Rivista di Scienza - Vol. I/Il concetto di specie in Biologia: Avanti e in Darwin

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Federico Raffaele

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Il concetto di specie in Biologia: Avanti e in Darwin
La mécanique classique et ses approximations successives Il concetto di specie in Biologia: La critica post-darwiniana
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IL CONCETTO DI SPECIE IN BIOLOGIA.


I. - Avanti e in Darwin.1


Col progredire delle scienze biologiche è accaduto pel concetto di specie quello che suole accadere per tutti i nostri concetti, quando cerchiamo di determinarli con una certa precisione, sforzandoci di circoscriverli e fissarli in una definizione; che cioè il concetto, che noi credevamo di possedere chiaro e netto e semplice nella nostra mente, ci si è andato tanto più complicando e annebbiando, quanto più tentavamo di analizzarlo.

Le scienze hanno come scopo finale la determinazione di concetti, i cui germi si trovano belli e formati, per effetto della quotidiana e comune esperienza. Ma spesso il concetto scientifico finisce per essere molto diverso, talvolta addirittura opposto a quello volgare che gli è servito di punto di partenza; o, meglio: spesso a questo concetto iniziale, la indagine scientifica conduce a sostituirne un altro, che poi man mano, col diffondersi della coltura, quasi senza che ce ne accorgiamo, prende il posto del primo nel nostro patrimonio intellettuale.

Così accade che un dato concetto, dopo attraversato un processo di epurazione e di determinazione, si trasforma in maniera da non essere nè meno più riconoscibile nè intelligibile per coloro, la gran maggioranza cioè, che non hanno [p. 68 modifica]partecipato alla elaborazione del concetto stesso. Basti citare il concetto di limite in matematica, quello di forza o quello di potenziale, quello di equivalente meccanico del calore ecc., i quali, pure avendo il loro punto di partenza nell’esperienza ordinaria della vita e trovandosi in germe, sia pur confusamente, anche nella mente del più rozzo e ignorante fra gli uomini, si sono andati determinando e precisando in una forma che li rende inaccessibili a chi non abbia, rifacendo in certo modo il cammino fatto da essi, acquistato le nozioni necessarie a impadronirsene. Chi non ha seguito queste elaborazioni dei concetti scientifici, non può nè meno sospettare le difficoltà che vi s’incontrano, nè immaginare le vicende attraverso cui i più elementari concetti sono passati nella storia delle ricerche, e le dispute che intorno ad essi si sono accese. E alla maggioranza ignara riescono incomprensibili la ragione della disputa e gli argomenti addotti per sostenere l’una o l’altra opinione e, non di rado, sembrano puerili e risibili.

Ognuno crede di avere un’idea molto chiara e precisa di ciò che sia una specie animale o vegetale; ed è ben naturale che sia così, dal momento che nessuno esita a riconoscere a prima vista questa o quella specie di pianta o di animale. Anche un bambino distingue le mele dalle pere, un can barbone da un cane da caccia e s’accorge che una pianta o una bestia, ch’egli vede per la prima volta, è «nuova» per lui e non la confonde con una delle tante a lui già note.

E questa, si potrebbe dire quasi intuitiva classificazione, che fa l’uomo rozzo, e il bambino, in molti casi almeno, coincide abbastanza bene con quella ragionatamente fatta dai botanici e dagli zoologi, ed è pure il risultato di un processo mentale sostanzialmente non diverso. Nell’un caso e nell’altro è la comparazione, fondata sull’apprezzamento delle somiglianze e delle differenze, che conduce al risultato. Perchè questo apprezzamento sia possibile, è necessario un processo di analisi, da cui poi, per un processo di sintesi, si ricostituisce una rappresentazione schematica, quasi un modulo che, in ogni nuovo caso serve di termine di confronto e permette il riconoscimento.

È certamente meravigliosa la rapidità con cui si compiono operazioni apparentemente così complicate. Ma la meraviglia s’attenua forse alquanto, se pensiamo che anche gli animali, [p. 69 modifica]anche i più bassi, «riconoscono» le specie di animali e di piante con cui sono in continui rapporti. Anzi negli animali avviene questo fatto, che può sembrare paradossale: il «riconoscimento»; se pure è lecita questa espressione in questo caso, di ciò che essi non possono aver conosciuto per esperienza personale. Il gatto «riconosce» e caccia i topi, come suol dirsi, d’istinto; il pulcino becca il vermicciòlo appena è sgusciato dall’ovo; l’ape, non appena può volare, va direttamente sui fiori. E gli animali d’una stessa specie si riconoscono fra di loro, come dimostra, se non altro, l’accoppiamento dei due sessi. Le formiche, è ben noto, riconoscono perfino gl’individui appartenenti al proprio formicaio, che un esperto mirmecologo non saprebbe riconoscere.

Dicevo: la nostra meraviglia forse s’attenua quando consideriamo questi fatti; altri potrebbe invece trovarvi ragione di maggior meraviglia. Ma una giusta valutazione dei fatti stessi permette di togliere a questi quel non so che di portentoso, che si sarebbe inclinati a vedervi; in questo senso, ch’essa ci dimostra la possibilità di ridurli a processi relativamente semplici.

Nessuno, credo, suppone, che il girasole «riconosca» il sole e si volga, in segno di saluto, verso l’astro benefico. Ciò forse potrebbe dire in forma leggiadra un poeta, ma egli non direbbe certamente una verità. Il meccanismo che fa volgere il girasole verso la luce è relativamente semplice e non implica nessun ragionamento da parte della pianta. È probabilissimo che non altrimenti complicata sia la catena dei fatti, che conducono il gatto a dar la caccia ai topi e il pulcino a beccare il vermicciòlo. Si tratta, nell’un caso e nell’altro, dell’azione di certi stimoli particolari (la luce nel caso del girasole, l’odore e il particolare movimento della vittima pel gatto e pel pulcino) cui certi organismi viventi reagiscono in un dato modo, determinato dalle parti che ricevono lo stimolo e dalla disposizione di quelle, che producono i movimenti. Ripetendosi lo stesso stimolo, esso provocherà necessariamente gli stessi effetti. Noi non sappiamo, né abbiamo modo di sapere se il gatto «conosca» o «riconosca» i topi, e quale «idea» esso si faccia di un topo; ma siamo sicuri che la presenza di un topo lo eccita in un dato modo e gli fa compiere dati atti che lo conducono ad afferrare il topo e mangiarselo.

Quando un oggetto qualunque, e, nel caso di cui ora [p. 70 modifica]c’interessiamo, un animale o una pianta agisce con la sua presenza sui nostri sensi, un insieme di sensazioni si producono in noi, non importa qui sapere come e quali; e questo complesso di sensazioni si riproduce esattamente quando lo stesso oggetto ci si ripresenta. Se, invece di quell’oggetto, un altro si offre alla nostra attenzione, che sia in tutto simile al primo, noi riceveremo un’«impressione» in tutto simile alla precedente, che ci farà immediatamente identificare i due oggetti. In questo processo si sarà compiuto a nastra insaputa tutto un lavorìo d’analisi e di sintesi, non che di comparazione, che si compendia in questo: che in noi si ripetono gli stessi effetti essendo la stessa la causa che li produce. Ciò, credo, avviene in sostanza non diversamente di quel che vediamo avvenire nel caso del girasole, del topo e del pulcino.

Il nostro linguaggio ci permette di esprimere con una parola tutto l’insieme di quegli effetti, e quando diciamo: mela, pera, topo, noi rievochiamo in un attimo tutte le cause che, altrettanto rapidamente, sogliono produrre in noi quegli effetti dovuti alla presenza, nella sfera dei nostri sensi, d’una mela, d’una pera, d’un topo. — Se noi, contemporaneamente alla «conoscenza» che facciamo d’un oggetto, lo distinguiamo con un nome, avremo un mezzo semplice e rapido d’indicarlo, il quale ci esime dall’obbligo di ricordarne i caratteri. Il fondersi dei varii effetti prodotti in noi dalla presenza d’un oggetto in un effetto unico e il sintetizzare che noi facciamo dei caratteri dell’oggetto, ossia delle cause cui quegli effetti sono dovuti, in una parola, ci dispensano da ogni sforzo, ci rendono così facile di conoscere e riconoscere gli oggetti che ci circondano, che noi per lo più ignoriamo molto di quello che crediamo di sapere intorno ad essi. Provatevi a descrivere le fattezze d’una persona a voi molto ben conosciuta, cioè tutto quello che ve la fa riconoscere a prima vista fra cento, fra mille, senz’averla prima sottoposta intenzionalmente a un esame minuto; non riuscirete in molti casi forse nè meno a dire qual’è la forma del naso e di qual colore sono gli occhi.

Il botanico o lo zoologo sistematico non fa che analizzare i caratteri che servono a farci riconoscere una pianta o un animale, le cause, ripeto, che producono in noi i noti effetti dovuti alla presenza di quella pianta o di quell’animale, e dare un nome, che è come un simbolo di quell’insieme di caratteri. [p. 71 modifica]La nostra quotidiana esperienza ci insegna che un dato animale o una data pianta non esiste isolata, ma che vi sono molti individui fra loro simili, tanto che, a prima vista, noi possiamo scambiarli l’uno per l’altro.

Quando noi vediamo un topolino, sappiamo che ci sono molti altri topolini simili. Ma se vediamo un ratto o un grosso topo di chiavica, non lo chiameremo topolino; però diremo che gli uni e gli altri sono tutti topi, ma di diversa specie. Noi riconosciamo esserci fra tutti i topi una notevole somiglianza, ma che questa somiglianza è molto maggiore fra i topolini e fra i topi di chiavica, che non fra due qualunque topolini e due qualunque topi di chiavica. Noi diciamo, in questo caso, che vi sono due specie di topi, una più piccola e una più grande. Lo zoologo non fa diversamente, sol che egli precisa questa nozione, mette in evidenza alcuni caratteri comuni a tutti i topolini, altri, comuni a tutti i topi di chiavica e quelli comuni agli uni e agli altri e battezza i primi col nome di Mus musculus, i secondi con quello di Mus decumanus, dicendo che sono due «specie» diverse appartenenti allo stesso «genere»; al genere Mus, la razza dei topi, come diremmo in lingua volgare.

Senza dubbio l’uomo, dalla più remoto antichità, fin dal momento in cui cominciò a guardarsi attorno, dopo la sua comparsa su questo mondo, dovette imparare a distinguere e a riconoscere gli animali e le piante, che più abitualmente gli capitavano sotto agli occhi e a notarne le somiglianze e le differenze. La botanica e la zoologia sistematica nacquero, può ben dirsi, con l’uomo.

Quando e come le nozioni accumulate attraverso le generazioni successive, cominciassero ad assumere una forma scientifica, è molto difficile sapere. Tale indagine non ci riguarda. Nei più antichi autori delle diverse civiltà, e sui più antichi monumenti, noi troviamo i documenti delle conoscenze di storia naturale che si avevano a quei tempi, e spesso possiamo nelle descrizioni e nelle figure riconoscere sicuramente alcune specie di animali o di piante allora, come ora, oggetto della attenzione degli uomini. E l’abitudine di raggruppare gli animali molto simili fra loro, di metterne in rilievo i caratteri e di raccoglierli sotto una denominazione comune dovette cominciare molto presto. Il concetto di specie, dobbiamo ritenere, [p. 72 modifica]cominciò a occupare la mente dell’uomo fin dai primordi della sua attività. Ma soltanto in un’epoca molto vicina a noi questo concetto si andò determinando.

Che infatti il concetto intuitivo di specie non sia molto preciso, si rileva dall’imprecisione con cui esso viene espresso nel linguaggio volgare. Noi usiamo le parole specie, genere, razza, famiglia, varietà a volta a volta per indicare gruppi di animali o di piante costituiti d’individui più o meno simili fra di loro; diciamo spesso indifferentemente: una specie di mele, una razza di cani, la razza dei topi: diciamo il cane e il gatto sono specie diverse, come diciamo il cavallo, l’asino e il mulo sono tre specie diverse; diciamo una rosa, un cane, un topo, come se questi nomi indicassero qualche cosa di ben definito, includendovi tutte le rose, tutt’i cani, tutt’i topi possibili, senza troppo indagare se questi nomi si riferiscano a categorie equivalenti. È facile convincersi che nel linguaggio comune noi usiamo nomi e quindi esprimiamo concetti riferentisi a categorie tanto più estese, a complessi di oggetti tanto più eterogeneamente composti quanto meno precisa e intima è la nostra conoscenza degli oggetti stessi.

Non di rado si sente parlare di «pesci» per indicare e i pesci e anche molti altri animali che coi pesci non hanno altro in comune se non la loro dimora nell’acqua. Insetto, verme, sono parole che si usano a proposito e a sproposito per indicare una quantità di animali, che spesso non sono nè insetti nè vermi in linguaggio zoologico. Ciò dipende dal fatto che noi distinguiamo meglio le cose a misura che più le conosciamo, e siamo più facilmente colpiti dalle differenze più grossolane che dalle minute: non solo, ma spesso non abbiamo modo di accorgerci facilmente di certe differenze o di certe somiglianze. Tutti sanno p. es., che l’acqua congelandosi diventa ghiaccio e che il ghiaccio fondendosi diventa acqua, e che ghiaccio e acqua sono una medesima sostanza in due stati diversi; ma pochi si domandano dove vada il vapor d’acqua d’una caldaia che bolle e d’onde venga il vapor d’acqua che si condensa sulle pareti d’un vaso in cui si versi acqua fredda. Ciò dipende dal fatto che noi vediamo il ghiaccio fondersi e l’acqua congelarsi, ma non vediamo il vapore acqueo nell’aria.

Tutti conoscono e riconoscono facilmente una farfalla, ma pochi sanno che i bruchi diventano farfalle, e tutti gli altri, che non sanno questo, chiamano i bruchi «vermi» e non [p. 73 modifica]sospettano nè meno che essi abbiano qualche cosa di comune con le farfalle. L’orbettino, per la forma del corpo e la mancanza di gambe, può facilmente essere scambiato per una serpe; l’anatomia dimostra che esso deve invece ravvicinarsi alle lacerte.

Questi esempi bastano a farci vedere che, nell’apprezzamento degli oggetti che ci si presentano, noi possiamo incorrere in due specie di errori; quelli che derivano da insufficiente conoscenza per insufficiente esperienza: e quelli che dipendono dall’impossibilità di acquistare certe nozioni col semplice uso dei nostri sensi nelle ordinarie condizioni. I primi si correggono con l’esercizio; così un cacciatore o un pescatore impareranno a conoscere e a distinguere molti uccelli o molti pesci e a indicarli con altrettanti nomi, laddove gli altri non sapranno che grossolanamente distinguerli e indicarli come «uccelli» o come «pesci» e ne vedranno al più confusamente le differenze. I secondi non potranno correggersi se non con un attento e minuzioso esame, con una ben diretta osservazione e comparazione, e spesso ricorrendo a opportuni esperimenti; cioè sostituendo alla comune esperienza il metodo scientifico.

La botanica e la zoologia sistematica hanno naturalmente cominciato a operare con concetti e con denominazioni tolte all’uso comune. Le due fonti d’errori ora dette hanno continuamente inquinato i risultati di quelle discipline, il cui progresso sta tutto nella correzione di tali errori.

La storia di questo progresso può suddividersi in quattro grandi periodi, i quali corrispondono abbastanza bene alle principali fasi dell’evoluzione di concetti di piccoli gruppi naturali: generi, specie, varietà, ecc.: periodo prelinneano, periodo linneano, periodo del trasformismo, periodo attuale o della critica.

Nel primo può comprendersi tutta la coltura naturalistica dei tempi antichi, del medio evo e di buona parte dell’epoca moderna, fino al secolo decimottavo, cioè fino a Linneo; questo periodo può farsi cominciare con l’opera meravigliosa di Aristotele.

Il secondo periodo è caratterizzato dalla grande riforma dovuta a Linneo, il quale più ancora che riformatore, è ritenuto, sebbene alquanto erroneamente, creatore della sistematica. Questo periodo, incomparabilmente più breve del primo, [p. 74 modifica]è di importanza molto maggiore, come quello in cui furono gittate le fondamenta di tutta o per lo meno della più gran parte della moderna coltura biologica, e stabiliti i canoni che ancora oggi imperano, se pure in parte indirettamente, su tutta la sistematica.

Gli albori del terzo cominciarono quando ancora splendeva in tutta la sua potenza il sole linneano: cui s’era aggiunta, ad accrescerne l’effetto, l’azione fecondatrice d’un altro astro di prima grandezza: il Cuvier. E questo terzo periodo fu un periodo di ribellione; ribellione, che, pur traendo le sue lontane origini dalla filosofia greca, (e qual fonte del pensiero moderno non ne deriva?) non aveva fatto che guizzare qua e là, spesso senza coscienza di sè, in scintille, presto soffocate o spente dalla rispettabile certo, ma troppo rispettata autorità dei grandi conservatori delle «buone tradizioni», aristoteliche prima, scolastiche poi. Ma non tanto, ch’esse non bastassero a divampare in incendio, quando il vento divenne favorevole. Come di tutti gli avvenimenti, si sogliono ricordare anche di questa memorabile rivoluzione gli eroi maggiori: il Lamarck e il Darwin, trascurando i precursori e i cooperatori, che furono molti e non sempre spregevoli. Essi sono giustamente riconosciuti come capi di due tendenze diverse, che oggi ancora si continuano, sebbene modificate, nei seguaci più o meno fedeli, sotto i nomi di Neo-Lamarckismo e Neo-Darwinismo.

Grande fu il successo della rivoluzione, come tutti sanno, per varie ragioni intrinseche ed estrinseche; ma anche per questa, non ultima credo, che essa trovò nel suo capo principale, il Darwin, un rivoluzionario onesto, ragionevole e mite, scrupoloso e prudente quanto altro mai e, caso rarissimo, pieno di vera e solida fede nella bontà della sua causa, eppure privo di fanatismo.

La vampa della rivoluzione, come suole accadere, affascinò, ma accecò anche. Di tutta la storia delle scienze naturali questo è il periodo più popolare e più conosciuto; non tanto perchè più moderno, quanto appunto perchè rivoluzionario. Parve che finalmente fosse trovata la formula per risolvere i problemi della vita che affaticavano le menti. I novatori divennero in breve conservatori e tiranni; i dogmi rivoluzionari si sostituirono a quelli della tradizione. Guai a chi osasse discuterli. Pochi resistettero, e parecchi fra questi, più per istintivo attaccamento al passato, che per altre ragioni. Ma [p. 75 modifica]non tardò la reazione. La critica, soffocata dapprima dal divampare della rivoluzione, ripigliò fiato, e, inanimita dagli errori e dalle scissure del partito rivoluzionario, profittando delle più solide conquiste fatte nel campo scientifico di nuovi dominatori, andò fortificando le sue posizioni. E l’ultimo, il moderno periodo, che può chiamarsi periodo di reazione, ma più esattamente e giustamente deve dirsi di critica, ebbe principio. La storia del concetto di specie è intimamente legata alla storia di questi quattro periodi.

Tutta la sistematica prelinneana si risente della poca precisione delle conoscenze, la quale si riflette nella imprecisione delle descrizioni e della nomenclatura.

Per molti secoli durò una vera anarchia sistematica; la distribuzione degli animali e delle piante conosciuti in gruppi fu fatta senza norme sicure e il valore dei gruppi di vario ordine oscillò continuamente. Fu soprattutto incerto e variabile il significato attribuito dai naturalisti ai gruppi più piccoli, come quelli che, per essere distinti da differenze meno evidenti, riescivano più difficili a essere determinati nei loro caratteri e circoscritti. Genere e specie furono parole adoperate senza che rispondessero a concetti ben definiti e scambiate spesso l’una per l’altra.

Il Carus fa rilevare come le espressioni «Genos» e «Eidos» fossero usate da Aristotele in senso strettamente logico, implicandovi egli un significato di subordinazione relativa, non punto corrispondente a quelli di genere e specie della moderna sistematica. Un «Eidos» diventava «Genos» a sua volta quando esso comprendeva varie suddivisioni, le quali divenivano allora gli «Eidos».

Com’è risaputo, la storia naturale, ch’ebbe in Aristotele il suo fondatore, rimase per secoli al punto dove quel grande l’aveva condotta; come nella filosofia, così nelle discipline biologiche, la grande ombra dello Stagirita si proiettò nei secoli lontani, e impedì a ogni attività autonoma di germogliare.

Non mette conto, pel fine che ci proponiamo, di rifare la storia dei tempi antichi e nè meno del rinascimento delle scienze naturali dalle caotiche tenebre in cui la filosofia scolastica le aveva avviluppate. E, saltando a più pari tutto il periodo di confusione e d’imprecisione che precedette l’opera [p. 76 modifica]di Linneo, noi possiamo affermare che da questo grande naturalista comincia la fase scientifica nella storia del concetto di specie, poiché le sue diagnosi scultorie e la sua precisa nomenclatura rappresentarono la conclusione della storia antica e l’inizio della storia moderna delle scienze naturali, cui esse fornirono un linguaggio sicuro e spedito che formò la base dell’ulteriore progresso.

Il Linneo fu il primo ad affrontare sotto un nuovo punto di vista il problema della specie e a dargli una soluzione, che si affermò nelle scienze naturali come una legge di cui tuttora dura l’imperio.

Prima di lui, il maggior peso era dato a quei gruppi, che poi furono i generi linneani, i quali, come certo più nettamente diversi fra di loro, meglio potevano esser distinti, ed era credenza comune che i generi di animali e di piante esistenti corrispondessero ad altrettanti atti creativi, e si fossero continuati immutati dalla creazione del mondo. Entro ciascun genere, per modificazioni dovute a cause diverse, altri gruppi di minore importanza si sarebbero andati formando: le specie; come in queste, le varietà. Linneo adottò dapprima questo modo di vedere, ma poi, convintosi della costanza dei caratteri di molte specie, elevò queste al grado che prima avevano i generi ed enunziò il ben noto aforisma: Species tot numeramus quot diversae formae in principio creatae sunt. Ecco d’un colpo le specie dichiarate immutabili e perciò nettamente definibili e il concetto di specie precisato come quello di entità creata da Dio. Ciascuna specie deve e può essere precisamente circoscritta e merita un nome che valga a fissarla come tale. Ed ecco contemporaneamente sorgere la nomenclatura binomia, in cui il primo nome sta a indicare il genere, cui la specie appartiene, il secondo è quello che determina la specie; come: Equus caballus, Equus asinus, ecc.

«Chi ai nostri giorni dà uno sguardo al Systema Naturae», dice l’Agassiz2 «sia pure alla dodicesima edizione dell’opera, stenta a persuadersi della grande influenza ch’essa ebbe sui progressi della Zoologia. Eppure essa ebbe sulla sua epoca un effetto magico, suscitando sforzi che oltrepassarono di molto tutto quello che s’era fatto nei secoli precedenti».

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In verità Linneo non soltanto creò un sistema preciso e facile, applicandolo alla classificazione di un gran numero di piante e di animali direttamente osservati da lui; non soltanto creò una nomenclatura, che durerà quanto le scienze cui si applica; non soltanto ordinò e fece conoscere e, quel che più monta, rese facilmente riconoscibile una quantità di forme fin allora mal note o ignote; ma fu il primo a rendersi conto del significato d’una classificazione naturale. Sia pure che a ciò fosse condotto più da principii religiosi che da principii scientifici, certo egli pel primo esplicitamente ammise l’esistenza di gruppi naturali e dichiarò tale la specie: Naturae opus est species, e additò la via che doveva quind’innanzi seguire la sistematica: la ricerca, cioè di questi gruppi naturali. E il primo, più piccolo e più sicuramente naturale fra i gruppi di piante e di animali fu da lui dichiarato la specie, ch’egli fu anche il primo a voler nettamente definire e circoscrivere e a subordinare al genere, il quale pure era per lui un gruppo naturale come le specie che lo compongono.

Ma entro la specie, in molti casi, come anche Linneo vide, s’incontrano individui che possono essere ripartiti in gruppi pur essi ben definibili: le così dette varietà: gruppi, che rappresentano rispetto alla specie quel che le specie rispetto al genere. E Linneo, che pure aveva trovato ragionevole e conforme natura, di separare nettamente l’una dall’altra le specie d’un genere, trovò invece comodo di attenuare l’indipendenza delle varietà, per mettere meglio in evidenza l’omogeneità delle sue specie, e fece alle varietà lo stesso trattamento che i suoi predecessori avevan fatto alla specie, come chiaramente è espresso in questa definizione: Varietates sunt plantae eiusdem speciei, mutatae a caussa quacunque occasionali3.

E, dice il De Vries, «per assicurare quanto più fosse possibile alle sue specie l’origine soprannaturale, Linneo interdisse ai suoi discepoli lo studio di quei tipi minori: Varietates levissimas non curat botanicus, fu da lui sentenziato»4.

La nomenclatura binomia fu, credo, non ultima fra le cause di vitalità delle specie linneane. Le parole son come [p. 78 modifica]uno specchio che riflette le nostre idee; ma non di rado, per uno strano miraggio, noi ci abituiamo a vedere in esse immagini che non sono nella nostra mente, o che, per lo meno, vi sono ancora poco chiare, mentre nelle parole crediamo vederle apparir nette e precise: d’onde l’inganno di credere a una egual precisione di concetti;

«Denn eben wo Begriffe fehlen
Stellt oft ein Wort zu rechter Zeit sich ein».

dice molto argutamente Mefistofele.

E giustissima mi pare quest’osservazione del Decandolle: «la necessité de chercher le sens attaché au mot espèce par Linné dans les détails de ses ouvrages plutôt que dans leurs principes généraux est impérieuse, puisque la définition d’espèce dans la Philosophia botanica est inapplicable, et qu’on pourrait même la recommander aux professeurs de philosophie comme exemple d’une définition contraire aux règles de la logique. Linné.... dit: «Species tot numeramus quot diversae formae in principio creatae sunt». Ainsi pour savoir si une forme est spécifique, il faudrait remonter à l’origine, chose impossible. Définir par un caractère qui ne peut pas se vérifier, et qu’on ne pourra jamais vérifier, n’est pas définir»5.

Invero, come meglio vedremo fra poco, Linneo non aveva risoluto, se non in apparenza, il problema della determinazione delle unità naturali o gruppi elementari. Il suo mirabile tatto e anche la non eccessiva abbondanza delle forme ch’egli conobbe e classificò gli facilitarono il compito e lo salvarono, in parte almeno, dagli errori in cui caddero i discepoli.

L’aforismo linneano, che le specie esistenti sono quelle create all’inizio, fece sì, osserva giustamente il Möbius6, «che la maggior parte dei naturalisti della scuola di Linneo ritennero per loro còmpito di riconoscere nelle diverse forme di piante e di animali le specie esistenti e di distinguerle nettamente fra di loro a parole. E nella loro sicura fede in un dato numero di specie create, non si accorsero che essi stessi stabilivano quali forme fossero diverse, prima che [p. 79 modifica]potessero dire: queste sotto forme diverse che furono chiamate in vita nella Creazione. In realtà essi creavano così tante specie quante nozioni di specie essi fondavano sulle forme da loro studiate. Conforme al suo metodo, la scuola linneana anzi che: Species tot numeramus, quot diversae formae in principio sunt creatae, avrebbe dovuto dire: Species tot numeramus, quot formarum notiones diversarum ab auctoribus sunt conceptae».

Grande fu l’impulso a scoprire o, più spesso, a «creare» nuove specie che l’opera di Linneo dette ai suoi contemporanei e successori. Aumentando il materiale, grazie alle esplorazioni, e fattasi sempre più attiva la ricerca, crebbero i cataloghi sistematici e si moltiplicarono i generi e le specie; ma non senza dispute — ancora oggi non composte — sul valore dei nuovi gruppi descritti e battezzati secondo i canoni del Maestro. Si cominciò a non essere ben certi di quali fossero le «buone specie» cioè quelle che erano state separate fin dall’inizio nell’intenzione del Creatore; e bisogna convenire che questo non era facile compito. Si ammise che potessero esservi «cattive specie» cioè specie foggiate artificialmente per erronea interpretazione delle intenzioni di Domineddio: ogni naturalista descrivendo e battezzando nuove specie credeva, naturalmente, che fossero «buone», ma raramente mancava poi qualche altro specialista, che, dopo una revisione più o meno accurata del catalogo del primo, non ne trovasse, una certa quantità da scartare; alle quali, al più al più, poteva attribuire il grado di «sottospecie» o di «varietà».

Il fatto è, che quanto più numerosi sono gli esemplari d’una specie e le specie d’un genere, che si sottopongono ad esame, tanto più facilmente accade d’imbattersi in forme dubbie, che non si possono sicuramente far rientrare in una o in un’ altra specie; spesso due specie si possono difficilmente delimitare l’una rispetto all’altra; abbondano le «forme intermedie» che collegano per gradi insensibili l’una all’altra, così da far nascere il sospetto che si tratti d’un’unica specie con limiti più estesi. Da ciò il continuo oscillare del numero di specie di certi generi. La specie linneana Cyprinus Carpio, per. es. (il comune carpione) fu suddivisa da Heckel e Kner in tre specie: Cyprinus carpio, Cyprinus acumimatus (una specie a dorso più alto) e C. Hungaricus (una forma più [p. 80 modifica]allungata); il v. Siebold, poi, avendo potuto constatare che queste tre specie sono collegate da forme intermedie, le riunì di nuovo nell’unica specie linneana primitiva. Le specie di rovo annoverate nella Flora Britannica di Bentham e Hooker sono 5, mentre nel Manuale del Babington diventano 45. Si potrebbero citare innumerevoli esempi di simili scomposizioni e ricomposizioni totali o parziali delle specie fondate da Linneo o di quelle «fatte» dopo di lui.

Parimenti incerti e ondeggianti furono — e sono tuttora — i criteri per cui taluni gruppi sono a volta a volta ritenuti e descritti e denominati come «specie» o come «varietà»7. E l’incertezza si manifesta anche nella creazione di gruppi intermedi quali sotto-generi, sotto-specie, varietà, sotto-varietà, ecc. — La sistematica divenne in breve una vera tela di Penelope, con quanta confusione della nomenclatura e quanto sciupìo di lavoro e d’inchiostro può bene immaginarsi.

Cominciò pertanto in taluni naturalisti a farsi strada l’opinione che gruppi naturali reali non esistessero, ma che generi, specie, varietà e qualunque altro gruppo o sotto-gruppo fossero artificialmente foggiati dai sistematici in base a criteri arbitrari, che li conducevano a segnar limiti dove la natura non ne ha posti; che in natura di veramente reale non esiste se non l’individuo, e che qualunque aggruppamento altro non può mai rappresentare fuori che una suddivisione fatta per comodo della descrizione.

Questa opinione per vero non era nè men nuova. Si potrebbe rintracciarla, come osserva il Carus, perfino in Abelardo, che disse: nihil omnino est praeter individuum, sebbene in questo caso la sentenza debba accogliersi nel puro significato logico, come, in generale, qualsiasi altra formula scolastica. La troviamo esplicitamente espressa in senso naturalistico in queste parole del Lamarck:

«In queste entità artificialmente assunte (le specie), di cui la natura non mi offre modello alcuno, io veggo soltanto un mezzo escogitato per sciogliere le difficoltà altrimenti insormontabili, finchè non si siano sufficientemente ricercate [p. 81 modifica]le leggi della natura». Anche oggi dura il dissidio intorno alla realtà della specie.

Si potrà utilmente consultare a questo proposito l’interessante opuscolo del Belli, pieno di notizie e di pregevoli osservazioni critiche8.

Se la specie non è un’entità reale, è chiaro che il concetto di specie diventa puramente formale, non diverso insomma da quello che Aristotele indicava con la parola Ειδος.

Ma se nel determinare le specie, Linneo e la sua scuola si servirono principalmente del criterio di somiglianza, e se questo criterio è il solo che possa applicarsi nella pratica per circoscrivere le specie, di cui non si conosce l’origine, è certo che nel concetto di specie ha anche larga parte la nozione della eredità.

Presso gli antichi le favolose credenze nella generazione spontanea, come quelle che facevano nascere le rane dal fango, le vespe dal sangue dei tori, ecc., e nelle più strane metamorfosi, furono forse anche causa del non essersi determinato il concetto ereditario di specie.

Ma l’esperienza comune dimostra ogni giorno che il simile genera il suo simile, che da un seme di mela nasce sempre una pianta di mele, da un ovo di gallina una gallina, da un topo un topo, ecc. Ed è ben naturale che il risultato di questa esperienza fosse accolto dai naturalisti.

Così lo troviamo esplicitamente addotto dal Ray, uno dei precursori del Linneo nella sistematica, nella sua Historia plantarum (1686): per lui non esiste «indizio più sicuro (non aliud certius indicium convenientiae specificae est) della identità specifica che non sia quello dell’origine dal seme della pianta identica specificamente o individualmente» e, per tacere di altri, quali il Buffon, il Blumenbach, il Daubenton, l’Illiger, lo vediamo consacrato nella definizione delle specie data dal Cuvier: «la réunion des individus déscendus l’un de l’autre ou de parents communs, et de ceux qui leur ressemblent autant qu’ils se ressemblent entre eux» (Règne animal).

Il Lamarck, anche lui, definisce in modo molto simile: [p. 82 modifica]«on appelle espèce toute collection d’individus semblables qui furent produits, par des iudividus pareils à eux» (Philosophie zoologique).

Il Quatrefages, volendo giustamente tener conto dell’esistenza, in alcune specie (api, formiche, ecc.) d’individui non riproduttori, non che dei fatti della generazione alternante, e di altre considerazioni, pure accettando i criteri direttivi di tali definizioni, volle modificarli e propose questa: «l’espèce est l’ensemble des individus plus ou moins semblables entre eux qui sont descendus, ou qui peuvent ètre regardés comme descendus, d’une paire primitive unique par une succession ininterrompue et naturelle de familles» (Unité de l’espèce humaine).

In questa definizione del Quatrefages, se vi è, per certi riguardi, una maggior larghezza, s’incontra poi una limitazione fondata su un presupposto tutt’altro che dimostrato o dimostrabile, quello d’una «coppia primitiva unica»; presupposto che rispecchia un’ opinione propria del sostenitore dell’unità della specie umana, la quale in verità non poteva essere nè fu condivisa da tutti ed è andata poi diventando sempre più insostenibile.

A questo criterio della discendenza comune si connette l’altro della fecondità dell’accoppiamento fra individui di sesso diverso; fecondità, che mentre è condizione normale fra individui appartenenti a una medesima specie; non si verifica, o si verifica eccezionalmente e limitatamente, fra individui di specie diversa.

Contro la validità di un tale argomento si espresse, fra gli altri, molto esplicitamente l’Agassiz con le seguenti considerazioni: «Si crede — egli scrive9 — che un criterio infallibile della identità specifica sia fornito dal ravvicinamento sessuale, che riunisce così naturalmente gl’individui della medesima specie nella funzione riproduttiva».

«Ebbene, io, per conto mio, credo che questo sia un completo errore, o, per lo meno, una petizione di principii impossibile ad ammettere in una discussione filosofica su ciò che costituisce veramente i tratti caratteristici della specie. Io affermo, anzi, che molti problemi imbrogliati contenuti nella ricerca dei limiti naturali di questo gruppo sarebbero da tempo [p. 83 modifica]risoluti se non fosse l’insistenza con cui si ammette in generale che la capacità e la naturale disposizione degli individui a un accoppiamento fecondo sia prova sufficiente della loro identità specifica. Io non insisto sul fatto che ogni nuovo caso d’ibridismo accertato è una nuova protesta contro tale affermazione. Non esaminerò nè meno se sia possibile di eliminare le difficoltà, introducendo nella disputa la considerazione della fecondità limitata del prodotto di specie diverse. Mi limiterò a una sola osservazione. Finchè non si sarà provato, per tutte le nostre varietà di cani, per tutte quelle dei nostri animali domestici e delle nostre piante coltivate, che esse sono derivate da una specie unica, pura e senza miscuglio; finché un dubbio si potrà mantenere sulla comunanza d’origine e la discendenza unica di tutte le razze umane, sarà illogico di ammettere che il ravvicinamento sessuale, anche quando dà origine a un prodotto fecondo, sia una testimonianza irrefutabile della identità specifica».

«Per giustificare quest’affermazione, io mi limito a dimandare se ci sia un naturalista scevro di preconcetti che osi, ai nostri giorni, sostenere:

1° che è provato che tutte le varietà domestiche di pecore, di porci, di buoi, di lama, di cani, di polli, ecc., sono rispettivamente derivate da un tronco comune;

2° che sia un’ipotesi inammissibile il considerare queste varietà come risultato d’un estremo miscuglio di varie specie primitivamente distinte;

3° che varietà importate da lontani paesi e fra le quali non v’è mai stato prima alcun rapporto, come le galline di Shangai e le nostre galline comuni, per esempio, non si incrocino completamente.

Quale fisiologo — continua il nostro autore — potrebbe asserire in coscienza che i limiti della fecondità fra specie distinte siano conosciuti con sufficiente rigore per poterne fare la pietra di paragone dell’indentità specifica?10».

Ho voluto citare per esteso questo passo dell’Agassiz, e perchè in esso sono riassunte molto precisamente le obiezioni più gravi, che si possono fare intorno al valore del criterio della comunanza di discendenza per la determinazione della specie, di quello che ben può dirsi un criterio fisiologico della [p. 84 modifica]realtà delle specie; e anche perchè vi si trovano accennati varii importantissimi problemi biologici, su cui avremo occasione di ritornare, quello soprattutto dell’ibridismo e quello delle affinità fisiologiche fra gli esseri viventi.

L’Agassiz cerca di dimostrare, quindi, la insostenibilità dell’origine di ciascuna specie da una coppia primitiva. «La derivazione sessuale non è dunque il carattere essenziale e necessario delle specie.... Se la medesima specie ha potuto originarsi contemporaneamente in diversi luoghi, fra i primi rappresentanti della specie non esisteva il legame d’una medesima discendenza.

Col criterio della comunanza d’origine sparisce» dice l’Agassiz, «anche la pretesa realtà della specie.... Ciò che possiede la realtà dell’esistenza sono gl’individui».

Da questa breve e sommaria rassegna della storia della sistematica nel periodo, che può intitolarsi da Linneo11, e delle opinioni di eminenti naturalisti intorno al problema della specie, risulta abbastanza chiaramente, io credo, la difficoltà del problema e l’incertezza delle soluzioni proposte. I profani potranno forse esser meravigliati della scarsa chiarezza d’idee che sembrano avere i naturalisti, e di questo strano lor modo di procedere: di mettere, cioè, a fondamento delle classificazioni e di ogni discussione scientifica un concetto così poco determinato, e, pare, così poco determinabile qual’è quello di specie. Tutti parlano di specie, si potrebbe esser tentati di insinuare, ma, in fondo, nessuno sa dire che cosa sia una specie e perfino se una tal cosa realmente esista!

Che non si potesse accettare senz’altro il dogma linneano dell’immutabilità delle specie, apparve subito manifesto dallo studio delle forme fossili, le quali stanno a testimoniare in maniera inoppugnabile che sulla terra, in epoche diverse, sono esistiti piante e animali diversi.

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Delle forme attualmente esistenti si trovano resti fossilizzati soltanto nelle formazioni geologiche più recenti: ma a misura che ci allontaniamo da queste e andiamo a scavare gli strati più antichi, vediamo successivamente cambiare l’aspetto della fauna e della flora terrestre, e tanto più le troviamo differenti dalle presenti, quanto più antiche sono le rocce fossilifere. La conchiusione inevitabile cui dobbiamo arrivare è che molte forme si sono andate estinguendo, e molte altre ne sono successivamente comparse sul nostro pianeta. Della possibilità dell’ estinzione di alcune specie ne abbiamo la sicurezza anche entro il breve periodo storico dell’umanità; alcune forme noi vediamo tuttora gradualmente tendere a scomparire.

Ma, a memoria d’ uomo, non sembra esservi nessuna sicura prova dell’origine di alcuna «nuova» specie. Certa cosa è però, che nuove specie, anzi addirittura nuovi grandi gruppi di esseri si sono originati durante la formazione della crosta terrestre. Questo fatto non poteva mettersi d’accordo col dogma linneano, nè con quello biblico della creazione del mondo. Il Cuvier, che fu anche il fondatore della paleontologia, tentò, com’è noto, di conciliarli con l’ipotesi dei cataclismi e delle ripetute creazioni; la vita, secondo questa ipotesi, sarebbe stata a grandi intervalli distrutta sulla nostra terra, e poi di nuovo creata in nuove forme.

Quest’ ipotesi, com’è noto, non trovò nessun appoggio nei fatti geologici a misura che questi furono meglio studiati e interpretati, grazie, soprattutto, alla classica opera del Lyell, e dovè cedere il passo a quella conosciuta sotto il nome di trasformismo, la quale, preparata di lunga mano, aveva trovato molti avversari e pareva essere stata completamente debellata dall’anatema lanciatole dal Cuvier, sotto l’egida della cui grande autorità fu ristabilita la fede, per poco scossa, nella immutabilità della specie. Non mi sembra necessario di rifare qui la storia, del resto conosciutissima, del trionfo e della divulgazione del trasformismo per opera del Darwin, nè l’esposizione della dottrina che da lui prese nome.

Il risultato della rivoluzione iniziatasi con la pubblicazione dell’«Origine delle specie» fu, se vogliamo usare un’espressione ora di moda, una trasmutazione dei valori sistematici, in base all’idea fondamentale che i gradi di somiglianza degli esseri viventi fra di loro sono sempre espressione di gradi di parentela; la «scala zoologica», in questa intesa, diventa [p. 86 modifica]«albero genealogico»; alle successive creazioni ex novo del Cuvier si costituisce la graduale evoluzione per continua trasformazione delle forme le une nelle altre.

Il Darwin si espresse fin dal principio in maniera molto esplicita. Per lui, le varietà sono specie in formazione, le specie, generi in formazione e così via. La specie è un termine convenzionale. «.... Io considero il termine specie come un termine dato arbitrariamente, per comodo, a un gruppo di individui che si somigliano molto fra di loro e che esso non differisce esenzialmente dal termine varietà ....»12.

Sembra a prima giunta curiosa questa contraddizione in cui cade il Darwin, d’intitolare il suo libro «Origine delle specie», di riferirsi continuamente alle specie e di negarne poi l’esistenza come entità naturali. Come mai può trasformarsi o modificarsi e originarsi una cosa che non esiste? Ma può questa obiezione essere ritenuta, fino a un certo punto, sofistica, se si consideri che il Darwin parla sempre di lente e graduali trasformazioni, le quali sono per un lungo periodo poco o nulla sensibili, ond’è che, per un simile periodo, le nostre suddivisioni convenzionali hanno, in fondo, lo stesso valore che se corrispondessero ad altrettante suddivisioni realmente esistenti in natura. Inoltre, il Darwin lascia impregiudicato il problema delle prime origini. Dove, invece innegabilmente più incerto è il terreno sul quale si muove il darwinismo è nella circoscrizione dei gruppi, sia pur provvisori, di cui esso vuole apprezzare la mutabilità.

È chiaro che se noi non c’intendiamo bene sui limiti e sul valore di un gruppo in un dato momento, non potremo sapere se e quando i limiti saranno cambiati nè qual valore attribuire al gruppo. «Le varietà sono specie incipienti»; sta bene, ma perchè quest’affermazione abbia un significato, bisogna pur che si sappia precisamente che cosa sia una varietà e che cosa una specie.

Ora il Darwin mette la sua base d’operazione nelle specie linneane, senza cercare di esaminarne accuratamente il contenuto. Inoltre egli annette un significato molto largo e incerto alla parola varietà e nè anche in questo caso si preoccupa di determinarne esattamente il valore. Ma è tuttavia evidente che, in tutta l’opera del Darwin e dei suoi continuatori, sono [p. 87 modifica]implicitamente ammessi, sebbene non rigorosamente determinati, gruppi naturali reali, e il concetto di «specie», cioè d’un gruppo elementare, corrisponde per molti darwinisti e neo-darwinisti, a una realtà e non ad una astrazione.

Il Weismann, il capo riconosciuto del neo-darwinismo, così si esprime:

«Noi vediamo dunque che il concetto di specie è, in un certo senso, pienamente giustificato; noi incontriamo, certo, in date epoche un dissolvimento del tipo fisso di specie, la specie diviene variabile; ma ben presto la confusione delle forme si rischiara di nuovo e ne vien fuori una nuova forma più fissa, una nuova specie, la quale ora per una lunga serie di generazioni rimane la stessa, finché anch’essa comincia a oscillare e si trasforma in una nuova specie. Se facessimo delle sezioni attraverso quest’albero genealogico a diverse altezze, incontreremmo sempre varie specie ben circoscritte, che localmente non darebbero a vedere forme di transizione, le quali noi troveremmo nelle sezioni precedenti».13.

Il Weismann ritiene la specie essere «in prima linea un complesso di adattamenti: sia di adattamenti recenti appena acquisiti, che di antichi ereditati; complesso, che sarebbe potuto e dovuto essere diverso, se si fosse prodotto sotto diverse condizioni di vita».

«Ma», egli soggiunge, subito dopo aver data questa definizione, «le specie non sono soltanto complessi di adattamenti; sibbene anche semplici complessi di variazioni i cui singoli costituenti non sono tutti adattamenti, non tutti, cioè, raggiungono i limiti dei buono e del cattivo. Dal terreno della libera variazione fortuita crescono su tutte le modificazioni, come tutte le piante d’una foresta dal suolo di questa; non tutte diventano alberi; degli adattamenti, che determinano essenzialmente il carattere della foresta, cioè della specie, molti rimangono piccoli e bassi, e anche questi contribuiscono a dare il carattere della foresta, sebbene in linea subordinata....»14.

Questo esplicito riconoscimento della reale esistenza delle specie da parte del Weismann è ben lungi dall’esprimere l’opinione di tutti coloro che hanno svolta la loro attività scientifica nell’indirizzo trasformistico. Questo doveva, col [p. 88 modifica]richiamar sempre più l’attenzione sulla variabilità e sulle così dette «forme intermedie», o di transizione che, per ipotesi, dovevano esistere o essere esistite un tempo fra i varii gruppi sistematici, condurre necessariamente a rendere sempre meno precisi i limiti di essi gruppi, contrapponendosi alla scuola linneana che, fedele al dogma della fissità della specie, trascurando le varietà e le forme intermedie, era andata sempre più circoscrivendoli, col moltiplicare, per necessità di cose, il numero dei gruppi stessi.

Como suole accadere, l’esagerazione di coloro che negavano la fissità della specie non fu minore di quella dei sostenitori di essa. Gli uni e gli altri incorsero nello stesso errore di forzare la mano ai fatti costringendoli a dire ciò ch’era già prescritto dai canoni delle loro dottrine. Come i linneani creavano specie e stabilivano separazioni del tutto arbitrarie e artificiali, così i trasformisti le distruggevano, correndo troppo a vedere forme di passaggio e anelli di congiunzione, che facevano comodo alle loro genealogie. Molti degli alberi genealogici così costruiti non furono meno artificiali di molte specie della scuola linneana. Ma l’indirizzo nuovo ebbe, fra le altre cose, questo di buono, che esso diede un grande e fecondo impulso allo studio della variabilità e ammannì così un ricco materiale per le ulteriori ricerche.

Le dottrine trasformistiche ebbero fin dal loro inizio due diverse tendenze, che s’impersonarono rispettivamente nel Lamarck e nel Darwin.

Il Lamarck ammise come cause della trasformazione le influenze esterne di clima, di nutrizione ecc., quali determinanti di adattamenti diversi che conducevano a modificazioni dell’organizzazione, e l’uso e il non uso degli organi; implicando la trasmissibilità ereditaria dei caratteri acquisiti.

Il Darwin, partendo, com’è ben noto, dalle modificazioni che si ottengono per mezzo della selezione artificiale nelle piante coltivate e negli animali domestici, cercò di dimostrare che in natura esiste un processo analogo, cui egli diede il nome di selezione, o cernita naturale, conseguenza della concorrenza vitale e causa principalissima delle trasformazioni delle specie, e della conservazione delle variazioni più utili, le quali si accumulerebbero attraverso una serie di generazioni quando le condizioni di vita rimanessero immutate. [p. 89 modifica]Dapprima il Darwin respinse quasi completamente le idee Lamarckiane; in seguito le accettò in parte, accordando egli pure una certa importanza ai fattori climatici e all’uso e al non uso degli organi, ma li considerò pur sempre come cause minori e concomitanti; la cernita naturale rimase sempre il fondamento della sua dottrina, la quale non si preoccupava delle origini delle variazioni.

Il darwinismo, chi ormai non lo sa? vincendo ostilità e ritrosìe non poche nè lievi, grazie allo zelo e alla valentìa di parecchi, che ne divennero ferventi apostoli e divulgatori, guadagnò rapidamente terreno, facendo ben presto cadere nell’oblio ogni altro precedente tentativo di dottrine trasformistiche, e diventò, in breve volgere d’anni, la religione ufficiale di naturalisti della seconda metà del secolo XIX. Ciò contribuì alla confusione, che spesso fu fatta e dura tuttora, fra Darwinismo e trasformismo, o teorie evoluzionistiche in generale.

Ma se i primi oppositori delle nuove tendenze furono messi a tacere o lasciati da parte e dimenticati come vecchi brontoloni, o disprezzati come bigotti e gente di poco senno, sebbene non sempre meritassero un simile trattamento, non tutte le obiezioni potettero essere facilmente rintuzzate, o definitivamente eliminate. L’eccessivo zelo dei discepoli fece spesso anche più male che bene, mettendo talvolta in evidenza i punti vulnerabili della dottrina. Contro questi non mancarono di appuntare le armi varii critici, che non potevano esser sospetti di ortodossia, ma che non erano disposti ad accettare, senza esame, il verbo di una nuova fede, sol perchè correva le piazze. Il trionfo incontrastato del darwinismo fu più apparente, che reale, più sbalorditivo che duraturo.

Le insufficienze e le debolezze del principio della selezione naturale, le contraddizioni tra i fatti e le teorie, non vedute dai più, o passate sotto silenzio, ora per ignoranza, ora per difetto di critica, ora per mala fede, furono avvertite fin quasi dal principio; ma poi andarono mano mano rendendosi più evidenti, con grande giubilo di coloro, che non rendendosi ben conto del valore delle ipotesi scientifiche, credono, quando qualcuna di queste si dimostra erronea o insufficiente, che la scienza stessa stia per dichiarar bancarotta e che gli scienziati siano volgari ciarlatani che non ne sanno, né possono saperne, in fondo, più degli altri.

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La critica del darwinismo è stata spesso ingiusta, dimenticando che molti problemi oggi in discussione sono stati messi sul tappeto dalla geniale opera del Darwin, il cui valore scientifico consiste, a parer mio, principalmente in questo, ch’essa affermò la possibilità della indagine in un campo, che pareva chiuso all’investigazione scientifica, e additò nei procedimenti degli orticultori e degli allevatori la via da seguirsi per un’analisi sperimentale del problema della specie. Così essa fu un fattore importantissimo di progresso per le scienze biologiche. La denigrazione del darwinismo da parte di alcuni biologi moderni mi pare eminentemente anticritica. Le obiezioni da loro fatte non hanno nè meno il pregio della novità e le frasi di altezzoso disprezzo con cui essi affettano di giudicare quella teoria, dimostrano ch’essi non ne hanno capito l’importanza, se non altro, storica. Come spiegare altrimenti che il Driesch si meravigli del fenomeno che il darwinismo abbia «menato pel naso» una generazione di naturalisti e che il Dreyer lo definisca una «malattia inglese» da cui urge guarire? Al De Vries spetta, oltre i tanti, il merito di aver rimesso il darwinismo nella sua vera luce.


Università di Palermo, Marzo, 1907.

Note

  1. Questo primo articolo, e l’altro che seguirà col titolo La critica post-darwiniana, non hanno la pretesa di dare un’esposizione completa e documentata della storia dell’argomento, nè quella di essere saggi critici con vedute personali; essi si propongono soltanto di far conoscere per sommi capi ai lettori non naturalisti l’evoluzione subìta dal concetto di specie biologica e, soprattutto, lo stato di certi problemi e i metodi recentemente usati per tentarne la soluzione.
  2. L. Agassiz - De l’espèce et de la Classification en Zoologie (trad. Vogeli, Germer Baillière, Paris 1869) p. 311-312.
  3. Philosophia botanica, N. 306, p. 243; N. 158, p. 104.
  4. Die Mutationstheorie, I, p. 13.
  5. Decandolle, A. - Étude sur l’espèce etc. (Arch. des Sc. phys. et nat., 11 nov. 1862, p. 26, nota), citato dall’opuscolo del Belli: Observations critiques sur la réalité des espèces en nature etc.
  6. K. Möbius - Die Bildung und Bedeutung der Artbegriffe in der Naturgeschichte. Kiel, Schmidt u. Klaunig 1873.
  7. Il Darwin, p. es. Orig. sp., per informazioni avute da H. C. Watson, novera 182 piante della flora britannica che alcuni considerano come varietà, altri come specie.
  8. S. Belli - Observations critiques sur la réalité des espèces en nature. Torino, C. Clausen 1901.
  9. Loc. cit., pag. 261 e segg.
  10. Loc. cit., p. 263.
  11. Non sembri strano ch’io abbia compresi l’Agassiz e il De Quatrefages nel periodo «linneano». Se, infatti, cronologicamente, essi appartengono a quello darwiniano e post-darviniano; per le loro opinioni essi si avvicinano forse piuttosto alla scuola linneana. E se, d’altra parte, la loro esplicita opposizione alla dottrina darwinistica, li farebbe collocare nel «periodo di critica», mi pare che la loro sia più opera conservatrice delle tradizioni linneane, che non antidarwinistica nel senso della critica, moderna.
  12. Darwin - Origine delle specie, 6° ed., pag. 42.
  13. Weismann - Vorträge über Deszendenztheorie, 2a ediz. G. Fischer. Jena, 1904, p. 256.
  14. Loc. cit.