Roma italiana, 1870-1895/Il 1887
Questo testo è completo. |
◄ | Il 1886 | Il 1888 | ► |
Il 1887.
Col primo dell’anno il Principe di Napoli assunse la sua carica ufficiale di erede presuntivo del trono e a fianco del Re accolse gli augurii dei Presidenti della Camera, del Senato e del Municipio, che lo felicitarono per la sua promozione. Subito egli aveva indossato la divisa di sottotenente di fanteria e s’era fregiato del Collare dell’Annunziata. Non era punto timido, nè punto impacciato, ma serbava un certo ritegno, che piacque.
La sera al pranzo di gala era a sinistra della Regina, che aveva a destra il Principe Girolamo Napoleone, il quale, cacciato da Parigi insieme con i pretendenti delle due dinastie spodestate, era venuto a Roma accompagnato dal figlio Luigi, che egli prediligeva.
Quella sera Roma fu turbata da una grave notizia: il bel palazzo Odescalchi ai SS. Apostoli bruciava. I vigili giunti tardi con pompe insufficienti mal potevano combattere il fuoco, e intanto il secondo piano e il tetto erano tutti in fiamme. I bambini del principe don Baldassarre avevano fatto un presepe in una stanza di guardaroba; il fuoco appiccatosi a una tenda s’era presto propagato e minacciava di distruggere il bel palazzo e le ricche collezioni artistiche, che l’ornano. I due fratelli Odescalchi, dopo aver messo in salvo la principessa donna Emilia, e i bambini, che trovarono asilo nel palazzo Colonna, cercavano di far salvare quanto potevano, ma l’opera era difficile e il fuoco divampava con violenza sempre maggiore. Quando la confusione era al massimo, dalla folla partì un grido: «il Re!» Infatti il Sovrano avendo veduto dalle sue finestre un gran chiarore, era accorso, e la sua presenza bastò a spronare i vigili e i soldati a lavorare con maggior speditezza. Il Re si trattenne un’ora parlando con i due fratelli Odescalchi e col marchese Caracciolo di Bella, che abitava nel palazzo in fiamme, e non si allontanava altro che quando il pericolo che l’incendio si estendesse era scongiurato.
L’incendio del palazzo Odescalchi produsse gravi dissensi in seno al Consiglio comunale, perchè l’assessore Grispigni, facendosi interprete del biasimo per il corpo dei vigili, che era espresso dalla popolazione e dai giornali, propose che si nominasse una commissione per fare una inchiesta sul cattivo funzionamento del servizio incendi. Il duca Torlonia aveva già nominato la commissione e nacque fra i consiglieri un vivo battibecco, che il Vitelleschi riuscì a calmare facendo votare un suo ordine del giorno meno severo di quello del Grispigni per la Giunta.
Il Consiglio deliberò d’urgenza la costruzione di un grande edificio scolastico nel quartiere del Castro Pretorio fra la via Gaeta e la via Montebello, perchè gli abitanti di quelle vie facevano replicate lagnanze per la mancanza di una scuola comunale in quei dintorni. Era il secondo edifizio scolastico che in poco volger di tempo l’assessore per la pubblica istruzione faceva votare con l’intendimento di assegnare alle scuole locali igienici, che mancavano assolutamente in passato.
Il giorno 13 gennaio moriva il principe don Francesco Pallavicini, che era stato il primo sindaco di Roma ed era, al momento della morte, presidente della Congregazione di carità e dell’asilo dei ciechi «Margherita di Savoia». Il duca Torlonia ne encomiò in Consiglio i meriti e le virtù, e tutti i consiglieri presenti dissero parole affettuose. Il principe morendo aveva ordinato che il suo corpo fosse cremato; la famiglia non credè conveniente rispettare quella volontà, e alcuni giornali, forse istigati dalla società di cremazione, sbraitarono, senza rammentarsi il precedente di Garibaldi. La questione si fece grossa, e poi, a poco a poco, dopo che ognuno ebbe detta la sua, non se ne parlò più, perchè tanti altri fatti accaddero, come sempre avviene, che maggiormente attrassero l’attenzione del pubblico; fra i più note voli quello del suicidio delle sorelle Mary e Matilde Romako, che si erano uccise insieme con l’ingegnere Armoni, in una camera in piazza Rosa. Quelle due belle fanciulle viennesi, che solevano passeggiare sul Corso con i lunghi capelli fluenti sulle spalle, erano molto note a Roma, ove anche il padre, molti anni prima, si era acquistata una certa fama come pittore, e nel 1870 era stato uno dei primi ad andare incontro ai nostri soldati. Quel suicidio al quale le due belle ragazze e l’amante di una di esse erano stati spinti dalla miseria, destò un senso di raccapriccio, tanto più che i giornali descrissero minutamente l’esistenza delle Romako, il luogo ov’erano state trovate morte, e l’ultima cena di cui in camera si vedevano ancora gli avanzi.
Il Principe di Napoli partiva il giorno 7 da Roma per Livorno insieme col colonnello Osio, col maggiore Morelli, col capitano Brancaccio, col medico Bocca e due familiari. Il «Savoia» che già era ad attenderlo, doveva, prima di volger la prua verso Oriente, toccare Gaeta, perchè il 1° reggimento fanteria era appunto di guarnigione in quella città, e il Principe ereditario non poteva allontanarsi d’Italia senza essersi presentato al suo colonnello. A Livorno fu fatta al Principe accoglienza veramente affettuosa, e durante la visita a Gaeta si formarono già quei rapporti cordiali fra lui e gli ufficiali del suo reggimento, che si sono dipoi sempre mantenuti.
Per la commemorazione del 9 gennaio al Pantheon fu inaugurata la grande lapide bronzea che orna la tomba del Gran Re. Le linee severe di quella tomba piacquero, e i Sovrani encomiarono l’ingegnere Manfredi, che l’aveva disegnata.
La Camera si riunì il giorno 11 per discutere i bilanci; si era già alla metà dell’esercizio e non era più il caso di esaminarli minutamente, eppure su ognuno i deputati si preparavano a dar battaglia, perchè la nuova legislatura aveva ereditata dalla precedente la piaga della dissidenza, che non dava un giorno solo di tregua al Governo. Le cose peraltro andarono abbastanza bene finchè non incominciarono a giunger notizie della marcia di Ras Alula verso i nostri possedimenti africani. Questo avvenne il giorno 23 e l’on. de Renzis subito interrogava il ministro degli esteri sullo stato della nostra difesa. Il conte di Robilant gli rispose che non era il caso d’inquietarsi se «quattro predoni» venivano a molestarci, mentre assai più gravi questioni si agitavano in Europa. Quella frase infelice dei «quattro predoni» fu funesta al ministro. Ormai in Italia si viveva trepidanti per la sorte dei nostri soldati d’Africa, perchè i giornali, e specialmente la Tribuna, non avevano fatto altro, da due anni, che toglier la fiducia nei capi, e dimostrare che si procedeva alla cieca. Il 25, il general Genè, con un telegramma, chiese 600 uomini di rinforzo per fare una dimostrazione militare, qualora fosse necessaria, e subito Robilant fu interrogato al Senato su quel telegramma. Egli dichiarò che la nostra posizione a Massaua era fortissima, e che non vi era, come dicono i francesi, pèril dans la demeure. Alla Camera l’on. Rudinì interrogò il Governo sull’autenticità del telegramma del general Genè e sugli intendimenti suoi rispetto all’Africa. A Montecitorio le dichiarazioni del ministro degli esteri furono più ampie che a palazzo Madama. Egli disse che non voleva far politica di espansione, che erano esagerate le preoccupazioni, e consigliò di discorrere meno dell’Africa e di Ras Alula, ripetendo che si trattava di «quattro predoni». Il ministro della guerra annunziò che il 2 febbraio sarebbero partite da Napoli per Massaua quattro compagnie di fanteria, una di zappatori del genio e una sezione di artiglieria: in tutto 750 uomini comandati dal maggiore Olivetti. Il 26 i dispacci annunziavano che Ras Alula era sempre a Ghinda, dopo non si seppe più nulla fino al 1° febbraio, ma non per questo il paese temeva meno, ed era meno trepidante.
Il 10 febbraio il presidente del Consiglio in principio di seduta lesse alla Camera un dispaccio del general Genè, che diceva che il 25 Ras Alula aveva attaccato Saati, ma ne era stato respinto dopo tre ore di combattimento; che il 26 tre compagnie e cinquanta irregolari partiti da Monkullo per vettovagliare Saati erano stati attaccati per via, e che dopo parecchie ore di combattimento erano stati distrutti. A questo punto della lettura il presidente del Consiglio fu interrotto dalle esclamazioni irose della estrema sinistra; tutta la Camera era profondamente turbata. Ristabilito il silenzio l’on. Depretis continuò a leggere il dispaccio annunziante la funesta notizia. Il Genè diceva che 90 feriti erano stati già ricoverati all’ospedale di Massaua, e che egli aveva ritirati i posti di A-ua, Saati e Arfali, e che il Ras si era ritirato a Ghinda forse per le gravi perdite, o per attendere rinforzi e l’arrivo del Negus, che si diceva in marcia.
Questa seconda parte del dispaccio produsse una impressione profonda e le esclamazioni e i gridi dei deputati d’opposizione echeggiavano sinistramente nell’aula.
L’on. Depretis, sempre calmo, annunziò che in seguito a quelle notizie «presentava un progetto di legge per autorizzare la spesa.... ). A questo punto l’on. Andrea Costa urlò: «Per richiamare...» e il presidente del Consiglio continuò: «straordinaria di cinque milioni di lire sui bilanci della Guerra e della Marina per spedizione di rinforzi». Il Depretis chiese che il progetto fosse d’urgenza affidato a una commissione nominata dal presidente della Camera, e il Baccarini, che non aveva dimenticato «i quattro predoni» del Robilant, propose che fosse «mandato un saluto a quei prodi che combattono un nemico meno spregevole di quello che ce lo rappresentava il ministro degli esteri».
Dopo la seduta della Camera, Roma fu tutta agitata dalla tremenda notizia. Si sapeva che le compagnie non erano scarse di uomini, dunque le perdite dovevano ascendere a circa 500 soldati se tre di esse si davano come distrutte, e soltanto 90 erano i feriti ricoverati a Massaua. Eppoi fra quei soldati vi dovevano essere molti romani, e questo fatto accresceva la compassione per le vittime. La sera vi fu una lunga dimostrazione a piazza Colonna.
Il giorno seguente, prima che incominciasse la seduta, la piazza Montecitorio era gremita di gente e in prima linea erano i coccapielleristi, i quali vedendo il tribuno, lo circondarono accompagnandolo fino al Parlamento e prendendo per buone le promesse che faceva alla folla di «stritolare il Gabinetto».
L’on. Biancheri aveva nominato subito la commissione per il credito dei cinque milioni, la quale aveva eletto a suo presidente il Crispi. Fra i deputati era corso l’accordo di non negare il credito, ma di biasimare il Governo, e appena la seduta fu aperta il ministro degli esteri fu interpellato dall’on. Cavallotti. Robilant si sentiva dalla parte del torto per le dichiarazioni antecedenti e con dolore dovè ritirare le infelici parole dei «quattro predoni». Egli aggiunse che aveva bisogno di un voto di fiducia per continuare il suo compito.
L’on. Depretis nel corso della discussione sul credito, che l’on. Spaventa insisteva perchè fosse accordato senza discutere, fece appello al patriottismo della Nazione e disse che essa non doveva lasciarsi soverchiare dallo scoraggiamento. L’on. Crispi pure esortò i deputati e il paese a dominare il cordoglio. «Il nostro dovere — soggiunse — è rimaner calmi, non dissimulare le difficoltà, valutarle. Forse l’avvenire prepara altre occasioni per provare che il valore italiano non è morto».
L’on. Crispi inoltre esortò il presidente del Consiglio a non porre la quistione di fiducia, ma il Depretis la volle posta, ed ebbe soltanto 34 voti di maggioranza, mentre i crediti furono accordati con 317 voti favorevoli e 13 contrari.
Anche il Senato votò subito i crediti.
Erano pochi giorni appena che il Depretis aveva chiesto un altro voto politico sul bilancio dei lavori pubblici e aveva avuto 75 voti; il fatto di Dogali aveva dunque scossa la posizione del Gabinetto e subito si disse che il conte Robilant aveva dato le dimissioni.
Mentre nell’aula di Montecitorio si discuteva e si votava, sulla piazza la folla era cresciuta tanto e il tumulto e i gridi contro Depretis eransi fatti così alti, che le guardie e i carabinieri non riuscivano a ristabilire l’ordine. Furono fatti venire i bersaglieri da San Francesco a Ripa, che chiusero tutti gli sbocchi e respinsero la folla al di là di piazza Colonna, ma dietro a loro la folla facevasi sempre più fitta e più turbolenta. Quando fu tolta la seduta, Coccapiellier, che era atteso dai suoi, li arringò. Passavano alcuni deputati, i quali nell’udire tante fanfaronate, dissero «Basta». Quella parola fece crescere il tumulto, che durò fino ad ora tarda.
Il giorno dopo la Camera era in apparenza tranquilla e votò l’istituzione di una cattedra dantesca a Roma, su proposta del Bovio, ma nei corridoi i deputati già tenevano conciliaboli sulla caduta del Gabinetto, ed essi al pari dei cittadini, erano ansiosi di leggere i telegrammi d’Africa, che si facevano molto attendere.
Il Consiglio comunale, dietro proposta del duca Torlonia, inviava una lettera al presidente del Consiglio contenente un saluto ai soldati lontani; si aprivano sottoscrizioni per soccorrere i feriti e le famiglie dei morti; e la Croce Rossa preparavasi a mandare a Massaua un suo riparto. La pietà per quei martiri lontani era grandissima.
Il giorno 7 l’on. Turi, interprete della impazienza del paese per aver notizia dei combattimenti avvenuti da quasi due settimane, interrogò il Governo sui mezzi che proponevasi di attuare per rendere più frequenti e sollecite le comunicazioni con Massaua in attesa che fosse posto il cavo che doveva congiungere quel paese con Perim. Il ministro della marina rispose che il Genè aveva sua disposizione tre navi da guerra che in 30 ore potevano portare dispacci a Suakim, e inoltre che la «Peninsulare» toccava settimanalmente Massaua.
La sera di quello stesso giorno giunse un breve ed oscuro telegramma del general Genè, e il dì seguente Coccapieller, Bonghi e Garibaldi, interrogarono il presidente del Consiglio su quel telegramma. Il Depretis, nonostante che avesse annunziato le dimissioni del ministero, così al Senato come alla Camera, rispose all on. Menotti Garibaldi dicendo che era all’oscuro sui fatti di Massaua. Il Bonghi non svolse la sua interrogazione e il presidente della Camera dichiarò che le interrogazioni erano esaurite. Ma non così intendevala l’on. Coccapieller, il quale disse arrabbiandosi: «Siete tutti tirapiedi del Gabinetto»; espressione che gli valse da parte del presidente un richiamo all’ordine.
La discussione di bilanci, anche dopo le dimissioni del Ministero, fu proseguita e la Camera votò il bilancio dei lavori pubblici, che era stato argomento di così lunghe discussioni. Quando si conobbero i particolari dell’eccidio di Dogali, la pietà pei 500 morti e per i pochi che s’erano salvati con tante pene, crebbe ancora più. Su proposta dell’on. Bonghi la Camera votò ad unanimità il seguente ordine del giorno:
«La Camera, avuta cognizione del rapporto del generale Genè del 22 gennaio e del dispaccio del 6 febbraio, manda un saluto di applauso al valore e di conforto alle fatiche degli ufficiali e soldati, che in lontane e nemiche regioni difendono l’onore, la potenza e la bandiera d’Italia.
Il Re ordinò che per i caduti fosse celebrato un solenne funerale al Sudario, al quale assiste insieme con la Regina, e destinò 120,000 lire da erogarsi a beneficio delle famiglie povere dei soldati morti e ai feriti resi inabili al lavoro. Ogni giornale aveva aperto sottoscrizioni; il duca e la duchessa di Ceri mandarono un’offerta di 5000 lire al Popolo Romano.
Il Municipio poi decretò che a memoria dei caduti di Dogali fosse eretto l’obelisco egiziano rinvenuto negli scavi della piazzetta di Sant’Ignazio, e vi fosse inciso il nome dei morti. Anche la Sacra Famiglia fece celebrare un funerale a Sant’Andrea della Valle e il provento della questua inviò alle famiglie dei soldati feriti combattendo.
Il ministro Brin aveva ordinato che il nuovo incrociatore che si costruiva in Inghilterra portasse il nome di Dogali, e il ministro Ricotti comunicò all’esercito insieme con un manifesto il seguente ordine del giorno:
«Soldati dei presidii d’Africa,
«I combattimenti del 25 e 26 gennaio a Saati ed a Dogali, con tanta fermezza e con tanto ardimento da voi sostenuti, onorano l’esercito italiano. Il ricordo di Dogali rimarrà imperituro nella storia.
«Io faccio plauso al nobile contegno di tutti voi, soldati di terra e di mare, ed esprimo la mia ammirazione ai prodi che, eroicamente sacrificandosi, caddero gloriosamente sul campo di battaglia.
«La patria onora i vostri valorosi compagni ed è a voi riconoscente. Io, altero di esservi capo, sono più che mai fidente nei nostri destini.
UMBERTO
PALAZZO DELLA BANCA D'ITALIA IN VIA NAZIONALE
Di romani erano morti a Dogali il capitano medico Nicolò Gasparri, il tenente Luigi Tofanelli del 7° fanteria, e Camillo Folchi.
Quando la crise ministeriale durava già da ventitre giorni e sulla soluzione di essa erano state fatte tutte le induzioni possibili, il presidente del Consiglio si presentò alla Camera, annunziando che S. M. il Re non aveva accettato le dimissioni del Gabinetto, e che questo rimaneva al suo posto. Non parve a molti che quella risoluzione fosse la migliore che si potesse dare alla crise. L’on. Crispi presentò e svolse una mozione di biasimo al Governo su quel fatto, e il presidente volle un ’altro voto politico. L’ottenne, ma fatto il computo delle palline si trovo che le bianche superavano di 20 soltanto le nere e calcolando i voti dei ministri e dei segretari generali la maggioranza, assottigliandosi di votazione in votazione, era ridotta a zero. Così dopo quel voto, e a due giorni soltanto dall’annunzio dato alla Camera che il Ministero rimaneva al suo posto, l’on. Depretis prorogava la sessione parlamentare.
Tutto il mondo cattolico era in moto quell’anno per festeggiare nel successivo il giubileo sacerdotale di Leone XIII, al quale voleasi dar carattere di atto di devozione al Pontefice e di protesta contro l’Italia costituita. Nelle feste era compresa anche una esposizione vaticana e a quello scopo si formò un comitato composto del comm. Filippo Tolli, presidente, del cav. Federico Mannucci, vice presidente, del cav. Guglielmo Alliata, segretario, e dei signori Attilio Ambrosini, prof. Alessandro Ceccarelli, Adriano de Angelis, Salvatore de Simoni, principe Lancellotti, conte Macchi, marchese Giulio Sacchetti, Giovan Battista de Rossi, Luigi Gasperis, conte Vespignani e cav. Adolfi Silunzi.
L’esposizione doveva contenere i doni che da ogni parte del mondo sarebbero giunti al Papa e si stabilì di costruirla nel cortile della Pigna, dentro il palazzo del Vaticano, e di destinare pure ad essa il braccio nuovo e le gallerie degli arazzi e delle carte geografiche. Doveva riuscire una mostra sui generis, perchè lo spazio mancava, e i locali che si costruivano non erano adatti.
In gennaio morì monsignor Marinelli, sacrista pontificio e vescovo di Porfirio, che abbiamo veduto correre al Quirinale nel 1878, per ottenere la ritrattazione da Vittorio Emanuele. Poco prima erano morti il cardinal Franzelin dell’ordine dei Gesuiti, al Collegio Latino al Quirinale, il Ferrieri, e alla fine di febbraio cessava di vivere nel suo quartiere in Vaticano il cardinale Lodovico Iacobini, segretario di Stato, in età di soli 56 anni. Era stato creato cardinale nel 1879 ed era rimasto anche dopo a Vienna in qualità di pronunzio, finchè Leone XIII non lo chiamava nel 1880 a succedere al cardinale Nina. Era uomo intelligentissimo, bonario, e a Genzano specialmente, ove aveva il suo palazzo, era molto amato. Pochi giorni prima di morire aveva celebrato il matrimonio della sua nipote Ottavia, figlia del cav. Mario, col signor Alibrandi. Il Papa lo visitò lungamente negli ultimi momenti ed egli potè, avendo conservato piena lucidità di spirito, esporre a Leone XIII lo stato degli affari e far la consegna di tutte le carte a monsignor Mocenni. L’Iacobini aveva molto cooperato al ravvicinamento fra la S. Sede e la Germania, e il Pontefice per questo eragli gratissimo.
Il 13 marzo il Papa tenne un Concistoro nel quale creò cardinali monsignor Serafino Vannutelli, monsignor Aloisi-Masella, monsignor Luigi Giordani, monsignor Camillo Siciliano di Rende e monsignor Rampolla del Tindaro, che forse già destinava a successore del cardinal Iacobini. In un altro concistoro del 24 maggio erano creati cardinali pure due italiani: monsignor Agostino Bausa e monsignor Luigi Pallotti.
Come se le rovine delle case in costruzione non fossero bastate, una piena del Tevere fece rovinare nell’inverno tutta l’armatura del ponte Margherita, che danneggiò non poco quello di Ripetta, quello Umberto I in costruzione all’Orso, e si sfasciò sotto il ponte Sant’Angelo.
Ognuno di questi fatti dava campo ai giornali di sbraitare e faceva nascere sfiducia nella popolazione.
In quell’inverno pure, mercè una convenzione firmata da un lato dai rappresentanti del Comune, della Provincia, dal Prefetto, dal deputato di Santo Spirito, che era Augusto Silvestrelli, e dall’altro dal cav. Noghera, come delegato della Cassa di Risparmio di Milano, il credito fondiario di quell’istituto prestò 6.700.000 lire al nostro massimo Ospedale, che potè in tal maniera sistemare le sue faccende finanziarie.
Il Minghetti non era stato dimenticato: l’Associazione della stampa fecegli fare una solenne commemorazione nell’aula del Collegio Romano, e il Bonghi con molto accorgimento invitò Francesco Crispi a parlare dell’estinto. Il 16 gennaio, in quell’aula ornata di trofei e di bandiere e nella quale era stato collocato il busto del Minghetti, modellato da Pio Gangeri, si riunirono i parenti del defunto, cioè Ferdinando Acton e il principe di Camporeale, gli ambasciatori, le dame di Corte e una folla di deputati e senatori.
Il Bonghi annunziò che l’Associazione aveva pregato il Crispi di parlare, «un uomo del quale basta dire il nome per saper chi sia e quanto abbia fatto per quella patria che il Minghetti amò tanto».
Francesco Crispi fece un vero discorso «principe» e chiamò Marco Minghetti il «Cavaliere del Parlamento, col quale era bello lottare».
Oltre le dimostrazioni per Dogali, ve ne furono altre a Roma in sui primi dell’anno provocate dalla presenza dei tre delegati bulgari, Stoiloff, Grekoff Kaltcheff, che erano venuti qui come nelle altre capitali per ottenere l’appoggio delle potenze in pro dell’indipendenza del loro paese.
Era ancora ministro degli esteri il conte di Robilant, il quale fece loro capire che la miglior cosa che potesse far la Bulgaria era quella di porsi d’accordo con la Russia. Gli studenti, che sono giovani, e s’infiammano per tutte le idee generose, vollero fare una dimostrazione a quei tre pellegrini, che andavano di paese in paese chiedendo un aiuto morale per la loro patria, e si recarono una sera con torce all’albergo del Quirinale, ov’erano alloggiati, mandando ai delegati una deputazione che non vide i bulgari perché erano assenti. Allora gli studenti credendo che fossero presso il ministro degli esteri, si avviarono alla Consulta gridando: «Viva l’indipendenza dei popoli! Viva la Bulgaria!», ma prima del Quirinale trovarono le vie sbarrate e non poterono passare,
Un poco più tardi vennero pure a Roma i principi imperiali del Giappone, che erano zio e zia dell’imperatore. Il principe si chiamava Akihito Komatsu: essi erano accompagnati da numerosissimo seguito e furono ripetutamente ricevuti al Quirinale. Il principe Akihito aveva la gradita missione di recare al nostro Principe di Napoli le insegne dell’ordine del Crysanthemo. Il Principe ereditario si trovava in Oriente, e le insegne furono consegnate al Re.
Un’altra gravissima sventura funestò una ridente regione d’Italia: il terremoto, che distrusse tanti fiorenti paesi della riviera ligure. Il Re, che aveva così largamente soccorso le famiglie dei morti e i feriti di Dogali, appena conobbe il disastro inviò alla Giunta municipale di Roma 150,000 lire affinchè si facesse iniziatrice di una sottoscrizione a pro dei danneggiati. La Giunta encomiò il Re «antesignano sempre d’ogni virtù cittadina» e votò 40,000 lire.
Due liete feste artistiche rallegrarono Roma nell’inverno. Una ebbe luogo al Circolo Artistico Internazionale per l’inaugurazione della sua nuova sede in via Margutta, e il Re vi partecipò visitando tutti i locali, e facendosi presentare molti artisti; l’altra fu una magnifica esposizione di tessuti e merletti, promossa al solito dal comm. Biagio Placidi e dal Museo artistico-industriale. Tutte le più belle collezioni d’Italia furono mandate alla Mostra dal conte Gandini di Modena, dal Guggenheim di Venezia, dalla signora Castellani, dal Simonetti e da quante signore possedevano stoffe o trine di valore. Inoltre la cattedrale di Pienza espose i ricchi arredi del tempo di Pio II, Orvieto mandò i suoi piviali, il Laterano la famosa dalmatica, il Governo francese alcuni dei suoi Gobelins e poi i Barberini i celebri arazzi di Urbano VIII, la casa reale gli arazzi di Torino e quelli pregevolissimi con la storia del don Chisciotte, Firenze alcuni dei suoi magnifici tessuti, casa Corsini i suoi damaschi, il duca d’Avigliana, il signor Le Ghait altri arazzi e stoffe, e poi tutte le fabbriche di tessuti, di ricami, di trine fecero a gara nell’esporre, cosicchè il palazzo delle Belle Arti con le pareti sontuosamente ornate di tanti ricchi tappeti, e tutto pieno di vetrine scintillanti d’oro e di seta, era una meraviglia, e forse non farà mai più così bella mostra di sè come in quei mesi in cui oltre gli oggetti esposti, vide girare nelle sue sale una folla così elegante di dame conoscitrici, e ammiratrici della indimenticabile mostra. La duchessa Torlonia ne era l’anima, ed ella con le sue mani gentili distribuì i premi agli espositori.
La Camera si era resa benemerita degli studi approvando un progetto di legge per la istituzione di una scuola di archeologia aggiunta alla scuola di magistero della facoltà di filosofia e lettere della Università Romana. Furono chiamati a insegnare in quella scuola i professori Comparetti, Lignana, Tomassetti, Milani e Lanciani; la Camera aveva votato pure la proposta Bovio per la creazione di una cattedra dantesca a Roma.
Essa non era stata avara nel decretare onori ai grandi italiani, poichè fra tutte le lotte di quel primo periodo parlamentare prendeva in considerazione la proposta, annuente l’on. Depretis, di innalzare un monumento a Mazzini.
Durante le forzate vacanze parlamentari si fece un grande armeggiare così nel campo dei ministeriali come in quello della opposizione capitanata dal Cairoli, e nell’altro dei dissidenti. Si capiva che con quella esigua maggioranza il Depretis non poteva governare, ma quali modificazioni egli avrebbe introdotte nel Gabinetto nessuno sapeva, perchè i giornali d’opposizione facevano mille induzioni cervellotiche, e quelli ligi al Ministero tenevano un linguaggio sibillino.
Peraltro il Gabinetto continuava a governare, tanto è vero che con un dispaccio disapprovava la condotta del Genè, il quale aveva dato alcuni assaortini prigionieri e 1000 fucili a Ras Alula per liberare la spedizione Salimbeni, e richiamava il comandante dei presidii d’Africa, mandando in sua vece il maggior generale Saletta, il quale aveva come colonnello comandato già la prima spedizione nel mar Rosso,
Fu molto notata in quel tempo la chiamata di Francesco Crispi al Quirinale, ove il Re lo trattenne a parlare lungamente, ma poco o nulla si sapeva delle vedute del Depretis, che aveva interesse di non farle indovinare. Cosi quando il 4 aprile fu annunziato che nel ministero entravano l’on. Crispi come ministro dell’interno, lo Zanardelli come ministro di grazia e giustizia; che ai lavori pubblici andava il Saracco, alla guerra il Bertolè-Viale, e che il Depretis serbava per sè la presidenza e gli esteri, non poca fu la sorpresa. Il Saracco e il Bertole-Viale indicavano che il Governo si appoggiava ancora sulla Destra, ma che cercava pure un valido sostegno a Sinistra, accogliendo nel suo seno due dei Pentarchi, anzi le due menti più illuminate della opposizione, che restava così sfasciata, mentre il Ministero si rinforzava immensamente. Il Depretis, malatissimo e infiacchito dagli anni, aveva fatto un colpo da maestro, che permettevagli di conservare il potere.
Il 18 la Camera si riapri ed il Biancheri credè suo dovere di rassegnare le dimissioni, ma ad unanimità, e su proposta Cavalletto-Cairoli, esse furono respinte. Il Depretis comunicó al Senato e alla Camera la costituzione del Gabinetto, e subito dopo annunziò nuove spese militari e ferroviarie con la sicurezza imperturbabile che sarebbero state approvate.
L’on. Guido Baccelli presentò intanto alla Camera il suo progetto sulla passeggiata archeologica, e dopo averlo svolto pregò la Camera di prenderlo in considerazione.
Già era stato attivato il cavo telegrafico da Massaua a Assab e da Assab a Perim, così il paese si sentiva meno separato dalla nuova colonia. Con decreto reale erano stati riuniti al ministero della guerra tutti i servizi d’Africa, e con i nuovi rinforzi spediti al mar Rosso vi era minor ragione di trepidare per i nostri lontani soldati.
I lavori parlamentari, dopo la costituzione del ministero, non procederono spediti. La Camera il tempo di votare un monumento a Roma a Marco Minghetti, e di tenere poche sedute prima delle feste di Venezia e di Firenze, ove si recarono i Sovrani, accompagnati dai ministri Crispi e Brin. Nella prima città s’inaugurava il monumento a Vittorio Emanuele, modellato da Ettore Ferrari e fuso qui dal Nelli; a Firenze fu scoperta la facciata di Santa Maria del Fiore.
Il duca Torlonia aveva dato le dimissioni da deputato per dedicarsi interamente alle faccende municipali e subito era stato nominato sindaco. Nel suo collegio, rimasto vacante, si portarono candidati Pietro Venturi e Ricciotti Garibaldi; il secondo vinse e la sua elezione fu convalidata.
A metà di aprile fu dato anche a Roma, al Costanzi, l’Otello di Verdi, che già alla Scala a Milano aveva destato l’ammirazione di tutti i critici e di tutti i musicisti d’Italia accorsi là per sentire l’opera nuova. Interpreti furono Tamagno, Maurel e la Gabbi; l’orchestra era diretta da Faccio, e le rappresentazioni riuscirono bellissime. Il teatro Costanzi non accoglierà forse più un pubblico così intelligente come in quelle memorabili serate. Nel teatro non c’era un posto vuoto e l’opera destò qui una grande ammirazione, se non superiore, almeno eguale a quella destata a Milano. Era stato detto che Verdi sarebbe venuto a Roma, ma egli non intraprese allora il viaggio. Però Roma volle rendergli un meritato elogio, e il duca Torlonia, dopo la prima rappresentazione, telegrafava al maestro:
«Roma ammirando celestiale ispirazione musica Otello rende omaggio sommo maestro, personificazione genio, gloria risorgimento nazionale. La prego gradire riverente saluto capitale».
La predilezione che i romani avevano sempre avuta per l’Apollo, spinse il Consiglio comunale ad accordare a quel teatro, già condannato a perire sotto il piccone, un altr’anno di vita, mentre aveva votato 200,000 lire per i lavori dell’Argentina, che doveva diventare transitoriamente teatro massimo, finchè non fosse stato costruito il nuovo. All’Argentina già si lavorava alacremente dall’impresa Jonni, perchè essa doveva esser pronta per la stagione autunnale.
Nell’inverno era morto l’Hentzen, un tedesco molto amico dell’Italia, e che aveva dimora a Roma fino dal 1847. Egli era segretario dell’Istituto archeologico germanico e aveva speso l’esistenza a illustrare i nostri monumenti. Giovan Battista de’ Rossi propose in Consiglio che il busto di lui fosse posto nella sala dei fasti consolari e la proposta venne accettata. Il suo corpo fu tumulato nel cimitero del Testaccio, e gli scienziati specialmente ne deplorarono la perdita.
Un altro tedesco, anch’esso affezionato al nostro paese, venne a mancare a Roma. Intendo parlare del signor di Keudell, ambasciatore di Germania, decano del corpo diplomatico, figura popolarissima, che si vedeva sempre a cavallo nel seguito del nostro Re alle riviste militari, e il cui nome era stato sempre associato alle feste e ai dolori dell’Italia dopo che Roma era capitale.
Si vuole che nel rinnovare il trattato di alleanza con i due imperi centrali, il conte di Robilant, non per animosità verso il signor di Keudell, ma soltanto per rialzare il prestigio dei nostri ambasciatori all’estero, i quali per il passato erano stati esclusi dalle trattative diplomatiche, che si facevano direttamente fra il ministro degli esteri e gli ambasciatori delle potenze a Roma, avesse dato incarico al conte di Launay, ambasciatore a Berlino, di trattare con la cancelleria germanica. Il signor di Keudell si mostrò offeso di questa esclusione e dette le sue dimissioni, che furono accettate a Berlino, e presentò al Re le sue lettere di richiamo.
L’ambasciatore era un vero amico della famiglia reale, e al Quirinale fu deplorata la sua partenza. Egli si recava spessissimo a Corte, specialmente dalla Regina, e la signora di Keudell, che era musicista insigne, soleva quasi ogni giorno, nei mesi in cui la Sovrana aveva minori occupazioni, andare dalle 2 alle 4 al Quirinale per suonare insieme con Margherita di Savoia.
I Sovrani dettero all’ambasciatore, prima che partisse, un gran pranzo. Per alcuni mesi nessuno fu nominato al posto del signor di Keudell, finalmente venne mandato a Roma il conte di Solms, che era prima a Madrid: altro personaggio simpatico ai romani e innamorato dell’Italia.
Il quell’anno il vecchio imperatore di Germania celebrava il 91° anniversario della sua nascita, e il Re mandò a felicitarlo il principe Amedeo, e il Papa monsignor Galimberti. Il Duca d’Aosta, poco dopo, andò pure in Inghilterra latore degli augurii reali alla regina Vittoria per il suo 50° anniversario di regno.
Poco dopo venne a Roma il Duca d’Edimburgo e il Re gli conferì il collare dell’Annunziata.
In occasione dello Statuto s’inaugurò in piazza della Stazione l’obelisco eretto a cura del municipio in memoria dei morti di Dogali; fu scoperta la lapide commemorativa di quel fatto in Campidoglio, e il Sindaco spedì un saluto ai soldati d’Africa. Alla inaugurazione dell’obelisco si era voluto, con gentile pensiero, che assistessero i superstiti dell’infausto scontro. I Sovrani riceverono quei prodi, alcuni dei quali erano deturpati da orribili ferite, nel giardino del Quirinale, e parlarono con tutti, informandosi, commossi, della parte che avevano presa al combattimento, e del modo con cui erano riusciti a salvarsi. Il Re e la Regina specialmente si trattennero a conversare col capitano Michelini, scampato miracolosamente all’eccidio, e la Regina, commossa, si asciugava continuamente le lacrime al racconto di tante sventure.
Il Re in occasione dello Statuto accordò una aministia ai renitenti alla leva e ad altri, e conferì il collare dell’Annunziata all’on. Cairoli, a monsignor Colobiana arcivescovo di Milano, al generale Durando presidente del Senato, e al general Pianell.
Quell’anno la girandola non fu più fatta a Castel Sant’Angelo, perché una commissione tecnica aveva dato parere contrario, assicurando che l’edifizio soffriva per le scosse che gl’imprimevano gli scoppi dei fuochi artificiali.
Pochi giorni prima della festa nazionale fu inaugurato l’Acquario in piazza Manfredo Fanti. Parve allora una gran bella cosa e si sperò che quella stazione di piscicultura potesse riuscire utile, e divenire un centro di ritrovo per il pubblico romano, come è per Berlino il suo bellissimo acquario. Ma le speranze rimasero presto deluse e quell’istituto condusse per un certo tempo vita stentata, finché non si chiuse.
Il giorno 10 giugno alla Camera il Bovio interrogò il Governo se era vero che esso cercava di concludere una conciliazione con la Santa Sede. Lo Zanardelli, con parola temperata rispose facendo capire che il Ministero era animato da spirito di tolleranza, e che non avrebbe continuato la politica del Taiani; l’on. Crispi, che già era l’anima del Governo, perché il Depretis malatissimo non lasciava più il letto, aggiunse che l’Italia aveva regolato i suoi rapporti col papato mercè la legge delle guarentigie e a quella strettamente si atteneva.
Il 13 giugno, con insolita sollecitudine la Camera aveva terminato la discussione dei bilanci. Andrea Costa svolse allora un progetto d’iniziativa sua e di altri deputati socialisti per l’abolizione delle disposizioni penali che colpivano i promotori degli scioperi. Il Ministero si oppose alla presa in considerazione; la Camera respinse il progetto infliggendo una sconfitta a quell’esiguo partito parlamentare rappresentato dal Costa.
L’on. Cavallotti interrogò egli pure il Governo sulla partecipazione dell’Italia alla esposizione di Parigi. L’on. Grimaldi, ministro di agricoltura e commercio, espose le ragioni tecniche che militavano contro le partecipazioni; l’on. Crispi quelle politiche.
I lavori continuavano a essere sbrigati presto alla Camera, ove il Governo ricostituito non trovava più l’opposizione acerba di pochi mesi prima. Così furono approvati un credito di altri 20 milioni per l’Africa, la passeggiata archeologica, alcuni provvedimenti finanziari e altri ferroviari e il 30 giugno la Camera potè prorogarsi.
Il Senato peraltro continuò a tenere sedute e quando venne in discussione il credito per l’Africa, il conte di Robilant prese la parola per difendere la sua politica e parlò dignitosamente. Anche al Senato il credito dei 20 milioni fu approvato.
Fu fatta sulla fine di giugno l’emissione di 200 milioni di obbligazioni ferroviarie secondo una convenzione stipulata fra il ministro Magliani e i rappresentanti delle diverse società, e quella emissione incontrò favore sui diversi mercati finanziari, cosicchè i 200 milioni furono largamente sottoscritti.
Una visita del Re alle acciaierie di Terni valse una onorificenza al comm. Breda e fece nascere un pettegolezzo. Il Re ebbe una entusiastica accoglienza nella piccola città manifatturiera, alla quale partecipò pure il vescovo Gelli, andando ad ossequiarlo. I fautori della conciliazione videro in quel fatto un passo del Vaticano verso l’Italia, perchè Terni è fra le diocesi comprese nel già Stato pontificio, i clericali se ne adombrarono.
Per dileguare le speranze e i timori che quel fatto aveva potuto suscitare, fu pubblicata subito una circolare del nuovo segretario di Stato, cardinal Rampolla, ai Nunzi, che era una specie di risposta ai discorsi pronunziati dal ministro Zanardelli, e Crispi alla Camera, e toglieva ogni illusione su un possibile accordo.
La Conciliazione era il titolo di uno scritto del padre Tosti, dotto monaco benedettino, scritto che era dispiaciuto moltissimo al Papa. L’autore ne fece ampia ritrattazione, anzi lo rinnegò addirittura in una lettera diretta a Leone XIII.
A Siena, come già era avvenuto a Firenze in occasione dello scoprimento della facciata del Duomo, i Sovrani furono ossequiati dal clero quando vi si recarono alla metà di luglio, perchè il Vaticano manteneva la vecchia distinzione, e mentre ammetteva che nel resto d’Italia Umberto e Margherita fossero ossequiati come si conviene a Sovrani, nelle provincie del già Stato pontificio voleva fossero ignorati.
Il 7 luglio il presidente del Consiglio partì malatissimo da Roma per Stradella; fino a Chiusi lo accompagnò il ministro Saracco; dalle diverse stazioni erano spediti a Roma bollettini, perchè si temeva che il viaggio potesse riuscir fatale all’infermo.
Il Depretis potè sopportare i disagi del viaggio, ma venti giorni appena dopo che era giunto nel suo paese, cioè il 29 di luglio, cessava di vivere. Era il primo presidente del Consiglio che moriva in carica dopo la costituzione del regno d’Italia e gli furono fatti funerali degni del suo grado.
La sua morte se destò rimpianto fra gli amici, non suscitò nessun timore nel paese rispetto al successore, perché già designato a presidente del Consiglio era l’on. Crispi, e il Re nominandolo non fece altro che appagare i desiderii del popolo italiano.
Tutti i ministri andarono a Stradella ad assistere ai funerali, e vi andò pure il sindaco duca leopoldo Torlonia. Il Depretis era benemerito di Roma sotto molti rapporti, prima di tutto per aver voluto che la città prendesse quello sviluppo che si addiceva alla capitale del Regno, in secondo luogo per essersi sempre adoprato a scongiurare le frequenti crisi capitoline, così il Consiglio comunale votò 100,000 lire per erigergli un monumento.
Il Re venne subito a Roma per presiedere il Consiglio dei ministri e dal campo di Robiera, ove si svolgevano in quell’anno le grandi manovre, firmò il decreto di chiusura della sessione parlamentare.
Alla circolare del cardinal Rampolla ai Nunzi con la quale si respingeva ogni idea di conciliazione fra l’Italia e il papato, fece singolare contrasto un manifesto del comitato per la Esposizione Vaticana. Il manifesto di quel comitato, dopo aver invitato tutti i cattolici a preparar doni per la mostra, concludeva che il dono più gradito che si potesse fare al Papa era la composizione del dissidio esistente fra Chiesa e Stato.
Neppure in quell’anno all’Italia fu risparmiato il flagello del colera; il morbo infieriva in Sicilia, e specialmente a Messina, ove morirono anche il prefetto Achille Serpieri, il questore Galimberti e il funzionario di pubblica sicurezza Anielli. Il Re, che ha dato sempre l’esempio fra noi della carità, aveva già elargito in due volte 100.000 lire ai colerosi e alle loro famiglie, e appena giungevagli notizia della morte di quei funzionari telegrafava all’on. Crispi di volersi in parte addossare le spese per l’educazione degli orfani degli impiegati morti sulla breccia.
Anche a Roma vi furono diversi casi di colera e il cardinal Vicario visitava i malati al lazzaretto di Santa Sabina, amministrando la cresima a un carabiniere infermo.
Il 20 settembre l’on. Crispi scriveva al sindaco, accompagnando la nobile lettera con una prima offerta di 10.000 lire per l’istituzione di un ricovero per l’infanzia abbandonata. «Vuol essere questa data, egli scriveva, una significazione sociale, con opere che ne parlino all’avvenire preparando, degne alla patria, le nuove generazioni».
I coniugi Spierer si associano subito alla iniziativa del presidente del Consiglio, con offerta di 400 lire e si forma una commissione per il nuovo istituto, composta del duca Sforza Cesarini, del prof. Oreste Tommassini, del comm. Cantoni, del cav. Achille Grandi, del comm. Valerio Trocchi e degli avvocati Carancini, Bartoccini, Viti e Baldacchini.
L’on. Domenico Berti aveva invitato il presidente del consiglio a parlare a Torino, ma intanto che nel paese vi era una grande aspettativa per quel discorso, l’on. Crispi si recava a Monza e dopo aver conferito col Re, intraprendeva il viaggio di Germania. Di quel viaggio si occupò moltissimo la stampa italiana, ma più ancora quella francese, falsandone il significato. Era naturale che prendendo la direzione della politica italiana l’on. Crispi volesse abboccarsi con l’uomo di Stato, che era considerato come arbitro dei destini d’Europa, e intendersi con lui su molti punti. Ma non così fu interpretato in Francia quel rapido viaggio e si disse che il Crispi era andato a prendere gli ordini di Bismarck, e che l’Italia avrebbe sempre più orientata la sua politica su quella di Berlino.
Quel viaggio e la costituzione del corpo speciale d’Africa occupavano la pubblica opinione. Il corpo era posto sotto il comando supremo del tenente generale di San Marzano, e si componeva di due reggimenti di fanteria (cacciatori), di uno squadrone di cavalleria, di una brigata di cannonieri, di una compagnia del genio, di una di sanità e di un’altra di sussistenza. Oltre il generale di San Marzano, partivano sotto gli ordini di lui i maggiori generali Genė, Lanza, Cagni, Baldissera, comandanti di brigata, i colonnelli Torretta e Barattieri, comandanti di più battaglioni.
Prima che quel corpo, creato con i 20 milioni votati nell’estate partisse, fu promulgato un decreto che dava facoltà al comandante in capo dei presidii d’Africa di espellere i giornalisti dalla colonia, e proibiva la trasmissione dei telegrammi in cifra.
Il corpo era costituito di volontari reclutati fra i soldati e tanto numerose erano state le domande, che si era dovuto fare il sorteggio in ogni reggimento per non scontentare i richiedenti., Un nobile slancio si era impossessato dell’esercito; e chi era stato in Africa voleva tornarci nonostante i disagi, per vendicare i morti di Dogali. Anche il generale Genè, al quale dopo il disastro era stato inflitta la punizione del richiamo, aveva chiesto di tornare in Africa per combattere.
Col 31 dicembre spiravano i nostri trattati di commercio con la Germania, con l’Inghilterra, con l’Austria-Ungheria, con la Svizzera, con la Francia e con la Germania.
Quelli con le due prime potenze, non essendo stati denunziati, nè da una parte nè dall’altra, s’intendevano protratti fino al 1892; ma i quattro, già denunziati, occorreva rinnovarli, e con la Francia e con l’Austria-Ungheria si aprirono trattative fino dal settembre. I commissari nostri per quei trattati erano Luigi Luzzati, il comm. Ellena e l’on. Branca. Essi si erano abboccati qui alla Consulta con i delegati dell’Austria-Ungheria, che erano Michalovich, Kalchberg e de Glanz. Le conferenze erano state inaugurate dal presidente del Consiglio, e vi avevano assistito l’ambasciatore de Bruk e i ministri Magliani e Grimaldi; dopo i commissari austro-ungarici tornarono a Vienna a riferire, e i nostri andarono a Parigi ai primi d’ottobre, e si accorsero che vi erano ben poche speranze di concludere il trattato.
In Francia l’ostilità verso di noi non si palesava soltanto negli atti del Governo, ma anche nel sentimento nazionale. Al di là delle Alpi, dopo il 1870, eravamo considerati come nemici e come tali trattati.
La nostra alleanza con la Germania, l’occupazione di Massaua, non avevano fatto altro che render più profonda quella ostilità, tenuta viva da tanti altri fatti, fra cui non ultimi l’astensione dell’Italia ufficiale dalla Esposizione, che si preparava a Parigi per il 1889, la nomina dell’on. Crispi a presidente del Consiglio, e il viaggio di lui a Friedrichsruhe per conferire col principe di Bismarck.
Per altro i nostri commissari furono accolti bene a Parigi ed ebbero la promessa che il Governo della Repubblica avrebbe mandato a Roma i suoi, poichè le trattative dovevano farsi qui; ma già fino da quel tempo si capiva che la Francia ci avrebbe fatto una guerra di tariffe, non potendo farcela con armi più nobili.
Il 25 ottobre l’on. Crispi parlò nel banchetto di Torino. Il suo discorso fu lo svolgimento e l’ampliamento del programma di Stradella del 1875, che era servito di guida alla politica interna dell’Italia per tutto il tempo che il Depretis era stato al potere. L’on. Crispi trovò una formula felice per definire il suo criterio di governo. «Per noi, egli disse, il governo è quel che congiunge il dovere, il volere e il sapere. All’infuori di ciò è l’arbitrio». Toccando la questione dei rapporti con la Chiesa ripetè quello che aveva detto come ministro tre mesi prima al Parlamento, cioè che il «contegno dello Stato di fronte alla Chiesa è e sarà la devozione alla legge». Per la Francia ebbe espressioni di simpatia, rammentando gli anni che aveva passato in quel paese e i vincoli che uniscono le due potenze latine, ma quelle espressioni non distrussero la sfiducia che al di là delle Alpi si nutriva verso di lui. In Italia il discorso produsse buon effetto e si vide al riaprirsi della Camera.
Il generale di San Marzano parti il 26 ottobre da Roma, affettuosamente salutato dal Sindaco e andò subito a Napoli a imbarcarsi sull’«America».
Il ministro della guerra passò qui in rivista nel piazzale del Macao il 1° novembre il reggimento del corpo d’Africa, comandato dal colonnello Ponza di San Martino. I soldati avevano la nuova divisa di tela e l’elmetto, e per le strade dalle quali passavano ebbero dimostrazioni di simpatia.
La prima spedizione parti da Napoli al principio di novembre. Le navi su cui s’imbarcò erano l’«Archimede» (sul quale presero passaggio anche il principe del Drago, il signor Folchi, il cui fratello era caduto a Dogali, e il conte Marcello), il «Gottardo», il «Polcevera» e il «Sumatra». Sul «Gottardo» parti il general Genė. A distanza di pochi giorni partirono il il «Sirio», l' «Orione», il «Singapore» e il «Roma» trasportando altri soldati, materiale da guerra e provvigioni, e subito dopo l’«Egadi», il «Solunto», l’«Egitto», il «Faro» e il «Regina Margherita». Tutti questi bastimenti appartenevano alla Navigazione Generale, la quale in breve spazio di tempo aveva dovuto rifornirli di letti e adattarli a trasporti. Il comm. Laganà aveva con mirabile impegno provveduto a tutto, e l’invio del corpo d’Africa non soffrì un giorno solo d’indugio.
Uno dei primi atti del nuovo ministero della guerra era stata la nomina del duca d'Aosta a comandante generale della cavalleria. Questo significava che volevasi dare a quel corpo maggiore incremento ponendovi a capo il fratello del Re.
Il municipio di Roma, nonostante la crisi edilizia che incominciava a manifestarsi, non si lasciava sgomentare, anzi votava nuovi lavori. Approvò quello della galleria sotto il Quirinale con sbocco alla via dei due Macelli, e indisse il concorso per l’appalto a licitazione privata dei lavori, mettendo per patto che non avrebbe tenuto conto delle offerte di chi non poteva provare di aver costruito altra galleria di almeno 400 metri; concluse l’appalto con la ditta Medici per le costruzioni del lungo Tevere dal ponte Elio al Mattatoio, per una spesa di più di 8 milioni, stabilì di commettere a un ufficio speciale la ricostruzione del ponte Rotto o Palatino, e la sistemazione del Tevere.
Era stato dal comune bandito un concorso per i restauri del palazzo della Farnesina a via dei Baullari e per la costruzione della facciata mancante sul nuovo Corso Vittorio Emanuele. Venti architetti vi presero parte, e il lavoro rimase aggiudicato all’architetto Enrico Gui, dell’Accademia di San Luca.
Un comitato si era costituito sotto la presidenza di Menotti Garibaldi per ottenere dal comune un’area a Campo di Fiori a fine di collocarvi il monumento a Giordano Bruno, che si faceva per sottoscrizione privata. Nella lista dei sottoscrittori figurava il duca Torlonia per 50 lire. In quel fatto si volle vedere un impegno morale del Torlonia come sindaco, e si fecero molti pettegolezzi.
I Sovrani tornarono il 10 dicembre a Roma e il Principe di Napoli, che usciva dalla minore età, fu promosso tenente nel 5° reggimento fanteria che aveva stanza a Roma. Il conte di Solms, per incarico dell’Imperatore di Germania gli presentò nel giorno 11 novembre, che era quello del suo compleanno, le insegne dell’Aquila Nera.
Il 16 il Re inaugurò la 2ª sessione della XVI legislatura con un discorso che conteneva un affettuoso saluto ai soldati d’Africa.
L’on. Biancheri fu rieletto presidente della Camera e il Re nominò l’on. Farini presidente del Senato.
Alla Camera l’on. Biancheri fece una commovente commemorazione ad Agostino Depretis, più come antico amico, che come uomo di Stato. La Camera nella prima seduta voto, su proposta dell’on. Cavallotti, di porre il busto del Depretis nella sala della presidenza, d’inviare una corona bronzea sulla tomba di lui, di presentare alla vedova le condoglianze, di raccogliere e stampare tutti i discorsi che aveva pronunziato in Parlamento, e di sospendere la seduta in segno di lutto. La Camera in quel giorno votò pure un saluto al corpo d’Africa.
Fu fatta anche in Senato dall’on. Farini la commemorazione del Depretis con quel garbo che il presidente della Camera vitalizia sa usar sempre.
Il Governo presentò subito il progetto di legge sui ministeri, quello di modificazione alla legge comunale e provinciale, l’altro di ordinamento degli istituti di emissione, uno per la revisione della rendita sui fabbricati e per il riordinamento dei locali.
L’on. Crispi, appena ripresi i lavori parlamentari, convocò la maggioranza esponendole che le leggi presentate contenevano il programma del gabinetto. Egli soggiunse che reputava urgenti la questione finanziaria, la ferroviaria e quella del codice penale.
Senza indugio l’on. presidente del Consiglio presentò all’esame della Camera il progetto di legge per la modificazione del Consiglio di Stato e il Codice sanitario, mentre dal canto suo l’on. Zanardelli presentava il progetto per l’abolizione dei tribunali di commercio.
La Camera votò subito l’istituzione di una scuola normale di ginnastica a Roma, e prese ad esaminare un progetto di legge per la conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte, mentre il Senato occupavasi della riforma degli istituti di emissione, e in special maniera della eccedenza della circolazione cartacea.
Già si faceva sentire il disagio finanziario, il cambio era salito al 3% e il Governo doveva chiedere un nuovo catenaccio sugli zuccheri in attesa che la tassa fosse approvata.
A Roma erano cessati molti lavori privati, perché le banche restringevano i crediti ai costruttori e vi erano non pochi disoccupati. Questi avevano indetto un comizio al Circo Reale, che doveva esser presieduto da Ricciotti Garibaldi. Prima che il comizio si riunisse, il Circo fu invaso dai socialisti romagnoli, capitanati da Andrea Costa, e la loro presenza, mentre impedì le deliberazioni, fece nascere un gran baccano. L’on. Coccapieller aveva già presentato una interpellanza sulla crise edilizia e un’altra ne presentò Ricciotti Garibaldi subito dopo quel fatto. Il ministro Grimaldi risposegli che aveva cercato di dare tutto lo svolgimento possibile alle operazioni di credito fondiario e si era astenuto anche dall’imporre alle banche di emissione di ridurre la circolazione a parità di riserva di oltre 30 milioni.
Il presidente del Consiglio negò che la crise edilizia fosse grave come si voleva fare apparire, e non tacque che vi erano mestatori, che ubbidendo a fini nascosti, cercavano di sobillare gli operai. L’on. Costa capi l’allusione, e si risenti vivamente.
Alla Camera fu agitata anche la questione della politica ecclesiastica. L’on. Bonghi interrogó il Governo se non giudicava incriminabili le lettere dei vescovi e le petizioni che si facevano sottoscrivere per la restituzione al Papa del potere temporale. Il ministro di grazia e giustizia risposegli che tutti i magistrati avevano dichiarato non incriminabili le petizioni dei cattolici e le lettere scopali, e che non giudicava opportuno l’intervento del potere esecutivo negli ordini giudiziari. Inoltre soggiunse che approvava la condotta dei magistrati, i quali mostravano di quanta libertà godesse la Chiesa in Italia. Peraltro il Governo non sarebbe rimasto indifferente e se una parte del clero non si fosse mostrata ossequente alle leggi, il Governo non avrebbe trascurato il suo dovere affinché non fosse minacciata l’integrità della patria, che era la gloria della nostra generazione.
Fra i nostri delegati e quegli austro-ungarici fu firmato il 7 dicembre il protocollo del trattato doganale e subito fu presentato alla Camera.
Il Re offrì ai delegati della nazione alleata un pranzo al Quirinale e vi era speranza che i due parlamenti ratificassero in breve il trattato.
La Camera votò il riordinamento dei ministeri. Il progetto Depretis era stato messo da parte e l’on. Crispi avevagli sostituito un contro progetto più semplice che concretava i concetti che sull’ordinamento dello Stato aveva il presidente del Consiglio. Con questo progetto di due soli articoli si stabiliva che il numero e le attribuzioni dei ministri dovevano esser regolati con decreto reale, e che ogni ministro aveva un sottosegretario di Stato, che poteva sostenere la discussione degli atti e delle proposte alla Camera.
Sulla votazione di questo progetto il Governo ottenne una stragrande maggioranza, che non diminuì in quella per il trattato di commercio con l’Austria-Ungheria. Ogni volta che i deputati erano chiamati all’urne, non si trovavano più di 20 0 22 palle nere.
Il Ministero ottenne pure che fosse approvata l’abolizione dei tribunali di commercio, ma prima che incominciassero le vacanze parlamentari, il presidente del Consiglio non potè annunziare alla Camera nulla di concreto sul trattato con la Francia. Le difficoltà erano enormi e le speranze di un accordo minime, benché sul finire dell’anno venissero qui il signor Teisserenc du Bort e Marié per riprendere le trattative.
I trattati con la Svizzera e con la Spagna furono prorogati fino al 1° marzo.
Due cardinali morirono in breve volger di tempo: il Bartolini e il Pellegrini, ma nel Sacro Collegio era sempre molto prevalente il numero dei cardinali italiani.
In ottobre cominciarono a giungere in Roma i pellegrini. I primi erano francesi e li guidava il cardinale Langenieux; i secondi pure erano francesi e alla stazione ebbero un’accoglienza poco cortese dalla folla che li aspettava. Poi giunsero man mano ungheresi, spagnuoli, austriaci, tedeschi, polacchi, inglesi, portoghesi, africani e americani così che sul finire dell’anno la città ne era invasa addirittura e si sarebbe potuto fare uno studio dei diversi tipi di uomini che popolano la terra.
Il Papa aveva posto a disposizione delle diverse parrocchie 100,000 lire; 10,000 ne aveva elargite all’istituto degli artigianelli, 10,000 ai ciechi di Sant’Alessio e 20,000 per sovvenzioni ai sacerdoti bisognosi e per doni agli insegnanti meno retribuiti delle scuole cattoliche. L’obolo si annunziava copiosissimo e già erano giunti a Roma i diversi inviati speciali delle corti straniere recando doni. Quelli per l’esposizione erano innumerevoli e per non accumulare alla stazione troppo lavoro, era stato ordinato che le casse destinate al Vaticano fossero scaricate sul binario che passa da porta Cavalleggeri.
Come inviati speciali di principi stranieri erano già qui il duca di Norfolk per la Regina Vittoria, il marchese de la Vega de Armijo per la Regina di Spagna, il duca d’Ursel per il Re dei Belgi, il barone Fabrice per il Re di Sassonia, il conte Brühl-Pförten per l’imperatore Guglielmo, il marchese Martens Ferrao per il Re di Portogallo e il signor De Schaubeck per il Re del Wurtemberg
La Regina d’Inghilterra aveva mandato al Papa un boccale d’oro con piatto, lavoro a rilievo copiato su un antico calice di Westminster; l’Imperatore di Germania una mitria d’oro tempestata di pietre preziose; il Presidente della Repubblica Francese un immenso vaso di Sevres; il Conte di Parigi una scrivania di legno di rosa; la Regina di Spagna una croce di solitari e un anello di zaffiri; la Repubblica di Colombia una croce con doppia collana di brillanti; il Re di Portogallo un calice d’oro; l’Imperatrice d’Austria un crocifisso di perle e zaffiri; le Arciduchesse della casa d’Austria un ricchissimo fermaglio; il Duca di Chartres un servizio d’oro; l’Imperatore del Brasile una croce di brillanti; l’Imperatrice un tabernacolo antico; l’Imperatore d’Austria una pianeta ricamata con perle, e un messale d’argento; la Duchessa di Malakoff una croce di smeraldi e brillanti; il Sultano un anello con solitario; il principe Odescalchi il ritratto di Papa Innocenzo XI dipinto da Michetti; il principe Doria un grande crocifisso d’argento; i Borghese i magnifici paramenti sacri di Paolo V; la principessa donna Luisa Corsini anch’essa paramenti sacri; il principe Orsini un prezioso merletto antico di Carlo V; la famiglia Artieri un trittico di Giotto; la diocesi di Parigi una tiara tempestata di pietre preziose; la Regina di Sassonia un crocifisso di porcellana di Meissen. Questi doni sovrani e principeschi erano stati collocati nel braccio nuovo del Vaticano, fra le statue degli imperatori romani; quelli delle colonie, originalissimi e preziosi, nella galleria delle carte geografiche. Ogni nazione poi aveva una sezione speciale nei locali costruiti nel cortile della Pigna, e che erano già pronti sulla fine di dicembre, cosicché non poche persone avevano, per favore speciale, potuto visitare l’esposizione e manifestavano il parere che i doni fossero copiosissimi, ma di cattivo gusto, non escluso l’inginocchiatoio con ornamenti d’argento e cifra di brillanti donato da Genova, e la portantina dipinta inviata da Napoli. Gli altari, le madonne, i mobili, le statue dei santi, meno poche eccezioni, risentivano del lezioso gusto francese allora in voga, e i quadri non accennavano davvero a un risveglio dell’arte ispirata alla religione.
Il municipio, prima che spirasse il 1887, fece inaugurare al palazzo Mattei in piazza Paganica, la lapide votata al grande uomo di Stato, e l’on. Luigi Luzzatti fece del Minghetti una solenne commemorazione ai Lincei. I fratelli Bocconi inaugurarono pure con una visita del Re, il loro palazzo al Corso, costruito dal de Angelis di Roma e dal Bocciarelli d’Ancona. In quella occasione i due ricchi industriali milanesi inviarono all’on. Crispi 10,000 lire per l’Asilo a vantaggio dell’infanzia abbandonata, del quale tanto occupavasi il presidente del Consiglio.
Non ostante che si fossero spesi già 40 milioni per i lavori del Tevere, il fulvo fiume allagò anche in quell’anno i quartieri bassi della città e molti terreni verso S. Paolo, ma vittime non ve ne furono.
I giornali annunziarono che il duca Torlonia avesse chiesto un’udienza al Papa per presentargli i suoi augurii e alcuni se ne mostrarono scandalizzati. Il fatto non era vero; il Duca soltanto era andato a far visita al cardinal Vicario e lo aveva pregato di farsi interprete presso Leone XIII delle sue congratulazioni. Il cardinal Vicario restituì la visita e espresse il suo gradimento per gli omaggi presentati, per il contegno della popolazione e per i provvedimenti presi dal municipio.
Il 30 gennaio, mentre al duca Torlonia nasceva una prima bambina, giungevagli il decreto di revoca da sindaco, decreto che non fu attribuito soltanto allo scambio di gentilezze fra lui e il cardinal Parrocchi, ma ad altre ragioni, prima forse fra tutte l’intenzione dell’on. Crispi di creare la prefettura del Tevere.
La discussione si fece subito viva e i giornali che morivano, fra i quali il Corriere di Roma, e quelli che nascevano, come il don Chisciotte, ebbero di che empire le loro colonne.
Al principio dell’anno la Libertà da quotidiana si era trasformata in settimanale, la Stampa aveva cessate le pubblicazioni, e così il numero dei giornali importanti era sensibilmente ridotto.
- Pagine con link a Wikipedia
- Testi in cui è citato Francesco Vitelleschi Nobili
- Testi in cui è citato Francesco De Renzis
- Testi in cui è citato Agostino Depretis
- Testi in cui è citato Andrea Costa
- Testi in cui è citato Alfredo Baccarini
- Testi in cui è citato Giuseppe Biancheri
- Testi in cui è citato Francesco Crispi
- Testi in cui è citato Felice Cavallotti
- Testi in cui è citato Silvio Spaventa
- Testi in cui è citato Francesco Coccapieller
- Testi in cui è citato Ruggiero Bonghi
- Testi in cui è citato Filippo Tolli
- Testi in cui è citato Mariano Rampolla del Tindaro
- Testi in cui è citato Marco Minghetti
- Testi in cui è citato Domenico Comparetti
- Testi in cui è citato Giacomo Lignana
- Testi in cui è citato Giuseppe Tomassetti
- Testi in cui è citato Luigi Adriano Milani
- Testi in cui è citato Rodolfo Lanciani
- Testi in cui è citato Giovanni Bovio
- Testi in cui è citato Benedetto Cairoli
- Testi in cui è citato Guido Baccelli
- Testi in cui è citato Ricciotti Garibaldi
- Testi in cui è citato Giuseppe Verdi
- Testi in cui è citato Wilhelm Henzen
- Testi in cui è citato Giovanni Battista De Rossi
- Testi in cui è citato Luigi Tosti
- Testi in cui è citato Oreste Tommasini
- Testi in cui è citato Domenico Berti
- Testi in cui è citato Luigi Luzzatti
- Testi in cui è citato Ascanio Branca
- Testi in cui è citato Agostino Magliani
- Testi in cui è citato Otto von Bismarck
- Testi in cui è citato Domenico Farini
- Testi in cui è citato Giuseppe Zanardelli
- Testi in cui è citato Giulio de Angelis
- Testi SAL 75%