati nella serie circolare degli animali, salendo quattro gradini in marmo, per attingere l’acqua che cade in abbondanza nella vasca.

Si potrebbe dire ad un dipresso la stessa cosa delle [p. 262 modifica]chiese, dove la profusione degli ornamenti supera quella ancora dei gesuiti, ma non già a norma di un disegno prestabilito, bensì a caso, secondo il capriccio degli artisti, i quali vi vollero accumulare senz’ordine, senza gusto, tutto quanto si offriva alla loro fantasia, figure, ornati, marmi, pitture.

Non si può contrastare però una certa abilità nel riprodurre le cose naturali, ed a cagion d’esempio le teste degli animali nella fontana sono lavorate stupendamente; e si comprende come ciò basti ad eccitare l’ammirazione della folla, la quale non bada guari più in là della fedeltà delle copie, nel riprodurre gli originali.

Verso sera feci una conoscenza piacevole, mentre ero entrato nella bottega di un piccolo merciaiuolo su quella via lunga e diritta, per farvi acquisto di varie cosuccie. Mentre stavo sulla porta della bottega esaminando alcuni oggetti, si levò un colpo di vento, il quale, scendendo con impeto per la strada, sollevò un nembo di polvere che non tardò ad invadere le botteghe, a penetrare per tutte le aperture. «Santi del cielo, sclamai, ditemi perchè la città vostra è tenuta così sucida, e perchè non vi date pensiero di sorta di pulirla? Questa strada gareggia per lunghezza e per bellezza con il corso di Roma. Tutti i proprietari di botteghe e di magazzeni, tengono puliti i tratti dei marciapiedi che corrono ai due lati, e che fronteggiano i siti da essi occupati, ma si ristringono a cacciare il fango e le immondizie nel mezzo della strada, la quale diventa ogni giorno più sucida, e quando soffia il vento, vi ricaccia questo in casa tutte le sozzure, che avete accumulate colà. A Napoli si vedono ogni giorno asinelli, destinati a trasportare il fango e le spazzature negli orti, nei campi; non potreste voi pure, alla vostra volta, farne altrettanto?»

«Abbiamo sempre fatto così, mi rispose il merciaiuolo; intanto quello che cacciamo via di casa, si accumula davanti alla porta, e v’imputridisce. Osservate; potete vedere strati di paglia, di canne, di rimasugli di cucina di [p. 263 modifica]ogni specie, di sporcizie, tutto ciò secca, diventa arido, e ci si torna sotto forma di polvere. Dobbiamo vegliare tutto il giorno a difendercene. Guardate le nostre moltiplici scope, belle e graziose, occupate ed intente a torre via la lordura, soltanto davanti alle nostre case.»

Diffatti non diceva male. Posseggono scope graziose, formate di rami di palma, le quali con poche modificazioni potrebbero essere ridotte a prestare migliore servizio; ma quali sono, spazzano superficialmente, si logorano presto, e quelle logore vengono cacciate senz’altro in mezzo alla strada, dove si vedono a centinaia. Ed alla mia ripetuta domanda, se non vi fosse modo di portare riparo a quest’inconveniente, rispose il merciaiuolo che se ne parlava bensì, ma che coloro ai quali spetta provvedere alla pulizia della città, non si possono ridurre, per la grande influenza di cui godono, a far retto impiego del denaro pubblico; e che temevano che qualora si sgombrasse il suolo di tutta quella lordura, venisse a comparire lo stato miserando in cui si trovava il selciato, ed a risultare le malversazioni della loro disonesta amministrazione. Soggiunse ancora, scherzando, essere le male lingue, quelle che ciò dicevano; ed accostarsi egli per contro all’opinione di coloro, i quali sostenevano essere la nobiltà, quella che favoriva un tale stato di cose, perchè le carrozze, quando si portavano alla passeggiata alla sera, potessero camminare senza scosse, sopra un suolo ben soffice; ed il brav’uomo trovandosi oramai in vena, continuò a scherzare, intorno a vari altri abusi e difetti della pulizia edilizia, provandomi una volta di più, come gli uomini, siano sempre disposti più o meno, a porre in ridicolo i mali, ai quali non sanno, o non possono portare rimedio.


Palermo, il 6 aprile 1787.

S. Rosalia, patrona di Palermo, è tanto generalmente conosciuta per la descrizione che Brydone ha data delle [p. 264 modifica]sue feste, che io penso non saranno discari a’ miei amici alcuni cenni od alcune informazioni, intorno alla località nella quale è particolarmente venerata quella santa.

Il monte Pellegrino, rupe grandiosa, più ampia di base che elevata, sorge all’estremità fra settentrione e ponente, del golfo di Palermo. Non è possibile dare colla parola un’idea della bellezza delle sue forme, le quali sono riprodotte con esattezza in una incisione del Voyage pittoresque de la Sicile. Quel monte è formato di pietra calcare grigia, di epoca remotissima. Le sue roccie sono totalmente nude; non vi si scorgono nè piante, nè cespugli, e soltanto i tratti piani sono rivestiti in parte di erba, e di muschio.

Furono scoperte in una caverna di quel monte, in principio del secolo scorso le ossa della santa, le quali vennero portate in città, dove valsero a liberare questa dalla peste, e da quel momento S. Rosalia diventò la protettrice del popolo; le si dedicarono cappelle, e vennero instituite in suo onore feste solenni.

I divoti si portavano con frequenza in pellegrinaggio sul monte, e venne costrutta con ingente spesa una strada, sostenuta a guisa di acquedotto, da pilastri, da archi, la quale si sviluppa, e sale a forma di zig-zag, fra due rupi.

Il santuario corrisponde meglio all’umiltà della santa vergine, la quale colassù si ritirava, che non le splendide feste, e le pompe, colle quali si vollero onorare la sua santità, e la sua rinuncia al mondo. E forse il culto cristiano, il quale da diciotto secoli ha tolto a base del suo dominio, delle sue pompe, della splendidezza delle sue feste la condizione meschina e povera de’ suoi fondatori, e dei più zelanti fra suoi confessori, non possiede altro santuario, il quale sia stato ornato con tanta semplicità, ed in modo cotanto innocente.

Quando si è saliti in cima al monte, si trova l’angolo di una rupe, di fronte alla quale sorge a picco la parete di un altra rupe, ed ivi furono costrutte la chiesa, ed il convento o monastero, aderente a quella. [p. 265 modifica]

L’esteriore della chiesa promette poco, ma non appena si apre la porta, vi si presenta uno spettacolo inaspettato, e si prova una profonda sorpresa. Si trova un portico, ovvero un volto, il quale si apre nel senso della larghezza della chiesa, e che dà accesso alla navata di questa. Nel portico stanno i soliti acquasantini, non chè alcuni confessionali. La navata della chiesa trovasi scoperta, ed è formata alla parte diritta dalla parete grezza e rozza di uno scoglio, ed alla sinistra da muro, in continuazione di quello del portico d’ingresso. Il pavimento, formato di ampie lastre di pietra, trovasi alquanto in pendenza, per potere dare corso alle acque piovane, e quasi nel centro di quello, stà una piccola fontana.

La caverna poi, fù ridotta a coro, senza modificarla per nulla dalla sua rozza forma primitiva. Vi si accede salendo alcuni gradini, e vi si scorgono il leggio colossale destinato a sostenere i libri corali, e da ambi i lati, gli stalli dei monaci. Il tutto trovasi illuminato dalla luce che scende dall’alto della navata, e che entra dal portico; ed al centro del coro, al fondo, immerso quasi nell’oscurità, sorge l’altare maggiore.

Nessuna variazione, siccome abbiamo notato di già, fu introdotta nella caverna, se non chè, gocciolando l’acqua da ogni parte lungo le pareti, convenne provvedere a raccoglierle e radunarle, per tenere il luogo asciutto; e ciò si fece, per mezzo di canaletti di piombo, incastrati nei vani dello scoglio, e collegati fra di loro. E questi, essendo più larghi alla sommità, più ristretti alla base, e colorati di una tinta verdastra oscura, danno aspetto alla grotta di scogli, addossati ai quali fossero cresciute piante di cactus. Tutta l’acqua che si raccoglie è portata in una vasca, dove la vanno attingere i fedeli, i quali le attribuiscono virtù miracolose.

Mentre stavo esaminando tutti quei particolari, entrò un sacerdote, il quale mi domandò se per avventura io fossi Genovese, e se non volessi far celebrare qualche messa? Risposi, essere io venuto a Palermo con un [p. 266 modifica]genovese appunto, il quale intendeva salire all’indomani, giorno di festa sul monte, e che dovendo uno di noi due rimanere sempre a casa, io ero venuto sù oggi. Mi rispose che potevo visitare, contemplare ogni cosa a mio piacere, e compiere le mie devozioni. Mi additò quale degno di di maggiore venerazione un altare nella grotta, a sinistra, e mi lasciò solo.

Guardai per le aperture di una graticella in ottone, istoriata a fogliami; vidi lampade accese davanti all’altare, m’inginocchiai, avvicinandomi meglio all’inferiata, e guardando fra i vani della stessa. Internamente vi era un altra graticella più leggiera, formata di fili di ottone, in guisa che a traverso le maglie di quella si potevano discernere gli oggetti che stavano al di là della graticola, e viddi, alla luce pacata e tranquilla di alcune lampade, una figura bellissima di giovin donna.

Aveva aspetto quasi di essere rapita in estasi; gli occhi semichiusi; il capo alquanto inclinato; e la mano diritta che sporgeva in avanti, ornata di ben molte anella alle dita. Non mi potevo saziare di contemplare quella dolce figura, la quale mi pareva porgere un attrattiva tutta speciale. Era vestita con un abito in lamina di piombo indorato, il quale imitava stupendamente un ricco broccato in oro. Il capo e le mani erano in marmo bianco; non oserei, per dir vero, accertare fossero di stile il più puro, ma però erano eseguite quelle, ed il tutto con tanta naturalezza, che si sarebbe detto vedere respirare, e muoversi quella figura.

Sorgeva a fianco di quella un piccolo angiolo, il quale sembrava volerle fare aria e fresco, con un ramo di una pianta di giglio.

Intanto i sacerdoti erano venuti nella grotta, avevano preso posto sugli stalli, ed avevano cominciato a cantare i vespri.

Presi a mia volta posto sur un banco, di fronte all’altare, e stetti alcun poco seduto ad ascoltare le salmodie; quindi, alzandomi, m’inginocchiai davanti all’altare, per [p. 267 modifica]potere contemplare ancora a mio bell’agio la santa graziosissima, abbandonandomi a tutta quanta l’illusione della figura, e del luogo.

Il canto dei sacerdoti echeggiava nella grotta; le acque, mormorando, sgorgavano nel serbatorio vicinissimo all’altare, e le rupi del portico e della navata, formavano per così dire la cornice del quadro. Regnava un profondo silenzio in quel luogo solitario e deserto; e quella rozza grotta, splendeva di lindezza; a vece dello splendore della pompa del culto cattolico, in Sicilia specialmente, si accostava quivi alla semplicità dei tempi primitivi; l’illusione prodotta da quella figura di giovane seducente per un occhio pure esperto nell’arte, tutto contribuiva a trattenermi in quel luogo. Ebbi difficoltà a strapparmene, e non tornai a Palermo, che a notte inoltrata.


Palermo, sabbato 7 aprile 1787.

Ho passato oggi ore piacevolissime, e tranquillissime nel giardino pubblico, aderente propriamente alla rada. La è località meravigliosa. Tuttochè di forme regolari, porge un aspetto magico, e tuttochè piantato di recente, vi trasporta nei tempi antichi. Vi si scorgono piante esotiche, circondate da siepi verdeggianti, viali di aranci, di agrumi ripiegati a foggia di volta, pareti di leandri, tempestate dei fiori rossi di quelli. È un vero incanto per l’occhio.

Osservai rami di forma curiosa in piante che non conosco, e che sono tuttora spoglie da fronde, per essere probabilmente originarie di regioni più calde. Sedendo sopra un banco, in un punto elevato, si gode l’aspetto di tutta quella vegetazione nuova e curiosa, e lo sguardo finisce per cadere sopra un’ampia vasca, dove si agitano, si muovono pesci dalle squamme d’oro e d’argento, ora nascondendosi sotto le canne ricoperte di muschio, ora venendo fuori a frotte, quando loro si caccia una bricciola di pane. La tinta verde poi delle piante, è diversa di [p. 268 modifica]quella alla quale siamo avvezzi, volgendo qui talvolta al gialliccio, talvolta ancora all’azurrino. La cosa poi la quale fa maggiormente spiccare il tutto, si è l’atmosfera trasparente dalla quale si trovano circondati tutti quegli oggetti, in guisa che quelli pure i quali si trovano a poca distanza gli uni dagli altri, facilmente si distinguono, immersi tutti in una tinta generale azurrina, la quale in certo modo fa scomparire in parte il loro colore effettivo.

Non si può dire abbastanza, quale aspetto meraviglioso dia quell’atmosfera vaporosa agli oggetti più lontani, bastimenti, capi, promontori, di cui permette comprendere, misurare le distanze, in guisa che una passeggiata in queste alture deve riuscire piacevolissima. Non si direbbe di vedere più oggetti naturali, ma bensì un vero paesaggio, eseguito da un buon pittore.

L’impressione prodotta in me da quel giardino meraviglioso, fu profonda; le onde cupe del mare a settentrione, il loro frangersi sulle spiaggie dei vari seni, l’odore stesso delle acque salse, tutto mi richiamava alla memoria l’isola felice dei Feaci. Mi affrettai di andare fare acquisto di un Omero, rileggendo con vera voluttà quel canto, facendone quindi, a libro aperto, una traduzione a Kniep, il quale, seduto presso un buon bicchiere di vino, aveva tutto il diritto di rifocillarsi dopo l’intenso suo lavoro della giornata.


Palermo, l’8 aprile 1787.
Giorno della Pasqua. 

All’alba d’oggi cominciò il chiasso per festeggiare la risurrezione del Signore. Sparate, colpi di schioppo, mortaretti, romori di ogni specie davanti alle chiese, alle cui porte aperte a due battenti, si affollavano i fedeli. Campane, suoni d’organo, canti dei divoti, salmodie del clero, vi era propriamente di che far perdere la testa, a chi non è assuefatto a culto divino cotanto chiassoso.

Non era quasi ancora ultimata la prima messa, quando [p. 269 modifica]capitarono alla nostra locanda due staffieri del vicerè, nello scopo di augurare le buone feste a tutti i forastieri, e di ottenere una mancia, aggiungendovi nel mio particolare un invito a pranzo per oggi stesso, motivo per il quale la mancia dovette essere più generosa.

Dopo avere impiegato tutte le ore del mattino nel visitare le chiese, e nell’osservare le fisonomie ed i costumi della popolazione, mi portai al palazzo del vicerè, il quale sorge alla parte estrema della città, verso i monti. Essendo alquanto di buon ora, le ampie sale erano tuttora deserte, e non vi trovai che un omicino di aspetto allegro, e vivace, che non tardai ad accorgermi essere Maltese.

Allorquando egli seppe che io ero Tedesco, mi domandò se sarei stato in grado di dargli qualche notizia di Erfurth, dove disse essersi trattenuto alcun tempo molto piacevolmente. Potei rispondere alle domande che mi porse, intorno alla famiglia Dacherode, al coadiutore di Dalberg, del che si dimostrò tutto lieto, richiedendomi ancora altre notizie ed informazioni della Turingia. Ne domandò parimenti con viva premura di Weimar. «Che cosa vi fa, mi disse, un tale, che a’ miei tempi era giovane, pieno di brio, e che faceva colà il bel tempo e la pioggia? Non posso ricordare più ora il suo nome, ma egli era l’autore del Werther?»

Dopo essere stato alcuni pochi istanti silenzioso, quasi in atto di cercare a sovvenirmi gli risposi: «Quello ero io.» Ed egli, ritirandosi due passi indietro, colpito da profonda sorpresa, sclamò «Dovete pur essere cambiato molto!» «Certamente, risposi, fra Weimar e Palermo, sono stato pur sottoposto a molte mutazioni.»

In quel momento entrò il vicerè con il suo seguito, facendomi il primo accoglienza con quei modi distinti che si convengono a persona rivestita di carica cotanto eminente. Non si potè però astenere dal sorridere del Maltese, il quale non levava gli occhi dalla mia persona, e non rinveniva dalla sua sorpresa. Sedetti a tavola a fianco [p. 270 modifica]del vicerè, il quale mi tenne discorso intorno allo scopo de’ miei viaggi, assicurandomi avere impartito ordini, perchè mi si facesse vedere ogni cosa a Palermo, e mi fosse agevolato in ogni possibile maniera, il mio viaggio nell’interno dell’isola.


Palermo, lunedì 9 aprile 1787.

Oggi abbiamo spesa tutta quanta la giornata attorno alle stravaganze, per non dire peggio del principe di Palagonia; ed anche tutte quelle pazzie, viste da vicino, ci apparvero totalmente diverse dall’idea che ce n’eravamo formata dalle letture, e dai discorsi; imperocchè, chi vuol dar conto di cose assurde, mantenendosi fedele al culto della verità, si trova in imbarazzo; gli è forza, volendone dare un’idea, di fare qualcosa di quanto in sostanza è nulla, e pure vuole essere ritenuto per qualche cosa. Inoltre mi è d’uopo premettere ancora un altra osservazione generale; vale a dire che tanto il cattivo gusto, quanto quello squisito, non possono derivare totalmente, ed in modo immediato, da una persona ovvero da un epoca, e che piuttosto, considerati entrambi con attenzione, possono rivelare le tendenze dell’avvenire.

La fontana di Palermo, della quale vi ho fatta parola, può essere ritenuta quale antesignana delle pazzie del principe di Palagonia, se non chè acquistarono queste maggiore sviluppo, per avere avuto campo totalmente libero. Voglio tentare dimostrare in qual modo sia ciò avvenuto.

Le ville trovandosi in queste contrade per lo più nel centro di vasti latifondi, è d’uopo per arrivare all’abitazione signorile attraversare campi coltivati, orti, ed altri terreni produttivi; ed in questo particolare sono qui i ricchi più curiosi di quelli delle regioni settentrionali, dove spesse volte si riducono vaste estensioni di terre a parchi piantati di alberi infruttiferi, unicamente per ricreare la vista. Qui invece, nel mezzogiorno, s’innalzano due muri, [p. 271 modifica]fra quali si deve passare per arrivare al palazzo od alla villa che si voglia dire, senza potere scorgere che cosa vi sia a destra ed a sinistra al di là di quelle mura. Questa strada ha generalmente principio con una porta grandiosa, talvolta pure con un portico coperto a volta, e termina poi nella corte della villa o palazzo. Per evitare però che quella continuazione di muri colla sua uniformità rechi fastidio, sono quelli terminati ad archi nella parte superiore, col vortice verso terra, ornando i punti da dove partono gli archi di cartocci, di piedistalli, o quanto meno, quà e là, di vasi. I muri sono imbiancati, levigati, e ripartiti in vari campi. La corte del castello è per lo più di forma circolare, attorniata da case ad un piano solo, dove abitano i contadini, i giornalieri, e sovra le quali torreggia il castello, per lo più di forma quadrata.

A questo modo, in uso già da gran tempo, il padre del principe attuale aveva costrutto in villa il suo palazzo, non di buon gusto per certo, ma però ancora tollerabile. Ora l’attuale possessore, senza punto alterarne le disposizioni principali, diede libero campo alla sfrenatezza del suo pessimo gusto, e sarebbe fargli troppo onore, lo ammettere che possegga una scintilla sola, di vera immaginazione.

Varcato pertanto il portico grandioso che sorge ai confini appunto della proprietà, ci trovammo in un ampio ottagono. Quattro giganti enormi con uose abbottonate, di forma moderna, sorreggono la cornice, sulla quale, di fronte propriamente all’ingresso, si scorge l’imagine della santissima Trinità.

La strada che porta al castello è più ampia di quanto siano generalmente, ed i due muri laterali terminano in un alto zoccolo, su cui stanno piedestalli, guarniti di gruppi stranissimi, mentre l’interstizio fra un piedestallo e l’altro, trovasi ornato di parecchi vasi. L’aspetto orribile di tutte quelle figure strane, scolpite da artisti i più volgari, è reso più brutto ancora dalla qualità della [p. 272 modifica]pietra porosa, leggiera, specie di tufo, in cui sono eseguite; però si può dire che un materiale più fino, avrebbe fatta risultare più ancora, la bruttezza della forma. Ho parlato di gruppi; ma mi accorgo essermi sfuggita espressione impropria, la quale punto non corrisponde in questo caso alla realtà, imperocchè tutte queste figure non hanno veruna connessione fra loro; furono cacciate colassù senz’arte, senza riflessione, a mero capriccio. Ogni piedistallo sopporta tre figure, disposte in varie attitudini, ed in modo da occupare tutta quanta l’area quadrata, sulla quale sorgono. Per lo più due figure principali occupano la parte anteriore del piedistallo, e rappresentano per lo più mostri, sotto figura di uomini, o di animali. Per guarnire parte posteriore dei piedestalli, occorrevano ancora due altre figure, e queste rappresentano per lo più un pastore, ed una pastorella; un cavaliere ed una dama; una scimmia ed un cane che ballano. Rimaneva nei piedistalli spazio ancora libero, e questo trovasi occupato per lo più dalla figura di un nano, stirpe infelice, alla quale si ricorre spesso in quegli aborti, dovuti a sfrenatezza ed a corruzione d’imaginazione.

Varrà poi l’elenco seguente a dare un’idea completa della pazzia, che propriamente le si addice questa qualificazione, del principe di Palagonia. Fra le figure umane pezzenti uomini e donne, Spagnuole e Spagnuoli, Mori, Turchi, gobbi, storpi di ogni specie, nani, musicanti, pulcinella, soldati vestiti all’antica, imagini di divinità pagane, uomini vestiti alla foggia antica di Francia, soldati con uose e giberna, soggetti mitologici travestiti, Achilie e Chirone, con pulcinella. Fra gli animali cavalli con mani d’uomini, corpi umani con teste di cavallo, scimmie in piedi, dragoni, serpenti, zampe di ogni specie fuor di luogo, figure mostruose accoppiate, teste trasportate da un corpo all’altro. Tra i vasi ogni specie di mostri, di cartocci, ridotti a formare il corpo dei vasi, ovvero la base di questi.

Imaginatevi ora tutte queste figure, scolpite in modo [p. 273 modifica]grossolano, senz’arte, senz’intelligenza, cacciate colà alla rinfusa, senz’un pensiero, senz’un idea; imaginatevi quella lunga serie di figuracce, collocate sovra quei piedestalli, e vi sarà facile persuadervi della sensazione spiacevole, che non può a meno di provare chiunque, all’aspetto di quelle testimonianze di una vera pazzia.

Ci avvicinammo al castello, ed incontrammo una specie di cortile di forma semicircolare; il muro di fronte, in cui si apre la porta, presenta l’aspetto di fortificazione, ed ivi trovammo murata una figura egiziana, una fontana senza acqua, un monumento distrutto, e vasi e statue cacciate a terra. Entrammo nella corte del castello, che trovammo secondo il solito di forma semicircolare, attorniata di case basse, di vario aspetto.

Nella corte cresceva l’erba; ed ivi, quasi in un campo santo abbandonato, giacevano a terra basi in marmo di stile barocco, le quali risalivano ancora al tempo del padre del principe, statue di nani, ed altre figure di epoca più recente, le quali non avevano ancora potuto trovar posto dove essere collocate; quindi si passa davanti un pergolato, ornato di vasi antichi, e di sculture sempre di stile barocco.

L’apice però del cattivo gusto, si rivela nei cornicioni delle piccole case, i quali sono obliqui in un senso o nell’altro, confondendo ogni idea dello scolo delle acque, della linea perpendicolare, base della solidità e dell’euritmia. Ed anche quei cornicioni sono ornati d’idre, di teste di draghi, di piccoli busti, di figure di scimmie le quali suonano stromenti musicali, e di altre stramberie. Tra le teste dei dragoni stanno pure figure di divinità, e fra le altre quella di un Atlante, il quale, a vece del globo, sorregge un barile.

E quando per uscire fuori di tutte queste stramberie, si cerca rifugio nel palazzo, il quale edificato dal padre del principe, presenta un aspetto alcun chè più ragionevole, s’incontra a poca distanza dalla porta la testa coronata d’alloro di un imperatore romano, la quale sorge sul corpo di un nano, seduto sopra un delfino. [p. 274 modifica]

All’interno del castello poi, il quale dall’aspetto esteriore dava a sperare qualcosa di meno corrotto per gusto, tornò prendersi libero campo la fantasia sregolata e guasta del principe. Le sedie sono fatte in modo, da non permettere a veruno di adagiarvisi, ed il custode vi avverte di non lasciarvi sedurre dai cuscini di velluto, entro i quali stanno nascoste spille. Negli angoli si scorgono candelabri di porcellana chinese, i quali, considerati da vicino, si scorgono formati con tazze e sottocoppe. Non havvi il minimo spazio, dove non si abbia ad osservare una qualche stramberia. La stessa vista stupenda del capo vicino che s’inoltra nel mare, è adulterata da invetriate a colori, le quali danno al paesaggio tinte le più ingrate, ed impossibili. Si vedono poi ornati, le une accanto alle altre, dorature di ogni epoca, di ogni gusto, le quali danno propriamente alle pareti l’aspetto di una bottega da rigattiere.

Per dare poi una descrizione della cappella, converrebbe riempire un intero quaderno. Si osserva in quella il parossimo della pazzia di un cervello di pinzocchero. Potete da ciò comprendere, come si debbano trovare colà tutte quante le imagini mostruose, che sono il parto di una divozione inintelligente; però non voglio ommettere di farvi parola del meglio, cioè, che aderente alla volta della cappella, si scorge l’imagine scolpita di un Cristo sulla Croce, di discreta dimensione, dipinta a vivaci colori, alternati con dorature. Dall’ombilico poi del Salvatore in Croce, pende un intestino il quale termina in una catena infissa, questa all’altra estremità nel capo di una figura umana, la quale oscilla e si dondola nello spazio, e che, verniciata e dipinta al pari di tutte le altre imagini della cappella, aspira niente meno che ad essere il simbolo visibile della divozione costante del proprietario!

Del resto il palazzo non è ultimato; una vasta sala che il padre del principe attuale aveva cominciato ornare riccamente, ed abbastanza di buon gusto, è rimasta incompleta, ed in molte altre parti non ha potuto ancora [p. 275 modifica]trovare modo il figlio, di dare sfogo alle sue pazze invenzioni.

Kniep, indegnato da tutte quelle stramberie, le quali urtavano il suo senso artistico, si abbandonò, per la prima volta dacchè io lo conosco, ad atti d’impazienza; egli mi trasse via di là, mentre stavo esaminando nei loro particolari quei prodotti di una fantasia sregolata e corrotta, cercando di rendermene in qualche maniera conto. Egli si decise finalmente però a disegnare una di quelle tante figure, l’unica forse la quale potesse presentare un certo senso. Era la figura di una donna colla testa di cavallo, la quale stava seduta, giuocando alle carte, con un vecchio cavaliere, vestito all’antica, il quale portava una corona in cima ad una voluminosa parrucca, gruppo allusivo probabilmente allo stemma, stranissimo esso pure, del principe, il quale rappresenta un satiro, che tiene uno specchio davanti una donna, la quale ha testa di cavallo.


Palermo, martedì 10 aprile 1787.

Oggi, salendo il monte, siamo stati a Monreale. La strada, costrutta da un abate di quel monastero, ricchissimo un tempo, è stupenda, comodissima al salire, fiancheggiata quà e là da piante, e particolarmente da varie fonti, ornate nel gusto di quelle del principe di Palagonia, vale a dire quasi barocco ed a casaccio, ma che però porgono agio a rinfrescarsi agli uomini, ed agli animali.

Il monastero di S. Martino, il quale sorge sur un altura, si è edificio di bello aspetto. È raro che un solo celibatario possa fare qualcosa di ragionevole, e ne porge un esempio il principe di Palagonia; molti celibatari invece, riuniti assieme, produssero spesse volte opere ragguardevoli, e ne fanno testimonianza i conventi e le chiese. Le comunità religiose poi fecero più che tutte le altre, perchè più di qualunque altro padre di famiglia, furono certe di avere posterità smisurata.

I monaci ci fecero vedere le loro collezioni. [p. 276 modifica]Posseggono oggetti pregevoli di antichità, e di storia naturale. Ci andò sovratutto a genio una medaglia, la quale rappresenta la figura di una giovane Divinità. I buoni padri non avrebbero frapposta difficoltà a che ne cavassimo un impronta, se non che difettava colassù tutto quanto sarebbe stato necessario, per potere precedere a quell’operazione.

Dopo averci fatto vedere ogni cosa, non senza lamentare la differenze fra le loro condizioni attuali e quelle dei tempi trascorsi, ci portarono in un grazioso salotto, dal cui balcone si godeva una vista magnifica; trovammo ivi apparecchiata la tavola per entrambi, e ci fu servito un ottimo pranzo. Appena furono portate in tavola le frutta, entrò l’abate, accompagnato dal decano de’ suoi monaci, e si trattennero con noi una buona mezz’ora, indirizzandoci varie domande, alle quali procurammo dare risposta, nel modo che meglio valesse a soddisfarli. Ci separammo buonissimi amici. I monaci più giovani ci accompagnarono ancora una volta nella stanza dove stavano le collezioni, quindi alla carrozza, e tornammo a casa ben altrimenti soddisfatti che ieri. Oggi dovemmo lamentare bensì la decadenza di un istituto grandioso, mentre ieri dovemmo osservare in tutta la sua freschezza, il trionfo del gusto il più corrotto.

La strada da S. Martino scende fra monti di roccia calcare, la quale si fa cuocere, e la calce riesce bianchissima. Per alimentare le fornaci, si valgono di una specie di erba incolta, alta e dura, la quale si fa seccare, e si riduce a fascine. Fino sulle maggiori alture si scorge a fiore di terra argilla rossa, la quale forma il terriccio, e diventa tanto più rossa quanto più si sale in alto, e la vegetazione vi è più scarsa. Osservai in lontananza una caverna, rossa quasi, quanto cinabro. Il monastero poi sorge in mezzo a monti calcari, dove abbondano le sorgenti, ed i terreni attorno a quello, sono ben coltivati. [p. 277 modifica]


Palermo, mercoledì 11 aprile 1787.

Dopo avere ora visitati i due punti principali all’esterno della città, ci portammo al palazzo reale, dove uno staffiere affacendato, ci fece vedere tutte le stanze, e quanto in esse si contiene. Con nostro grave dispiacere trovammo in gran disordine la sala dove si conservano gli oggetti antichi, imperocchè si stava lavorando a rinnovarne la decorazione architettonica. Le statue erano state tolte dai loro piedistalli; si trovavano coperte da tele, nascoste dai ponti, in guisa che, ad onta di tutto il buon volere della nostra guida, e degli sforzi degli operai, non ne abbiamo potuto prendere idea, se non molto imperfetta. Mi stavano a cuore più di ogni altra cosa i due arieti in bronzo, i quali, veduti anche in quelle sfavorevoli condizioni, valgono a soddisfare grandemente il senso artistico. Sono rappresentati coricati, con una zampa stesa in avanti, e con il capo rivolto in diversa direzione per dovere stare l’uno di fronte all’altro. Sono due figure possenti della famiglia mitologica, degne di portare Friso ed Elle. La lana non è punto corta e crespa, ma lunga, liscia, che ricade lungo il corpo; ed il tutto, eseguito con grande verità ed eleganza, appartiene fuor di dubbio ai tempi migliori dell’arte greca. Vuolsi che quei due animali si trovassero nel porto di Siracusa.

Di là ci portò la nostra guida a visitare le catacombe al di fuori della città, le quali sono disposte in ordine architettonico, e non sono già cave di pietre abbandonate, e ridotte ad uso di sepolture. Scorgonsi volte, aperte nelle pareti verticali di un tufo abbastanza compatto, ed in quello si praticarono nicchie per le sepolture, scavate tutte nel vivo, senz’opera alcuna di muratura. Le nicchie più in alto sono più ristrette, e negli spazi sopra i pilastri, si praticarono le tombe per i ragazzi. [p. 278 modifica]


Palermo, giovedi 12 aprile 1787.

Oggi ci portarono a vedere la raccolta di medaglie del principe di Torremuzza, e per dir vero vi andai poco volontieri. Io non m’intendo gran fatto di questo ramo, ed un viaggiatore mosso puramente dalla curiosità, non può a meno di riuscire molesto ad un raccoglitore colto ed appassionato. Ma dal momento che facciamo questa vita, mi convenne piegarmi a quanto dessa oggi richiedeva, e ne ricavai non solo piacere, ma ancora qualche istruzione; imparando se non altro, come il mondo antico fosse popolato di città, fra le quali, anche le più piccole, lasciarono ricordo delle varie epoche della loro esistenza, se non in una serie di opere di arti, in monete preziose. Da quelle vetrine spira un’aura primaverile di fiori e di frutti dell’arte, la quale richiama al pensiero un’epoca splendida, scomparsa per sempre. La magnificenza, ora totalmente sparita, delle antiche città della Sicilia, risorge all’aspetto di quei dischi incisi di metallo, in tutta la sua freschezza primitiva.

Sgraziatamente nella nostra gioventù non abbiamo visto altro fuorchè le monete delle famiglie regnanti, le quali non dicono nulla, non che quelle degli imperatori, le quali ripetono a sazietà lo stesso profilo, imagini di regnanti, le quali non si possono considerare altrimenti, fuorchè quali tipi della razza umana. La Sicilia e la nuova Grecia, mi fanno sperare il risorgimento di tempi migliori.

Dal momento che io mi diffondo in considerazioni vaghe e generali su questo argomento, potrete dedurre, che finora io ne so propriamente poco; se non che, anche questo verrà, poco per volta, e con il tempo.


Palermo, giovedì 12 aprile 1787.

Questa sera vidi soddisfatto un mio desiderio, e per dir vero in modo abbastanza strano. Stavo sul marciapiede [p. 279 modifica]della strada maestra, davanti alla bottega di quel certo merciaiuolo di cui vi ho fatta già parola, scherzando seco lui; quando tutto ad un tratto mi passò davanti uno staffiere di alta statura, vestito con eleganza, il quale portava un piatto d’argento, su cui stavano molte piccole monete di rame, ed alcuni pezzi pure d’argento. Non sapendo che cosa volesse ciò significare, crollai il capo, ed alzai le spalle, come si suol fare quando uno si vuole liberare da una domanda, alla quale non si sa come, ovvero non si vuole dare risposta. Lo staffiere continuò la sua strada, ed osservai allora sul marciapiede di fronte, un suo compagno, intento allo stesso ufficio.

«Che cosa vuole ciò significare?» domandai al merciaiuolo, il quale, quasi nascondendosi, mi additò col gesto un signore di alta statura, magro, vestito con ricercatezza, il quale camminava con contegno grave nel centro della strada, ed in mezzo al fango. Aveva il capo ricciuto, colla cipria, teneva il cappello sotto il braccio, portava la spada al fianco, ed era vestito di seta con calze, scarpe, e fibbie guernite di brillanti. Era persona già attempata, e camminava serio nell’aspetto, senza darsi pensiero di tutti gli sguardi sopra di lui rivolti.

«Egli è il principe di Palagonia, mi disse il merciaiuolo, il quale, di quando in quando, percorre la città allo scopo di farvi la colletta per il riscatto degli schiavi, che stanno in Barberia. Per dir vero raccoglie poco danaro, ma ciò vale sempre a mantenere viva la memoria di quei poveretti, e spesse volte, coloro i quali ebbero a provare nella loro vita sorti uguali, legano morendo, somme ragguardevoli per il riscatto. Il principe di Palagonia trovasi da molti anni presidente dell’opera pia che mira a quello scopo, ed ha fatto molto bene.»

«Avrebbe dovuto impiegare a questo nobile fine il danaro che ha sprecato malamente nelle pazzie della sua villa, replicai io; nessun principe si potrebbe vantare, di avere fatto di più a tal fine.»

«Siamo pure fatti tutti così, replicò il merciaiuolo; [p. 280 modifica]sprechiamo volontieri il nostro danaro per mantenere le nostre pazzie; per praticare la virtù, lo domandiamo agli altri.»


Palermo, venerdì 13 aprile 1787.

Il conte Borck1 è stato il primo a dare un idea dei minerali della Sicilia, e coloro i quali visitano dopo di lui l’isola con quello scopo, debbono professargli vera gratitudine. E per me ritengo non compiere soltanto ad un dovere, ma sento provare pure soddisfazione, nel rendere giustizia ad un mio predecessore. Sarò pure alla mia volta predecessore di altri nei viaggi, come nella vita.

Nel conte Borck del resto, l’operosità mi pare maggiore delle cognizioni; egli ostenta una sicurezza di opinione la quale male corrisponde alla serietà colla quale si devono trattare gli argomenti importanti. Intanto il suo volume in quarto, dedicato interamente ai minerali della Sicilia, mi è di grande utilità, ed istrutto da quello io ho potuto esaminare con frutto le incrustazioni delle chiese, e degli altari, dove si scorge profusione di marmi e di agate. Trovansi in quelle i vari tipi di pietre tenere, e di pietre dure, imperocchè si distinguono specialmente per questa particolarità i marmi, e le agate; e quella pure dà norma alla differenza del prezzo. Oltre queste trovansi pure materiali d’origine calcare, i quali vennero modificati dall’azione del fuoco. Trovasi di frequente in questi una specie di vetro fuso, il quale varia dalla tinta azurrina la più chiara al nero cupo, ed anche questi massi vengono, al pari di tutti i marmi, segati in tavole sottili, le quali hanno minore o maggior prezzo, a seconda della varietà della loro tinta, della loro maggiore o minore purezza, e quindi s’impiegano felicemente, in sostituzione del lapis [p. 281 modifica]lazzuli, negli ornati degli altari, delle tombe, e delle altre parti delle chiese.

Volevo acquistare una collezione completa di tutti i campioni di questi minerali, se non chè non avendola rinvenuta in pronto fin d’ora, mi verrà spedita più tardi a Napoli. Le agate sono di tutta bellezza, quelle specialmente, nelle quali i campi di diaspro rosso o giallo, alternandosi con quelli di quarz bianco prodotti dall’azione del fuoco, porgono uno stupendo effetto. L’imitazione di tali agate, ottenuta coll’applicazione di colori a tergo di lastre sottili di vetro, è la sola cosa ragionevole che io abbia potuto osservare, fra tutte le stravaganze del principe di Palagonia, e queste finte agate fanno più bella vista nella decorazione che non le agate vere, mentre queste sono in piccoli pezzi, e si devono accostare le une alle altre; quelle finte per contro, si possono fare della grandezza richiesta dall’architetto. Questo metodo di decorazione, meriterebbe per dir vero, essere imitato.


Palermo, il 13 aprile 1787.

Non è guari possibile formarsi un idea giusta dell’Italia, senza avere vista la Sicilia; qui stà la chiave di tutto.

Non si potrebbe dire bene abbastanza del clima; ora corre la stagione delle pioggie, però non cadono queste che ad intervalli; oggi vi furono scoppi di tuono, lampeggiava, il tempo è cupo. Il lino in parte ha già formato i nodi, in parte si trova tuttora in fiore. Si direbbe, a distanza di scorgere tanti piccoli stagni, tanto è bella la tinta fra l’azurrino ed il verdognolo, dei campi di lino. Sono innumerevoli gli oggetti piacevoli, che qui si scorgono ad ogni passo. Il mio compagno è uomo eccellente, propriamente buono di cuore, ed io mi vi affeziono ogni giorno più. Egli ha fatto già parecchi bei disegni, intende eseguirne migliori ancora; l’idea di portare meco [p. 282 modifica]in Germania quei preziosi ricordi, mi sorride quanto si possa dire.

Non vi ho fatta parola ancora dei cibi e delle bevande di questa contrada, e però la non è cosa da passare addirittura sotto silenzio. I legumi sono stupendi, le insalate specialmente sono tenere, e dolci quanto il latte, e qui si comprende il perchè loro abbiano dato gli antichi, nome di lattughe. L’olio ed il vino parimenti sono buoni, e potrebbero essere ancora migliori, se si portasse maggiore cura nella loro fabbricazione. I pesci sono buoni pure, di gusto delicato, ed in questi giorni abbiamo avuto parimenti buone carni di bue, tuttochè si dica che tali fanno per lo più difetto.

Dopo aver pranzato mi accosto alla finestra a guardare per istrada! Passa un malfattore, al quale si è fatta la grazia, siccome si suole praticare ogni anno, in occasione delle feste della Pasqua. Una confraternita lo accompagna ai piedi del patibolo; ivi deve recitare una preghiera, quindi viene riportato in prigione. Il disgraziato d’oggi era un bell’uomo del ceto medio, pettinato con accuratezza, ed era poi vestito tutto di bianco. Teneva il cappello in mano, e qualora lo si fosse guarnito questo di qualche nastro, avrebbe potuto fare senza più la sua figura a qualsiasi ballo in maschera.


Palermo, il 13 ed il 14 aprile 1787.

Era scritto, che mi dovesse capitare prima della mia partenza un caso strano, del quale non voglio differire a darvi particolareggiato conto.

Fin dai primi giorni della mia venuta in questa città udivo spesso far parola alla tavola rotonda della locanda di Cagliostro, della sua origine, delle sue avventure. I Palermitani erano d’accordo tutti nello asserire, che un tale Giuseppe Balsamo, diffamato per vari delitti era stato bandito dall’isola, ma non erano poi d’accordo nel ritenere che il Giuseppe Balsamo, ed il conte Cagliostro, [p. 283 modifica]fossero la stessa persona. Alcuni che avevano conosciuto di persona il Balsamo, sostenevano riconoscerlo nei ritratti del Cagliostro, i quali sono volgari in Germania, e che vennero portati qui pure.

Mentre si facevano quei discorsi uno dei convitati fece cenno dei tentativi fatti da un legale palermitano, allo scopo di portare la luce in quella quistione, dicendo essere stato incaricato dal governo di Francia, di ricercare le origini di un individuo, il quale aveva avuta l’impudenza di produrre le favole le più assurde, in un processo di somma importanza, e molto pericoloso.

Dicevasi avesse quel legale formato l’albero genealogico del Giuseppe Balsamo, e trasmessolo in Francia, probabilmente per essere prodotto nella causa, accompagnandolo di documenti autentici, non che di una memoria spiegativa.

Manifestai il desiderio di fare la conoscenza di quel legale, di cui si parlava del resto molto vantaggiosamente, e quegli fra i convitati che lo aveva nominato per il primo, si dichiarò disposto ad annunciargli la mia visita, ed a portarmi da lui.

Vi ci recammo difatti alcuni giorni dopo, e trovammo il legale, occupato con alcuni suoi clienti. Dopo avere dato udienza a questi, e fattaci servire la collezione, cavò fuori un manoscritto, il quale conteneva l’albero genealogico del Balsamo, ovvero Cagliostro, non che la copia dei documenti, ed il sunto di questi quali li aveva spediti in Francia. Svolse l’albero genealogico, dandomi tutte le spiegazioni occorrenti, delle quali voglio addurre qui, quanto può occorrere, per dare un idea abbastanza chiara della quistione.

Il bisavo materno di Giuseppe Balsamo, era un Matteo Martello. S’ignora il nome di sua bisava materna. Da quel matrimonio nacquero due femmine, l’una delle quali per nome Maria, sposò un Giuseppe Bracconeri, e fu l’avola del Giuseppe Balsamo. La seconda femmina, di nome Vincenza, sposò un Giuseppe Cagliostro, originario di La Noava [p. 284 modifica]piccolo villaggio distante un otto miglia da Messina, e devo notare a questo proposito, che vivono oggidì tuttora a Messina due fonditori di campane, i quali portano quel cognome. La prozia fu madrina del Giuseppe Balsamo, il quale ricevette nel battesimo il nome del marito di lei, ed inoltre prese pure in seguito, dal suo prozio, il sopranome di Cagliostro.

I coniugi Bracconeri ebbero tre figliuoli; Felicita, Matteo, ed Antonia.

Felicita fu maritata ad un Pietro Balsamo, figliuolo di Antonino Balsamo, venditore di nastri in Palermo, il quale sembra fosse ebreo di origine.

Pietro Balsamo, padre dal famigerato Giuseppe, fece bancarotta, e morì in età di quarantacinque anni. La sua vedova, la quale vive tuttora, gli partorì oltre il nominato Giuseppe, una figliuola, Giovanna Giuseppe Maria, la quale fu maritata a Gian Battista Capitumino che morì, dopo avere data vita a tre figliuoli.

Il memoriale di cui il cortese autore mi diede lettura, e che, aderendo alla mia preghiera, mi affidò per alcuni giorni, era corredato di fedi battesimali, di contratti di matrimonio, e d’istrumenti raccolti con somma accuratezza. Conteneva ad un dipresso le circostanze (siccome mi risulta da un estratto che ne ho fatto a suo tempo), le quali furono poste in luce dagli atti del processo eseguito a Roma, vale a dire, che un Giuseppe Balsamo nato a Palermo in principio del giugno 1743 e tenuto al fonte battesimale da Vincenzo Martello in Cagliostro, aveva vestito nella sua gioventù l’abito di frate mendicante, in un ordine che si proponeva specialmente l’assistenza agli ammalati; che non aveva tardato guari a rivelare molta disposizione per lo studio, e per l’esercizio della medicina; che però era stato cacciato dal convento per la sua cattiva condotta; e che aveva finito per dedicarsi in Palermo alle pratiche della magia, ed alla ricerca di tesori.

Soggiungeva il memoriale che non aveva ommesso il Balsamo di trarre partito della singolare sua perizia [p. 285 modifica]nell’imitare tutte le scritture. Egli falsificò, ovvero per meglio dire fabbricò addirittura, un antico documento, per valersene in una lite relativa alla proprietà di alcune terre. Fù sottoposto a processo; portato in prigione, riuscì a fuggire, e venne citato a comparire, mentre era contumace. Si portò per le Calabrie a Roma, dove sposò la figliuola di un fabbricante di cinghie, e da Roma poi si recò a Napoli, sotto il nome di marchese Pellegrini. Si arrischiò a fare ritorno a Palermo, vi fu riconosciuto, venne arrestato, se non chè riuscì ad uscire dal carcere, in modo che merita essere riferito nei suoi particolari.

Il figliuolo di uno fra i principi primari della Sicilia, possessore di vasti latifondi, e che occupava carica l’agguardevole alla corte di Napoli, univa ad una grande forza fisica non chè ad una volontà sfrenata, tutta l’allegria, e la prepotenza che ritiene lecite un giovane ricco, potente, e senza educazione.

Donna Lorenza riuscì a trarre il giovane dalla parte sua, e sù questo fece assegnamento il finto marchese Pellegrini per riavere la sua libertà. Il principe assunse ostensibilmente la protezione dei due coniugi arrivati di recente, e non è a dire in qual furore sia montato, allorquando Giuseppe Balsamo, sulla querela della parte a cui aveva recato danno colla sua falsificazione, venne di bel nuovo imprigionato! Il principe tentò vari mezzi per liberare il suo protetto, se non chè, tornandogli tutti questi infruttuosi, minacciò nell’anticamera del presidente di maltrattare in ogni possibile maniera gli avvocati della parte avversa, qualora non ottenesse egli la liberazione immediata del Giuseppe Balsamo, ed essendosi a ciò ricusato il patrocinatore dell’avversario, il principe senz’altro dire gli si scagliò addosso, lo cacciò a terra, lo calpestò, e non desistette dal maltrattarlo in ogni maniera, in fino a tanto che lo stesso presidente, chiamato fuori da tutto quel baccano, venne ad interporre la sua autorità.

Questi però, uomo debole, pauroso, non si arrischiò punire il colpevole; la parte avversa ed i suoi [p. 286 modifica]rappresentanti si dimostrarono pusillanimi dessi pure alla loro volta, ed il Balsamo riebbe la sua libertà, senza che punto risulti dagli atti del processo, nè come l’abbia desso ottenuta, nè chi l’abbia ordinata.

Poco dopo egli abbandonò Palermo, fece vari viaggi, intorno ai quali l’autore del memoriale non si potè procurare che notizie imperfette.

Il memoriale terminava per provare con molto acume, come Balsamo e Cagliostro fossero lo stesso individuo, tesi questa la quale era più difficile il sostenere in allora di quanto non sia attualmente, che si conoscono tutti i particolari di quella quistione intricata.

Se io non avessi dovuto ritenere in allora che in Francia si sarebbe data pubblicità a quel documento, e che probabilmente al mio ritorno in Germania lo avrei trovato stampato, mi sarebbe stato permesso il levarne copia per potere fare conoscere in anticipazione a miei amici ed al pubblico, vari particolari abbastanza curiosi.

Intanto io vi ho data la sostanza di quel memoriale da cui risulta d’onde abbiano avuta origine tanti errori, ed in qual modo abbiano potuto propagarsi. Chi avrebbe mai potuto ritenere, che Roma avrebbe potuto contribuire per tal modo, ad illuminare il mondo, ed a smascherare un impostore, siccome ha fatto colla pubblicazione degli atti di quel processo? Imperocchè quello scritto, ad onta avrebbe potuto e dovuto riuscire molto più interessante, rimarrà pur sempre un documento prezioso per qualunque persona ragionevole, la quale non poteva a meno di considerare con rammarico, come quell’impostore fosse riuscito ad ingannare per tanti anni il mondo, non che ad acquistare una fama, la quale non poteva a meno di riuscire molesta a tutte le persone di mente sana, le quali non potevano nudrire a di lui riguardo altro sentimento, all’infuori di quello del disprezzo.

Chi non avrebbe taciuto volontieri, durante tutto quel tempo? Ed anche ora che la cosa venne portata in chiaro, che la quistione fù definita, mi è d’uopo fare un certo [p. 287 modifica]sforzo, per compiere l’esposizione degli atti che ho avuta occasione di prendere ad esame.

Allorquando vidi dall’albero genealogico, che si trovavano tuttora in vita vari congiunti di quell’uomo strano, e specialmente la madre e la sorella di lui, manifestai all’autore del memoriale il desiderio che avrei avuto di vederli, e di poterne fare la conoscenza. Mi rispose che la cosa non sarebbe stata tanto facile, imperocchè tutte quelle persone, in istato per lo più di povertà, vivevano ritiratissime, non eran punto assuefatte a vedere forastieri, e con il carattere sospettoso per natura del popolo siciliano, si sarebbero prestate con difficoltà ad accogliere uno sconosciuto; che però egli mi avrebbe mandato un suo giovane di studio, il quale era in relazione colla famiglia, e che era quegli che gli aveva procurate le notizie, ed i documenti che lo avevano posto in grado di formare l’albero genealogico.

Il giovane venne da me il giorno dopo, e frappose alcune difficoltà ad incaricarsi della cosa. «Ho cercato fin qui, mi disse, evitare di rivedere quelle persone, imperocchè, per ottenere da esse le fedi battesimali, i contratti di matrimonio, e gli altri documenti, allo scopo di estrarne copie autentiche, ho dovuto ricorrere ad un sotterfugio. Presi occasione di parlare di un lascito di famiglia, il quale era vacante, ed a cui poteva darsi avesse il giovane Capitumino qualche diritto, soggiungendo essere d’uopo anzitutto formare un albero genealogico, per riconoscere se, e fino a qual punto, le pretese del ragazzo potessero essere fondate. Conchiusi poi essere io disposto ad incaricarmi di trattare la cosa, qualora in compenso delle mie fatiche mi volessero assicurare un’equa parte della somma, che per avventura riuscissero ad ottenere. Quella buona gente non sospettò menomamente del tranello; ottenni le carte, ne furono ricavate le copie, si potè formare l’albero genealogico, e d’allora in poi mi guardai bene di lasciarmi più vedere. Sono poche settimane che m’imbattei per caso con il vecchio Capitumino, e me la cavai alla [p. 288 modifica]meglio, adducendo la lentezza colla quale sogliono procedere, affari di quella specie.»

Tali furono le obbiezioni del giovane, se non chè, insistendo io nel mio proposito, dopo avere ancora discusso alquanto, finimmo per rimanere d’accordo che io mi sarei fatto passare per un inglese, incaricato di portare alla famiglia notizie di Cagliostro, il quale uscito dalla Bastiglia, sarebbe di recente arrivato a Londra.

Erano all’incirca le tre del pomeriggio, e ci avviammo senza frapporre indugio alla casa, la quale stà sull’angolo di una stradicciuola, a poca distanza della via maestra, denominata il Cassero. Salimmo per una povera scala, ed entrammo nella cucina, dove trovammo una donna di statura mezzana, di corporatura forte e complessa, senza potersi però dire pingue, intenta a sciacquare alcuni vasellami. Era vestita pulitamente, e sollevò, quando entrammo, un lembo del grembiale, per nascondere alcune macchie. Accolse con soddisfazione il mio compagno e disse «Signor Giovanni, ci recate forse qualche buona notizia? Avete forse ottenuto qualcosa?»

Egli rispose. «Finora nulla mi è riuscito a bene nel nostro affare; ma vi ha qui un forastiero il quale vi porta i saluti di vostro fratello, e vi potrà dire dove questi si trovi attualmente.»

Per dir vero non avevamo fatta parola di saluti, ma intanto questi ci erano valsi a modo d’introduzione. — «Voi conoscete pertanto mio fratello disse la donna.» — «Lo conosce tutta quanta Europa, replicai io; intanto credo vi sarà caro udire ch’egli si trova al sicuro, ed in buona salute, dal momento che avete dovuto vivere finora, nell’incertezza sulle sue sorti.» — «Entrate diss’ella, io vi terrò dietro» ed entrai con il giovane nella stanza.

Era questa vasta, ed alta, e presso di noi avrebbe potuto ottenere nome di sala; se non che mi parve consistesse in quella sola, l’appartamento di tutta la famiglia. Una sola finestra procurava luce alle alte pareti, le quali [p. 289 modifica]avevano ricevuto nel tempo una tinta, e da cui pendevano incisioni d’imagini di santi, entro cornici dorate. Si scorgevano addossati ad una parete due letti ampissimi, senza tende, e ad un’altra una scanzia nera, la quale aveva forma di tavolo da scrivere. Si scorgeva che le sedie intrecciate di canne di forma antica erano state un tempo dorate, ed i mattoni del pavimento, erano rotti in parecchi punti. Ogni cosa però era pulita, in ordine, e ci accostammo alla famiglia, la quale trovavasi radunata all’altra estremità della stanza, presso l’unica finestra.

Il mio compagno intanto spiegava alla vecchia Balsamo, la quale stava seduta in un angolo, il motivo della nostra visita e siccome per essere la vecchia sorda, era forza ripetere più di una volta le parole, ebbi agio ad esaminare la stanza, e le altre persone che vi si trovavano. Uno era giovane di sedici anni all’incirca, di bella statura, ma con i tratti della fisonomia totalmente rovinati dal vaiuolo, e presso quella un giovane sfigurato pure desso dalle traccie del vaiuolo, per modo che la sua vista mi produsse penosa impressione. Di fronte alla finestra stava seduta, o per dir meglio sdraiata in un seggiolone una donna, disgraziata di forme, ed ammalata, la quale pareva immersa in una specie di sonno letargico.

Allorquando il mio compagno ebbe finito di parlare, c’invitarono a sedere. La vecchia m’indirizzò alcune quistioni, ma mi fù forza farmele interpretare dal mio compagno per potervi dare risposta, non riuscendo in verun modo a comprendere il dialetto siciliano.

Intanto io contemplavo con piacere quella buona vecchierella. Era di mezzana statura, ma di belle forme, e sui tratti regolari della sua fisonomia, che l’età non aveva punto alterata, si osservava quell’impronta di pacatezza, distintivo frequente delle persone le quali hanno l’udito indebolito; il suono della sua voce era dolce, e grazioso.

Diedi risposta alle sue domande, se non che fu d’uopo pure al giovane mio compagno, interpretarle le mie risposte. [p. 290 modifica]

La lentezza del discorso mi diede agio a potere ponderare le mie parole. Le narrai che suo figliuolo aveva ottenuta la libertà in Francia, e si trovava attualmente in Inghilterra, dove gli era stata fatta buona accoglienza. La gioia che manifestò la poveretta per quelle buone notizie, era accompagnata da sentimenti di pietà sincera, e siccome prese allora a parlare a voce alquanto più alta, e lentamente, riuscivo a comprendere le sue parole.

Intanto era entrata nella stanza la figliuola di lei, la quale si rivolse al mio compagno, e questi le ripetè fedelmente quanto avevo narrato. Aveva quella indossato un grembiale pulito, ed aggiustati i suoi capegli, raccogliendoli entro una reticella, e quanto più la esaminavo, e la paragonavo alla madre, tanto più mi si faceva evidente la differenza di quelle due fisonomie. La figliuola rivelava in complesso un aspetto di viva e sana sensualità; poteva avere un quarant’anni all’incirca. Guardava tutto attorno a sè con attenzione, senza però che trasparisse ombra di sospetto dal suo sguardo. Quando si fù seduta, mi parve di più alta statura che quando era in piedi; aveva un attitudine decisa, stando seduta con il corpo ripiegato in avanti, e colle mani distese sulle ginocchia, e del resto il complesso della sua fisonomia, piuttosto ottusa anzichè perspicace, mi ricordò il ritratto in incisione di suo fratello, che tutti conoscono. Mi fece varie domande intorno al mio viaggio, al mio progetto di visitare l’interno dell’isola, soggiungendo che per certo sarei tornato a Palermo, per godervi le feste di S. Rosalia.

Intanto, mentre la vecchia mi aveva sporto di bel nuovo alcune domande, e che io ero occupato a darle risposta, la figliuola prese a parlare a mezza voce con il mio compagno, in modo da darmi occasione di domandarle di che cosa stessero favellando? Il giovane mi disse che la signora Capitumino gli narrava, come suo fratello gli fosse tuttora debitore di quattordici onze, per vari oggetti disimpegnati a di lui favore, al momento della sua partenza repentina da Palermo, e come da quell’epoca in poi, non [p. 291 modifica]avesse mandata più nessuna notizia di sè, nè danaro, nè fornito in qualsiasi modo soccorso alla famiglia, tuttochè si dicesse essere egli molto ricco, e mantenere un treno da principe. Domandava se mi sarei voluto incaricare di ricordare al mio ritorno in Inghilterra al fratello il suo debito, richiamando la sua attenzione sulle strettezze dei suoi, ed anzi, se sarei stato tanto buono, da volermi incaricare del ricapito di una lettera. Risposi affermativamente, ed ella domandò dove io stessi d’alloggio? Dove mi avrebbe dovuto mandare la lettera? Schivai di dare a conoscere la mia abitazione, e mi offerii pronto a tornare il giorno dopo, verso sera, per ritirare la lettera.

Mi narrò allora quanto fossero compassionevoli le sue condizioni, dicendomi essere vedova con tre figliuoli, di cui una ragazza, la quale si trovava in educazione in un monastero, l’altra ragazza presente, ed un maschio, uscito allora allora, per recarsi alla scuola. Oltre i tre figliuoli disse avere seco pure la madre, a cui parimenti doveva provvedere, ed avere per spirito di carità cristiana, accolta presso di sè una povera disgraziata malaticcia, la quale aggravava il carico della famiglia, e bastare a mala pena il suo assiduo lavoro a provvedere al mantenimento di tante persone. Soggiunse sapere, per vero dire, che Iddio non avrebbe lasciate senza rimeritarle le buone opere, ma intanto, non cessare per questo dall’essere molto grave il peso, a cui, da buona pezza, le toccava sottostare.

I giovani non tardarono a prendere parte dessi pure alla conversazione, la quale finì per diventare animata. Mentre io stavo parlando cogli altri, udii la vecchia domandare alla figliuola, se io appartenessi alla loro religione? Potei osservare che quest’ultima schivò in modo prudente di dare risposta a quella domanda, dicendo alla madre, per quanto potei comprendere, che il forastiero dato prova di troppa bontà a loro riguardo, perchè ella si arrischiasse a volgergli domanda di tal fatta.

Quando udirono che io mi doveva allontanare fra [p. 292 modifica]pochi giorni da Palermo, raddoppiarono le loro istanze perchè io mi tratenessi più a lungo, o quanto meno facessi presto ritorno nella loro città, vantandomi specialmente i giorni meravigliosi delle feste di S. Rosalia, dicendo non essere possibile il vedere cosa più bella al mondo.

Il mio compagno, il quale già di buona pezza aveva desiderio di andarsene, pose fine al discorso con i suoi gesti ed io promisi di tornare l’indomani verso sera, per ritirare la lettera. Il mio compagno si rallegrò che ogni cosa fosse riuscita per il meglio, e ci separammo, contenti a vicenda, l’uno dell’altro.

Potete immaginarvi quale impressione abbia prodotta sopra di me quella famiglia povera, pia, ed educatissima. La mia curiosità era stata soddisfatta, se non chè, il contegno buono, naturale di tutte quelle persone, aveva destato in me un interessamento, il quale si accrebbe colla riflessione.

Pensai tosto alle conseguenze del mio passo. Era naturale che la mia comparsa, la quale aveva eccitata viva sorpresa al primo momento, desse luogo a pensare, a sperare, a quella famiglia quando sarei partito. Sapevo dall’albero genealogico che si trovavano tuttora in vita parecchi altri membri della famiglia; era naturale si diffondesse fra quelli, fra loro conoscenti la notizia della mia visita, di quanto avevo narrato. Io avevo bensì ottenuto il mio intento, se non chè mi rimaneva a cercare a trovare modo di porre termine decentemente a quell’avventura. Il giorno dopo, appena pranzato, mi recai alla casa di quei poveretti, e solo. Si meravigliarono di vedermi comparire così di buon ora; dissero che la lettera non era scritta ancora, e che di più, verso sera, sarebbero venuti alcuni parenti, i quali desideravano, dessi pure di fare la mia conoscenza.

Risposi che dovevo partire il mattino dopo per tempo; che avevo ancora parecchie visite a fare; che dovevo pure ancora preparare i miei bagagli; e che avevo preferito venire più presto, anzichè fallire all’appuntamento. [p. 293 modifica]

In quel punto entrò il figliuolo che non avevo visto il giorno prima. Rassomigliava alla sorella per statura, e di fisonomia. Portava seco la lettera che mi si voleva consegnare, e che secondo l’uso di queste contrade, aveva fatta scrivere da uno di quegli scrivani pubblici, i quali tengono il loro banco all’aperto. Il giovane, il quale aveva aspetto tranquillo, malinconico, e modesto, domandò notizie di suo zio, delle sue ricchezze, del suo treno di vita fastoso, e soggiunse mestamente, perchè avesse dimenticata per tal modo la sua famiglia? Sarebbe la nostra più grande felicità, continuò, s’egli volesse pure una volta tornare qui, e ricordarsi di noi; ma voi poi, come avete fatto a sapere da lui che tenga parenti a Palermo? Si dice ch’egli nasconda dovunque la sua origine, e che si vadi spacciando di nascita distinta? Risposi a queste domande, alle quali mi trovavo esposto per la leggerezza imprevidente del mio compagno nella mia prima visita, in modo da far parere probabile, che il zio, tuttocchè avesse motivi per tenere nascosto al pubblico la sua origine, non volesse però fare un segreto di questa a’ suoi amici, ed a’ suoi conoscenti.

La sorella, la quale era entrata durante il nostro discorso, e che per la presenza del fratello, come parimenti per l’assenza del mio compagno di ieri, si sentiva più libera, prese dessa pure piacevolmente parte alla conversazione. Mi pregarono vivamente entrambi di ricordarli al loro zio, quando io gli avessi scritto, come parimenti mi pregarono di fare ritorno a Palermo dopo il mio giro nel regno, e di non mancare di trovarmi qui per le feste di S. Rosalia.

La madre unì le sue istanze a quelle dei giovani. «Mio signore, disse, tuttochè non convenga guari a me che tengo una ragazza da marito il ricevere forastieri in casa, e tuttochè sia d’uopo guardarsi dal somministrare pretesto di ciarle alle male lingue, sarete pur sempre il ben venuto in casa nostra, tutte le volte che farete ritorno a Palermo.» [p. 294 modifica]

«Certamente, risposero i giovani, noi vorremo far vedere al signore le feste, e lo vorremo portare sui palchi di dove le potrà meglio godere. Proverà per certo soddisfazione, nel vedere il carro colossale della santa, non che l’illuminazione meravigliosa.»

Intanto la buona vecchia aveva letta e riletta la lettera, e quando si avvidde che stavo per congedarmi si alzò in piedi, e mi porse il foglio, dopo averlo chiuso. «Dite a mio figliuolo; cominciò dessa con somma vivacità, ed anzi con una specie di esaltazione; dite a mio figliuolo, quanto io sia stata felice delle sue notizie, che ho potuto sapere da voi; ditegli che io lo stringo al mio cuore, — e nel ciò dire stese le braccia, e poi le raccolse sul petto — ditegli che io prego ogni giorno per lui Iddio onnipotente, e la Vergine Santissima; ditegli che mando la mia benedizione a lui ed alla sua moglie; e che prima di morire, desidero vederlo ancora una volta con questi occhi, i quali hanno pure versate le tante lagrime per lui.»

La gentilezza della lingua italiana dava risalto ai sensi nobilissimi, e pieni di naturalezza di quelle parole, alle quali la vivacità poi del gestire, tutta propria degli abitanti di queste contrade, aggiungeva un’attrattiva indicibile.

Non fù senza commozione che io presi congedo da quella buona famiglia. Mi vollero tutti stringere la mano; i giovani mi accompagnarono fino alla porta, e mentre scendevo le scale si portarono al balcone della cucina, il quale porgeva sulla strada; mi chiamarono per ripetermi i loro saluti, e per soggiungere ancora una volta, che non mancassi di tornare. Voltando l’angolo della strada, li viddi che stavano tuttora al balcone.

Non ho d’uopo di spiegare come per il vivo interessamento che quella povera famiglia mi aveva ispirato, fosse sorto in me il desiderio di alleviare in qualche maniera le sue strettezze. Avevo ridestate le speranze, oramai spente, di tutta quella buona gente, e la mera curiosità di un abitante del settentrione, le aveva esposte a novello disinganno. [p. 295 modifica]

La mia prima idea si fu di mandare loro le quattordici onze di di cui era rimasto loro debitore il fuggiasco, facendo loro credere, per non umiliarli con un regalo, che mi sarei poi procurato da quello il rimborso di quel poco danaro; se non chè, venuto a casa, e fatta la mia ricognizione di cassa, mi accorsi che in un paese dove la mancanza totale di comunicazioni accresce in modo indicibile le distanze, avrei corso pericolo di trovarmi io stesso in imbarazzo, cedendo al desiderio lodevole di volere, per bontà di cuore, portare riparo all’indegna condotta di un ribaldo.

Verso sera mi portai ancora una volta dal mio merciaiuolo, e gli domandai come sarebbe andata all’indomani la festa, nella quale una grandiosa processione doveva percorrere tutta la città, ed il vicerè stesso, accompagnare a piedi il Santissimo? Il menomo colpo di vento correva rischio di avvolgere in un nembo di polvere, e Dio, ed uomini.

Il brav’uomo mi rispose che a Palermo si aveva molta fiducia nei miracoli; che già parecchie volte in tali casi era caduta pioggia abbondante, la quale aveva ripulite, almeno in parte le strade, ed agevolato il passo alla processione; e che anche questa volta si faceva assegno sulla pioggia, nè per dir vero senza motivo, imperocchè il cielo era coperto, e prometteva acqua per la notte.


Palermo, sabbato 15 aprile 1787.

Così difatti avvenne, anche questa volta. Nella scorsa notte un vero diluvio si scatenò sulla città, e mi affrettai a portarmi di buon mattino per istrada, ad ammirare il miracolo. Ed era questo abbastanza strano. Il torrente che scendeva sulla via, fra i marciapiedi da ambo i lati, aveva liberato il suolo della strada dal fango più leggiero trascinandolo parte in mare, parte nelle chiaviche le quali non si trovavano otturate, ed aveva inoltre addensate quà [p. 296 modifica]e là, in mucchi, le materie più pesanti, aprendo sul selciato una specie di meandro tortuoso, libero dalle immondizie. Ora centinaia e centinaia di operai, con pale, forche, scope, erano occupati a compiere l’opera iniziata dall’acqua, accumulando dalle parti tutte quelle immondizie, e cercando di allargare, e di dare migliore forma a quella strada improvvisata. Per tal guisa la processione quando uscì, trovò aperta una strada, tortuosa per dir vero, ma abbastanza pulita a traverso quella palude, e la lunga schiera del clero, dei nobili in scarpe e calze, con il vicerè alla testa, la poterono percorrere senza insudiciarsi. Credevo vedere il popolo d’Israello, guidato dalla mano dell’angelo per via asciutta, fra i fanghi e le paludi; ed il paragone era nobilitato della vista di tante persone distinte, le quali camminavano con pompa bensì, ma in attitudine di compunzione, in mezzo a quei mucchi di fango fradicio, cantando lodi e preghiere.

Sui marciapiedi si camminava bene come al solito, ma nell’interno della città, dove ci recammo oggi appunto per visitare quartieri che non conoscevamo ancora, era quasi impossibile camminare, tuttochè colà pure si fosse cercato rimuovere, ed accatastare quà e là il fango.

Questa solennità ci porse occasione di visitare la chiesa cattedrale, e di contemplare le sue rarità; e poichè eravamo in moto, visitammo pure altri edifici, fra cui una casa moresca in buono stato tuttora di conservazione, non molto vasta, ma però con belle ed ampie stanze, di proporzioni armoniche, le quali non sarebbero per dir vero abitabili in un clima settentrionale, ma che sotto questo cielo porgevano piacevole e comodo soggiorno. Meriterebbe quell’edificio che se ne rilevassero, la pianta ed il disegno.

Vedemmo parimenti, in un locale infelicissimo, reliquie e frammenti di statue antiche, alle quali ci mancò l’animo di porgere grande attenzione. [p. 297 modifica]


Palermo, lunedì 16 aprile 1787.

Dal momento che per fatto nostro siamo sotto la minaccia di dovere abbandonare fra breve questo paradiso, io vagheggiavo ancora la speranza di potere trovare oggi nel giardino pubblico un sollievo, a leggere nell’Odissea il mio argomento, ed a meditare in una passeggiata nella valle ai piedi del monte di S. Rosalia, il piano della mia Nausica, e di ponderare se quel soggetto porgesse carattere drammatico. E tutto ciò mi è riuscito, se non addirittura a dovere, però con molta soddisfazione. Ho meditata la tela, e non mi potei trattenere dallo svolgere ancora alcune scene, le quali maggiormente mi sorridevano.


Palermo, martedì 17 aprile 1787.

La è propriamente sventura, quella di essere perseguitato e tentato da ogni varietà di fantasie. Stamane mi sono portato per tempo nel giardino pubblico, col fermo divisamento di continuare ad occuparmi de’ miei sogni poetici; se non chè, io non aveva ancora cominciato a raccogliermi, che fui afferrato da un altra idea, la quale mi aveva preoccupato già nei giorni scorsi. La maggior parte delle piante che noi siamo assuefatti a vedere in casse di legno soltanto ed in vasi, protette inoltre per la maggior parte dell’anno dai vetri delle stufe, vegetano qui in piena terra, all’aria libera; e pertanto mentre acquistano tutto il loro sviluppo, sono più facili ad esaminare. Alla vista di tanti vegetali di forma nuova, o modificata, mi rinacque il mio antico capriccio; non sarebbe possibile cioè, lo scoprire in questa schiera di piante, la pianta primitiva, originaria? Deve pure questa esistere! Diversamente, come potrei riconoscere che tutti questi vegetali sono piante, qualora non si potessero riferire tutte ad un tipo? [p. 298 modifica]

Mi sforzai a ricercare quanti fossero le varietà, fra le piante che più si scostano, per la loro forma, le une dalle altre. Trovai sempre, più analogie che differenze, e qualora volessi addurre la mia terminologia botanica, lo potrei provare; se non che gioverebbe a nulla; mi procurebbe sempre nuovi pensieri, senza che io ne potessi trarre profitto. Intanto i miei proponimenti poetici erano svaniti, il giardino di Alcinoo era scomparso, e si era trasformato in un orto volgare. Perchè siamo sempre per tal guisa allettati da cose nuove, travagliati da desideri, che non riusciamo a soddisfare?


Alcamo, mercoledì 18 aprile, 1787.

Siamo partiti di buonissima ora da Palermo. Kniep ed il nostro vetturale avevano disimpegnato a dovere l’incarico che si erano assunto di preparare e disporre i bagagli. Salivamo lentamente la strada stupenda che avevano percorsa già nel recarci a S. Martino, e stavamo ammirando ancora una volta una fra le magnifiche fontane che sorgono lungo la via, allorquando ebbimo occasione di osservare la moderazione dei desideri del popolo di queste contrade. Il nostro garzone di stalla, portava appeso ad una coreggia un piccolo barile di vino, siccome sogliono praticare le nostre vivandiere, e quello sembrava dovere contenere vino abbastanza per alcuni giorni. Stupimmo pertanto, allorquando vedemmo il giovane aprire lo spandente delle fontana, e far sgorgare l’acqua nel barile. Domandammo con vero stupore da Tedeschi, che cosa stesse facendo? Se il barile non fosse pieno di vino? Ed egli rispose, colla più grande indifferenza, che il barile era vuoto per un terzo, imperocchè nessuno mai beveva vino schietto; essere meglio mescolarlo, perchè così diventava più leggiero allo stomaco; e che non si era poi certi, di trovare acqua dovunque. Intanto il barile erasi riempito, e dovettimo ammirare questo atto di temperanza, degno dell’antico Oriente. [p. 299 modifica]

Allorquando, oltrepassato Monreale, pervenimmo sulle alture, vedemmo contrade magnifiche, piuttosto però sotto l’aspetto storico, che dal punto di vista economico. Si stendeva davanti al nostro sguardo, sulla destra, la linea piana ed orizzontale del mare, fra promontori ricchi di piante, ed a seguito di una spiaggia piana, senz’alberi, la quale porgeva il contrasto il più spiccato, colle roccie calcari di aspetto selvaggio. Kniep non si potè trattenere dal disegnare un piccolo schizzo di quella vista.

Ora siamo in Alcamo, città piccola, tranquilla, pulita, dove si trova una locanda discreta, la quale riesce opportunissima, imperocchè di qui si può andare visitare il tempio di Segesta, che sorge solitario, a poca distanza.


Alcamo, giovedì 19 aprile 1787.

Il soggiorno tranquillo di questa piccola città di montagna ci arrise, e ci siamo decisi a trattenervici tutta la giornata. Prima di tutto devo rendervi conto di quella di ieri. Già prima d’ora io avevo negata l’originalità del principe di Palagonia. Egli ebbe predecessori, e modelli. Sulla strada di Monreale, si scorgono a fianco di una fontana due mostri, e nella balaustra di quella alcuni vasi, nè più nè meno, che se ve li avesse collocati colà il principe.

Allorquando, oltrepassato Monreale, si abbandona la bella strada, e si entra in una contrada montuosa, si scorgono sassi, i quali, a giudicarne dal loro peso, e dai loro caratteri esterni, crederei possano contenere ferro. Tutti i tratti di terreno piani sono coltivati, e producono più o meno cereali. Sono di tinta rossa le roccie calcari, come del pari il terreno vegetale, formato dalle decomposizioni di quelle. Sono molti i campi di quella tinta; la terra loro è pesante; non vi si scorge frammista sabbia, e produce poi ottimi cereali. Trovammo piante di olivo molto grosse, vecchissime, e mutilate. [p. 300 modifica]

Abbiamo fatto un modesto asciolvere sotto un porticato aderente alla nostra locanda. Alcuni cani affamati divoravano la pelle delle nostre salsiccie, ma furono scacciati via da un giovane cencioso, il quale prese a divorare con appettito le scorze che cacciavamo via delle nostre mela; se non che, il giovane fu cacciato desso pure a sua volta da un vecchio mendicante. Invidia di mestiere, qui come dovunque. Il vecchio mendicante avviluppato maestosamente in una specie di toga sdruscita e lacera, si dava un gran moto, sostenendo le parti di garzone della locanda, e di siniscalco. Avevo osservato già altre volte in questi paesi, che allorquando si domanda ad un locandiere cosa che non ha, spedisce un mendicante, un accattone, a farne acquisto dal pizzicagnolo.

Però noi ci possiamo dispensare dal dovere ricorrere a tal razza spiacevole di domestici, il nostro vetturino è sommamente disinvolto; disimpegna stupendamente le parti di garzone di stalla, di cicerone, di dispensiere, di cuoco; in una parola sa fare, e fa tutto.

Anche sui monti più elevati si scorgono tuttora olive, carubbe, frossini. La rotazione agraria è qui pure di tre anni; fave, cereali, e riposo, onde dicono che il concime fa miracoli, più che non i santi. La vite è coltivata molto bassa.

La posizione di Alcamo, sopra una altura ad una certa distanza da un golfo di mare, è stupenda, ed il carattere grandioso della contrada, produce impressione profonda. Si scorgono rupi altissime, valli incassate, ed il tutto di aspetto vario, imponente. Dopo Monreale si arriva in una doppia valle, al cui centro sorge ancora una rupe. I campi sono di un bel verde che riposa l’occhio, ed a fianco dell’ampia carreggiata, crescono liberamente ed alla rinfusa cespugli, arbusti selvaggi, risplendenti di fiori. Si scorgono lentischi totalmente gialli, coperti di fiori per modo, da non lasciare vedere il verde di una foglia; bianco spini tutti in fiore questi pure, piante di aloe altissime, le quali accennano volere fiorire quanto prima; [p. 301 modifica]tappeti di trifogli con fiori di una bella tinta di amaranto, rose delle alpi, giacinti con i loro bottoni tuttora chiusi; boragini, agli, ed asfodeli.

Un rivo il quale scende da Segesta, trasporta non solo pietre di natura calcare ma ancora frammenti di pietra cornea molto compatti, di tinta azurrina oscura, rossa, gialla, nera, e talvolta ombreggiati in varia guisa. Passeggiando ho potuto osservare pure pietre cornee, pietre fuocaie nelle roccie calcari, collegate con calce, e sono di natura identica tutte le colline che s’incontrano, prima di arrivare ad Alcamo.


Segesta, il 20 aprile 1787.

Il tempio di Segesta non è mai stato ultimato, e non si è spianata mai la località dove sorge; si uguagliò unicamente il suolo alla periferia, dove hanno la loro base le colonne, imperocchè oggidì tuttora i gradini sono sotterrati in molti punti alla profondità di nove o dieci piedi nella terra, e non havvi collina in vicinanza, dalla quale abbiano potuto scendere le pietre, e la terra. Parimenti i sassi stanno per la massima parte nella loro posizione naturale, e si scorgono sul suolo poche rovine.

Le colonne sussistono tutte; due le quali erano cadute a terra, furono rialzate. Sarebbe malagevole decidere fino a quel punto le colonne dovessero avere una base, e senza un disegno, non se ne potrebbe dare un’idea. In certi punti sembra che le colonne dovessero sorgere sul quarto gradino, dal quale però vi era ancora un altro gradino a salire, per arrivare nell’interno del tempio; in altri punti si osserva una interruzione nei gradini, e si direbbe che le colonne dovessero avere una base; in altri punti i vani paiono essere stati riempiti; in altri ricompaiono. Converrebbe essere architetto, per pronunciare con competenza al riguardo.

Sui lati sorgono dodici colonne, senza tenere conto di [p. 302 modifica]quelle d’angolo; nelle fronti ne sorgono sei, contando quelle d’angolo. I perni che servivano a maneggiare le pietre, si scorgono tuttora sui gradini, tutto all’intorno, prova che il tempio non fu ultimato. Per lo più si vedono ancora traccie del pavimento, il quale all’interno e dai lati si scorge formato in alcuni punti di tavole di pietra; però nel centro sussiste tuttora lo scoglio calcare, più alto che il suolo tutt’all’intorno, in guisa che si può argomentare che il pavimento non venne mai eseguito. Non si scorge poi traccia di sorta di portico interno, nè tanto meno il tempio fù mai rivestito di stucco, ma si può bensì ritenere che se n’avesse l’intenzione, scorgendosi sulle superficie liscie dei capitelli sporgenze, le quali paiono destinate a ricevere ed a fissare l’intonaco. Tutto il tempio è costrutto in una specie di travertino calcare, che andò soggetto grandemente a decomposizione. Il taglio delle pietre si osserva, nelle connessure, eseguito con molta precisione. I lavori di ristauro eseguiti nel 1781 gioveranno molto alla conservazione delle rovine. Non ho trovata traccia delle pietre colossali di cui fa menzione Riedesel, le quali probabilmente saranno state adoperate nel ristaurare le colonne.

La posizione del tempio è bella. Sorge sopra una collina, in fondo ad una valle ampia, lunga, circondato però da scoglio, e di là la vista si stende sopra una vasta contrada, scorgendosi pure piccolo tratto di mare. L’aspetto di quella contrada è malinconico, tuttochè sia fertile e ben tutta coltivata, non vi si scorgendo quasi veruna abitazione. Si vedeva svolazzare una vera nube di farfalle sopra le piante dei cardi in fiore. Si scorgevano piante di finocchio selvaggio dell’anno precedente, disseccate dell’altezza di otto o nove piedi, disposte in ordine cotanto regolare, che non si sarebbe potuto loro dare maggiore, in una scuola di agricoltura. Il vento sibilava fra le colonne, quasi a traverso di una foresta, ed uccelli di rapina, descrivevano, gridando, le loro ampie spire in alto, sopra quelle rovine. [p. 303 modifica]

La fatica sostenuta nello aggirarci salendo fra i ruderi di un teatro, appena visibili, ci tolse la volontà di visitare le rovine della città. Ai piedi del tempio si scorgono grossi massi di quella pietra cornea di cui si trovano i frantumi lungo tutta la strada, che qui porta da Alcamo. Nel terreno vegetale si scorgono ghiaie, le quali lo rendono più mobile, e più leggiero. Nelle piante di finocchio verde, osservai la differenza fra le foglie più in alto, e quelle più al basso; eppure è sempre lo stesso organo, dalla cui semplicità trae origine la varietà. Si strappano qui con molta cura le male erbe dei campi; gli agricoltori li ripuliscono tutti, palmo a palmo. Osservai pure molti insetti. A Palermo non avevo visto fuorchè vermi, lucertole, sanguisughe, lumache, di tinta per nulla migliore di quelli dei nostri paesi, anzi tutti soltanto di colore grigio.


Castelvetrano, sabbato 21 aprile 1787.

La strada da Alcamo a Castelvetrano, corre fra monti calcari e colline ghiaiose. Fra mezzo le pareti ripide e spoglie di vegetazione dei monti, si aprono valli ampie col suolo ondulato, tutte coltivate, ma non vi si scorge quasi verun albero. Le colline ghiaiose, fra le quali si rinvengono sassi voluminosi, rivelano l’azione, in epoca remotissima, delle acque del mare; la terra vegetale bella ricca di vari elementi, è più mobile di quelle che avevamo attraversate fin qui, per la presenza delle sabbie. Lasciammo Salemi ad un ora di distanza sulla nostra sinistra, ed arrivammo qui, passando fra rocce dove il gesso trovasi frammisto alla calce, ed a traverso terreni sempre più ricchi e più fertili. Si scorgeva in lontananza, a ponente, il mare; del resto la contrada è sempre montuosa. Trovammo piante di fichi atterrate; ma la cosa che eccitò maggiormente la nostra ammirazione, fu la quantità incredibile di fiori, che, quasi in aiuole, si alternavano e si [p. 304 modifica]succedevano nella loro varietà, lungo la strada, di una ampiezza straordinaria questa. Potemmo osservare le più belle qualità di erbe, ibisco, malve, trifoglio di varie specie, agli, ed infinita varietà di altre piante. Camminavamo su questi tappeti variopinti, fra quali s’incrocicchiavano, si confondevano innumerevoli piccoli sentieri, e, vedevamo pascolare colà bestiame bello, di pelame rossiccio oscuro, di statura piuttosto bassa, ma di forme distinte, e sovratutto con corna piccole, bellissime.

La catena dei monti, fra tramontana e levante, si presenta tutta ad un dipresso ad uguale altezza, ed una vetta sola emerge a metà di quella, il Cumiglione.

Nelle colline ghiaiose non si vedono guari fonti, e deve del resto cadere poca pioggia in queste regioni, non scorgendosi quasi traccia di rivi, e tanto meno di terreni inondati.

Nella notte mi capitò un caso abbastanza strano. Ci eravamo cacciati sul letto molto stanchi, in una poverissima locanda, quando svegliatomi verso la mezza notte, vidi sopra la mia testa una graziosissima apparizione; era una stella, cotanto bella, che io credo non avere vista mai l’uguale. Me ne rallegrai quasi di felice presagio, quando tutto ad un tratto la mia bella luce disparve, lasciandomi di bel nuovo nelle tenebre. Quando spuntò il giorno, potei riconoscere l’origine di questo fenomeno; nel tetto della nostra camera vi era un buco, ed in quel momento una fra le più belle stelle del firmamento, aveva attraversato il mio meridiano. Quest’avvenimento naturalissimo sarebbe però parso di buon augurio ad ogni viaggiatore.


Sciacca, il 22 aprile 1787.

La strada che abbiamo percorsa fin qui, non offre interesse dal punto di vista mineralogico, correndo sempre fra colline ghiaiose. Giunti alla spiaggia del mare, si trovano di bel nuovo roccie calcari. Le pianure sono di una [p. 305 modifica]fertilità incredibile; l’orzo, l’avena, di tal bellezza che non si potrebbe desiderare maggiore; gli aloe presentano di già i loro steli, e ben maggiore altezza di quelli che vedemmo ieri, e ieri l’altro. Ci accompagnarono pur sempre trifogli, di tutte le varietà possibili. Finalmente trovammo un boschetto, o per dir meglio un tratto di cespugli, dove poche erano le piante alte, e per ultimo ancora un bosco di sugheri.


Girgenti, il 22 a sera.

Da Sciacca a qui, fu giornata faticosa di viaggio. Prima della città incontrammo i bagni. Sgorga da una rupe una sorgente calda, la quale esala un forte odore di zolfo; al gusto l’acqua è molto salata, però non sa di putrido. Si perde forse tosto, il vapore del zolfo al contatto dell’aria? Più in alto sgorga un altra fontana d’acqua fresca, senz’odore, e più in alto ancora scorgemmo un convento, dove stanno i bagni sudorifici, e di là sorge un alta colonna di fumo nella limpida atmosfera.

Sulla spiaggia del mare non si scorgono qui fuorchè sassi di natura calcare; di quarz, e di pietre cornee non si vedono che frammenti. Osservai che i piccoli fiumi parimenti di Calta Bellotta, e di Maccasoli, non trasportano che sassi di natura calcare, ed il Platani marmo giallo e pietre focaie, le quali sempre si rinvengono nelle roccie di natura calcare. Fissarono poi la mia attenzione alcuni piccoli pezzi di lava; se non che nulla avendo osservato in questi d’intorni, che possa fare supporre la presenza di antichi vulcani, riterrei dovere essere quelli frantumi di pietre da molino, o di sassi portati da lontano, ed impiegati in costruzioni. Nelle vicinanze di Montallegro non si scorge che gesso, dovunque gesso compatto, pietre specolari ossia scagliose e le roccie poi tutte di natura calcare. Che stupende roccie sono poi quelle di Calta Bellotta! [p. 306 modifica]


Girgenti, martedì 24 aprile 1787.

Non credo avere visto finora nella mia vita così stupendo levar del sole in primavera, come quello d’oggi. Il moderno Girgenti sorge in alto, sull’are dell’antica rocca, vasta abbastanza per comprendere gli abitanti, della città attuale. Dalle nostre finestre, godevamo la vista dei vasti terreni che digradano dolcemente, sovra i quali si stendeva la città antica, ora rivestiti tutti di vigne e di orti, fra la cui verzura non si scorge la minima rovina, o reliquia, la quale possa dare a luogo ad argomentare, dovesse un dì, ivi stare una città popolosa. Soltanto verso mezzodì, si scorge sorgere all’estremità di questo piano inclinato, tutto verde e smaltato di fiori, il tempio della Concordia, ed a levante i pochi ruderi, del tempio di Giunone; l’occhio poi non può dall’alto abbracciare le rovine di altri edifici sacri, che si estendono in diretta linea di quelli, ma può spaziare ancora sulla pianura, la quale si stende a mezz’ora di distanza, verso il mare. Non ci fu dato poterci aggirare oggi fra mezzo a tutto quel mare di verzura, a quei fiori, a quei vigneti, imperocchè, stava a cuore del nostro cicerone; un buon sacerdote piccino, piccino; il farci vedere anzitutto, le cose rimarchevoli della città.

Ci fece osservare prima di ogni altra cosa la strada principale, ben fabbricata; quindi ci fece salire sul punto più elevato dell’abitato, di dove si domina stupendamente la vista di tutti i dintorni, e per ultimo ci portò alla cattedrale. Si osserva in questa un antico sarcofago, benissimo conservato, ora ridotto ad uso di altare. Vi si vede rappresentato Ippolito, trattenuto nel momento di partire per la caccia con i suoi compagni e con i cavalli, dalla nutrice di Fedra, la quale gli porge una tavoletta. Scopo dell’artista era quello di rappresentare bei giovani, e pertanto ha formato, quasi a contrapposto, la vecchia piccina, poco meno che nana, e difettosa. Lo stile della [p. 307 modifica]composizione, mi parve sublime, ed ho visto poche antichità, in istato così perfetto di conservazione. Crederei che quel marmo si possa ritenere opera pregievolissima dell’arte greca antica.

Un vaso poi di bastante grandezza, pregievolissimo questo pure e benissimo conservato, ci riportò alla considerazione di epoca più remota, e si osservano poi quà e là nelle costruzioni della chiesa nuova, avanzi di architettura antica.

Non essendovi in questa città locanda di sorta, ci fu forza accettare l’ospitalità di una buona famiglia, la quale ci ha favorito un ampia alcova, in una camera vastissima. Una tenda verde separa noi, ed i nostri bagagli, dai membri della famiglia, i quali stanno fabbricando maccheroni nella stanza vicina, e di quelli più fini, bianchissimi, piccolissimi, i quali si vendono a più caro prezzo, e che dopo che sono usciti dalla macchina sottilissimi, vengono intrecciati dalle dita abili di giovani ragazze, in guisa da assumere l’aspetto grazioso, di matasse attortigliate. Ci accostammo a quelle giovani, facendoci spiegare i metodi del loro lavoro, e ci dissero che quelle paste si fabbricano colla migliore qualità di frumento, di maggiore peso, denominata grano forte. Il pregio deriva però più dall’opera delle mani, che dalle macchine, e dalla forma del prodotto. Ci servirono un piatto stupendo di maccheroni, lamentando di non averne in pronto di una certa qualità la più fina, la quale non si fabbrica altrove che in Girgenti, ed anzi nella loro casa soltanto; dicendo che quelli, per bianchezza e per squisitezza di gusto, non hanno gli uguali.

Anche alla sera seppe il nostro cicerone porre freno all’impazienza che ci spingeva ad uscire dalla città, portandoci ancora una volta al punto più levato di questa, e facendoci osservare di là l’ubicazione di tutte le cose meravigliose, che domani, ci sarà dato potere contemplare in vicinanza. [p. 308 modifica]


Girgenti, mercoledì 25 aprile 1787.

Uscimmo di città al levare del sole, incontrando vista pittorica, ad ogni passo che movevamo. Conscio di far bene, la nostra guida piccina, ci portò a traverso a quella splendida vegetazione, dove ad ogni tratto incontravamo località, le quali avrebbero potuto essere il teatro di un idillio. Contribuiva a ciò la natura del terreno ondulato, per cui le terre potevano tanto più presto ricoprire e nascondere le rovine, in quanto che quegli antichi edifici, erano costrutti per lo più, di una pietra porosa e leggiera. Pervenimmo per quella via all’estremità, verso levante, della città, dove i ruderi del tempio di Giunone vanno deperendo ogni anno maggiormente, in quanto che i materiali porosi e leggieri, vengono consumati dall’azione dell’aria e delle intemperie. La giornata d’oggi era destinata ad una semplice escursione di curiosità; però Kniep, ha fissata di già il punto, dove domattina verrà stabilirsi per disegnare.

Il tempio sorge attualmente sopra una roccia corrosa dalle intemperie; colà si stendevano in direzione di levante le mura della città, circondando un area di terreni calcari, la quale in origine dovette la sua formazione fra gli scogli che la circondano, all’azione del mare; ed ora discende fino alla spiaggia di questo. Le mura, a tergo delle quali si stendeva la serie dei templi, erano scavate in parte nelle rupi, in parte formate con i materiali tolti da queste. Non havvi quindi dubbio, che Girgenti collocato per tal guisa in pendenza, dovesse dal basso, dal mare, porgere una vista stupenda.

Il tempio della Concordia dura da tanti e tanti secoli; lo stile svelto e grazioso della sua architettura corrisponde alle idee che ci formiamo del bello, del piacevole; paragonato ai templi di Pesto farebbe la figura delle statue delle divinità, poste a fianco d’imagini colossali di giganti. Non voglio addurre lagnanza che si sia proceduto senza gusto [p. 309 modifica]nel lodevole intento di provvedere alla conservazione di quel monumento, otturandone con gesso bianchissimo le fessure, in quantochè si provvidde per tal guisa ad evitare una rovina totale; però sarebbe pure stato facile il dare a quel gesso la tinta antica, dei materiali che costituiscono il monumento. Quando si considera poi la natura poco consistente delle pietre impiegate nella formazione delle colonne e delle mura, si dura per vero dire fatica a comprendere, come abbiano potuto quelle costruzioni matenersi per tanta serie di anni. Se non che, l’architetto riponendo speranza nella posterità, aveva prese le sue precauzioni; difatti si scorgono tuttora nelle colonne le traccie di uno stucco finissimo, il quale mentre doveva renderle più piacevoli alla vista, non poteva pure a meno, di contribuire a guarentirne la conservazione.

La nostra visita successiva fu dedicata alle rovine del tempio di Giove. Giacciono queste sparse a terra quà e là quasi le ossa di un gigante, fra mezzo a varie piccole possessioni, separate le une dalle altre da siepi, dove si scorgono piante ed arbusti. Tutte quelle rovine non hanno più forma, all’infuori di triglifo colossale, e del tronco di una mezza colonna, proporzionata alla grandezza di quello. Allargai le braccia per misurarlo, ma non la potei abbracciare, e vi potrete formare una idea dell’ampiezza e della profondità delle scanellature, quando vi dirò che appoggiandomivi colle spalle, vi stavo dentro quasi ricoverato in una nicchia. Ventidue uomini all’incirca, collocati l’uno contro l’altro, circonderebbero la periferia di quella colonna. Partimmo da quel campo di ruderi, col rincrescimento di avere visto che nulla vi era a fare colà, per un disegnatore.

Le rovine per contro del tempio di Ercole, permettono formarsi tuttora un idea del suo aspetto. Sussistono tuttora i due ordini di colonne, in direzione da tramontana a mezzogiorno, le quali fiancheggiano da ambi i lati il tempio, e scorgesi fra mezzo a quelle un cumolo di terre, prodotto secondo ogni probabilità della rovina delle parti [p. 310 modifica]interne dell’edificio. Le colonne, in cima alle quali correva un architrave, sono rovinate tutte assieme, atterate probabilmente da un terremoto, e giacciono, ridotte in frantumi, in ordine regolare sul suolo, e Kniep, preso dal desiderio di disegnare con precisione quello strano fenomeno, stà ora aguzzando la punta delle sue matite.

Il tempio di Esculapio murato per buona parte in una casa rurale, ed ombreggiato di stupende piante di carrube, porge una vista graziosissima.

Scendemmo poscia al sepolcro di Ferone, lieti di vedere quel monumento riprodotto le tante volte col disegno ed imitato, dalla cui località si abbracciano colla vista verso levante e ponente, l’area su cui sorgeva la città antica, le reliquie della cerchia ora interrotta delle mura di quella, le rovine dei templi. L’abile pennello di Hackert tolse di qui il soggetto di un bel quadro, e Kniep pure intende riportarne almeno uno schizzo.


Girgenti, giovedì 26 aprile 1787.

Allorquando mi svegliai stamane, Kniep era già pronto ad intrapprendere la sua escursione pittorica, con un ragazzo il quale doveva indicargli la strada, e portare le sue carte. Io mi godetti questa mattina la stupenda vista stando alla finestra in compagnia del mio amico segreto, tranquillissimo, ma non però muto. Per una specie di pudore non ho nominato finora il Mentore al quale io ricorro di quando, in quando, per appoggio; si è questi l’ottimo Riedesel2, di cui porto il piccolo volume sul petto quasi un breviario, od un talismano. Ho sempre ricorso volontieri a coloro, i quali sanno quanto io ignoro; e così fo ora. Ma difettano agio, tranquillità, sicurezza di scopo, mezzi [p. 311 modifica]semplici, adatti, studio, cognizioni; non conosco abbastanza le opere di Winckelmann, dalle quali si potrebbe trarre maggiore profitto che da tutto. Ed intanto io non mi posso astenere dall’esaminare alla sfuggita, dal prendere cognizione, superficiale almeno, di quanto non avevo avuto occasione di studiare fin qui. Possa ora quell’uomo eccellente, in mezzo al tumulto del gran mondo, sapere e conoscere che i suoi meriti sono apprezzati da un suo allievo riconoscente, il quale si trova solitario in un luogo solitario che aveva esercitato questo pure tanto fascino sopra di lui, il quale aveva nudrito per un istante desiderio, di potere trascorrere qui il resto de’ suoi giorni, dimenticato da’ suoi, e dimentico di quelli.

Oggi poi sono tornato, in compagnia sempre del mio piccolo prete, nelle località visitate ieri, contemplando sotto diversi aspetti le cose viste, e facendo di quando in quando qualche visita al mio compagno, immerso ne’ suoi disegni.

Il mio cicerone chiamò la mia attenzione sopra un bel particolare della città, antica e possente. Negli scogli e nelle costruzioni, le quali formavano la cerchia delle mura a difesa di Agrigento, si scorgono tombe, destinate probabilmente a sito di riposo dei cittadini buoni e probi. Dove avrebbero potuto quelli trovare tomba più bella, più adatta a perpetuare la loro gloria, a farla servire di esempio ai posteri!

Nell’ampio spazio che si stende fra le mura ed il mare, si scorgono tuttora le reliquie di un tempio antico, ridotto ora a cappella per il culto cristiano, ed ivi pure si scorgono colonne a metà incassate nelle mura, costrutte con massi regolari, e con molta precisione, in guisa da produrre bellissimo aspetto. Direi che quella costruzione appartenga all’epoca, nella quale lo stile dorico avesse raggiunta la sua perfezione.

Osservai colà alcuni piccoli ruderi, ma con ben maggiore attenzione il modo col quale usano qui attualmente conservare i cereali, sotto terra, in ampi magazzeni a volta. Il mio buon prete mi narrò molti particolari delle [p. 312 modifica]condizioni attuali, civili e religiose, della sua patria, e da tutto quanto potei ricavarne, non si trova questa in fiore. Il discorso era propriamente appropriato alle continue rovine fra le quali ci aggiravamo.

Gli strati delle roccie calcari sono tutti inclinati verso il mare, ed è bello scorgere in quelle che trovansi in decomposizione, alla base, gli strati superiori che sporgono in avanti, formando quasi la gronda di un tetto. Qui si odiano i Francesi, ai quali si muove rimprovero di avere posti i Cristiani in balía degl’infedeli, per la pace da essi conchiusa colla Barberia.

Si arrivava qui dalla marina per mezzo di una porta scavata nello scoglio, ed i tratti di mura che tuttora sussistono si scorgono fondati addirittura sullo scoglio. Il nostro cicerone ha nome D. Michele Vella, antiquario, ed abita presso maestro Gerio, vicino a S. Maria.

Nel piantare le fave qui tengono il metodo seguente: praticano alla voluta distanza buchi nella terra, vi cacciano un pugno di concime, aspettano che piova, ed allora sotterrano la fava. Bruciano poi gli steli disseccati delle fave, e si valgono delle ceneri per il bucato. Non fanno punto uso del sapone. Bruciano parimenti la corteccia esteriore dei mandorli, e si valgono di quella cenere, a vece di soda. Lavano dapprima i panni nell’acqua, quindi li sciacquano in quella lisciva.

La loro rotazione agraria è la seguente. Fave, frumento, tumenia, ed il quarto anno lasciano riposare il campo, mandandovi il bestiame a pascolo. Il tumenia, il cui nome vuolsi derivato da bimenia, è un dono prezioso di Cerere; una specie di grano estivo, il quale matura in tre mesi. Lo seminano in principio di gennaio, e nel giugno è sempre maturo. Non richiede molt’acqua, ma ha bensì d’uopo di molto caldo. Da principio ha foglia sottilissima, cresce parallellamente al frumento, ed in ultimo è molto forte. Il frumento poi, lo seminano in ottobre o novembre, e matura in giugno. L’orzo seminato nel novembre, è parimenti maturo nel giugno, e sulle sponde del mare, vari giorni prima che nei monti. [p. 313 modifica]

Il lino è già maturo, e accanto ha spiegate le sue foglie stupende. La calsola fructicosa cresce dovunque in abbondanza. Sulle colline incolte cresce spontaneamente molta esparsetta. Se ne dà la raccolta in affitto, e la si porta per buona parte in città. Vendono parimenti, ridotta in fasci, l’avena che tolgono dai campi, nel ripulire il grano.

Suddividono con solchi in molte aiuole i terreni dove intendono piantare cavoli, per agevolare in questi il corso, e lo scolo alle acque.

Le piante di fichi hanno già tutte le loro foglie, e si cominciano a scorgere i frutti. Maturano questi verso il S. Giovanni, e dopo la pianta produce un secondo raccolto. Prosperano molto i mandorli, ed una pianta vigorosa poi di carruba, porta una quantità propriamente sorprendente di frutta. Le viti destinate a produrre uve per mangiare, e non per fare vino, sono tenute a pergolati, sostenuti da alti pilastri. Seminano nel marzo i poponi, i quali maturano nel giugno. E nelle rovine del tempio di Giove crescono stupendamente, senza traccia di sorta di umidità.

Ho visto il nostro vetturino il quale mangiava carciofi crudi, e parimenti rape crude con grande appetito; vuolsi però dire che qui sono molto più teneri, e di gusto molto più squisito che presso noi, e quando si passeggia per i campi, i contadini vi lasciano mangiare favi tenere, a cagion di esempio, quanto si vuole.

Mentre io stavo osservando pietre nere, molto pesanti le quali avevano tutta l’apparenza di lava, il mio antiquario mi disse che provenivano difatti dall’Etna, e che se ne trovavano molte sul porto, o per meglio dire al punto di approdo.

Gli uccelli, ad eccezione delle quaglie, non abbondano molto in queste contrade. Gli uccelli di passaggio sono gli usignuoli, le lodole, le rondini. Havvi poi una specie di piccoli uccelli neri, detti rinnine, i quali provengono dal levante, covano le loro uova in Sicilia, quindi partono di bel nuovo. Altri a cui danno nome di ritena vengono [p. 314 modifica]in dicembre ed in gennaio dall’Africa; si posano qui per qualche tempo, e poi salgono sui monti.

Non ho fatta parola ancora del vaso del duomo. Si scorge su quello un eroe, armato di tutto punto, nell’atto di presentarsi ad un personaggio vecchio, seduto, che dallo scettro e dalla corona, si riconosce essere un re. A tergo di questo si scorge una donna in attitudine riflessiva, con il capo inclinato, la quale sostiene colla mano sinistra il mento. Parimenti si scorge di fronte, dietro all’eroe, un vecchio, colla corona sul capo, questi pure, il quale stà parlando con un individuo armato di uno spiedo, che sembra dovere essere una guardia. Si direbbe che quest’ultimo vecchio, debba avere introdotto l’eroe, e che stia dicendo alla guardia: «lasciate pure che parli col re; è uomo del quale nulla si ha da temere.»

Sembra che in origine il fondo del vaso dovesse essere di colore rosso; le figure sono dipinte in nero, e soltanto sugli abiti in nero della donna, si scorgono traccie di ornati di colore rosso.


Girgenti, venerdì 27 aprile 1787.

Kniep ha d’uopo di lavorare indefessamente, per portare a compimento tutti i disegni a cui ha posto mano; io intanto con il mio piccolo vecchietto, vado girando quà e là. Siamo stati a passeggiare sulla sponda del mare, dal quale Girgenti doveva pure porgere la bella vista che asseriscono gli scrittori antichi. Tenevo lo sguardo rivolto sulla liquida pianura, ed il mio cicerone mi fece osservare all’orizzonte, verso mezzo giorno, una lunga linea di nuvole, le quali assumevano forma quasi di una catena di monti, assicurandomi essere quelle le coste di Africa. Intanto io stavo osservando un altro fenomeno; si era venuto formando poco a poco un arco leggiero di nuvole, il quale disegnandosi sulla limpidezza azurrina del cielo, posava da una estremità sulla Sicilia, mentre l’altra [p. 315 modifica]estremità si perdeva in mare, nella direzione di mezzo giorno. Illuminato questo dal sole, il quale volgeva all’occaso, faceva una bellissima vista. La mia guida mi disse che quell’arco correva nella direzione di Malta, ed essere possibile che posasse sù quell’isola l’altra sua estremità; essere questo del resto fenomeno che si osservava di frequente. E sarebbe pure strana cosa, che la forza di attrazione delle due isole, si dovesse esercitare in questo modo, a traverso l’atmosfera.

Quella vista mi portò a pensare ancora una volta, se io non dovessi recarmi pure a Malta? se non che, sorgevano di bel nuovo le difficoltà ed i pericoli, i quali ci avevano trattenuti fin qui, e finimmo coll’aggiustarci con il nostro vetturino, perchè ci portasse a Messina.

Intanto mi premeva togliermi una soddisfazione. Non avevo visto fin qui nella Sicilia contrade ricche di cereali, avendo trovato sempre l’orizzonte circoscritto a maggiore od a minore distanza dai monti, in guisa che avrei ritenuto difettasse l’isola di pianure, e non potevo comprendere, come fosse questa la terra prediletta da Cerere. Domandai informazioni a questo riguardo, e mi fu risposto che per vedere contrade ricche di cereali, non mi dovevo già portare a Siracusa, ma bensì traversare l’isola diagonalmente. Rinunciammo pertanto a vedere Siracusa, e con tanto maggiore facilità, in quantochè sapevamo benissimo che di quell’antica città, cotanto splendida un tempo, non rimanga oramai altro che il nome. Ed in ogni caso poi, volendo vedere Siracusa, vi ci potremo portare da Catania.


Caltanisetta, sabbato 28 aprile 1787.

Finalmente oggi abbiamo avuto campo di persuaderci, come la Sicilia abbia ottenuto, e meriti difatti, il nome onorifico di granaio d’Italia. Poco dopo aver lasciata Girgenti, comminciammo a trovare i terreni fertilissimi, i [p. 316 modifica]quali producono il grano. Non sono già vaste pianure, ma bensì una serie di collinette poco elevate, di campi ondulati, seminati tutti ad orzo ed a grano, i quali porgono l’aspetto di una fertilità meravigliosa. Tutta la terra poi vi è riservata unicamente ai cereali, per modo che non si scorge un solo albero, e che tutti i villaggi e le abitazioni, sorgono sul dorso delle colline, le quali per la loro natura calcare, non sono atte alla coltivazione del grano. Le donne abitano in quei villaggi tutto l’anno, occupate nel filare, e nel tessere; mentre all’epoca dei lavori di coltivazione, gli uomini non si portano nei villaggi che il sabbato a sera, trattenendovisi unicamente la domenica, e vivendo gli altri giorni della settimana nei campi, passando le notti entro capanne formate di canne. Il nostro desiderio si trovò per tal guisa soddisfatto a sazietà, ed anzi avressimo voluto avere le ali di Trittolemo, per sottrarci a cotanto fastidiosa uniformità.

Camminammo tutta la giornata sotto la sferza del sole, in quella contrada deserta ma fertilissima, rallegrandoci di arrivare al fine a Caltanisetta, la quale giace in buona posizione ed è ben fabbricata, ma dove non riuscimmo, qui neppure, a trovare una locanda tollerabile. I muli sono alloggiati in buone stalle, costrutte a volta; i mulattieri dormono sul trifoglio destinato alle loro bestie, ma il forastiero è forza pensi in anticipazione, ad assecurarsi di un alloggio. Prendendo una stanza a caso, fa d’uopo pensare anzi tutto a pulirla. Non vi sono nè banchi, nè sedie; per sedere non si hanno che tronchi bassi d’alberi; di tavoli poi non ve ne ha neppure l’ombra.

Se si vuole provare di formare con quei tronchi d’albero un letto, si và da un falegname e si prendono tante tavole a nolo quante occorrono.

Il sacco di cuoio datoci in imprestito da Hackert, ci tornò utilissimo in questa congiuntura, dopo averlo riempito di foglie secche.

Intanto però era d’uopo, prima di ogni cosa, pensare a mangiare. Avevamo comperata una gallina per istrada, ed [p. 317 modifica]il vetturino, tosto arrivato qui, si era portato a fare acquisto di riso, di sale, di spezierie; se non chè, non conoscendo il paese dove veniva per la prima volta, dovette stare fuori un pezzo, per trovare sovratutto un sito dove piantare la cucina, imperocchè nella nostra stanza non vi era camino. Finalmente un vecchio abitante si piegò a fornirci a discreto prezzo, focolare anzi tutto, poi legna, vasellame da cucina, piatti, coltelli, forchette, e mentre la nostra gallina stava cuocendo ci portammo a girare la città, riuscendo in fine sulla piazza del mercato, dove i cittadini più distinti stavano seduti secondo l’usanza antica, trattenendosi in conversazione, alla quale vollero ammettere noi pure.

Dovettimo parlare di Federico II e la parte che prendevano quei signori alle imprese di quel re era cotanto viva, che ci guardammo bene di fare parola della sua morte, per non renderci per avventura invisi, ai nostri ospiti con tale triste notizia.


Caltanisetta, sabbato 28 aprile 1787.

Supplemento geologico. Partendo da Girgenti, ai piedi delle colline calcari trovansi terre vegetali bianchissime, dove si scorge la calce antica, frammista al gesso. S’incontrano ampie valli, piane; monti coltivati spesse volte sino al vertice, e formati per lo più di roccie calcari, frammiste a gesso decomposto. Dopo quelli si cominciava a trovare pietre calcari gialliccie, porose, le quali si decompongono con tutta facilità, e si può osservare la tinta di quelle negli stessi campi coltivati, dove spesse volte è più oscura, ed anzi propende verso il colore violaceo. Poco dopo a metà via, ricompare il gesso. Si forma di frequente in questo una vegetazione parasita, di un bel colore fra il violaceo ed il color di rosa, e sulle roccie calcari si scorge spesso muschio, di una bella tinta gialla. [p. 318 modifica]

Trovasi poi di bel nuovo quella pietra calcare in decomposizione, specialmente in vicinanza di Caltanisetta, dove la si scorge nei campi, anche contenente conchiglie, e quivi assume tinta rossa, quasi di minio, con poche macchie di colore violaceo, quale io l’aveva osservata di già, nelle vicinanze di S. Martino.

Frammenti di quarz ne ho trovati pochi; e soltanto in una piccola valle, a mezza strada, la quale chiusa da tre parti, era aperta unicamente a levante, e pertanto verso il mare.

A sinistra sorgeva in lontananza il monte altissimo, di forma meravigliosa, quasi di picco, presso Camerata. Lungo ben mezzo la strada, non si vedeva un solo albero. I grani erano stupendi, tuttochè di minore altezza di quelli in vicinanza di Girgenti, e vicino al mare; pulitissimi poi, nessuna pianta estranea cresceva nei campi, fra quelli. Dapprima non vedemmo altro che campi verdeggianti; quindi campi arati di recente, e quà e là, nelle località più umide qualche piccolo tratto di praterie; ivi scorgevansi pure alcuni pioppi. Poco dopo Girgenti trovammo piante di pomi, di peri, e nelle località più elevate, come parimenti in vicinanza degli abitati, piante di fichi.

Tutte le terre che potei osservare a diritta ed a sinistra lungo queste trenta miglia di strada, sono tutte di natura calcare, con mescolanza di gesso, ed il terreno vegetale, deve la sua meravigliosa fertilità alla combinazione ed alla decomposizione di quegli elementi. La sabbia vi è poca, e quella terra scricchiola appena posta sotto i denti; domani troveremo forse l’origine di queste sabbie nel fiume Acate. Le valli hanno belle forme, e tuttochè non siano propriamente piane, non vi si osservano traccie dell’azione delle acque; non vi sono torrenti, ma unicamente piccoli rivi, i quali scendono al mare. Vidi poco trifoglio rosso, e così pure scarseggiano i palmizi nani, non che i fiori e le piante della costa fra mezzogiorno e ponente. I cardi selvatici sono tollerati unicamente lungo le strade; tutti gli altri tratti di terreno sono [p. 319 modifica]riservati a Cerere. Del resto questa contrada nell’aspetto porge molta rassomiglianza con quelle della Germania dove abbondano le colline di poca altezza, quale sarebbe, a cagion d’esempio, la regione fra Erfurth, e Gotha. Era d’uopo del concorso di molte circostanze per formare della Sicilia una fra le più fertili contrade del globo.

Abbiamo visti pochi cavalli lungo il nostro viaggio; si valgono di buoi per arare i campi, ed esiste una proibizione di uccidere vacche, e vitelli. Abbiamo incontrate poi molte capre, asini, e muli. I cavalli sono per lo più grigi pomellati, con piedi e criniera neri, ed esistono buone stalle, costrutte in muratura; concimano la terra per seminare le fave; e le lenticchie, e gli altri prodotti di campi maturano dopo questa stagione. Si trovano esposti in vendita, ridotti e disposti in fasci nei campi, orzo e trifoglio rosso freschi.

Sul monte sopra Caltanisetta trovansi roccie calcari di natura compatta, le quali ora si vanno decomponendo; negli strati superiori si scorgono conchiglie grosse, negli strati inferiori piccole, e nel selciato della piccola città, abbiamo potuto osservare pettiniti, frammiste a pietre calcari.


Il 28 aprile 1787.

Oltrepassata Caltanisetta le colline diventano più rapide, e formano varie valli, le quali versano le loro acque nel fiume Salto. Il terreno vegetale è rossiccio molto, argilloso, e tuttora fertile, benchè inferiore sotto questo aspetto ai terreni che avevamo visti fin qui.


Castrogiovanni, domenica 29 aprile 1787.

Anche oggi abbiamo attraversato contrada fertilissima, ma totalmente spopolata. Era caduta molta pioggia; le strade erano cattive, ed il viaggiare molto incomodo, per [p. 320 modifica]la necessità di attraversare di continuo rivi e torrenti ingrossati. Giunti al Fiume Salso, dove invano si desidera un ponte, fummo sorpresi da spettacolo curioso. Uomini robusti e nerboruti, presero ad accompagnare due a due ogni mulo che portava un viaggiatore, od era carico di bagagli, sostenendoli a traverso la corrente, fino ad un tratto asciutto di ghiaie; e quando tutta la comitiva fu radunata su quello, altri uomini armati di lunghe sbarre presero ad indicare agli animali la retta via, ed a sorreggerli nel passaggio di un secondo braccio del fiume, che correva più impetuoso. Nelle vicinanze del fiume trovasi un certo tratto di terreno alquanto alberato, il quale però non tarda guari a scomparire. Il fiume Salso trasporta granito, gneis, breccie, e marmi di varie tinte.

Oltrepassato quello vedemmo comparire il monte isolato, in cima al quale sorge Castrogiovanni, e che dà a tutta la contrada un carattere severo e strano. Nel salire la lunga strada, la quale si svolge attorno al monte, potemmo osservare essere formato questo di roccie calcari, a grossi strati, in parte calcinate. Non si scorge Castrogiovanni se non quando si è pervenuti in cima al monte, imperocchè l’abitato si trova addossato alla pendice la quale guarda verso settentrione. L’aspetto di questa piccola città, della sua torre, è serio, ed a poca distanza a sinistra si vede sorgere il villaggio di Caltascibetta di aspetto parimenti cupo e malinconico. Nella pianura si scorgevano i campi delle fave in piena fioritura, ma chi mai avrebbe potuto godere quello spettacolo! Le strade erano pessime, e tanto più disastrose, in quantochè una volta erano state selciate, e continuava a piovere a dirotto. L’antica Eona ci fece triste accoglienza, la nostra stanza non aveva pavimento; mancavano le impannate alle finestre, cosichè ci era forza o vivere nelle tenebre, ovvero rimanere esposti agli spruzzi della pioggia. Consumammo quel poco che ci rimaneva delle nostre provviste, e passammo una cattiva notte davvero, facendo sacramento di non prendere più mai, a meta del nostro viaggio, un nome mitologico. [p. 321 modifica]


Lunedì, 30 aprile 1787.

La strada che scende da Castrogiovanni è rapida, disastrosa, ci fu d’uopo portare per quella i nostri cavalli a mano. Il cielo era coperto di nubi, e potemmo osservare un curioso fenomeno in cima alle maggiori alture, dove il cielo listato di bianco, e di grigio, aveva aspetto quasi di materia solida, se non chè, come mai si potrebbe applicare quest’appellativo al cielo? La nostra guida ci disse che in quella direzione sorgeva l’Etna, la quale diventava visibile quando si squarciavano alcun poco le nubi, e che le striscie bianche e nere che vedevamo erano formate dalle nevi e dalle pendici del monte, di cui non si scorgeva però la maggior vetta.

Lasciammo a tergo in cima al suo monte isolato l’antica Enna, avviandoci per una valle lunga, lunga, solitaria, incolta, disabitata, abbandonata al pascolo di armenti, i quali cominciavano ad essere neri di pelo, di bassa statura, con corna piccoline, di forme snelle poi, e di aspetto vivace, quasi altrettante capre. Quelle buone bestie trovavano erba bastante a pascolare, se non che era loro contrastata questa in molti punti dalla presenza dei cardi selvatici. Queste piante hanno quivi tutta la facilità ad estendersi, a moltiplicarsi, ed occupano spazi, i quali basterebbero a formare le praterie di cospicui latifondi; sarebbe però facile il farle scomparire, estirpandole quali si trovano al presente, prima del loro fiorire.

Però mentre stavamo meditando questa guerra a morte ai cardi selvatici, dovetti osservare con nostra sorpresa, che questi non sono poi totalmente inutili. Trovammo in una bettola solitaria, dove ci fermammo per dar rinfresco alle nostre cavalcature, due gentiluomini siciliani i quali attraversavano in diagonale dessi pure l’isola, portandosi a Palermo per una lite. Provammo stupore nello scorgere quei signori intenti a cavare fuori, colla punta di piccoli coltelli da tasca, la polpa dell’estremità superiore delle [p. 322 modifica]piante di un gruppo di quei cardi selvatici, e portasela fra le dita, mangiarla con vero gusto. E la durarono buona pezza, mentre ci riconfortammo con ottimo pane, e con vino, il quale questa volta non era mescolato. Il nostro vetturino ci preparò di quelle punte di cardi, e volle che le assaggiassimo, assicurandoci essere cibo saporito, rinfrescante, ma per dir vero non ci andarono guari più a genio, delle rape crude di Segesta.


Per istrada il 30 aprile.

Pervenuti nella valle dove svolge suoi meandri il fiume S. Paolo, trovammo la terra di colore rossiccio cupo, con calce decomposta; quella valletta con piani abbastanza vasti, in buona parte incolti, percorsa da quel piccolo fiume, è piacevolissima. Il terreno vegetale omogeneo, vi raggiunge la profondità perfino di venti piedi. Gli aloe vi crescono benissimo; i loro frutti sono belli, inferiori però a quelli che si vedono nella parte meridionale dell’isola. Si scorgono quà e là alcune casipole, ma da Castrogiovanni in poi, non abbiamo trovato più un albero. Sulle sponde del fiume si scorgono molti pascoli, ai quali contrastano, qui pure, il campo i cardi selvatici. Nelle acque del fiume poi osservai frammenti di quarz, in parte semplici, in parte a forma di breccie.

Arrivammo a Molimenti, paesello totalmente nuovo, in bella posizione, sulle rive del fiumicello S. Paolo. I grani vi erano di una bellezza meravigliosa, e per il 20 di maggio dovranno essere maturi al taglio. In tutta quanta la contrada non ho osservato traccia di natura volcanica, e neanco nelle acque del fiume non ho visto sassi, i quali possano ripetere quella origine. La terra vi è fertile, pesante piuttosto che leggiera, e di una tinta fra il violaceo ed il colore di caffè. Tutti i monti a sinistra del fiume sono di natura calcare, con mescolanza di ciottoli e sabbie; ma non mi fu possibile osservarli con attenzione, [p. 323 modifica]imperocchè si trovano in istato di piena decomposizione; ed anzi si è questa, che diede luogo alla formazione del terreno vegetale fertile, del fondo della valle.


Martedì, 1 maggio 1787.

Viaggiammo oggi, e piuttosto di mal umore, in una valle non guari coltivata, tuttochè piuttosto fertile per natura, dolenti di non trovare in tanta uniformità di paese soddisfazione allo scopo pittorico del nostro viaggio. Kniep aveva per dir vero fatto il fondo di un disegno, se non chè nulla trovando che gli andasse a genio per il centro, non chè per il fondo del suo quadro, vi pose con poca fatica alcuni accessori nello stile del Poussin, e finì per eseguire un disegno molto grazioso. E quanti disegni non vi saranno, di viste prese per viaggio, in quali non saranno per tal guisa che in parte conformi al vero.

Il nostro vetturino per dissipare alquanto il nostro malumore ci promise un buon albergo per la sera; e difatti ci portò in una locanda costrutta da pochi anni su questa strada, a metà cammino da Catania, dove finalmente dopo dodici giorni ci fu dato di godere di qualche agio. Ci colpì poi un iscrizione che trovammo tracciata col lapis sur una parete, in carattere inglese molto elegante. Era la seguente: «Passeggiere, chiunque tu sii, guardati bene a Catania, dall’albergatore del Leone d’oro; egli è peggiore dei Ciclopi, delle Sirene, di Scilla, per chi ha la disgrazia di cadere ne’ suoi artigli.» Per quanto ritenemmo che il previdente viaggiatore potesse avere magnificato il pericolo col ricorrere alla mitologia, formammo però il proposito di schivare il leone l’oro, il quale ci veniva indicato quale animale di tanta ferocia. Ed allorquando il nostro mulattiere ci domandò dove intendessimo prendere alloggio a Catania, rispondemmo entrambi in coro «dovunque; purchè non al Leone d’oro!» ed egli allora mi fece la proposta di allogiarmi, come già aveva fatto per [p. 324 modifica]altri viaggiatori, nella locanda dove egli usava ricoverare le sue bestie, e non replicammo parola, non avendo altro desiderio, fuorchè quello di schivare gli artigli della terribile fiera.

Nelle vicinanze d’Ibla Maggiore si trovano frammenti di lava, che le acque portano da settentrione, e nell’attraversare quelle si scorgono pietre calcari, o frammenti di lava, che tutti furono sottoposte all’azione del fuoco. Le colline ghiaiose continuano fin presso Catania, ed in vicinanza di quella, ed oltre quella, si osservano i torrenti della lava proveniente dall’Etna. E già presso Molimenti, furono questi ridotti a coltura. Ivi si scorge come la natura si compiaccia della varietà, imperocchè sulla lava di una tinta, fra il nero, il grigio, e l’azurrino, si forma un muschio di un giallo intenso, sul quale crescono erbe, e si scorgono bei fiori rossi e violacei. Si vedono pure coltivate con molta cura le piantagioni, di cactus, non che le viti. Crescono sempre intanto i torrenti di lava. Ibla sorge sopra una bella rupe; vi si scorgono campi bellissimi di fave, e le terre variano, essendo ora ghiaiose, ora compatte.

Il nostro vetturino, il quale forse non aveva vista più da qualche tempo in tutto il suo splendore questa vegetazione di primavera sulla costa meridionale, non cessava dall’esclamazioni con meraviglia, intorno alla bellezza di quello spettacolo, e ci domandava con senso di patriottica compiacenza, se tale colpo d’occhio si ravvivasse del pari nelle nostre contrade? Qui tutto è sacrificato alla coltivazione; non vi si scorgono che pochissimi alberi, anzi quasi nessuno. Intanto venne a parlare col nostro mulattiere una ragazza, sua antica conoscenza, giovane di corporatura snella ed elegante, la quale cinguettava allegramente, filando la sua conocchia. Di là cominciano a primeggiare i fiori di colore giallo, e presso Misterbianco si scorgono di bel nuovo siepi più belle e più regolari di questa pianta elegantissima, le quali diventano sempre più abbondanti, a misura che la strada si avvicina a Catania. [p. 325 modifica]


Catania, mercoledì 2 Maggio 1787.

Per dir vero nella nostra locanda ci trovammo molto male. I cibi, quali se li potè procurare il nostro mulattiere, non erano punto i migliori. Una gallina cotta nel riso non sarebbe stata da disprezzare, se tutto il piatto non fosse stato tinto in giallo, e profumato con sovrabbondanza di zafferano. Un letto scellerato quasi ci avrebbe costretti ad avere ricorso di bel nuovo al sacco di cuoio di Hackert, e non mancammo al mattino per tempo di porgere le nostre lagnanze al locandiere. Egli si scusò di non averci potuto trattare meglio, indicandoci più sopra nella strada una casa, dove disse che si faceva buona accoglienza ai forastieri, i quali avevano ogni ragione di rimanerne soddisfatti. E difatti ci fece vedere all’angolo della via un casamento grandioso, che dall’apparenza esterna prometteva bene. Ci portammo tosto colà, e vi trovammo un uomo disinvolto il quale ci offrì suoi servigi in qualità di domestico di piazza, e che, nell’assenza del padrone della locanda, pose a nostra disposizione una bella camera, ed inoltre una sala, assicurandoci, che saressimo stati trattati bene, ed a prezzo equo. Domandammo quanto avressimo dovuto pagare per alloggio, colezione, pranzo, vino, servizio; in una parola per tutto? Il prezzo fu ragionevolissimo, e ci affrettammo di far trasportare colà i nostri scarsi bagagli, che allogammo in un ampio e bello armadio, tutto dorato. Kniep trovò per la prima volta, dopo vari giorni, agevolezza a lavorare comodamente; egli cavò fuori suoi disegni, ed io i miei libri, le mie carte. Soddisfatti del nostro stabilimento, ci portammo sul balcone della sala per godere la vista, e dopo averla contemplata a nostro bell’agio ci disponevamo a rientrare nelle stanze per attendere alle nostre occupazioni, quando vedemmo stare penzolone minaccioso sulle nostre teste, un grosso leone d’oro. Ci guardammo fissamente, e poi finimmo per scoppiare dalle risa, volgendo [p. 326 modifica]lo sguardo tutto attorno, per vedere se non sorgeva in qualche angolo un qualche mostro mitologico.

Nulla vedemmo di questo genere, ed anzi trovammo nella sala una donna giovane e di grazioso aspetto, con un bambino di due anni all’incirca, che stavano colà correndo e divertendosi, ma che non tardarono ad essere cacciate con mal garbo dal troppo zelante albergatore, il quale disse alla donna, che nulla aveva a fare colà entro. — Se non che la giovane non si lasciò punto spaventare; replicando, «Sei pur duro, dacchè sai che non havvi modo di tranquillare il bambino quando sei lontano; e questi signori mi vorranno per certo permettere di divertirlo alla loro presenza.» Il marito non replicò, cercando portar via il piccino, il quale prese a piangere, ed a strepitare nel modo il più compassionevole, cosicchè ci fù forza alla fine intercedere per la graziosa donnetta, e per la sua creatura.

Posti in guardia dall’Inglese, non potevamo essere illusi da quella comedia; femmo i nuovi, gl’innocenti, in tanto l’albergatore fece valere i diritti di sua paternità. E per dir vero il bambino era graziosissimo con lui, e probabilmente la pretesa madre gli aveva dati pizzicotti dietro la porta, per farlo gridare. Intanto ella pure era rimasta colà, in attitudine di donna innocente, mentre il marito era uscito, per recare una nostra commendatizia, al prete di casa del principe Biscari. La donnetta non cessò di scherzare, in fino a tanto tornò il locandiere, il quale ci disse che l’abate stesso ci sarebbe venuto a trovare, ed a mettersi alla nostra disposizione.


Catania, giovedì 3 maggio 1787.

L’abate, il quale era venuto fin di ieri sera a fare la nostra conoscenza, comparve stamane per tempo, e ci portò nel palazzo il quale non ha che un solo piano molto alto, ed ivi ci fece vedere per la prima cosa il museo, [p. 327 modifica]dove trovansi radunate statue in marmo, ed in bronzo, vasi, e varie altre specie di oggetti antichi. Trovammo ivi di bel nuovo occasione di allargare le nostre cognizioni, e più di ogni altro oggetto ci colpì la caduta di un Giove, della quale io aveva vista già la riproduzione in gesso nello studio di Tischbein, ma che porge, nell’originale, pregi ben maggiori di quanto avrei supposto. Un famigliare di casa ci forniva le notizie storiche occorrenti, e finimmo per entrare in un ampia sala, dove le molte sedie appoggiate alle pareti, lasciavano luogo ad argomentare dovesse ivi radunarsi talvolta società numerosa. Intanto sedemmo, prevedendo buona accoglienza. Cominciarono ad arrivare due ragazze, le quali presero a camminare sù e giù per la stanza, parlando fra loro. Allorquando ci passarono davanti l’abate si levò in piedi, io ne feci altrettanto, e salutammo. Domandai chi fossero quelle due giovani, e l’abate mi rispose che una era la principessina, l’altra una signorina nobile di Catania. Tornammo a sedere; e le due signorine continuarono a passeggiare sù e giù per la sala, come avrebbero potuto fare sur una piazza.

Fummo poscia presentati al principe, il quale siccome già mi era stato detto, ci usò particolari riguardi, facendoci vedere la sua raccolta di monete; imperocchè, avendo avuto in questa occasione a lamentare perdite, prima suo signor padre, e dopo egli pure, si trovò costretto a porre limiti per prudenza alla sua liberalità. Potrei quivi fare mostra di qualche cognizione acquistata recentemente, nel visitare il medagliere del principe di Torremuzza. Ed anche questa volta allargai d’alquanto la cerchia delle mie cognizioni in questo ramo, ponendo attenzione a non scostarmi menomamente dalla traccia segnata dal Winckelmann la quale serve di guida sicura, a traverso le varie epoche. Il principe, versatissimo in quella scienza, scorgendo in me non già un conoscitore, ma unicamente un dilettante, volle cortesemente essermi largo di ammaestramenti, e di spiegazioni. [p. 328 modifica]

Dopo avere dedicato un certo tempo, tuttochè troppo scarso, ad esaminare quelle rarità, eravamo sul punto di congedarsi, allorquando il principe ci volle portare ancora nel quartiere della sua signora madre, dove vi erano tuttora alcuni oggetti d’arte a vedere.

Trovammo una gentildonna di aspetto distinto, di modi semplici, la quale ci accolse con molta naturalezza, dicendoci «Guardate qui tutto attorno a me, signori, troverete tutte le cose ancora, quali le aveva raccolte ed allogate, la felice memoria di mio marito. Sono debitrice alla bontà d’animo di mio figliuolo, non solo di avere voluto che io continuassi ad abitare il quartiere migliore del palazzo, ma ancora che non fosse tolta o dissestata in queste stanze la menoma cosa, di quanto vi aveva radunato ed allogato il povero suo padre; onde io ho il doppio vantaggio, sia di potere continuare a vivere secondo le mie abitudini di tanti anni, sia di potere fare, come ora, la conoscenza dei forastieri distinti, i quali vengono visitare le nostre rarità, raccolte e radunate da tanti diversi siti.»

Ed allora quella buona signora ci aprì dessa stessa la bacheca a vetri, dove stavano gli oggetti in ambra. Quella di Sicilia si scosta da quella delle contrade settentrionali, in ciò, che tanto quella trasparente, quanto quella opaca di colore di cera ovvero di miele, assume tutte le variazioni di tinte, dal giallo che pare raso, al più bel rosso di giacinto. Vi erano urne, vasi, ed altri oggetti lavorati e scolpiti, pregevoli taluni non solo per il magistero dell’arte, ma ancora per la mole. La signora godeva nel farci ammirare questi oggetti, come parimenti conchiglie lavorate ad intaglio, le quali si eseguiscono a Trapani, nonchè lavori in avorio, narrandoci anneddoti relativi alla collezione. Il principe ci faceva osservare gli oggetti degni di maggiore attenzione, e per tal guisa passammo alcune ore non solo piacevolmente, ma con profitto ancora, per la nostra istruzione.

Intanto la principessa avendo udito che eravamo [p. 329 modifica]Tedeschi, ci domandò notizie dei signori Riedesel, Bartels, Munter, che tutti aveva conosciuti, apprezzando con finezza il carattere, ed il contegno di ognuno. Ci separammo con rincrescimento da lei, e dessa pure mi sembrò spiacente, di vederci partire. Quest’isolani vivono pure vita appartata, e non sono frequenti le occasioni, nelle quali possono rinnovare, scambiare le loro idee.

Allora l’abate ci portò nel convento dei Benedettini, e c’introdusse nella cella di un monaco, uomo dì mezz’età, il cui aspetto serio, ed anzi malinconico, non prometteva per dir vero conversare molto piacevole. Egli era però l’artista abilissimo, che solo è capace di governare l’organo colossale di quella chiesa. Allorquando egli ebbe piuttosto indovinato il nostro desiderio, che dato ascolto alle nostre parole, tacendo egli si dispose a favorirci; ci portammo in una vasta chiesa, la quale non tardò a risuonare in ogni angolo delle armonie di quello stromento prodigioso, le quali variavano dalle note le più dolci e le più soavi, agli scoppi i più romorosi del tuono.

Chi non avesse visto prima l’artista, avrebbe creduto che l’organo fosse suonato da un gigante; ma noi che lo avevamo visto dapprima, ci meravigliavamo che non fosse rimasto già da tempo soccombente in quella lotta disuguale.


Catania, venerdì 4 maggio 1787.

Oggi, poco dopo il pranzo, l’abate ci venne prendere con un legno, per farci vedere le parti più remote della città, se non che nel salire in carrozza, sorse una quistione abbastanza curiosa di ceremoniale. Io ero salito per il primo, ed avevo preso posto alla sinistra, lasciando la diritta al reverendo, ma questi non ne volle sapere, ed alla preghiera che io gli porsi di non badare alle cerimonie. «Scusate, egli disse, quando io prendessi posto alla vostra diritta, crederebbe ognuno che siete voi che portate me a passeggio; mentre se io prenderò posto [p. 330 modifica]alla vostra sinistra, s’intenderà che sono io che vi porto per incarico del principe a visitare la città.» Nulla vi era per dir vero da replicare a questo ragionamento, e così fu fatto.

Percoremmo la strada verso il monte, dove si scorge oggidì tuttora la lava, la quale nel 1669 distrusse buona parte della città. Il letto dell’antico torrente di fuoco trovasi ora coltivato, al pari di qualunque altro campo; in alcuni punti furono tracciate strade, e scorgonsi di già innalzati edifici. Tolsi meco un pezzo autentico di quel materiale in fusione, ricordando come prima della mia partenza dalla Germania fosse sorta contestazione intorno all’origine volcanica dei basalti, e la stessa cosa feci in altri punti per potere osservare le varie modificazioni.

Sarebbero però vani tutti gli sforzi dei viaggiatori, se gli abitanti stessi del paese o per mira di lucro, o per amore della scienza, non si dessero pensiero per i primi di raccogliere quanto di raro e di pregevole porge la loro contrada. Già a Napoli un mercante di oggetti in lava, mi aveva raccomandato vivamente di cercare a fare la conoscenza di un cavaliere Gioeni. Lo trovai in mezzo alla sua ricca collezione, elegantemente disposta, delle lave dell’Etna, dei basalti, che si trovano ai piedi del monte, non che di altre specie di materiali geologici. Egli mi fece vedere ogni cosa con molta compiacenza, e trovai meravigliosi alcuni zooliti specialmente, tolti da ripidi scogli in mare, presso Iaci.

Allorquando parlammo col cavaliere del modo che si sarebbe dovuto tenere per salire in cima all’Etna, non volle udire far parola di quell’impresa, specialmente in quest’epoca dell’anno. «Sovratutto, diss’egli, dopo averci domandata scusa, i forastieri prendono quella ascensione con troppa leggerezza; mentre noi, i quali abitiamo vicino al monte, e che lo conosciamo, ci contentiamo di trovare due volte in vita, congiuntura favorevole di salire sulla sua vetta, Bridone il quale colla sua descrizione ha fatto nascere in tutti la brama dell’ascensione, non è [p. 331 modifica]salito fino in cima; il conte Bock il quale lascia il lettore nell’incertezza, non pervenne egli pure che ad una certa altezza, e la stessa cosa potrei dire di vari altri. Finora le nevi scendono ancora troppo al basso, e frapporrebbero troppi ostacoli all’ascensione. Se vorrete dar retta ad un mio consiglio, fatevi portare domattina per tempo ai piedi del Monte Rosso, e salite in cima a quello. Godrete una vista stupenda, e potrete osservare di dove abbia prese le sue origini, il torrente di lava, che disgraziatamente si diresse nel 1669, sulla nostra città. Vi ripeto che di là, la vista è stupenda, e la si può afferrare tutta a colpo d’occhio; in quanto al resto, per ora è meglio contentarsi di udirne la relazione.»


Catania, sabbato 5 maggio 1787.

Seguimmo il consiglio del cavaliere, partendo di buon mattino; e badando attentamente ai passi dei nostri muli, arrivammo nella regione dove le lave non vennero ancora spianate, uguagliate, ridotte a coltura. Sorgono confuse, in blocchi irregolari, in forma di tavole, fra cui duravano fatica i nostri animali a trovare il passo. Pervenuti al primo altipiano, di una discreta altezza, ci fermammo. Kniep disegnò con molta precisione la vista di quanto si offeriva al nostro sguardo; sul davanti la regione travagliata delle lave; a sinistra la doppia cima del Monte Rosso, e precisamente sopra di noi i boschi di Nicolosi, da cui emergeva la vetta del volcano ricoperta di neve, e sormontata da una leggiera colonna di fumo. Ci avvanzammo sempre maggiormente per la ripida china del monte; io scesi dal mulo, ed osservai essere il molo formato di roccie volcaniche, di tinta rossiccia, frammiste a ceneri, non che ad altri sassi. Sarebbe stato facile pervenire alla bocca del cratere, se un vento furioso non avesse contrastato ad ogni nostro passo; provai a deporre il mantello per andare avanti, ma mi trovavo sempre in pericolo di vedermi portato via il cappello, e di tenergli io dietro. Provai allora ad accovacciarmi, per potere [p. 332 modifica]godere la vista, se non chè anche questa posizione mi giovò a poco; che la bufera veniva propriamente da levante, sulla stupenda contrada che si stendeva sotto il mio sguardo fin verso il mare.

Potevo scorgere la lunga riviera da Messina a Siracusa, con i suoi golfi, con i suoi seni, ora totalmente liberi allo sguardo, ed in altri punti nascosti alquanto dagli scogli della spiaggia; quando mi alzai tutto sbalordito, viddi che Kniep non aveva perso il suo tempo; era riuscito a fissare sulla carta le linee principali di quanto la selvaggia bufera permetteva a stento a me di vedere, non chè di potere ritenere.

Tornati fra le zanne del leone d’oro, trovammo il nostro domestico di piazza il quale ci aveva voluto accompagnare nella nostra ascensione, e di cui avevamo durata fatica a sbarazzarci. Egli ci approvò molto di non avere tentata l’ascensione del monte, ma ci propose con viva istanza per l’indomani una passeggiata in mare agli scogli di Iaci, accertandoci, essere questa la gita la più piacevole che si potesse fare da Catania. Disse, che avressimo portato nella barca tutto quanto fosse necessario per fare un buon pranzo, e che sua moglie si sarebbe preso incarico della cucina, e di ogni cosa. Ci parlò di alcuni Inglesi i quali avevano fatta quella gita, accompagnati da una barca nella quale stava la musica, e che vi si erano molto divertiti.

Gli scogli di Iaci pungevano, per dir vero, vivamente la mia curiosità, ed avevo pure un desiderio grande, di potere raccogliere taluni di quei zoofiti bellissimi, che avevo ammirati presso il cavaliere Gioeni. Si poteva anche fare la cosa con minore apparato, lasciare la donna a casa sua. Se non che, lo spirito previdente dell’Inglese ottenne il sopravento, e rinunciammo, però non senza rincrescimento, ai zoofiti. [p. 333 modifica]


Catania, domenica 6 maggio 1787.

Il nostro buon sacerdote non si stanca dall’usarci cortesia. Egli ci portò a visitare le rovine di un edificio antico, le quali richieggono per verità un grande sforzo d’immaginazione per rappresentarcelo nella sua forma primitiva. Ci si fecero vedere i ruderi di un grande serbatoio d’acqua, di una naumachia, i quali, dopo le molte devastazioni a cui andò soggetta la città per i terremoti, le irruzioni della lava, le guerre, sono ridotti a così poca cosa, che soltanto un conoscitore profondo dell’architettura antica, si può trovare in grado di apprezzarli.

Il reverendo s’incaricò di presentare i nostri doveri al principe, e lo lasciammo, esprimendogli tutta la nostra gratitudine per le sue cortesie.


Taormina, lunedì 7 maggio 1787.

Grazie a Dio, tutto quello che abbiamo visto oggi fù già descritto abbastanza, ed inoltre Kniep ha stabilito di disegnare domani tutta la giornata. Quando si è salito in cima alle rupi scoscese, le quali sorgono a grande altezza a poca distanza del mare, si trovano due vette, riunite fra loro da un semicerchio. L’arte si valse dell’opera della natura, e ridusse il semicircolo ad anfiteatro, chiudendolo per mezzo di mura e di altre costruzioni in mattoni, e formando le gallerie, e le volte. Ai piedi del semicircolo, ridotto a gradinate, venne innalzata traversalmente la scena riunendo le due roccie, e per tal guisa si trovò compiuta l’opera immensa, dovuta all’arte non meno che alla natura.

Stando in cima ai gradini più elevati dell’anfiteatro, è forza ammettere che non vi è stato mai pubblico in un teatro, il quale abbia potuto godere di vista uguale. A diritta, in cima ad alte rupi sorgono castella; al dissotto [p. 334 modifica]si stende la città, e ad onta siano moderne le costruzioni che attualmente si scorgono, la vista anticamente doveva essere la stessa. Si scorge di là tutta la catena dei monti fino all’Etna, tutta la spiaggia del mare fino a Catania, anzi Siracusa; e chiude il quadro la mole imponente del volcano, colla sua colonna di fumo, quadro che non ha punto aspetto severo, imperocchè la trasparenza somma dell’atmosfera fa comparire gli oggetti più lontani, e ne raddolcisce i contorni.

Volgendo le spalle a questa vista, e guardando verso le gallerie praticate a tergo degli spettatori, sorgono a sinistra le pareti verticali delle rupi, e fra queste ed il mare corre la strada la quale porta a Messina. Si scorgono gruppi di scogli sulla sponda del mare, scogli nel mare stesso, e guardando attentamente si possono discernere in lontananza, fra le nuvole, le coste delle Calabrie.

Scendemmo nell’interno del teatro; ci fermammo a contemplare le rovine di questo, le quali dovrebbero pure allettare un architetto capace a progettarne, se non altro sulla carta, il ristauro; quindi cercammo ad avviarsi alla città, passando a traverso ai giardini; se non chè dovettimo persuaderci quivi per esperienza personale, essere baluardo inespugnabile, una siepe fitta di agave; si scorge spazio, tra le foglie, e si crede potere passare, ma le punte acutissime di quelle frappongono ostacolo; si sale sopra una di quelle foglie colossali, nella speranza possa questa reggere il peso della vostra persona, ma essa si rompe, ed invece di trovarvi libero, cadete addosso una pianta vicina. Finalmente riuscimmo ad uscire di quel liberinto; trovammo poco a vedere nella città, e verso il tramonto girammo alquanto nei dintorni, dove era bellissimo spettacolo quello delle ombre della notte, le quali scendevano poco a poco sovra questa contrada, stupenda in ogni punto. [p. 335 modifica]


Sotto Taormina, presso il mare,
martedì 7 maggio 1787. 

Non posso ringraziare abbastanza la provvidenza di avermi mandato Kniep a compagno; in quanto chè egli mi solleva di un peso, il quale mi sarebbe stato incomportabile, e che sarebbe stato poi contrario affatto alla mia natura. Egli è salito di bel nuovo colassù, per disegnare in tutti i loro particolari quanto avevano osservato assieme. Avrà d’uopo di aguzzare più di una volta la punta delle sue matite, e non sò quando potrà essere libero. Così avessi potuto rivedere io pure tutti quegli oggetti! Dapprima era quasi mia intenzione accompagnarlo, ma poi mi prese vaghezza di stare qui, di cercare un cantuccio, e di adagiarmivi come un uccello nel suo nido. Mi sono seduto sotto un albero d’arancio, in un cattivo orto trascurato di un contadino, ed ivi ho sciolta la briglia alla mia fantasia. Vi parrà cosa strana udire di un viaggiatore seduto al calce di un albero d’arancio, ma qui la è però cosa naturalissima, imperocchè l’arancio lasciato libero nel suo crescere, si divide appena uscito di terra in rami, i quali, col tempo, diventano veri alberi.

Seduto per tal guisa ai piedi del mio arancio, stavo ruminando ancora una volta il disegno della mia Nausicaa, nell’intenzione di vedere se si potesse ridurre a dramma, quell’episodio dell’Odissea. Credo pure che la cosa sarebbe possibile, solo converrebbe tenere bene presente la differenza essenziale, che corre fra il dramma, e l’epopea.

Kniep è sceso dalla sua altura tutto lieto, e soddisfatto dell’opera sua, avendone riportato due fogli grandissimi di disegno, eseguiti con tutta mitidezza. Varranno entrambi a richiamare in ogni tempo alla mia memoria questa stupenda giornata. Su questa bella riviera, sotto un cielo purissimo, soffia un zefiro dolcissimo; le rose sono in fiore, e si ode il canto dell’usignuolo. Si assicura che questi cantino qui durante sei mesi dell’anno. [p. 336 modifica]


Per ricordo.

Se io fossi certo che per la presenza di un artista abile e capace, per i miei tentativi tuttochè deboli ed isolati, potessi riportare un idea durevole di queste contrade interessantissime, vorrei secondare un’idea la quale mi preoccupa sempre più; vorrei dare vita alla magnificenza di questi dintorni, al mare, alle isole, ai porti, in una composizione poetica, la quale per indole, per forma, fosse diversa da tutto quanto ho scritto finora. La limpidezza del cielo, l’aria marina, l’atmosfera vaporosa, la quale confonde in un solo elemento mari e monti, tutto contribuisce a raffermarmi nel mio proposito, e mentre io stavo passeggiando in quel bellissimo giardino pubblico di Palermo fra le siepi di leandri, sotto i pergolati di aranci, e di limoni, fra tutte quelle piante e quei fiori, i quali mi erano ignoti, io provavo e risentivo l’influenza di tutti quegli elementi nuovi.

Mi ero persuaso che non avrei mai potuto trovare commentario migliore dell’Odissea, che la presenza di quei dintorni; me ne procurai un esemplare, e la lessi con una soddisfazione incredibile. Tosto mi nacque il desiderio di scrivere una composizione, la quale per quanto mi sia parsa singolare a primo aspetto, più vi pensavo, sempre maggiormente mi sorrideva, e finì per assorbire tutti i miei pensieri. Mi nacque, vale a dire, il pensiero di svolgere sotto forma di tragedia, l’argomento di Nausicaa.

Non avevo da principio idea ben precisa di quanto avrei voluto fare, ma poi non tardai guari a formare un disegno. Il nodo dell’azione consisterebbe nel rappresentare in Nausicaa una giovane eccellente, la quale circondata da compagne geniali, ha vissuto fino allora col cuore libero da ogni passione, e che colpita dall’arrivo inaspettato di un forastiero meraviglioso, viene spinta da caso totalmente fortuito, a rivelare l’amore che prova per quello, la qual cosa rende sommamente tragica la situazione. [p. 337 modifica]Questa tela semplicissima, deve essere arrichita cogli accessori, e specialmente colle descrizioni, del mare, delle isole, nei vari loro particolari.

Il primo atto dovrebbe cominciare con un ballo, e la precauzione di non volere portare dessa stessa il forastiero nella città, dovrebbe rivelare il primo indizio di passione.

L’atto secondo dovrebbe presentare la casa di Alcinoo, esporre il carattere della giovane, e terminare coll’arrivo di Ulisse.

Il terzo atto dovrebbe essere dedicato per intiero ad Ulisse, e nelle narrazioni da questi fatte delle sue vicende, nella diversa parte che vi prenderebbero suoi uditori, avrei speranza di riuscire a cosa nuova, e piacevole. Durante la narrazione crescerebbe la passione, e l’inclinazione di Nausicaa per il forastiero, troverebbe corrispondenza.

Nel quarto atto Ulisse farebbe prova, fuori della scena del suo valore, mentre le donne rimaste a casa, lascierebbero campo libero all’affetto, alle speranze, ad ogni sentimento gentile. Udita la vittoria riportata da Ulisse, Nausicaa non è più padrona di sè; non si sa più contenere, e si compromette, in modo irrevocabile, di fronte a suoi concittadini. Ulisse, il quale parte innocentemente, parte colpevole ha dato causa alla passione della giovane, trovasi in fine costretto a dichiarare che gli è forza dovere partire, ed all’infelice Nausicaa altro non rimane a fare, che darsi la morte nel quinto atto.

Nessuna cosa vi sarebbe in questa composizione, che io non potessi descrivere, per propria esperienza dalla natura. I viaggi, la passione sorta all’aspetto di un pericolo, il quale tuttochè non abbia avuto tragico fine, fu però abbastanza grave; la lontananza dalla patria, le vicende delle lunghe peregrinazioni; la descrizione fatta di queste a suoi ospiti, con vivaci colori; l’essere ritenuto per un semidio dai giovani; il sospetto eccitato nelle persone mature di essere per contro una specie di avventuriere; [p. 338 modifica]i favori ottenuti; gli ostacoli incontrati; tutto ciò mi allettava per modo, che durante tutto il mio soggiorno a Palermo, e lungo la maggiore parte del mio viaggio di Sicilia, non ho guari potuto pensare ad altro. E pertanto, ad onta di tutti i disagi materiali, io mi trovavo in questa terra eminentemente classica, in una disposizione d’animo eminentemente poetica, nella quale mi pareva sarei stato capace di rappresentare, di esprimere quanto vedevo, quanto osservavo, quanto mi si presentava allo sguardo.

Secondo la mia buona, ovvero cattiva abitudine, non ho scritto quasi nulla ancora di tutto ciò; ma ne ho meditato molto, anche i minimi particolari nella mia mente, ed il tutto rimarrà deposto nella mia memoria, per evocarlo fuori a tempo opportuno.


L’8 maggio, sulla strada di Messina.

Ora sorgono monti calcari alla nostra sinistra. Assumono questi le più belle tinte, e formano golfi bellissimi; quindi segue una specie di sassi, ai quali si potrebbe dare nome di argilla schistosa, ovvero di roccia grigia. Nei rivi si scorgono di già frammenti di granito; i frutti gialli del solano, i fiori rossi dei leandri rallegrano l’aspetto della contrada. Il fiume Nisi, come parimenti gli altri rivi, trasportano ardesie, con traccie di mica.


Mercoledì 9 maggio 1787.

Caminammo tutta la giornata lottando continuamente coll’acqua, e molestati da un vento impetuoso di levante, fra le onde del mare che mugghiava, e quelle roccie che contemplammo avant’ieri dall’alto: Abbiamo dovuto attraversare un numero infinito di rivi, di torrenti, il maggiore dei quali, il Nisi, porta il titolo onorifico di fiume; però tutti questi corsi d’acqua, non che i macigni che [p. 339 modifica]trasportavano, presentavano ostacolo minore che il mare, il quale era agitatissimo, e che in molti punti si frangeva contro gli scogli, ricadendo sopra le nostre povere persone. Il colpo d’occhio era stupendo, e ci faceva tollerare abbastanza di buona voglia il disagio, che non era poco.

Non ci mancò neppure occasione di fare osservazioni geologiche. Quelle pareti altissime di roccie calcari, già in demolizione, percosse dalle onde rovinavano tratto tratto, resistendo soltanto le parti più solide; e tutta la strada si vedeva seminata di pietre cornee, di pietre focaie, delle tinte le più svariate e delle quali abbiamo fatta una bella raccolta.


Messina, giovedì 10 maggio 1787.

In questo modo siamo arrivati a Messina, rassegnandoci, per non potere fare altrimenti, a passare la prima notte nella cattiva locanda del nostro mulattiere, colla lusinga di potere trovare al mattino stanza più confortevole. Questa risoluzione ci porse congiuntura di prendere fin dal primo momento idea dell’aspetto terribile di una città distrutta, imperocchè ci toccò camminare per un buon quarto d’ora fra le rovine e le macerie, prima di arrivare alla locanda, unico edificio di questo quartiere rimasto in piedi; e difatti, dalle finestre del piano superiore, non si scorge altro che un campo cosparso di rovine. Fuori di questa casa non si scorgeva traccia nè indizio di uomini, di animali; era notte fitta, e regnava un silenzio spaventevole.

Non era possibile, nè chiudere, nè tanto meno asserragliare le porte; la locanda per viaggiatori appartenenti alla razza umana, offeriva tutti i comodi che può porgere una stalla, destinata unicamente ai cavalli ed ai muli; ad onta di ciò dormimmo saporitamente sopra un materasso, che il nostro mulattiere industrioso, era andato strappare di sotto al padrone della locanda, il quale era di già a letto. [p. 340 modifica]


Venerdì 11 maggio 1787.

Oggi abbiamo preso congedo del nostro bravo vetturino, compensandolo con una generosa mancia, di suoi buoni servigi. Prima di lasciarci ci seppe ancora procurare un domestico di piazza, il quale si assunse l’incarico di portarci nel migliore albergo, non che di farci vedere tutte le rarità di Messina. Il locandiere, nel desiderio di vedere le sue stalle liberate al più presto dall’incommodo dalla nostra presenza, sì adoperò egli stesso a trasportare i nostri bagagli in una piacevole abitazione, vicina al quartiere più animato della città, vale a dire, fuori della città stessa; imperocchè la cosa va intesa nel modo seguente. Dopo l’immenso disastro che colpì Messina, di quarantadue mille abitanti che contava, ben trenta mille rimasero privi di tetto; la maggiore parte delle case erano crollate a terra; le mura che minacciavano rovina, di molte di quelle rimaste in piedi, non offerivano veruna sicurezza, e pertanto, si fabbricò in tutta fretta in un vasto campo, a settentrione di Messina, una città provvisoria, formata di baracche di legno, dalla quale vi potrete agevolmente formare un idea, rappresentandovi il Romerberg, di Francoforte, ovvero il mercato di Leipzig, durante la fiera; imperocchè, tutte quante le porte delle botteghe, dei laboratori sono aperte sulla strada, ed anzi molti mestieri si esercitano sul suolo della strada stessa. Del resto vi sono pochi edifici grandiosi, nè quasi abitazioni chiuse al pubblico, imperocchè gli abitanti vivono la maggior parte del tempo, a cielo scoperto. Sono già tre anni che vivono a quel modo, e tutte quelle botteghe, quelle capanne provvisorie, quelle tende, esercitano una decisa influenza sul carattere degli abitanti. L’orrore eccitato da quell’immenso disastro, il timore di nuova sventura uguale, spingono a non darsi pensiero del futuro, a non badare che con leggerezza al presente. Venti giorni sono, e più precisamente il 21 di aprile, si ebbe timore di nuova [p. 341 modifica]disgrazia, essendosi sentita una forte scossa di terremoto. Ci fecero vedere una piccola chiesa, nella quale stavano radunate in quel momento molte persone, le quali tutte avvertirono più o meno la scossa, e parecchie non si sono riavute ancora, a quest’ora, dallo spavento.

Fummo accompagnati nella visita di quella città provvisoria da un console gentilissimo, il quale conosceva benissimo ogni cosa, e che, senza esserne richiesto, si prestò a servirci di guida, e ci volle usare molte cortesie; ed anzi avendo udito essere nostro desiderio il partire, ci fece fare la conoscenza di un capitano mercantile francese, il quale intende far vela fra pochi giorni per Napoli, combinazione doppiamente felice, in quanto chè la bandiera bianca, varrà a proteggerci contro i pirati barbareschi.

Avevamo appena manifestato al nostro cortese Cicerone il desiderio di visitare all’interno una di quelle abitazioni provvisorie, fosse pure una di quelle ad un piano solo, per vedere come vi si fossero allogati gli abitanti, che ci si fece incontro un signore di aspetto piacevole, che non tardammo a conoscere per maestro di lingua francese, ed avendo il console, dopo che ebbimo fatti alcuni passi assieme, manifestato a quegli il nostro desiderio di visitare l’interno di taluna di quelle case provvisorie in legno, lo pregò volerci introdurre in quella di lui abitata.

Entrammo in quella catapecchia, ovvero baracca che la si voglia nomare, ed all’aspetto ci risultò uguale a quelle che s’innalzano in occasione di fiere, e dove si fanno vedere, per danaro, animali feroci, ed altre rarità; si scorgevano i legnami e le tavole le quali formavano le pareti, ed il tetto ovvero soffitto; ed una tenda verde separava lo spazio, che non doveva essere accessibile a tutti. Oltre poche sedie ed un tavolo non si scorgevano che utensili di cucina, e da tavola. La luce scendeva da alcune aperture praticate nel soffitto. Stavamo discorrendo, ed intanto io stavo pure osservando la tenda verde la quale si moveva, quando tutto ad un tratto balzarono [p. 342 modifica]fuori da quella due testoline graziose di ragazze, con occhi nerissimi, capelli neri parimenti, ed inanellati, le quali, non appena si accorsero che avevamo avvertita la loro presenza scomparvero come il lampo; se non chè, avendole il console pregate di venire fuori, dopo alcuni istanti dedicati alla tavoletta, comparvero vestite di abiti di colori vivaci, i quali campeggiavano stupendamente, sul fondo di quella tenda verde. Dalle loro domande potemmo rilevare che ci ritenevano gente venuta dall’altro mondo, e cercammo colle nostre risposte a mantenerle in quella illusione. Il console descrisse il nostro arrivo quale avvenimento meraviglioso; la conversazione diventò animata, e tardammo a trovare modo ad uscire di là. Non fu che fuori della porta, che ci avvedemmo che in sostanza non avevamo visto l’interno della catapecchia, e che le graziosi abitatrici, ci avevano fatto dimenticare di osservare la natura della costruzione.


Messina, sabbato 12 maggio 1787.

Il console ci disse fra le altre cose, che se non addirittura indispensabile, era però cosa conveniente che ci presentassimo al governatore della città, vecchio di natura strana, e sommamente bizzarro, il quale, per i suoi capricci appunto, e per le sue stranezze, avrebbe potuto sia recarci giovamento, che farci danno; soggiunse il console, che il governatore gli sarebbe stato grato, se gli avesse egli portati stranieri distinti, anche nel caso non avessero questi abbisognato di nulla. Ci decidemmo a soddisfare il desiderio del nostro nuovo amico.

Entrati nell’anticamera, udimmo all’interno un chiasso, un rumore d’inferno, ed uno staffiere facendo un gesto da pulcinella, susurrò all’orecchio del console. «Cattiva giornata! momento pericoloso!» Ad onta di ciò entrammo e trovammo il vecchio governatore, il quale ci volgeva le spalle, seduto ad un tavolo presso la finestra. Teneva sul tavolo un grosso mucchio di carte vecchie, ingiallite, [p. 343 modifica]ed era occupato a stracciare da quelle tutti i fogli nei quali non vi fosse scritto, rivelandoci per tal modo, l’indole sua economica, e previdente. Interrompeva di quando in quando il suo pacifico lavoro, imprecando ad un uomo di bell’aspetto, che dal modo di vestire si poteva ritenere Maltese; e questi, per quanto gli veniva concessa libertà di parola, si difendeva con molta pacatezza. Potemmo comprendere che tentava dissipare ed allontanare i sospetti che suoi viaggi frequenti a Messina avevano fatto sorgere nell’animo del governatore, adducendo a sua difesa il suo passaporto, e le molte conoscenze che teneva a Napoli. Se non che, le sue parole giovavano a poco; il governatore continuava a stracciare le sue carte vecchie, a porre i fogli bianchi in disparte, ed a bestemmiare.

Oltre noi erano nella sala un dodici altre persone all’incirca, testimoni di quella lotta, e secondo ogni probabilità invidiavano quelle la nostra vicinanza alla porta, la quale in ogni peggiore evento ci avrebbe agevolato il mezzo di sottrarci agli artigli di quella fiera. La fisonomia del console, durante questa scena, si era fatta seria; io mi confortavo guardando la faccia ridicola dello staffiere, il quale ritto dietro di me, sulla soglia della porta, faceva ogni sorta di smorfie, e mi accennava di stare tranquillo, quando volgevo lo sguardo sù di lui.

La faccenda però finì meglio di quanto si potesse, sperare; il governatore disse al Maltese, che per verità avrebbe avute tutte le ragioni per farlo arrestare, per trattenerlo in carcere; ma che per questa volta lo voleva lasciare libero; si fermasse pure a Messina i due giorni che domandava; ma spirati quelli, badasse bene a partire, ed a non farvi ritorno più mai. Il Maltese sempre tranquillo, senza punto mutare di fisonomia, prese congedo, ed uscì salutando in modo convenientissimo tutta l’assemblea e noi più particolarmente, fra cui dovette passare, per giungere alla porta. Il governatore dopo avere borbottato ancora qualche cattiva parola ci vidde, fece un cenno al console, e ci avanzammo. [p. 344 modifica]

Viddi allora meglio la persona; era di età quasi decrepita, col capo curvo, aveva occhi neri, sotto sopraciglia grigie, ispide, e girava lo sguardo tutt’attorno, ma il suo umore si era rasserenato. Mi fece sedere, e senza punto interrompere la sua occupazione, mi rivolse varie domande alle quali procurai dare risposta, e finì per dirmi di considerarmi quale invitato alla sua mensa, per tutto il tempo che mi sarei fermato a Messina. Il console era soddisfatto al pari di me, e ben più di me ancora, conoscendo desso il pericolo al quale eravamo sfuggiti, ed uscimmo lieti dalla caverna di quella specie di fiera, senza che mi rimanesse vaghezza per certo, di visitarla una seconda volta.


Messina, domenica 13 maggio 1787.

Svegliandoci il mattino con un sole splendidissimo, in una piacevole abitazione, ci trovammo pur sempre nella disgraziata Messina. Può dirsi addirittura ingrata la vista della così detta palazzata, serie di veri palazzi, la quale si stende uniformemente per la lunghezza di circa un quarto d’ora di cammino, lungo la passeggiata, la quale trovasi circoscritta da quelli. Tutti quei palazzi erano in pietra, di quattro piani, e di taluni sussiste tuttora la facciata fino al cornicione; altri rovinarono fino all’altezza del primo, del secondo, del terzo piano; in guisa, che tutta quella strada la quale dapprima doveva essere stupenda, porge attualmente l’aspetto della rovina, e della desolazione, scorgendosi la luce azurrina del cielo a traverso di ogni finestra, imperocchè all’interno, i quartieri sono tutti totalmente rovinati.

Quella strada aveva avuto origine, dacchè ad imitazione dei ricchi, i quali avevano colà innalzati palazzi grandiosi, i proprietari delle case limitrofe, anche modestissime, le avevano mascherate con facciate grandiose alla loro volta, in pietra da taglio; e tutte quelle costruzioni [p. 345 modifica]posticcie, malamente collegate colle altre parti degli edifici, non poterono a meno di rovinare, in occasione dello spaventoso terremoto, e si narrano particolari per così dire miracolosi di persone rimaste illese in quel tremendo disastro, e specialmente di un tale, il quale ricoveratosi in quel momento fatale nel vano di una finestra, si vide rovinare attorno la casa tutta quanta, rimanendo desso immune da ogni male, in quella sua prigione aerea. Si può ritenere poi, osservando la resistenza che opposero all’azione del terremoto gli edifici solidamente costrutti, che la totale rovina della città si deve ripetere principalmente dal cattivo metodo di fabbricazione. Il collegio e la chiesa dei gesuiti, costrutti con accuratezza in pietra da taglio, rimasero illesi. Comunque sia, l’aspetto attuale di Messina è malinconico oltremodo, e ricorda i tempi remotissimi nei quali i Sicani, ovvero Siculi, spaventati dai continui terremoti, abbandonarono questa contrada, e si recarono ad abitare le coste occidentali dell’isola.

Dopo avere girato tutto il mattino fra quelle rovine, ritornammo alla locanda, dove ci aspettava un modesto pranzo. Eravamo da poco seduti a tavola, allorquando entrò, tutto ansante, il domestico del console, a avvertirmi che il governatore mi aveva fatto cercare per tutta la città, avendomi invitato a pranzo; e che intanto io lo avevo dimenticato. Il console mi faceva viva premura di andarvi subito, sia che io avessi già pranzato o non ancora, e sia che io avessi lasciata passare l’ora per dimenticanza, ovvero di proposito. Mi accorsi allora soltanto della leggerezza incredibile, colla quale, nella soddisfazione di essere uscito dall’antro del Ciclope, io avevo dimenticato totalmente il di lui invito. Il domestico non mi lasciava tregua; insisteva, dicendo che il console e tutta la sua nazione sarebbero rimasti esposti ai capricci balzani, di quel despota furente.

Mi aggiustai alquanto i cappelli, mi spolverai gli abiti, mi rincorai, e tenni dietro di buona voglia alla mia guida, invocando Ulisse mio patrono, e la Dea Pallade, proteggitrice di Atene. [p. 346 modifica]

Giunto nella caverna del leone, fui introdotto dal servitore pulcinella in una vasta sala da pranzo, dove stavano sedute ad una lunga tavola di forma ovale, un quaranta persone all’incirca, nessuna delle quali pronunciava parola. Il posto a diritta del governatore era vacante, e lo staffiere mi portò colà.

Dopo avere fatto un profondo inchino al padrone di casa ed ai convitati, sedetti, adducendo a scusa del mio involontario ritardo, l’ampiezza della città, non che il suono delle ore all’italiana, che già molte volte mi aveva indotto in errore. Il governatore mi guardò con occhio truce, dicendo che nei paesi forastieri era d’uopo informarsi degli usi locali, ed averli presenti all’occorrenza. Risposi essere sempre stato quello il mio metodo, però avere avuto più volte occasione di riconoscere, che nei primi giorni specialmente che si arriva in un luogo affatto nuovo, di cui nulla si conosce, è difficile evitare qualche sbaglio, a cui del resto la stanchezza del viaggio, la distrazione degli oggetti nuovi, le difficoltà di trovare alloggio, le disposizioni a dare per proseguire il viaggio, possono già per sè valere a scuse.

Mi domandò allora il governatore quanto tempo io avessi intenzione di trattenermi a Messina, ed io risposi avrei desiderio potermi trattenere a lungo, per avere campo a dimostrargli coll’esatezza ad osservare suoi comandi la mia gratitudine per i favori di cui mi aveva voluto essere largo. Dopo un breve silenzio, mi domandò che cosa io avessi visto a Messina. Narrai in breve la mia gita del mattino, aggiungendovi alcune osservazioni, e conchiudendo che la cosa la quale mi aveva recata maggior sorpresa, era stata l’osservare la pulitezza, e l’ordine che regnavano nelle strade di quella città distrutta. E per dir vero era meraviglioso lo scorgere tutte le strade sgombre di rovine, in quantochè si erano cacciate le macerie nell’interno delle case rovinate; i sassi si erano disposti in ordine regolare contro le case, in guisa che il centro delle strade rimaneva libero al passaggio, ed al [p. 347 modifica]commercio. In questo particolare potei fare un complimento sincero a sua Eccellenza, coll’accertarlo che tutti i Messinesi gli erano grati delle sue premure a quel proposito. Badate però, prese egli allora a brontolare, che dapprima si lagnarono aspramente per la severità colla quale intendevo fossero eseguiti gli ordini dati per il loro vantaggio. Parlai delle saggie viste del governo, delle provvidenze date a fin di bene, le quali non possono essere apprezzate a dovere, se non con il tempo, e cose simili. Mi domandò allora se io avessi visto di già la chiesa dei gesuiti, ed avendo io risposto negativamente, disse che intendeva farmela vedere egli stesso, con tutte le sue dipendenze.

Mentre facevamo questi discorsi ad intervallo, e fra alcune pause, osservai che nessuno fra i convitati pronunciava una parola, e che non facevano altri movimento se non quelli che erano indispensabili per portare i cibi alla bocca. E quando ci alzammo di tavola, e fu servito il caffè, si schierarono tutti contro le pareti, quasi altrettante statue di cera. Mi accostai al sacerdote il quale era stato incaricato di farmi vedere la chiesa, per ringraziarlo in anticipazione della sua pena, ed egli mi rispose con tutta umiltà, che stava interamente agli ordini di Sua Eccellenza. Volsi allora la parola ad un giovane forestiero che mi stava vicino, se non chè questi pure, tuttocchè fosse francese, mi parve stasse colà molto a disagio, imperocchè desso pure era muto, e pareva impietrito al pari di tutti gli altri convitati, fra cui riconobbi varie persone le quali erano state testimoni il giorno prima, della scena con il Maltese.

Il governatore si allontanò, ed il sacerdote, dopo pochi istanti mi disse essere l’ora di andare. Mi portò sulla porta della chiesa dei gesuiti, la cui facciata, secondo lo stile architettonico di quei padri, sorge ricca ed imponente. Venne un portinaio, il quale c’invitò ad entrare, ma il sacerdote mi trattenne, dicendomi essere conveniente aspettare il governatore; questi non tardò a comparire, si [p. 348 modifica]fermò sulla piazza a poca distanza dalla chiesa; e ci fece cenno di accostarci tutti e tre alla portiera della sua carrozza. Diede ordine al portinaio di farmi vedere non solo la chiesa in tutti i suoi particolari, ma ancora di narrarmi la storia di tutti i singoli altari, e delle altre fondazioni religiose; e per ultimo di aprirmi pure la sagrestia, e di farmi vedere tutte le cose meritevoli di osservazione che stavano in quella, soggiungendo essere io persona a cui voleva fare onore, e dare motivo di parlare bene di Messina, quando fossi rientrato nel mio paese. «Non dimenticate poi, disse volgendosi a me con un sorriso, per quanto valevano i lineamenti della sua figura piegarsi ad un sorriso, di venire a pranzo meco alla ora esatta, che vi sarete sempre il benvenuto.» Non ebbi quasi tempo a ringraziare, che tosto la carrozza si allontanò.

Da quel momento l’aspetto del sacerdote si rasserenò, ed entrammo nella chiesa. Il castellano, nome che si potrebbe dare al custode di quel palazzo magico, qualora non fosse dedicato al culto divino, si preparava ad adempiere scrupolosamente gli ordini avuti da sua Eccellenza, allorquando comparvero nell’interno della chiesa, la quale era totalmente sgombra di persone, Kniep ed il console, i quali mi vollero abbracciare, per esprimermi la loro soddisfazione di rivedermi sano e salvo. Dessi erano stati in grande ansietà in fino a tanto il servitore pulcinella, stipendiato probabilmente dal console, era venuto a narrare loro con mille smorfie l’esito felice dell’avventura; ed avendo inteso da quegli, come io mi dovessi, grazie all’attenzione del governatore, trovare nella chiesa, mi erano venuti a cercare colà.

Intanto eravamo venuti davanti all’altare maggiore, e stavamo ascoltando la spiegazione delle cose preziose di quello, colonne di lapislazzuli con ornamenti di bronzo ed in oro nello stile fiorentino, sculture, agate stupende di Sicilia in abbondanza, bronzi e dorature in ogni parte.

Sorse allora un doppio discorso, mentre Kniep ed il console riandarono scherzando le vicende della mia [p. 349 modifica]avventura, ed il cicerone senza turbarsi menomamente proseguì l’enumerazione delle sue meraviglie; ed io godeva la doppia soddisfazione di sentirmi libero, e di potere contemplare i prodotti rari dei monti della Sicilia dei quali mi ero dato già tanto pensiero, impiegati nella decorazione architettonica di uno splendido edificio.

La cognizione precisa delle varie parti di tutta quella decorazione, mi portò a scoprire non essere altro il così detto lapis lazzuli, se non un prodotto calcare, per dir vero di natura finissimo, e della più bella tinta che io abbia mai vista finora. Non cessano però per questo quelle colonne dì essere preziosissime, imperocchè è d’uopo ricorrere ad una grande quantità di materiali per rinvenire pezzi i quali presentino quella bellezza, quella uguaglianza di tinte, e quindi sorge la difficoltà di lavorarli, di pulirli, di far loro prendere il lucido. Se non che, quei padri riuscivano a superare tutte le difficoltà.

Il console intanto non aveva cessato di tenere discorso del pericolo al quale io ero stato esposto. Diceva che il governatore, spiacente che io fossi stato fin dal primo momento testimonio della sua scena con il Maltese, si era proposto di farmi accoglienza distinta, e che tutto quel suo disegno aveva minacciato di essere compromesso, dalla mia dimenticanza di aderire al suo invito. Dopo avere aspettato a lungo, seduto a tavola, il vecchio despota non aveva potuto nascondere più il suo malumore, e tutti i convitati stavano nell’ansietà di dover essere testimoni di una brutta scena quando sarei arrivato, ovvero dopo finito il pranzo.

Intanto il nostro cicerone continuava a fare ogni sforzo per mantenersi la parola; ci aprì le stanze riservate, da belle proporzioni queste, e ci fece vedere quanto contenevano di prezioso, e fra le altre cose vari belli arredi di chiesa. Non vidi però oggetti in metalli nobili, come neppure oggetti d’arte pregevoli, nè antichi nè modermi.

La nostra gara di doppio discorso, italiano e tedesco, imperocchè il sacerdote ed il sagrestano parlavano la [p. 350 modifica]prima lingua, Kniep ed il console la seconda, volgeva al suo termine, allorquando entrò nella chiesa, e si accompagnò a noi un ufficiale che avevo visto a pranzo. Apparteneva questi al seguito del governatore, e ciò poteva dar luogo a nuovi timori, specialmente che si offerì ad accompagnarmi al porto, non che ad introdurmi colà nelle località dove non sono ammessi i forastieri. I miei amici si guardarono fra di loro, ma io non vi badai più che tanto, ed uscii coll’ufficiale. Dopo alcuni discorsi indifferenti, presi io a parlare liberamente, e dissi avere benissimo osservato a tavola che vari convitati silenziosi avevano cercato farmi comprendere con un cenno, che io non mi trovavo punto fra stranieri soltanto, ma bensì tra amici, anzi tra fratelli, e che pertanto nulla avevo a temere. Soggiunsi che mi ritenevo quindi in dovere di ringraziarlo, e di pregarlo anche di volere far gradire i miei ringraziamenti agli altri membri della società. L’ufficiale disse che avevano cercato tanto più a tranquillarmi, inquantochè conoscevano il naturale del governatore, e sapevano benissimo che in fin del conto nulla vi era a temere; che era raro uno scoppio della sua collera, uguale a quella che aveva avuto luogo contro il Maltese; che quando ciò succedeva il buon vecchio ne provava vivo rammarico, e stava in guardia contro sè stesso, durava tranquillo per un certo tempo, in fino a tanto qualche caso impensato, non lo facesse prorompere di bel nuovo in un impeto di bile. Soggiunse ancora l’ufficiale, che sia egli, sia i suoi compagni, non avrebbero avuto maggior desiderio che di stringere meco relazione più intima, e che pertanto mi pregava fissare dove avrebbero potuto trovarmi la sera. Declinai la proposta, pregandolo a volere scusare un mio capriccio, dicendo che in viaggio mi riusciva bensì piacevole essere bene accolto, ma che per molte ragioni desideravo del resto vivere solitario e non stringere relazioni.

Non riuscii guari a persuaderlo, inquantochè non gli volli dire quale fosse il vero motivo della mia condotta; ma intanto mi fece senso l’osservare come tutte quelle [p. 351 modifica]persone, le quali vivevano sotto reggimento cotanto dispotico, si fossero messe così spontaneamente d’accordo, per proteggere uno straniero loro totalmente sconosciuto. Gli dissi che sapevo benissimo la buona accoglienza che avevano fatta ad altri viaggiatori Tedeschi, parlai dei vantaggi che ne potevano derivare, e feci stupire sempre più l’ufficiale, per la fiducia che gli manifestai. Egli fece tutto il suo possibile per trarmi fuori dal mio incognito, ma non vi potè riuscire, sia perchè, uscito di recente da un pericolo, non mi andava punto a genio espormi al rischio di qual che novella avventura; sia ancora, perchè osservai benissimo, che le viste di quel bravo isolano erano ben diverse dalle mie, e che relazioni più intime colla mia persona, non gli avrebbero potuto arrecare nè utile, nè soddisfazione.

Per contro, ci trattenemmo piacevolmente alcune ore della sera con il console cortesissimo, il quale finì per darci la chiave della scena del governatore con il Maltese dicendo non essere questi propriamente un’avventuriere, ma bensì uomo inquieto, solito a mutare di continuo stanza. Disse che il governatore apparteneva ad una famiglia distinta, che era stimato per la sua energia, per la sua capacità, per i buoni servizi che aveva resi allo stato, ma che godeva pure fama di uomo capriccioso, d’indole impetuosa e sovratutto di straordinaria caparbietà. Sospettoso, come sono quasi tutti i vecchi despoti, viveva nel dubbio continuo, più che nella certezza di avere nemici a corte; vedeva spie sempre in tutti i forastieri, i quali capitassero a Messina. E questa volta la palla gli era venuta al balzo, imperocchè essendo stato per un certo tempo tranquillo, aveva afferrata la prima occasione che gli si era presentata, di dare sfogo alla sua bile.


Messina, ed in mare, lunedì 15 maggio 1787.

Svegliatici il primo giorno di mal umore entrambi, sotto la prima impressione procurataci dal triste aspetto di Messina, ci eravamo affrettati a stringere patto con il capitano [p. 352 modifica]francese per la partenza. Terminata felicemente la pendenza con il governatore, iniziate relazioni con persone gentilissime, che avrei desiderato conoscere più intimamente; invitato dal mio banchiere ad andarlo trovare in campagna, in una contrada amenissima, ci saressimo pure potuti trattenere alcuni giorni piacevolmente a Messina. Kniep poi aveva fatta conoscenza di due graziose ragazze, e non avrebbe bramato altro, se non che avesse soffiato a lungo vento contrario. Intanto si stava male, conveniva avere i bagagli fatti, tenersi pronti ad ogni istante alla partenza.

Verso mezzodì si alzò vento favorevole, ci affrettammo di correre a bordo, e trovammo, fra molte persone radunate sulla spiaggia il nostro bravo console pure dal quale presimo congedo, esprimendogli tutta la nostra riconoscenza per le sue attenzioni. Trovammo pure colà lo staffiere pulcinella, vestito di giallo, il quale faceva le sue smorfie. Ne lo compensammo con una mancia, dandogli incarico di far conoscere a suo padrone la nostra partenza, e di fargli le mie scuse per la mia mancanza quindinnanzi al pranzo. «Chi parte è scusato» replicò il pulcinella, allontanandosi con un salto meraviglioso.

Trovammo a bordo una grande differenza dalla corvetta la quale ci aveva portati da Napoli a Palermo; però cominciammo a passare bene il tempo contemplando a misura ci allontanavamo dalla spiaggia, la vista stupenda del semicircolo di palazzi, della cittadella, de’ monti che sorgono a tergo della città, non che delle coste delle Calabrie. Lo sguardo poi spazia liberamente in mare a grande distanza, in direzione di mezzo giorno e di tramontana. Mentre stavamo osservando questo spettacolo, ci fecero osservare ad una certa distanza, ed alla nostra sinistra, le acque alquanto agitate, e più vicino alla nostra diritta, uno scoglio che si staccava dalla spiaggia, avanzandosi in mare. Erano Cariddi e Scilla. Si scorge vedendo in realtà a tanta maggiore distanza i due oggetti, che le favole dei poeti riavvicinarono o magnificarono, come l’imaginazione [p. 353 modifica]degli uomini sia portata ad esagerare la grandezza, e l’imponenza delle cose che la colpiscono. Ho udito le mille volte lagnanze perchè un oggetto visto in realtà non corrispondesse alle narrazioni che se n’erano udite. L’imaginazione e la realtà stanno in relazione tra loro come la poesia e la prosa; quella abbellisce, magnifica le cose, questa le descrive quali stanno. Altrettanto si può dire dei pittori di paesaggio del secolo XVI, paragonati a quelli dei giorni nostri. Un disegno di Iodoco Momper, posto al confronto di una vista presa da Kniep, renderebbe evidente il contrasto.

Ci stavamo trattenendo in tali discorsi, mentre Kniep aveva cominciato a disegnare le coste, tuttochè non ne trovasse l’aspetto dei più attraenti.

Non tardai però molto ad essere colto, questa volta ancora, dal male di mare, e su questo legno non avevo più i comodi che porgeva l’altro; il camerino però era abbastanza ampio per dare ricetto a parecchie persone, e non vi difettavano neppure buoni materassi. Tornai a riprendere la posizione orizzontale, e Kniep mi veniva riconfortando anche questa volta, con pane buono e vino rosso. In quella triste condizione il nostro viaggio di Sicilia non mi compariva in complesso sotto buona vista. Non avevamo rilevato altro se non inutili sforzi della razza umana, per mantenersi contro le violenze della natura, contro l’azione distruggitrice del tempo, non che contro le loro gare intestine. Cartaginesi, Greci, Romani, si erano succeduti gli uni agli altri su quel suolo, e vi si erano combattuti e distrutti a vicenda. Selinunte trovasi rovinata metodicamente, non bastarono due mila anni ad atterrare i templi di Girgenti, mentre furono sufficienti poche ore, se non pure un istante, a rovinare Catania e Messina. Se non che cercai a non lasciare prendere predominio a queste tristi considerazioni, originate del mal di mare, e dall’agitazione delle onde. [p. 354 modifica]


In mare, martedì 15 maggio 1787.

Finora tutte le mie speranze di arrivare questa volta più presto a Napoli, ovvero di essere libero prima del male di mare sono svanite. Tentai parecchie volte, sostenuto da Kniep, di salire sul ponte, ma non vi potevo godere di nulla, e non era che per pochi istanti che riuscivo a dimenticare le mie vertigini. Tutto il cielo era velato di nuvole bianche vaporose, ed il sole attraverso di quelle senza che si potesse scorgere il suo disco, illuminava il mare della più bella tinta azurrina celestre che si possa immaginare. Tenevano dietro al legno schiere di delfini nuotando e spiccando salti di continuo, e mi pareva vedessero in fondo alle acque, e scorgessero di lontano ogni piccolo punto nero, il quale promettesse offerire loro una preda. A bordo non venivano considerati già quali compagni di viaggio, ma bensì quali nemici; ne venne ferito uno con un colpo di arpone, ma non si riuscì ad estrarlo dalle acque.

Il vento continuava ad essere contrario, e correndo bordate di continuo, facevamo pure poca strada. Alcuni viaggiatori esperti non erano tranquilli; dicevano che nè il capitano nè il piloto conoscevano molto il loro mestiere; che quegli poteva bensì valere per un armatore, e questi per un marinaro, ma che non erano adatti a provvedere alla sicurezza di tante persone, e di tante sostanze.

Cercai persuadere quella brava gente a tenere nascosta la loro preoccupazione. Eravamo molti passeggieri a bordo, e fra questi donne e ragazzi di tutte le età, imperocchè tutti erano andati a gara nel salire sopra un legno francese per godere la protezione della bandiera bianca contro i corsari barbareschi, senza pensare ad altro. Rappresentai che il dubbio avrebbe funestato l’animo di tutte quelle persone le quali finora scorgevano la loro salvezza in quel semplice drappo bianco scevro da qualunque stemma.

E difatti un cencio bianco fra cielo e mare, si può [p. 355 modifica]dire talismano abbastanza meraviglioso. Fra quelli che partono e quelli che rimangono a terra, si scambiano gli ultimi saluti agitando i fazzoletti; ed in questo modo si scambiano i sensi di amistà; come parimenti un panno bianco fissato in cima ad un’asta, vale ad annunciare in mare, in tutto il globo, la venuta di un amico.

Confortato di quando in quando di poco pane e vino, con dispiacere del capitano, il quale avrebbe voluto volessi provare a mangiare quanto aveva pagato, potei alla fine stare seduto sul ponte, e prendere parte ai discorsi che vi si tenevano. Kniep diceva scherzando, che questa volta non poteva eccitare più la mia invidia, vantandomi la buona tavola come sulla corvetta, e che anzi, quasi mi riteneva felice, per non avere appettito.


Giovedì, 17 maggio 1787.

È passato il pomeriggio senza che abbiamo potuto vedere soddisfatti i nostri voti di entrare nel golfo di Napoli. Fummo per contro spinti sempre più verso ponente, e quanto più ci venivamo accostando all’isola di Capri, tanto più perdevamo di vista il capo Minerva. Tutti erano di mal umore, impazienti; noi due però, che contemplavamo il mondo con occhio pittorico, avevamo motivo di essere soddisfatti, imperocchè, verso il tramonto, potemmo godere della più bella vista che abbiamo avuta fin qui nel nostro viaggio. Brillavano dei più splendidi colori il capo Minerva ed i monti vicini, nel mentre la riviera che si stende verso mezzodì aveva assunta già una tinta azurrina. Si scorgeva illuminata dal tramonto tutta la costiera, dal capo, fino a Sorrento. Scorgevamo il Vesuvio, da cui si sprigionava una densa colonna di fumo, la quale si stendeva a foggia di lunga striscia nel cielo verso levante, in guisa che si poteva presumere prossima una forte eruzione. Sorgevano alla nostra sinistra ripide e scoscese le alture di Capri, ed attraverso l’atmosfera limpidissima e trasparente, si potevano discernere le minime forme di [p. 356 modifica]ogni scoglio. Il cielo era sereno affatto, totalmente sgombro di nubi; non regnava il menomo soffio di vento, ed il mare era immobile, tranquillo quale uno specchio. Eravamo incantati da quello spettacolo; unicamente si rammaricava Kniep che tutta l’arte non valesse a riprodurre quella magia di tinte, e chè nè la mano la più esperta, nè le matite inglesi le più sopraffine, non fossero capaci di riprodurre quella purezza di linee. Io per contro, persuaso che abile artista quale egli è, sarebbe riuscito fuor di dubbio a tracciare uno schizzo di quella vista, il quale in avvenire mi sarebbe stato di grato ricordo di questa giornata, lo incoraggivo a volere, ancora per questa volta, mettere mano all’opera. Egli finì per lasciarsi persuadere, e tracciò un disegno che più tardi colorì, e che varrebbe a provare nulla essere impossibile alla pittura. Capri sorgeva allora oscuro e cupo davanti ai nostri occhi, allorquando, tutto ad un tratto, s’illuminarono le nuvole di fumo le quali soprastavano al Vesuvio, tingendo successivamente ampio spazio di cielo in rosso.

Rapiti quasi in incanto da quella scena meravigliosa, non avevamo badato che andavamo incontro ad un grave pericolo; se non che l’agitazione sorta fra i passeggieri, non ci consentì l’ignorarlo più a lungo. Dessi, più esperti che noi del mare, muovevano aspri rimproveri al capitano ed al pilota, per avere non solo fallita la via, ma ancora esposte a grave disastro persone, merci, tutto quanto in una parola si trovava a bordo. Cercammo allora d’informarci della causa di tutta quella grande inquietudine, imperocchè non riuscivamo davvero a comprendere quale pericolo mai ci potesse soprastare, con un tempo così bello, con un mare così tranquillo. Se non che, questa tranquillità di tempo, questa mancanza totale di vento, erano quelle appunto le quali preoccupavano tutte quelle persone; dicevano che ci trovavamo già nella corrente la quale muove verso l’isola, e porta le navi irresistibilmente ed insensibilmente contro gli scogli che scendono a picco in mare, dove non havvi il menomo seno, la [p. 357 modifica]menoma sporgenza, la quale valga ad offerire mezzo di salvezza.

Resi edotti allora della condizione in cui ci trovavamo, non potemmo a meno di darcene serio pensiero noi pure a nostra volta, imperocchè, ad onta non permettesse l’oscurità che andava crescendo avvertire il pericolo, ci accorgevamo però benissimo, che il legno si andava accostando sempre più agli scogli, i quali apparivano sempre più neri, mentre un barlume di luce crepuscolare si scorgeva tuttora sulla superficie del mare. Non soffiava ombra di vento; si sollevavano in alto fazzoletti, pannilini leggierissimi lasciandoli liberi di svolazzare, ma punto non si muovevano. L’inquitudine, l’irritazione fra i passeggieri andavano crescendo. Le donne ed i ragazzi non erano già inginocchiati sul ponte a pregare; lo spazio vi era troppo angusto perchè vi si potessero muovere; stavano serrati gli uni contro gli altri, ed erano le donne appunto ed i ragazzi quelli che muovevano maggiori rimproveri al capitano, mentre gli uomini erano intenti a cercare mezzo di salvezza. Si dava libero corso a tutti i rancori racchiusi nell’animo durante il viaggio; si rimproveravano al capitano il caro prezzo del passaggio sopra un legno mediocre; il cattivo vitto, il suo contegno, non già aspro per dir vero, ma bensì muto e silenzioso. Non aveva voluto dare conto a veruno della sua condotta, e la sera precedente ancora, si era ostinato a serbare un assoluto silenzio intorno alle sue manovre. Ora lo si accusava, al pari del piloto, di non essere entrambi che mercatanti avidi di guadagno, ignari affatto di navigazione, i quali, soltanto per amore del denaro, portavano per la loro incapacità ed imperizia, a certa rovina persone ed averi. Il capitano taceva, e pareva pensare tuttora a mezzo di salvezza; io intanto, che fin dalla giovinezza ho sempre odiata più che la morte l’anarchia, non potei mantenere più a lungo il silenzio. Uscii fuori, e parlai a tutta quella gente colla stessa tranquillità d’animo colla quale mi ero rivolto alla folla la quale mi attorniava a [p. 358 modifica]Malsesine. Loro rappresentai, come in quel momento appunto, tutto quel chiasso, tutte quelle grida, non valessero a produrre altro effetto se non quello di far perdere la testa a coloro dai quali si poteva aspettare tuttora mezzo di scampo. «Rientrate in voi stessi loro dissi; volgete di cuore le vostre preghiere alla Madonna, la quale può tanto, acciò ella ottenga a favore vostro dal suo Divin Figliuolo, quanto fece per gli Apostoli sul lago di Tiberiade, quando le onde avevano invasa di già la navicella in cui si trovavano. Il Signore dormiva, ma non appena lo ebbero destato, richiedendolo di aiuto, di protezione, tosto cominciò a scemare il vento, nella stessa guisa che ora può sorgere il soffio di quello, il quale ci deve scampare dal pericolo, se tale è la sua volontà.»

Queste poche parole ottennero il migliore effetto. Una fra quelle donne, colle quali io mi era già prima trattenuto in argomenti morali e religiosi, prese ad esclamare: «Ah! il Barlamè! benedetto il Barlamè!» difatti, cadendo in ginocchio cominciarono ad intuonare le loro litanie ed a pregare con compunzione. Poterono farlo con tanta maggiore tranquillità d’animo, inquantochè i marinari avevano cominciato a tentare un mezzo di salvamento, il quale, se non altro, valeva a soddisfare l’occhio: avevano calato in mare il canotto, il quale per dir vero, non poteva contenere più di sei od otto uomini, e dopo averlo riunito alla nave per mezzo di un lungo canape facevano forza di remi per tirare a sè il bastimento; e difatti per un istante sembrò potessero riuscire a contrastare alla forza della corrente. Se non che, ossia perchè questi sforzi appunto valessero ad accrescere la forza della corrente, ovvero per qualsiasi altra causa, la barca col suo equipaggio si trovò tutto ad un tratto scostata dalla direzione della nave, descrivendo il canape una curva, quale fa la funicella della frusta, allorquando il cocchiere vuol lanciare un colpo. Anche questa speranza era svanita! Allora le preghiere si alternarono colle maledizioni, e la nostra condizione apparve ben più seria, quando si udirono i pastori di [p. 359 modifica]cui avevamo visto già ben prima i fuochi, in cima agli scogli, gridare: «colà sotto al basso, va a frangersi la nave.» Dissero ancora alcune parole che non si poterono comprendere, ma dalle quali taluni che intendevano il loro dialetto, ritenerono potere dedurre che si rallegravano del bottino che si lusingavano potere raccogliere il mattino seguente. Rimaneva ancora la speranza di potere tenere discosto il legno dagli scogli coll’opera di lunghe stanghe, alle quali diedero di piglio i marinai; se non che queste s’infransero, e tutto pareva oramai perduto. Intanto la nave oscillava sempre maggiormente; gli scogli parevano sempre più vicini, e vinto dal mal di mare che mi aveva colto di bel nuovo, mi trovai costretto a scendere al basso nel camerino. Mi gettai sul mio materasso, tutto stordito, preoccupato però ancora dal pensiero del lago di Tiberiade, del quale mi pareva scorgere la scena nella bella incisione di Merian, imperocchè la forza di tutte le impressioni morali e spirituali, diventa tanto maggiore quanto più l’uomo si trova raccolto in sè stesso. Non saprei dire quanto tempo io sia rimasto, immerso in uno stato quasi di mezzo sopore, allorquando, tutto ad un tratto fui destato da quello da un grande chiasso che si faceva in alto, sul ponte; potei comprendere che si muovevano e si strascinavano colassù grossi canapi, la qual cosa mi diede speranza si potesse ricorrere all’uso delle vele. Dopo alcuni istanti, Kniep scese precipitosamente al basso ad annunciarmi che si era alzato vento favorevole; che eravamo salvi; che si stavano spiegando le vele; che aveva preso parte egli pure al lavoro. La nave si veniva scostando poco a poco dagli scogli, e tuttochè non fosse uscita ancora dalla corrente, si nutriva oramai speranza avrebbe riuscito a superare la forza di questa. Sul ponte tutto era tranquillo, e non tardarono guari a scendere al basso passeggieri a confermare la buona notizia, e che si adagiarono per dormire.

Allorchè mi svegliai il quarto mattino del nostro viaggio mi trovai in buona salute, libero affatto del mar di mare, [p. 360 modifica]siccome già mi era avvenuto nell’andare da Napoli a Palermo, cosicchè posso ritenere con fondamento, che qualora avessi a fare un lungo viaggio di mare, finirei per abituarmi a quello, e per cessare dal soffrire.

Salito sul ponte, vidi con piacere che l’isola di Capri si trovava oramai ad una certa distanza sulla nostra sinistra, e che la nostra nave faceva strada in direzione del golfo, lasciandoci luogo a sperare di potervi entrare fra poco, come realmente avvenne; e dopo avere passata una cattiva notte, ebbimo la soddisfazione di potere contemplare, alla luce del pieno giorno, quegli oggetti che già avevamo ammirati alla sera. Non tardammo ad allontanarci del tutto da quegli scogli, che poco era mancato ci riuscissero fatali. Ieri avevamo ammirata in distanza la sponda destra del golfo, ed ora scorgevamo di fronte la città, le castella, ed alla sinistra Posilippo, e la lingua di terra la quale si estende di fronte ad Ischia e Procida. Tutti erano sul ponte, e fra gli altri un sacerdote greco, entusiasta della sua contrada natale, il quale richiesto dai Napoletani che si trovavano a bordo, e che salutavano con trasporto la loro patria, se Napoli potesse reggere al paragone con Costantinopoli, rispose in tuono molto patetico: «Anche questa è una città!» Arrivammo di buon ora ancora nel porto, il quale brulicava di gente; era vista animatissima: i nostri bauli, il resto de’ nostri bagagli non erano quasi sbarcati sulla calata, che due facchini se ne impossessarono, e non appena ebbero udito che volevamo recarci ad alloggiare presso Moriconi, presero la corsa colle nostre robe sulle spalle, quasi fossero un bottino, in guisa che duravamo fatica a potere loro tenere dietro collo sguardo per le strade, e per le piazze affollatissime. Kniep aveva il suo portafogli sotto il braccio, cosicchè avressimo salvati quanto meno i disegni, qualora quei due facchini fossero stati meno onesti, di quanto siano in generale i poveri diavoli napoletani, e ci avessero portato via, quanto era sfuggito al pericolo del naufragio.

  1. Autore, nel secolo XVII, di lettere sulla Sicilia, e su Malta. (Il Traduttore).
  2. Morto nel 1785, inviato di Prussia a Vienna. Scrisse un viaggio in Sicilia, e nella Magna Grecia. (Il Traduttore).