Roma italiana, 1870-1895/Il 1893
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Il 1893.
In mezzo alle gravissime preoccupazioni ereditate dall’anno precedente, e che dovevano subito aggravarsi, sorsero in sui primi di gennaio due pettegolezzi, uno per la nomina del Cuppelli, capo del gabinetto dell’on. Grimaldi, a capo divisione, l’altro per quella del professor Attilio Brunialti a consigliere di Stato. La Corte dei Conti, asserivasi, non aveva voluto ratificare quelle nomine, e il Governo, il quale già era stato tanto attaccato per quelle di alcuni senatori, fu di nuovo preso di mira per queste. Ogni atto di quel gabinetto Giolitti, che si diceva fatale al paese, era acerbamente sindacato; infinita la schiera dei giornali ostili a lui, fiacche le difese degli amici, e l’opinione pubblica avversa, specialmente a Roma e nelle provincie del mezzogiorno, ove si accusava di spiccato favoritismo per quelle centrali e settentrionali.
Roma non è stata mai così agitata come in quel periodo di tempo, e l’agitazione manifestavasi specialmente nel ceto medio, dei commercianti e dei possidenti, minacciati di rovina, scontenti del Governo e sfiduciati.
Ma lasciamo un momento di osservare il quadro desolante della città in preda alle angosce economiche, per volgerla su altri.
Alla Corte, dopo una lunga assenza, era tornata la marchesa di Villamarina, e il posto di cavaliere d’onore della Regina era stato coperto dal marchese Ferdinando Guiccioli; due nuovi gentiluomini erano stati chiamati a far parte della corte della Sovrana: il principe Piero Strozzi e il conte Aldofredo Tadini.
La nomina del Guiccioli era stata accolta bene a Roma, perché il marchese è quasi romano per la madre - una Capranica - e per il lungo soggiorno fatto qui da lui e dal fratello.
Il Papa tenne sui primi dell’anno un concistoro pubblico e uno privato e impose il cappello a molti cardinali italiani e stranieri. Essi erano: monsignor Mario Mocenni, l’arcivescovo Guarino monsignor Persico, monsignor Luigi Galimberti, nunzio a Vienna, monsignor di Pietro, nunzio a Lisbona, monsignor Malagola. Questi gli italiani; gli stranieri poi erano: monsignor Vaugan, arcivescovo di Westininster, monsignor Logue, irlandese, monsignor Kopp arcivescovo di Breslavia, monsignor Krementz, monsignor Vaszary, primate di Ungheria, monsignor Sanz, monsignor Mignau e monsignor Thomas.
Naturalmente la presenza di tanti cardinali a Roma dette luogo a feste ecclesiastiche per la presa di possesso delle diverse chiese di cui essi furono nominati titolari e a ricevimenti alle ambasciate presso la Santa Sede. Fu collocata in quel tempo con molta solennità anche l’ultima colonna della chiesa di San Giovacchino in Prati, che doveva essere terminata in breve. I due nunzi non vennero in quell’occasione a Roma, e il Papa spedi loro la berretta per mezzo di due ablegati. A Lisbona andò il marchese Sacchetti, a Vienna il Galimberti, fratello del neo-cardinale.
Il conte di Torino continuava ad abitare Roma. Egli era iscritto al corso di equitazione di Tor di Quinto e come animava con la sua presenza le eleganti riunioni, così spronava i giovani signori a dar prova di destrezza negli esercizi equestri. Si costituì in quel tempo un comitato per le corse dette «Cross-Country» di cui facevano parte il Principe e gli ufficiali di Tor di Quinto e si aprirono le sottoscrizioni per partecipare al Torneo in onore dei Sovrani. I giovani romani e gli ufficiali di stanza qui risposero numerosi all’appello, perché sapevano che avrebbeli guidati il conte di Torino, per il quale nutrivano grande simpatia, e lo stesso avvenne a Napoli, ove risiedeva il Principe Ereditario, e a Firenze ov’era di guarnigione il duca d’Aosta.
Il Torneo doveva essere la parte cavalleresca e pomposa delle feste d’aprile; l’altra, l’utile, la benefica, era rappresentata dall’Istituto per gli orfani degli operai morti sul lavoro, che il comitato aveva deliberato di fondare, e per il quale già erano iniziate le sottoscrizioni. L’Istituto doveva sorgere a Roma.
Mentre i giornali continuavano a far polemica accanita contro il Governo e ogni tanto compariva qualche nuova accusa contro gli istituti di emissione, incominciarono a Roma le trattative fra i rappresentanti della Banca Nazionale e della Banca Romana, per la fusione dei due istituti, e il mercato ne rimase perplesso. Altre trattative erano state iniziate fra il comm. Apellius e due consiglieri della Banca Nazionale per la fusione della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di Credito a fine di costituire la Banca d’Italia.
La fusione fra questi tre ultimi istituti si fece dopo la metà di gennaio e quasi contemporaneamente l’on. di Rudinì mandava al presidente della Camera una interrogazione per conoscere se era vero che essendosi riscontrate gravi irregolarità in qualche istituto d’emissione, il Governo aveva dovuto dare un nuovo indirizzo alla sua politica bancaria. E fra i deputati il rappresentante di Caccamo non era il solo a impensierirsi di ciò che accadeva, perchè la sua interrogazione fu seguita da altre.
Prima che la Camera si riaprisse i delegati della Banca Romana e quelli della Banca Nazionale e delle due Banche Toscane convennero che i rappresentanti della Banca Romana avrebbero chiesto al loro Consiglio di domandare all’assemblea degli azionisti la liquidazione dell’istituto e di proporre che la Banca Nazionale fosse nominata liquidatrice o per essa la Banca che l’avesse surrogata. Questa pagava per ogni azione della Banca Romana 450 lire ritirando le azioni e assumeva l’attivo e il passivo dell’istituto in liquidazione.
Questo fatto aumento lo sgomento in città e quasi non bastasse, in quello stesso giorno, che era il 17 gennaio, si sparse la notizia della fuga del comm. Cucciniello, direttore della sede del
IL PONTE E IL CASTEL SANT'ANGELO RESTAURATI
Banco di Napoli. Egli non aveva assistito alla seduta della Commissione di sconto e fino dal giorno 7 erasi fatto dare due milioni e mezzo dal cassiere. Fu telegrafato al comm. Consiglio a Napoli, il quale giunse subito, e in serata vennero arrestati il cassiere e il contabile.
Il vecchio Cuciniello aveva fama di uomo integro e di accorto tutelatore degli interessi dell’istituto che rappresentava a Roma; si sapeva che non sfoggiava lusso di sorta e che nessuno meglio di lui era capace di negare favori, cosicchè non si riusciva a spiegare quel vuoto e quella fuga.
Ma quello era il tempo delle sorprese, e si può dire che dopo ventiquattr’ore del Cucciniello nessuno si occupasse più, per parlare solamente dell’arresto del Governatore e del Cassiere della Banca Romana.
Da alcuni giorni si diceva in città essersi scoperto che la Banca Romana aveva per 64 milioni di circolazione abusiva, che vi erano conti correnti fittizi e mille altre irregolarità, ma il pubblico non si aspettava mai che il sor Bernardo, come il Tanlongo era generalmente chiamato a Roma, l’uomo ricco, potentissimo e noto per la sua avarizia potesse esser tradotto in carcere. Eppure in seguito a un primo rapporto del comm. Martuscelli sulla contabilità della Banca, il sor Bernardo fu arrestato la mattina alle 8, nel suo gabinetto alla Banca Romana. Di lì fu ricondotto a casa sua, in piazza Cairoli, ove venne operata una perquisizione minuziosa. Egli doveva esser tradotto nel nuovo carcere di Regina Coeli, ma era così malato che fu lasciato in casa, sotto la custodia dei carabinieri; in prigione andò soltanto il comm. Cesare Lazzaroni. Anche a lui era stata fatta in casa una perquisizione.
Mentre a Roma avvenivano questi fatti, a Parigi era nel suo apogeo lo scandalo del Panama, e i romani chiamavano ciò che avveniva qui il piccolo Panama, o il Panamino e nei giornali, non tanto dalla capitale, quanto in quelli provincia, si facevano i nomi degli uomini politici, che avevano ottenuto sovvenzioni dalla Banca Romana in cambio di favori.
Il giorno 22, verso le 5 di sera, il comm. Cucciniello fu arrestato in via Gregoriana vestito da prete, mentre stava per lasciare Roma. Egli era in casa della signora Hadin, vedova Marchese, e la figlia di lei aveva procurato al commendatore gli abiti da prete per favorirne la fuga. In dosso gli furono trovate alcune migliaia di lire, ma ben poche in confronto della somma che aveva preso il giorno 7.
Non v’era persona che non s’impensierisse di questa serie di fatti e degli altri che sarebbero avvenuti al riaprirsi della Camera, ove certo dai banchi della opposizione avrebbero insistito sulla inchiesta parlamentare. Soltanto degli scandali bancari si parlava in quel volger di tempo a Roma e se ne occupò anche il Consiglio Comunale.
Intanto ad alimentare le ansie dei cittadini aggiungevasi la domanda di moratoria inoltrata dal banco Guerrini.
Il 24 il comm. Tanlongo veniva tradotto di pieno giorno alle carceri di Regina Coeli e il popolino di piazza Cairoli e di Santa Dorotea in Trastevere, vedendo passare il Governatore della Banca Romana nella sua carrozza, guardato dai carabinieri, fecegli una dimostrazione tutt’altro che simpatica, che all’affranto vecchio si sarebbe potuta risparmiare, traducendolo in prigione nelle prime ore della mattina, o durante la sera.
Sotto l’impressione di questo fatto la Camera ricominciò il 25 gennaio a tener sedute, e il presidente del Consiglio, bersagliato da interrogazioni sulla questione bancaria, dichiarò di esser pronto a rispondere subito, e respinse l’inchiesta parlamentare, che si voleva da ogni parte.
Il 27 un nuovo arresto commosse la città. Il comm. Antonio Monzilli, l’intelligentissimo funzionario del Ministero di Agricoltura e Commercio, l’uomo al quale tutti i ministri affidavano missioni di fiducia, e che si può dire fosse una delle colonne del dicastero al quale apparteneva, fu arrestato in casa sua, in via Nazionale, sotto l’accusa di corruzione nell’esercizio delle sue funzioni, e anche lui fu condotto a Regina Coeli, ove già l’avevano preceduto altri tre commendatori.
In quello stesso giorno alla Camera vi era stata una seduta agitata e penosissima. Si era veduto l’on. Miceli, uomo di fama intemerata, difendersi strenuamente per provare che egli, come ministro, non aveva nulla da rimproverarsi, e mentre alla Camera si discuteva, in città e negli ambulatorii di Montecitorio parlavasi di trenta mandati di comparizione, spiccati dal procuratore del Re, e di cinque richieste di autorizzazione a procedere contro altrettanti deputati, e contro un ex-Ministro dell’interno.
Il nome del deputato più spesso e con più insistenza pronunziato, era quello di Rocco de Zerbi, del valoroso soldato, del brillante giornalista, di colui che a Casamicciola e in ogni sventura era stato il primo ad accorrere ed a farsi iniziatore di soccorsi. Rocco de Zerbi aveva numerosi amici in tutti i partiti, e una turba di ammiratori, così è facile figurarsi quale impressione facesse quella voce, che molti giornali avevano raccolta e propalata.
Il 28 gennaio l’on. Comandini interrogò il presidente del Consiglio sull’arresto del Monzilli, affacciando il sospetto che quell’arresto fosse stato eseguito per far pressione sulla Camera, come dicevasi, e per salvare il Governo. L’on. Giolitti, che figurava di non ingerirsi punto nella questione bancaria, ora che era entrata in una nuova fase, rispose che l’ordine era partito dal potere giudiziario; il Comandini replicò che era invece dovuto a quello esecutivo.
In quella stessa seduta, continuavasi la discussione sulle Banche, e il Bovio dimostrò la necessità della inchiesta parlamentare, il Diligenti pure, e il Colajanni, che la voleva fino dal dicembre, disse: «On. presidente, spesse volte ficcando il ferro chirurgico nelle carni vive si riesce a salvare l’ammalato.»
L’on. Chimirri, che era stato Ministro di Agricoltura e Commercio nel precedente Gabinetto e al caso per questo di conoscere le irregolarità della Banca Romana, trovandosi in una delicata situazione, disse che la Camera si occupava troppo dei sospetti che potevano pesare sugli uomini politici, e troppo poco della responsabilità di coloro, i quali avvicendaronsi al potere, e si mise a disposizione di lei.
L’on. Giolitti fu trascinato a far nuove dichiarazioni, e sperando di por fine alla discussione bancaria propose che fossero rinviate a tre mesi tutte le mozioni che si riferivano all’inchiesta parlamentare. Fu posta ai voti la proposta del presidente del Consiglio, e approvata con 274 sì contro 154 no.
Ma questa soluzione non poteva piacere a tutti quelli che volevano l’inchiesta e il giorno seguente diversi oratori parlarono sull’ordine del giorno, riaprendo la questione. Assisteva alla seduta anche Rocco de Zerbi, affranto e disfatto. Egli, con gesto straziante, battendo il pugno sul banco, chiese l’inchiesta, ma l’on. Zanardelli fece osservare che il regolamento vietava di riaprire una discussione già chiusa da un voto esplicito.
Il 1° febbraio fu presentata alla presidenza della Camera una domanda dell’autorità giudiziaria per procedere contro Rocco de Zerbi. Il Tanlongo nel suo interrogatorio del 24 gennaio aveva detto che la creazione dei conti correnti fittizi per somme ingenti, era una operazione alla quale aveva dovuto ricorrere per sopperire alle spese di pubblicità con l’intento di render l’opinione pubblica favorevole alla pluralità delle Banche. Inoltre negli appunti del cassiere, Cesare Lazzaroni, figurava, fra diversi nomi di persone che avevano avuto somme dalla Banca Romana, quello del de Zerbi. La cifra del danaro incassato da lui, superava le 400,000 lire, e si sapeva anche che il Bellucci-Sessa era l’intermediario fra il deputato e il comm. Tanlongo. Il Lazzaroni aveva dichiarato poi che quelle somme, date in più tempi, erano un compenso al de Zerbi per avere favorito al Parlamento gl’interessi della Banca.
Le accuse erano tanto più gravi, inquantochè Rocco de Zerbi era stato segretario della Commissione parlamentare che doveva riferire sul progetto di legge per la proroga del privilegio alle Banche di emissione.
E sempre per rendere più grave la situazione di Rocco de Zerbi, in quei giorni appunto si disse che il Tanlongo, nell’estate precedente, aveva ordinato alla casa Sanders di Londra per 40 milioni di biglietti, per coprire il vuoto di cassa esistente; che i biglietti erano giunti, e il Bellucci-Sessa avevali portati alla Banca, ma che essendosi accorti di quel fatto alcuni capi d’ufficio, avevano voluto che fossero distrutti.
Le accuse peraltro non colpivano soltanto il de Zerbi; si diceva pubblicamente, e si stampava, che il Giolitti aveva avuto somme dalla Banca Romana per le elezioni, in compenso della nomina del Tanlongo a senatore. L’on. Giolitti, interrogato su quel fatto lo negò sdegnosamente.
Con molta speditezza era stata esaminata dagli uffici la domanda a procedere contro l’onorevole de Zerbi, e l’on. Gallo presentò la relazione, che fu subito inserita all’ordine del giorno. La domanda, naturalmente, era stata accompagnata da alcuni atti dell’istruttoria del processo e fra quelli vi era la dichiarazione del Tanlongo, di aver dato cospicue somme a diversi presidenti del Consiglio. L’on. Crispi protestò con lettera al presidente della Camera; l’on. Rudinì fece formale domanda, che fu ammessa alla lettura, per la nomina di un comitato inquirente, che esaminasse i rapporti proprii con la Banca Romana.
Dietro preghiera dell’on. Giolitti, il quale disse che l’on. Rudinì non poteva esser sospettato da alcuno, la proposta fu rinviata. La Camera peraltro votò subito all’unanimità, eccezion fatta dei ministri, l’autorizzazione a procedere contro Rocco de Zerbi.
Poco dopo che la Camera prendeva questa grave deliberazione per appagare il desiderio del de Zerbi, il quale sperava lavarsi dall’accusa gravissima, la notizia di un nuovo arresto, si spargeva per Roma. Michele Lazzaroni, il giovane ricco, invidiato da tutti, lo sportman elegante, l’artista, colui che aveva condotto i tiratori italiani in Francia, che aveva pochi mesi prima pubblicato un lavoro importante su Cristoforo Colombo, l’uomo al quale pareva che la fortuna arridesse sempre, era stato arrestato nel suo bel palazzo di via de’ Lucchesi, e condotto al carcere di Regina Coeli sotto l’imputazione di avere, nella sua qualità di reggente della Banca Romana, aperto un forte conto corrente a sè stesso, e un altro al pittore Peralta, amico suo.
Era una ridda di milioni scomparsi, inghiottiti non si sapeva come, che balenavano a ogni nuovo arresto, dinanzi agli occhi del popolo oppresso dalla miseria, e che di questa miseria incolpava gl’imputati.
Una conferenza tenuta dal Sindaco, dall’on. Baccelli e dal ministro Giolitti per concretare il disegno della esposizione di Roma, provocò una interrogazione dell’on. Odescalchi. Egli disse che non aveva fede nei promotori, e nessuna nella commissione finanziaria per l’esposizione, e pregò il Governo ad andar cauto. L’on. Giolitti, che già sullo scorcio dell’anno precedente aveva dichiarato che avrebbe accordata la concessione della lotteria e la cessione del maggior introito del dazio consumo al Comitato della esposizione, ripetè le sue dichiarazioni, aggiungendo che se il Comune avesse preso l’iniziativa della mostra, non vedeva la ragione che il Governo non lo secondasse, come aveva secondato altri municipii.
Le parole dell’Odescalchi ebbero uno strascico; il comm. Obbeghit, che faceva parte della Commissione finanziaria per l’esposizione, lo fece sfidare, ma la vertenza fu composta ail’amichevole.
L’esposizione finanziaria fatta dall’on. Grimaldi non potè incutere speranza nell’avvenire, poiché essa annunziava un notevole peggioramento nelle condizioni del bilancio ed era molto meno rosea di quella fatta l’anno precedente dall’on. Luzzatti, sotto il Governo del marchese di Rudinì. Le entrate diminuivano, l’aggio saliva, mancava in tutta Italia la moneta d’argento, e del peggioramento ognuno accorgevasi, anche senza che lo avesse annunziato il Ministro.
In mezzo alle agitazioni e agli scandali bancari nacque un nuovo pettegolezzo suscitato da alcuni articoli del Bonghi al Matin, e da un articolo nella Nuova Antologia. In questo, il vecchio parlamentare, l’amico provetto della dinastia, si arrischiava a dare alcuni consigli al Sovrano, e ne tratteggiare la figura del giovane Imperatore di Germania, lo dimostrava inferiore al padre. Si cominciò a dire che era uno scandalo, che un Consigliere di Stato scrivesse in un giornale francese contro il Governo del suo paese, e che in una rivista italiana avesse attaccato un Sovrano alleato dell’Italia. Questi mormorii contro il Bonghi partivano specialmente dagli amici del Ministero e dai giornali che gli erano ligi. Il Bonghi che era stato sempre ammesso ai ricevimenti della Regina, non fu neppure invitato quell’anno ai balli ufficiali, e anche il Bonfadini, pure Consigliere di Stato, veniva preso di mira, perchè combatteva nei suoi articoli il Ministero; ma le ire soprattutto si accumulavano sulla testa del Bonghi, il quale dopo qualche tempo venne deferito al Consiglio di Stato, che doveva giudicarne la condotta.
Fu un passo arrischiato e poco abile. Il Consiglio di Stato, presieduto dal senatore Tabarrini e nel quale in quel tempo sedeva ancora Silvio Spaventa, seppe tutelare i diritti del Bonghi come cittadino e giornalista, e dette un parere ben diverso da quello, che sperava il Ministero. Fu una sconfitta per il Giolitti, che si vuole non lo lasciasse punto indifferente.
Il 12 febbraio era stato tenuto al Teatro Nazionale un comizio col quale si chiedevano molte cose: luce sui fatti della Banca Romana, creazione di una Banca di Sconto, scioglimento della Camera di Commercio. È inutile dire che il comizio lasciò il tempo che trovava. Esso peraltro dimostrò sempre più come in città fosse sempre profondo il turbamento per i fatti bancari, e come si sentisse la necessità della creazione di un istituto, che aiutasse il piccolo commercio, travolto nella rovina della Banca Romana.
La questione delle Banche fu agitata anche al Senato per una interpellanza dell’on. Pierantoni. Egli parlò due giorni, ma in fine il Senato votò una mozione sospensiva, proposta dall’on. Ferraris. Alla Camera la discussione bancaria ricompariva ogni momento. Furono provocate alcune dichiarazioni dell’on. Nicotera su certi biglietti irregolari della Banca Romana, scoperti mentre egli era al potere, e che portavano la firma del governatore morto e del cassiere vivo.
Il dramma bancario ebbe il suo tragico epilogo il 20 febbraio. In quel giorno il presidente della Camera annunziò la morte di Rocco de Zerbi e questa notizia fece ovunque una profonda impressione. Rocco de Zerbi, afflitto da lungo tempo da una malattia di cuore, era stato ucciso dalla rivelazione dei fatti che pesavano su di lui. Dopo un lunghissimo interrogatorio al quale lo aveva sottoposto il giudice istruttore, era tornato a casa mortalmente colpito e nella mattina del 20 spirava nel suo villino in via Castelfidardo.
Grande fu il rimpianto per quella morte, e appena si conobbe in città, donna Lina Crispi e la figlia accorsero in casa de Zerbi, e coprirono di fiori la salma dell’amico.
Nessuno voleva ammettere che Rocco de Zerbi fosse morto naturalmente. Si diceva che egli, vedendosi perduto dopo l’interrogatorio al quale era stato sottoposto, avesse preso una dose così forte di quella digitale, con la quale sosteneva le forze del cuore, da farselo scoppiare. Questo credevano e credono molti amici. Il popolino invece diceva che non era morto, che aveva preso una qualche medicina per cadere in una specie di sincope, dalla quale si sarebbe destato in seguito, per poter fuggire, senza destare sospetti; e un giornale di Roma stampò in seguito anche la storiellina dei fori lasciati n. lla cassa per farlo respirare.
Queste erano fiabe. Rocco de Zerbi era morto, naturalmente, di crepacuore e il trasporto della salma, al quale parteciparono i colleghi della Camera e moltissimi amici, riuscì spettacolo ancor più straziante per il dolore che il figlio, Domenico, non sapeva dominare.
La seduta della Camera del giorno 22 febbraio fu di nuovo tutta spesa in discussioni bancarie per una controversia sorta fra il presidente del Consiglio e l’on. Crispi, il quale sosteneva, citando i suoi appunti, che il Giolitti, dopo aver letto nel giugno 1890 la relazione Biagini, avea detto che i fatti della Banca Romana erano degni di corte d’Assise.
Ai primi di marzo fu arrestato l’Agazzi, coinvolto nel processo della Banca, e il 20 l’on. Giolitti presentò la relazione del senatore Finali, alla quale era unito un plico, il famoso plico, con l’elenco delle sofferenze bancarie. Egli domandò che l’esame di esso fosse deferito a una commissione composta di cinque deputati per indagare e decidere se vi potesse essere qualche fallo che ledesse il decoro e la delicatezza dei componenti l’assemblea elettiva.
Il giorno seguente la Camera votò all’unanimità un ordine dei giorno Guicciardini, accettato dal Governo, che portava a sette il numero dei membri del comitato destinato ad esaminare le responsabilità politiche e morali, e affidava la scelta di quei membri al presidente della Camera.
Questo voto, concentrando in un comitato di poche e autorevoli persone il mandato di tutelare il decoro della Camera, sottraeva al Parlamento e alla piazza una quistione che turbava l’opinione pubblica e il mondo politico.
L’on. Zanardelli accettò a malincuore l’incarico. Egli nominò membri del comitato inquirente gli on. Bovio, Chiapusso, Falconi, Mordini, Nasi, Pellegrini e Rubini, ma dovette procedere a nuove nomine perchè Chiapusso, Nasi, Rubini e Falconi non accettarono. Egli li sostituì con gli onorevoli Fani, Paternostro, Sineo c Suardo Gianforte.
Intanto l’on. Giolitti aveva presentato il progetto per il riordinamento delle Banche e chiedeva che fosse preso tempo a discuterlo fino al 30 giugno.
Quel disegno di legge autorizzava la fusione della Banca Nazionale del Regno con la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito, per costituire il nuovo istituto di emissione, che doveva assumere il titolo Banca d’Italia. Questa doveva avere un capitale nominale di 300 milioni diviso in 300,000 azioni. Il capitale versato dei tre istituti suddetti, ascendente a 176 milioni era portato a 210 entro tre mesi dalla pubblicazione della legge.
La Banca d’Italia assumeva la liquidazione della Banca Romana, restando a suo carico tutto il passivo della Banca stessa, compreso il totale dei biglietti in circolazione, entro i limiti della somma accertata al 10 gennaio 1893; a suo favore tutto l’attivo della Banca stessa.
La facoltà di emettere biglietti era accordata alla Banca d’Italia e confermata ai Banchi di Napoli e di Sicilia per un periodo di venti anni. Alla Banca d’Italia era accordata la facoltà di tenere in circolazione biglietti pagabili a vista e al portatore fino al quadruplo del capitale effettivamente versato nella somma di 210 milioni.
Nulla era innovato rispetto al limite della circolazione, già consentita ai Banchi di Napoli e di Sicilia.
La circolazione di ciascun Istituto poteva eccedere i detti limiti, quando i rispettivi biglietti fossero per intero rappresentati da valuta metallica legale, o da oro in verghe esistente in cassa. Parimenti restava esclusa dai detti limiti la circolazione dei biglietti corrispondenti alle anticipazioni ordinarie e straordinarie fatte dagli Istituti allo Stato.
La riserva dei tre Istituti di emissione doveva esser portata, dentro un anno, al 40 per cento della circolazione, e doveva esser composta del 33 per cento in moneta italiana legale metallica, in monete estere ammesse al corso legale e in verghe d’oro, e per il 7 per cento poteva anche esser composta di cambiali sull’estero o certificati di depositi d’oro all’estero, con firme di prim’ordine, riconosciute come tali dal Ministero del Tesoro. Gl’Istituti potevano tenere come ulteriore garanzia dei biglietti emessi nei limiti sopraindicati, una scorta di rendita pubblica italiana, per un valore corrente non superiore a un terzo del capitale versato, o patrimonio posseduto.
Ogni biennio i due Ministeri dovevano eseguire una ispezione straordinaria degli Istituti di emissione, per mezzo di pubblici ufficiali, che non avessero preso parte a precedenti ispezioni dell’Istituto sul quale dovevano riferire a una Commissione permanente di vigilanza. Gli amministratori degli Istituti di emissione erano solidariamente responsabili verso i soci, verso l’ente morale, e verso i terzi dell’inadempimento della legge.
Lo schema di legge presentato al Parlamento, valse insieme con la nomina del Comitato dei Sette, a rimettere un poco di calma negli animi.
Due grandi feste dovevano celebrarsi in quell’anno a Roma: il giubileo episcopale di Leone XIII, e le nozze d’argento dei Sovrani, e nell’esito di esse era in certo qual modo impegnato l’amor proprio del partito clericale e di quello monarchico.
Il giubileo del Papa ricorreva in febbraio, e fino dal principio dell’anno si notava a Roma una grande affluenza di cardinali e di prelati. Per rappresentare le diverse nazioni alla festa pontificia e presentare augurii al Papa, gli ambasciatori di Austria, di Francia, di Spagna e di Portogallo, e il ministro di Baviera presso il Vaticano, avevano ricevuto credenziali speciali; il Belgio mando in febbraio il principe di Ligne, e la Germania il maresciallo von Löe.
I pellegrini pure erano venuti in numero infinito, guidati dai più devoti fra i loro capi. Fra questi non mancava il generale de Charette, nè il duca di Norfolk, che aveva preso una gran parte dell’Albergo di Roma, dove dava sontuosi ricevimenti ai patrizi inglesi, e ad altre persone straniere, che dividevano la sua fede.
Il giorno 16 il Papa scese in San Pietro e disse messa per i pellegrini italiani, i quali per gruppi furono ammessi al bacio del piede. Ogni gruppo umiliava il proprio obolo, e nello sfilamento furono notati quaranta pescatori napoletani in costume, recanti corbe di bellissimo pesce.
Il 19 febbraio vi fu pure in San Pietro la messa giubilare. Vi assistevano circa 60.000 persone e non accadde nulla di notevole, perchè la piazza era vigilata dai soldati. Durante quella messa suonarono tutte le campane di Roma.
I ricevimenti continui e le commozioni che essi producevano nell’animo del Papa, ne affievolirono molto la salute, tanto che le udienze dovettero essere sospese per qualche giorno a fine di concedere a Leone XIII tempo di rimettersi. Un dolore aveva turbato anche la serenità di quei giorni di festa; un grave dolore.
Era morto il comm. Alessandro Ceccarelli, medico del Papa, e si volle attribuire a veleno quella morte. Cosicchè si fece l’autopsia del cadavere, ma i sospetti risultarono infondati dall’esame dei visceri.
Riprese le udienze, al Papa furono offerti ricchissimi doni di gioielli, di oggetti sacri e di danaro, ma essi non raggiunsero lo splendore di quelli avuti nel 1888, in occasione del suo giubileo sacerdotale.
Il Verdi aveva ottenuto a Milano un altro trionfo col suo Falstaff, rappresentato alla «Scala» e al quale il Ministro della pubblica istruzione volle assistere per dare a quell’avvenimento artistico maggior rilievo, e per onorare l’ottuagenario maestro. Il Sindaco Ruspoli mandò al Verdi un telegramma di felicitazione, e il Senato espresse la sua ammirazione, annuendo ad una proposta del professor Moleschott, che aveva orgoglio di figlio per le glorie della sua patria di adozione.
Roma in quell’inverno non fu soltanto afflitta dai disastri bancari; ogni momento essa era turbata dallo scoppio di una bomba. Le prime due esplosero in piazza San Claudio e sotto l’Albergo d’Inghilterra, in via Bocca di Leone; si trattava di cassette piene di polvere pirica e fortemente legate con filo di ferro; una terza esplose al Quirinale, sotto la finestra della gelateria; una quarta in via Cavour, sul pianerottolo del quartiere ove abitava l’on. Ferri, e di fronte alla casa del presidente del Consiglio. Poi un’altra nel palazzo Antici-Mattei, precisamente ove abitava il ministro degli Stati Uniti d’America, signor Potter, e una ancora sotto la tettoia a cristalli del villino Tommasi-Crudeli, in una serata di ricevimento, al quale assisteva anche il Bonghi.
Gli autori di quegli attentati non si scoprivano mai, e siccome trattavasi di attentati innocui, che producevano tutt’al più la rottura di qualche vetro, i romani ne ridevano e arrivavano fino a dire che la Questura ci avesse lo zampino per fini suoi.
Il 2 marzo fu fatta con tutta pompa l’inaugurazione del monumento a Terenzio Mamiani. Per quel monumento il municipio aveva dato 10,000 lire; le altre si erano raccolte mediante una sottoscrizione alla quale aveva contribuito anche la vedova, contessa Angela, che era venuta a Roma per assistere alla cerimonia. Autore del monumento era stato Mauro Benini. Il sindaco Ruspoli pronunziò un bel discorso e un altro il sindaco di Pesaro, patria dell’illustre estinto.
Le corse a Tor di Quinto promosse dalla società italiana degli Steeple-Chasses riuscirono in marzo bellissime e servirono di preludio alle altre feste dell’aprile per le nozze d’argento dei Sovrani. A quelle corse assisteva la Corte, tutta la società romana, il conte di Torino, che terminato il corso di equitazione a Tor di Quinto, aveva ottenuto di rimanere a Roma per ottanta giorni per prendere parte al Torneo.
Del Torneo si parlava molto e per renderlo degno di tanta solennità, lavoravano indefessamente molte persone, e specialmente il colonnello Edel, il quale si era addossato il compito difficile di designare tutti i figurini. Il Principe di Napoli e gli altri principi di Casa Savoia, meno il duca di Genova, dovevano parteciparvi, e una deputazione del Comitato per il Torneo, grata al Principe Ereditario, andò in marzo a ringraziarlo della sua adesione.
Frattanto era stato stabilito il concetto generale del Torneo, che era quello di rappresentare quattro grandi epoche della storia di Casa Savoia, e di fare rappresentare i personaggi che caratterizzavano quelle epoche, dai quattro giovani Principi. Il duca d’Aosta doveva presentarsi nella lizza sotto le spoglie di Umberto Biancamano; il duca degli Abruzzi sotto quelle di Amedeo VIII, soprannominato il Pacifico, e che fu Papa; il conte di Torino sotto quelle di Vittorio Amedeo II, il primo dei principi Sabaudi che cingesse la corona reale, e il Principe di Napoli sotto quelle del gran Mastro del Supremo Ordine dell’Annunziata.
Molto prima dell’aprile i cavalieri, che erano 350, incominciarono a riunirsi per addestrare i cavalli, nella piazza di Siena in Villa Borghese, dove doveva svolgersi il Torneo.
Quelle riunioni, che in principio si facevano nelle ore pomeridiane, e poi in quelle della mattina, e spesso due volte il giorno, attiravano a Villa Borghese tutte le persone che avevano un permesso speciale per visitarla quando era chiusa, ed era bello vedere galoppare tanti cavalieri sul vasto piazzale, al suono delle fanfare militari, mentre gli operai lavoravano ai palchi, e le signore seguivano intente le evoluzioni delle quadriglie. Negli ultimi giorni alle prove partecipavano anche i quattro Principi, e vi assisteva il Re a cavallo, ed egli, nei momenti di riposo, chiamava a se i cavalieri che conosceva, e i nipoti, e insieme con essi trottava nei viali conversando amichevol mente.
Mentre tutta Roma, dimenticando per un momento la trista questione bancaria, si occupava delle prossime feste, al Quirinale si lavorava notte e giorno per preparare i quartieri per i Sovrani e i Principi, che avevano annunziato la loro venuta, e specialmente per i Sovrani di Germania.
I quartieri ad essi destinati erano attigui alla sala degli Svizzeri, e si stendevano sulla via Venti Settembre. Per decorarli erano stati chiamati molti artisti, i quali lavoravano sotto la direzione del duca Carafa di Noia, che aveva preso dai palazzi reali del Piemonte, di Caserta e di Napoli i mobili e gli arazzi che meglio si adattavano con le decorazioni dei soffitti e delle pareti.
Anche alla Consulta lavoravano turbe di operai per preparare gli appartamenti della Regina di Portogallo e della duchessa di Aosta, e sotto le finestre del Quirinale sorgevano, come per incanto, giardini.
Camera, Senato, Consiglio Comunale e Provinciale tutti votavano indirizzi di felicitazione ai Sovrani e con pensiero gentile, tutta la popolazione si mostrava lieta ed esultante per circondare il Re e la Regina in quei giorni memorabili, di un’aura di festosa giocondità.
Prima che le feste incominciassero fu inaugurato di fronte al palazzo del Ministero delle Finanze il monumento a Quintino Sella, che era stato deliberato dalla Camera nella seduta del 15 marzo 1886, e al quale destinava una somma di 100,000 lire. Il monumento era stato modellato da Ettore Ferrari e fuso in bronzo. Il Re assisteva alla inaugurazione da un palco eretto sullo sbocco della via Quintino Sella. Il sindaco Ruspoli fece un bel discorso, rammentando quanto Roma doveva al grande finanziere di Biella e l’atto di consegna del monumento fu rogato dal notaio Delfini.
La faccenda dei quadri della Galleria Sciarra, fra i quali il Violinista di Raffaello, che avevano preso il volo al di là delle Alpi, terminò in tribunale, e il principe don Maffeo fu condannato a tre mesi di detenzione, a 5000 lire di multa, al rifacimento dei danni calcolati a 1,266,000 lire. La condanna parve enorme, e il principe interpose appello.
Alla metà di aprile fu dato al Costanzi il Falstaff per alcune sere e Verdi stesso, vivamente pregato venne a Roma per assistere alla rappresentazione della sua opera. La sera del 15 aprile rimarrà impressa nella mente di tutti coloro che poterono andare al Costanzi, come una delle più belle feste artistiche. Il teatro era pieno zeppo e le ovazioni al maestro non cessavano più. Il Re, che assisteva alla rappresentazione, fece pregare il Verdi di andare nel suo palco, e due giorni dopo lo riceveva al Quirinale e non rifiniva di congratularsi con l’artista per l’opera sua, così diversa dalle altre, e così fresca e gaia, quasi fosse sgorgata da una mente giovanile.
In quella primavera, e in attesa delle grandi feste, Roma più popolata che al consueto e più gaia, era veramente splendida. Ogni sera quasi vi era un ballo, o un grande ricevimento, o una rappresentazione, e mentre ancora i pellegrini affluivano al Vaticano ed erano ammessi alla presenza del Papa, a Roma giungeva il pellegrinaggio dei devoti alla monarchia, che volevano associarsi alla festa della famiglia Reale, e i principi e gli ambasciatori straordinari.
Il periodo delle feste incominciò il 19 aprile con l’inaugurazione della Esposizione di Belle Arti, che fu un vero trionfo per la Scuola Veneziana e per una parte di quella Napoletana. In quello stesso giorno giunse a Roma l’arciduca Ranieri d’Austria, inviato dall’Imperatore alla nostra Corte, con la quale l’arciduca è legato da stretta parentela. Ebbe un’accoglienza simpatica, ma non entusiastica, dalla popolazione, che già gremiva le strade principali, ornate di pennoni, di stemmi, di bandiere tedesche ed italiane, e di lauro.
La Regina Maria Pia era giunta prima, insieme col duca di Oporto, e già erano qua le due duchesse di Genova, la duchessa d’Aosta e il duca d’York. La principessa di Galles non assistè alle feste, ma fece una visita ai Sovrani poco prima, lasciando il suo yackt «Osborne» a Piombino, e andando poi a Napoli ad imbarcarsi.
Anche i rappresentanti esteri erano tutti arrivati. 11 Sultano aveva mandato una missione guidata da Hassan Fehmi Pascià; la Regina reggente di Spagna, il duca d’Alba, che fu quasi sempre ammalato e che pochi videro; il Reggente di Baviera il generale von Parseval; il Re dei Belgi il generale Fischer; il Re di Sassonia, il generale von Karlowitz; la Regina reggente d’Olanda l’ammiraglio von Busch; il principe del Montenegro il figlio, principe Danilo; la Serbia una missione speciale e la Rumania pure. Per rappresentare il Re di Grecia era venuto il principe Giorgio; per lo Czar Alessandro III il fratello granduca Wladimiro, insieme con la granduchessa Maria Paulowna, bella, elegantissima e che soleva ornarsi di gioielli d’inestimabile valore.
La mattina del 20, con un caldo estivo, giunsero i Sovrani di Germania, entusiasticamente salutati da migliaia e migliaia di persone, che si stipavano in piazza di Termini, in via Nazionale e davanti alla Reggia. Il Re, la Regina e tutti i principi e le principesse erano andati loro incontro alla stazione, e il colpo d’occhio che presentava quel corteo, ricco di colori, scintillante d’oro e di argento, sotto il sole primaverile, attraverso la città ornata a festa, gaia, esultante, è indescrivibile, come è indescrivibile l’entusiasmo popolare che scoppiava lungo le vie al passaggio della carrozza ov’erano l’Imperatrice e la Regina, il Re e l’Imperatore. I gridi, gli evviva, i battimani coprivano l’inno germanico e la marcia reale suonati dalle numerosissime fanfare e bande schierate lungo il cammino, e dalle finestre gremite di gente, pavesate a festa, ornate di arazzi, piovevano fiori sulle Sovrane e sui Sovrani. Vittoria Augusta e Margherita erano specialmente festeggiate e acclamate. Il popolo voleva dimostrare all’Imperatrice quanto erale grato di aver lasciato i figli per venire a Roma ad accrescere ed ingentilire con la sua presenza la festa della famiglia Reale, e alla Regina voleva significare che alla festa di Lei partecipava con tutto il cuore.
Insistenti e calorosissimi evviva chiamarono i Sovrani e i Principi al balcone del Quirinale e appena terminate le presentazioni e la colazione, Imperatore e Re, Imperatrice, Regine e Principesse uscirono per andare alla Villa Borghese, che non sarà mai più bella come in quei giorni, in cui fra i viali scuri si vedevano ogni momento passare al trotto i ricchi equipaggi con le livree rosse, ai quali facevano seguito centinaia di carrozze padronali, che stentavano ad aprirsi un varco tra la folla.
La sera di quel giorno vi fu a Corte un pranzo di famiglia; il di seguente il Re ricevè i rappresentanti esteri, che gli presentarono gli augurj. Fra quelli eravi pure il Marajak Roigan di Kapoulata, vestito di tutti i colori dell’iride in ricche stoffe orientali, ed accompagnato da due funzionari dai vestiti non meno sfarzosi.
Nel pomeriggio vi fu il derby Reale alle Capannelle. La Regina e l’Imperatrice vi andarono insieme nelle solite carrozze di mezza gala; il Re condusse l’Imperatore nei suoi equipaggi da caccia, che a Roma non si erano mai veduti, e che destarono grande curiosità. L’affluenza al prato delle Capannelle non è stata mai maggiore che in quel giorno. Il premio reale fu vinto da Festuca di don Rodrigo, e il ritorno si cambiò per i Sovrani in una continua ovazione. Tutte le case, anche fuori di porta San Giovanni, erano pavesate, e gli equipaggi dovevano procedere al passo fra una foltissima folla plaudente.
La sera vi fu un pranzo di gala al Quirinale, durante il quale il Re Umberto pronunziò il seguente brindisi in francese:
«Le cœur rempli de joie et de reconnaissance, je tiens à remercier Mon cher Frère, l’Empereur Guillaume et Son Auguste Epouse; je tiens à remercier les Princes, parents, amis, alliés, qui sont venus partager avec Ma Famille les douces émotions de ce jour.
«Nous avons, la Reine et Moi, agréé leurs souhaits comme un gage de bonheur pour Nous, pour Notre Maison, pour notre peuple. A mon tour, en mon nom et au nom de la Reine je bois à la santé de Leurs Majestés l’Empereur et l’Impératrice d’Allemagne; je bois à la santé des Augustes Princes, assis en ce moment autour de nous: je bois à la santé des Souverains et Chefs d’Etat, dont les Princes ou les Représentants officiels nons ont aujourd’hui apporté les veux et les félicitations».
Dopo il brindisi fu intuonato l’Inno tedesco. L’Imperatore rispose in tedesco col seguente brindisi:
«Vogliano le Vostre Maestà permettermi di esprimere Loro, in nome dell’Imperatrice e mio sinceri ringraziamenti per la magnifica accoglienza che le vostre Maestà e gli abitanti di Roma e l’Italia tutta si compiacquero farci. In questa accoglienza vedo un nuovo pegno dell’amicizia personale di Vostra Maestà, che ho ereditato da mio Padre e dal mio Avo. Io mi ispiro in loro offrendovi i miei augurii di felicità per la festa d’oggi e, coll’espressione della nostra amicizia personale, quella della sincera simpatia che unisce i popoli dell’Italia e della Germania e che si manifesta con nuova forza in questi giorni.
«Nello stesso tempo esprimo alle Vostre Maestà, a nome degli Augusti Ospiti qui convenuti, i nostri più sinceri ringraziamenti per la calorosa accoglienza fattaci dalle Vostre Maestà. Gli entusiastici omaggi presentati alle Maestà Vostre in questi giorni risuonano alle nostre orecchie come una bella melodia, ispirata dall’amore di un popolo pel suo Sovrano.
«Siamo commossi fino in fondo del cuore nel vedere un intero popolo associarsi alla bella festa di famiglia del suo Re. Vediamo in tale fatto una testimonianza delle intime relazioni esistenti fra la Casa reale ed il popolo italiano. Facciamo tutti il voto che la protezione e la benedizione del Cielo scendano per molto tempo ancora sulle Vostre Maestà e su tutta la Casa reale per la salute dell’Italia e dell’Europa».
L’Imperatore concluse il suo brindisi con le seguenti parole, pronunciate in italiano:
«Bevo alla salute delle LL. MM. il Re e la Regina d’Italia!»
Dopo tale brindisi fu intuonato l’Inno reale italiano.
Quella sera stessa vi fu pure la rappresentazione di gala all’Argentina col Falstaff, eseguito dagli stessi artisti che già lo avevano dato al Costanzi, e il teatro presentava tutto uno scintillio di gemme e di seta. Il palco Reale poi pareva il sogno delle Mille e una Notte. Le Sovrane e le Principesse rifulgevano di gioielli, e la Granduchessa Maria Paulowna aveva smeraldi così inverosimilmente grossi, appuntati sulla vita del vestito, da parere quadrati di velluto.
L’Imperatore prima del pranzo conferì al duca di Genova e al duca d’Aosta l’Aquila Nera, al conte di Torino il gran Cordone dell’Aquila Rossa, e al duca degli Abruzzi l’Aquila Rossa di 1ª Classe.
Il giorno 22, che era il 25mo anniversario delle nozze reali, fu tutto speso in ricevimenti. La mattina i Sovrani riceverono i Cavalieri dell’Annunziata, le deputazioni del Senato, della Camera e dei grandi Corpi dello Stato, che offrirono loro augurii e indirizzi, poi la casa militare del Re e quella civile, e nel dopo pranzo, sotto il balcone del Quirinale videro sfilare per due ore centinaia di bandiere, recate da altrettante rappresentanze di associazioni, le quali fecero una ovazione continuata ai Sovrani. Furono lanciati molti colombi per recare ovunque la lieta novella della festa, e la dimostrazione che chiuse lo sfilamento delle Società, fu imponentissima. Da migliaia e migliaia di bocche usciva un evviva solo, un solo grido che dimostrava l’affetto del popolo italiano per i suoi Sovrani.
Uno degli spettacoli culminanti di quei giorni in cui le feste si succedevano di continuo, fu la rivista ai Prati di Castello. Il Re e l’Imperatore, seguiti da uno svariatissimo stato maggiore, composto di principi, di ufficiali stranieri e di centinaia di ufficiali italiani, montarono a cavallo al Quirinale e per la via Quattro Fontane e Sistina giunsero al Pincio, di dove scesero a Piazza del Popolo, e traversando il ponte Margherita andarono sul piazzale della rivista, ov’erano schierati 18,000 uomini; quasi tutti reclute da poco sotto le armi. Le Sovrane e le principesse andarono in carrozza alla rivista e anche quella mattina tutta la popolazione si affollava nelle vie e acclamava il Re e l’Imperatore con entusiasmo.
Il giorno precedente i Sovrani di Germania erano andati al Vaticano con le loro carrozze, ma il popolo schierato lungo la via, li salutava senza acclamarli.
Nel giorno stesso della rivista vi fu pure un elegantissimo ricevimento nel giardino dell’ambasciata d’Inghilterra, dato da Lord e Lady Vivian in onore dei Reali d’Italia, e al quale i Sovrani di Germania non assisterono, essendo andati a visitare Tivoli.
In quel giorno l’Imperatore conferì a Giolitti l’Aquila Nera, all’on. Martini l’Aquila Rossa, al comm. Malvano il gran cordone della Corona di Prussia, e al sindaco don Emanuele Ruspoli l’Aquila Rossa.
Il 25 fu la grande giornata del Torneo, della festa cavalleresca per eccellenza. L’anfiteatro della piazza di Siena era gremito di una folla elegantissima, quando nel viale circolare comparve il lungo corteo delle carrozze reali, e mentre le musiche suonavano, tutti alzaronsi e agitavano fazzoletti e gridavano.
Appena LL. MM., le Principesse e i Principi furono saliti nel vasto palco, che aveva la facciata volta ad oriente e sul quale troneggiavano gli scuri pini agitati da una brezza quasi estiva, tutti i cavalieri del Torneo andarono davanti al palco a fare il saluto. Fra i torneanti vi era la più bella gioventù d’Italia e ogni squadra aveva alla testa uno dei giovani principi, preceduto da quattro paggi e da un quinto che portava sul cuscino la corona del suo signore. Gli esercizi riuscirono come meglio non si poteva desiderare, e quando i Sovrani ed i Principi risalirono in carrozza per tornare al Quirinale, tutto il magnifico stuolo dei cavalieri li segui traversando le vie di Roma e dando al popolo, che non aveva potuto assistere alla festa, uno spettacolo indimenticabile.
La sera, casa Caetani accolse tutta l’augusta schiera Imperiale e Reale nel suo palazzo infiorato di azalee, di rose di Fogliano e di violette e amorini, a una festa sontuosa.
La mattina l’Imperatore era andato alla villa Torlonia a far visita alla principessa, e l’Imperatrice e la Regina erano salite al Palatino a visitare i nuovi scavi.
La notizia che il Re aveva elargito 500,000 lire per l’istituto degli orfani degli operai, che doveva portare il nome di «Umberto e Margherita» fu annunziata dai giornali insieme con la descrizione del Torneo, il quale, detratte le spese, aveva fruttato per lo stesso scopo benefico 74,000 lire.
Il 26, nelle ore pomeridiane vi fu una festa nei giardini del Quirinale, e durante quel ricevimento, tutti parlavano del pericolo corso dall’Imperatore nella mattina, nel visitare in carrozza i Castelli Romani. A Grottaferrata la carrozza di lui era ribaltata per la caduta dei due primi cavalli ed egli era rimasto incolume quasi per miracolo.
La sera vi fu un gran ballo in casa Doria, ma l’Imperatrice non potè intervenirvi, perchè era stanchissima per le continue feste dei giorni precedenti, e per le visite fatte ai musei Capitolini e Vaticani in quella stessa mattina.
Mentre ferveva la festa nel giardino della Reggia, sulle mura della città veniva affisso un manifesto del Sindaco che esprimeva i ringraziamenti reali.
Il 27 i Sovrani partirono per Napoli nelle ore del mattino e Roma fece alla coppia Imperiale una calorosa dimostrazione, sapendo che dopo un breve soggiorno in quella incantevole città, sarebbe ritornata direttamente in Germania, senza fermarsi.
I Sovrani erano stati oltremodo commossi delle tante prove di devozione e di affetto ricevute dal popolo della capitale e da quello di tutta Italia, il Re si senti portato a farne pubblico ringraziamento. Infatti esso dirigeva al presidente del Consiglio il seguente dispaccio:
- «Caro Giolitti,
«La ricorrenza del venticinquesimo anniversario delle mie nozze fu argomento all’Italia per dare alla Mia Casa una nuova e grande dimostrazione di affetto.
«La Regina ed io ne fummo profondamente commossi, e la Nostra esultanza si accrebbe per la nobile gara di opere pietose, colla quale il paese partecipò alla nostra gioia domestica, e per le festose onoranze da esso rese agli Ospiti Augusti ed agli inviati delle Potenze estere, mostrando così la universale concordia degli italiani, nel sentimento della carità e della Patria.
«Desidero che la Nazione sappia essere io lieto ed orgoglioso di quanto il popolo italiano ed il mio Governo operarono in questi giorni nell’altissimo intento del decoro della Nazione.
«Faccio Lei interprete dell’animo mio verso il paese e verso Roma segnatamente, che si dimostrò pari alle sue alte tradizioni e ai suoi nuovi destini.
- «Quirinale, 3 maggio 1893.
«aff.mo |
La questione dell’Esposizione sonnecchiava come tutto il resto, ma non era svanita. In aprile l’on. Baccelli aveva chiesto per quello scopo un milione al Municipio, uno al Consiglio Comunale e al Governo la lotteria e l’eccedenza del dazio consumo. Il 15 maggio la domanda fu discussa dal Consiglio Comunale e fu vivamente combattuta dall’on. Caetani, duca di Sermoneta; peraltro il concorso del Comune, che la Giunta aveva proposto non oltrepassasse le 500,000 lire ripartite in cinque rate annuali, fu approvato con 39 voti contro 34.
La Regina di Portogallo era rimasta a Roma insieme col duca d’Oporto ed era passata dalla Consulta al Quirinale. Il Re e la Regina la condussero a visitare i Castelli e accettarono ad Albano l’ospitalità dalla principessa di Venosa, mentre la villa signorile era in tutto il suo splendore per la ricca fioritura delle rose.
Partita Maria Pia, la regina Margherita andò dai Caetani, nella villa di Fogliano; essi fecero godere alla Ospite Augusta tutti gli spettacoli più belli che offrono le paludi Pontine in primavera: pesca, gite sui laghi e sul mare, e una ascensione sul Circeo, che riusci un vero incanto.
Durante le feste il Ministero Giolitti, continuamente bersagliato, aveva goduto di un momento di tregua e pareva rafforzato, quando, cosa insolita, la Camera respinge il bilancio di Grazia e Giustizia, per infliggere un biasimo al ministro Bonacci, del quale se ne erano dette di tutti i colori, per il processo della Banca Romana.
Il 19 maggio tutto il Ministero annunziava alla Camera le dimissioni, ma dopo pochi giorni ricostituivasi con il senatore Eula alla Grazia e Giustizia, e il senatore Gagliardo alle Finanze.
La scelta di questi due senatori, era una avveduta manovra per riconciliare il Senato col Governo. La Camera vitalizia aveva dato segni manifesti di ostilità contro tutto il Gabinetto, e specialmente contro il presidente del Consiglio, e minacciava respingere la legge sulle pensioni, che era in discussione mentre avveniva la crise. Quella legge da un canto, mercè una operazione con la Cassa depositi e prestiti, doveva provvedere alle necessità più urgenti del bilancio, e dall’altro risolvere definitivamente il problema delle pensioni, problema grave per lo Stato. Il Senato non aveva fatto tanto buon viso alla nomina a ministri dei due senatori, perchè la discussione sul progetto di legge ripresa il 31 maggio, continuò fino al 5 giugno terminando con un voto favorevole, ma il Giolitti l’ottenne con viva lotta sacrificando la seconda parte del progetto, e contentandosi che gli fosse consentita la sola operazione finanziaria.
Anche nella scelta dei due sottosegretari per gli Esteri e per la Giustizia, il Ministero aveva cercato appoggio nei partiti avversi al suo. L’on. Luigi Ferrari, che era andato alla Consulta, assicurava al Gabinetto i voti dei suoi amici di parte avanzata, e l’on. Gianturco quelli di alcuni meridionali. Difatti il Ministero ebbe alla Camera il 26 maggio un voto politico favorevole.
Il senatore Eula non fu peraltro ministro altro che di nome. Affranto di salute, dovette, appena insediato al palazzo di Firenze, recarsi a Resina, per chiedere alle aure benefiche dei paesi vesuviani, la forza necessaria al lavoro. Ma il male era gravissimo e il 5 luglio il ministro spirava. Era il terzo membro del Gabinetto Giolitti che moriva, e non doveva esser l’ultimo.
La salma fu portata a Roma, ove si fece un solenne trasporto funebre a cura dello Stato, e il cadavere, per volontà del defunto, venne cremato al Campo Verano.
In giugno il commendatore Cuciniello comparve all’Assise insieme col d’Alessandri, cassiere del Banco di Napoli, col Porchetto, la Haiden e il Niccolai; i tre ultimi erano accusati di favoreggiamento e furono assolti; Cuciniello ebbe 10 anni di reclusione e il d’Alessandro 7, ma già gli altri scandali bancari, molto maggiori di quello del Banco di Napoli, avevano distratta l’attenzione del pubblico dal Cuciniello, cosicché la sua condanna commosse poco la cittadinanza.
Molte morti si ebbero a deplorare fra il maggio e il giugno. Spirò il cardinal Seppiaci, dell’ordine degli Agostiniani, creato cardinale da Leone XIII in uno degli ultimi concistori; in maggio mori pure Federigo Seismit-Doda, che era uscito dal Ministero Crispi per l’incidente irredentista di Udine, e alla fine di maggio scese nella tomba anche Silvio Spaventa, una delle menti più belle del partito moderato, uno degli uomini più integri e più stimati che ancora rimanessero al paese. La commemorazione che di lui fece il presidente Farini al Senato, fu veramente degna dell’estinto.
Il 20 giugno l’on. Cocco-Ortu presentò alla Camera la relazione sul disegno di legge per il riordinamento bancario. L’on. Cavalletto propose che ne fosse rimandata la discussione dopo che il comitato dei Sette avesse presentata la propria. L’on. Rudinì chiese pure un rinvio puro e semplice, ma il presidente del Consiglio, essendosi opposto alla sospensiva, trionfò, e la discussione fu iniziata subito. Già il 1° luglio la Camera passava alla discussione degli articoli e prontamente votavasi, con 227 voti favorevoli, 135 contrari e s astensioni, portando però al primitivo progetto variazioni essenziali.
Oltre questo, due altri progetti di legge, che più da vicino toccavano gl’interessi di Roma, vennero in luglio alla Camera. Uno era per la concessione della lotteria e dell’eccedenza del dazio-consumo al Comitato dell’esposizione, e ne fu relatore l’on. Coppino; l’altro riguardava il compimento dei lavori edilizi di Roma, e ne fu relatore l’on. Panizza. La commissione aveva modificato il progetto governativo, proponendo che ai lavori del palazzo di Giustizia, del Policlinico, del proseguimento della via Cavour e del ponte Vittorio Emanuele, fosse aggiunto quello della platea archeologica, e che per questo si facesse una anticipazione di 2 milioni e mezzo, lasciando al Comune il carico della spesa superiore che potevano esigere i lavori. Va notato che in quella platea archeologica l’on. Baccelli voleva sorgesse l’Esposizione; la proposta della commissione era dunque un tentativo indiretto per farla riuscire. Durante la discussione, il ministro Genala pregò la commissione di non insistere sulla platea archeologica e accettò la sostituzione del ponte Cavour a quello Vittorio Emanuele, purché si rimanesse nei limiti della spesa. L’on. Baccelli dichiarò che la platea archeologica era lavoro di bonifica e per questo necessario, e ritornò a dire che il Municipio aveva più volte preso formale impegno di dare appoggio all’Esposizione, anche quando era sindaco don Onorato Caetani, duca di Sermoneta. L’on. Caetani smentì formalmente le asserzioni del Baccelli e rammentò i fischi avuti dopo la seduta del Consiglio, nella quale aveva date le dimissioni, e aggiunse che aveva sempre combattuto quel disegno, perché riteneva che Roma fosse impreparata alla Esposizione.
La spesa per la platea archeologica non incontrò favore alla Camera, la quale la respinse, ma votò i 42 milioni per il proseguimento dei lavori edilizi di Roma, non compresi nella legge precedente.
L’altro progetto di legge per la concessione della lotteria al comitato della esposizione e dell’eccedenza del dazio consumo non fu discusso.
Il 7 tu letta alla Camera una lettera del comitato dei Sette, che aveva eletto a suo presidente l’on. Mordini, con la quale scusavasi di non aver potuto terminare il lavoro per la vastità delle indagini e perchè non gli erano stati comunicati gli atti del processo della Banca Romana. Nella seduta successiva l’on. Bovio, che faceva parte del comitato, ma atteggiavasi a dissidente, disse che se vi erano nella Camera alcuni, che sapessero di dover fare i conti col comitato, opererebbero prudentemente deponendo il mandato. A questa uscita da tutte le parti s’incominciò a gridare: «Che intimazioni son queste? Parli, faccia i nomi». Il presidente si coprì, non potendo dominare il tumulto, e la Camera dette al Bovio vivi segni di disapprovazione. L’on. Cavallotti presentò una mozione perchè il Bovio parlasse subito a nome del comitato. Il presidente del Consiglio propose che la discussione della mozione fosse rinviata al giorno in cui il comitato avesse presentato la relazione dell’inchiesta, e la Camera approvò la sospensiva, e siccome il luglio era inoltrato, si prorogo senza attendere il risultato della inchiesta.
Nelle elezioni amministrative parziali del giugno avevano trionfato i clericali, per le solite divisioni e la solita apatia di cui i liberali davano continua prova.
Il Papa aveva creato nuovi cardinali; essi erano: monsignore Graniello, monsignor Baurret, monsignor Fecot e monsignor Schlank.
Dopo il voto della Camera, contrario alla platea archeologica, l’on. Guido Baccelli dette le dimissioni da presidente del comitato per l’esposizione, ma fu rieletto in una assemblea generale
IL PRINCIPE EMANUELE RUSPOLI SINDACO DI ROMA
dei sottoscrittori tenuta il 28 luglio, nei locali della Piccola Borsa. In essa fu votato un ordine del giorno con cui riaffermavasi concordemente e solennemente il proposito che l’esposizione si facesse secondo i programmi stabiliti e in quella località più adatta, e che avesse permesso di dar principio ai lavori non più tardi dell’ottobre. In seguito a questa deliberazione il comitato generale deliberò d’intavolare trattative con la casa Borghese per la concessione della Villa. Qualora le trattative non fossero state ultimate entro venti giorni, si sarebbero scelti i Parioli.
Al defunto Eula era stato dato per successore il senatore Santamaria Nicolini, presidente della Corte d’appello di Venezia. Appena insediato al palazzo di Firenze si parlò della intenzione, manifestata da lui, di dimettersi e difatti rimase brevemente in carica. I ministri di Grazia e Giustizia non potevano approvare le ingerenze del potere esecutivo nello svolgimento del processo della Banca Romana, nel quale figuravano come accusati Bernardo Tanlongo, Cesare Lazzaroni, Michele Lazzaroni, Pietro Tanlongo, Gaetano Bellucci-Sessa, Antonio Monzilli, Lorenzo Zammarano, Angelo Mortera, Giovanni Agazzi, Pietro Toccafondi e Alfredo Paris. Lo Zammarano, Pietro Tanlongo e il Mortera non furono mai arrestati; Michele Lazzaroni e Antonio Monzilli ottennero la libertà provvisoria.
Il 3 agosto il Senato si adunò di nuovo approvando il progetto di legge per i lavori edilizi di Roma e l’altro per il riordinamento bancario.
Cessati i lavori parlamentari, Roma avrebbe avuto diritto, dopo tante agitazioni, di godere della consueta calma estiva, ma in quell’anno non le fu concessa, perchè scoppiarono i torbidi, che agitarono la città in seguito ai dolorosi fatti di Aigues-Mortes, avvenuti il 17 agosto, e che costarono la vita a tanti poveri operai italiani.
La sera del 19, appena quei fatti furono conosciuti, tutta la città si ornò di bandiere abbrunate e si formò una dimostrazione a piazza Colonna, la quale preceduta da bandiere, e seguita da una immensa turba di popolo indignato, andò in tutti i punti della città dove hanno sede istituti francesi, e prima di tutto a piazza Farnese, al seminario di Santa Chiara, a San Luigi de’ Francesi, a Villa Medici, gridando, schiamazzando e facendo peggio. Vi furono le solite intimazioni, i soliti squilli, e le guardie e i carabinieri operarono 10 arresti.
Ma le notizie sopraggiunte la domenica, le descrizioni strazianti che i giornali pubblicarono dei fatto di Aigues-Mortes crebbero la popolare indignazione, e la sera della domenica le dimostrazioni presero un carattere più grave. Suonava la musica a piazza Colonna, ove i dimostranti si adunarono, e tolta una delle bandiere del «Fagiano» si slanciarono in mezzo alla piazza gridando: «abbasso la Francia!» I carabinieri riescono a impossessarsi della bandiera, ma i dimostranti corrono alla birreria della Limentra, di fianco al palazzo Bocconi, ne prendono altre, e dopo essersi raggruppati tornano in piazza chiedendo l’inno di Garibaldi. In quel mentre Ciro Corradetti, il noto anarchico, gridò: «Viva la Francia!» I dimostranti a quel grido si scagliano su di lui ed avrebbero fatto giustizia sommaria, senza l’intervento dei carabinieri.
La dimostrazione ottiene una bandiera tedesca da un balcone del palazzo Ferraioli, e con quella e altre si dirige verso il palazzo Rospigliosi, al Quirinale, ove risiede l’ambasciatore francese presso la S. Sede,
Un’altro gruppo di dimostranti erasi in quel frattempo riunito a Santa Chiara e di là muove per piazza Farnese, i cui sbocchi erano custoditi dai bersaglieri. Quel gruppo fu rinforzato da un secondo, che giunse dal Trastevere per ponte Sisto. Alcuni, vedendo di non poter forzare gli sbocchi della piazza, salgono nelle carrozze e per via de’ Venti rompono con quelle i cordoni dei soldati.
Dietro alle carrozze penetra in piazza la folla, prende i selci che erano ammucchiati per i lavori delle fogne, e li lancia contro il palazzo dell’ambasciata presso il Re. Con una trave, di cui si serve a guisa di catapulta, tenta sfondare la porta del palazzo Farnese, mentre dalla via della Morte un altro manipolo di forsennati unge con petrolio le imposte delle finestre, per produrre un incendio. Il capitano Santoni, dei carabinieri, impedisce quell’atto barbaro e cade ferito. I carabinieri a cavallo sgombrano lentamente la piazza, ma la folla pazza, va a San Luigi dei Francesi a fracassare i vetri, e ritorna a piazza Colonna chiedendo insistentemente l’inno germanico. Di qui vuole andare al teatro Nazionale per far cessare la rappresentazione, e vi riesce, nonostante che il Corso sia sbarrato a San Marcello, e contro le vetrate del teatro lancia sassi e minaccia invaderlo. Gli spettatori sgomenti si salvano dal lato della Cordonata.
La calma fu ristabilita soltanto verso la mezzanotte. La piazza Farnese rimase occupata da uno squadrone di cavalleggieri, come tutte le vie adiacenti da altri soldati. Gli arresti operati in quella notte furono 28.
Il sindaco, con un manifesto, aveva raccomandato la calma ai cittadini, i giornali li esortavano a cessare dalle dimostrazioni, per non mettere l’Italia dalla parte del torto, ma tutto questo non valse, perchè gli anarchici volendo approfittare dei disordini, si facevano iniziatori delle dimostrazioni. La mattina del 21 gli operai del Policlinico, del palazzo di Giustizia e del monumento a Vittorio Emanuele abbandonarono il lavoro. Un gruppo di dimostranti, verso le s pomeridiane, tenta forzare il ponte di Ripetta, custodito dai soldati. Non riuscendovi, scavalca le armature del ponte Umberto, tuttavia in costruzione, e sbocca all’Orso, cercando giungere a Santa Chiara. Essendo respinto, irrompe a piazza Colonna gridando: «Guerra, morte alla Francia!»
La musica non suonava per precauzione quella sera in piazza Colonna, ma una dimostrazione si formò di nuovo al Corso e si diresse verso Campo di Fiori. In mezzo ai dimostranti vi erano molti anarchici, che distribuivano manifesti sui quali stava stampato: «Viva la Francia! abbasso la borghesia sfruttatrice!» Dal Trastevere giungono altri anarchici; spengono i lampioni in via Arenula e in via de’ Pettinari e valendosi del legname impiegato nei lavori del lungo Tevere, formano barricate per impedire l’avanzarsi della cavalleria, le ungono di petrolio e le incendiano. La cavalleria giunge infatti ed è accolta a sassate. Un gruppo di dimostranti corre a piazza Venezia emettendo grida di «Viva la Francia», che suscitano una reazione fra la folla. Un altro gruppo va le finestre del presidente del Consiglio, in via Cavour, a fischiare.
Ma l’on. Giolitti e quasi tutti i ministri erano assenti. La responsabilità dei disordini sarebbe dovuta ricader dunque sul sottosegretario all’interno, on. Rosano, che era a Roma, perchè da tutti è risaputo che il prefetto non esercita nella capitale la stessa autorità di cui è rivestito nelle rimanenti città d’Italia. Invece, subito dopo i fatti penosi, il prefetto Calenda dei Tavani fu sospeso, insieme col Sandri, ispettore reggente la questura, e col Majnetti, ispettore alla Regola.
La prefettura fu affidata al comm. Ruspeggiari, capo divisione al ministero dell’interno, e la questura al Gatti. Con questa misura si volle sottrarre il Governo alla responsabilità dei fatti, e si nominò una commissione, presieduta dal senatore Inghilleri, che in breve presentò una relazione con la quale confermava la responsabilità del prefetto e dell’ispettore Sandri, escludendo quella del Majnetti.
Numerosi arresti di anarchici furono fatti in quei giorni sapendosi che volevano rinnovare i disordini. Un gruppo di essi fu arrestato in piazza Colonna, molti nelle rispettive case, e una vera falange vicino alla Navicella.
I disordini non si rinnovarono, ma Roma fu assalita dal timore di una invasione colerica, scongiurata dalle provvide misure d’isolamento, ordinate dalle autorità, e una mattina si destò turbata dalla notizia di un vasto incendio, scoppiato nel bel palazzo Caffarelli in via Condotti, che pose in pericolo tutti gli inquilini di esso, fra cui la famiglia Fausti, salvata per miracolo; la famiglia del console generale di Portogallo, e quelle abitanti nelle case attigue, seriamente danneggiate. I vigili, sotto la guida del capitano Anderlini, che già aveva avanzata la domanda per essere esonerato dal comando di quel corpo, ed ebbe la notizia in quel giorno istesso, che era stato accettata, fecero prodigi, ma non poterono salvare il palazzo. Riuscirono peraltro ad isolare l’incendio e fu già molto.
Il comando del corpo dei vigili fu affidato temporaneamente al signor Curzio Colombo e dopo al comandante de Maria, che insieme col capitano Jonni lo riordinarono scartando tutti gli elementi inutili e accasermando una parte dei vigili alla Pilotta e provvedendoli di nuove macchine.
In passato quel corpo non funzionava bene, e si era veduto in molte occasioni, e in ultimo anche nell’incendio delle scuole israelitiche, avvenuto sui primi dell’anno.
I gravissimi disordini di Napoli, provocati dallo sciopero dei cocchieri, ebbero un’eco molto blanda a Roma, dove i cocchieri si misero in isciopero pure, ma non imitarono quelli di Napoli, che tennero la città in rivoluzione per diversi giorni. A Napoli fu mandato il Municchi a sostituire il Senise, revocato in seguito a quei disordini; a Roma venne il Cavasola invece del Calenda.
I disordini di Napoli erano avvenuti durante le grandi manovre navali, e mentre il Re era a Gaeta col Principe Enrico di Prussia, che aveva voluto assistervi, e poco prima che il Principe di Napoli andasse in Alsazia-Lorena per partecipare a quelle dell’esercito tedesco. Questo viaggio del Principe ereditario aveva offeso il sentimento nazionale dei francesi e i giornali di Francia ne avevano fatto quasi un casus belli; naturalmente quelli d’Italia di parte avanzata, lo avevano sfruttato per bersagliare il ministero Giolitti, il quale in quel caso pareva non avesse nessuna responsabilità, perchè l’invito era stato fatto direttamente dall’Imperatore Guglielmo al Principe ereditario, mentre era a Roma per le nozze d’argento dei Sovrani.
Il settembre fu un mese di calma. Si ebbe per altro la fuga del Monzilli, prima che gli fosse notificata la sentenza della sezione d’accusa, e le dimissioni del Ministro di grazia e giustizia Santamaria. Al posto di lui fu nominato il senatore Armò. In quel tempo incrudeli l’agitazione in Sicilia, promossa dai Fasci dei Lavoratori, e il Governo mandò nell’isola il comm. Sensales per rendersi conto del servizio di pubblica sicurezza, insieme col cav. Cassis.
A Roma dette molto da parlare il trasporto della sede della Massoneria dal palazzo Poli al palazzo Borghese, e i clericali se ne mostrarono indignati. Il Papa ne fu afflittissimo e non meno la famiglia Borghese, ma il palazzo era in mano dei sequestratari, ed essi potevano disporne come volevano per ricavarne il maggior utile possibile. Per quel fatto il Circolo di San Giovacchino presentò a Leone XIII le sue condoglianze.
Un altro scandalo nacque per il ricorso alla Suprema Corte di cassazione del procuratore generale Bartoli contro la sentenza della sezione d’accusa nel processo della Banca Romana, scandalo che ebbe lunghe conseguenze. Pietro Tanlongo ne minacciava altri, e aveva depositato presso il notaro Bertarelli un plico suggellato, che asseriva contenesse gravi documenti. Quel plico fu sequestrato dal giudice istruttore Capriolo.
Gli azionisti della Banca Romana si adunarono sui primi di ottobre e nominarono una missione, composta dell’on. Carancini, dell’on. Fortis e dell’avvocato de Dominicis per curare l’osservanza degli obblighi contratti dalle altre Banche con la convenzione del 18 gennaio. Il signor Ernesto Pacelli fu nominato sorvegliante della liquidazione.
Quasi contemporaneamente si riunirono a Roma gli azionisti della Banca Nazionale, della Banca Nazionale Toscana e della Toscana di Credito e votarono lo statuto per la costituzione della Banca d’Italia con la durata di 20 anni, da decorrere dal 1° gennaio 1894, secondo la legge approvata dai due rami del Parlamento.
Roma e l’arte italiana fecero in quell’autunno una grave perdita, per la morte di Ercole Rosa, il fortissimo scultore, che aveva modellato il gruppo dei fratelli Cairoli, e dava l’ultima mano al monumento a Vittorio Emanuele, destinato a Milano. Egli morì nella sua casa in piazza di Spagna, e dietro alla bara di lui composero un pietoso stuolo tutti gli artisti di Roma e tutte le rappresentanze degli istituti artistici stranieri che qui hanno sede.
I Sovrani da Monza andarono il giorno 15 a inaugurare il monumento a San Martino, eretto sul campo consacrato da Vittorio Emanuele col suo valore di soldato e col suo senno di capitano. Autore del monumento era il Dal Zotto di Venezia. Il discorso fu fatto dal commendator Breda, presidente dell’ossario di San Martino e Solferino. Nel seguito delle LL. MM. vi era pure il ministro della guerra e il presidente del Consiglio, il quale di là si recò a Dronero, ove pronunziò un discorso sconfortante, annunziando nuove imposte, senza far balenare dinanzi agli occhi degli italiani nessun barlume di speranza; il discorso fu accolto molto male, e debolmente difeso dai giornali che sostenevano ancora il Ministero.
Il 17 aveva fatto anche l’on. Barzilai un ben povero discorso politico a Roma, nel Circo Reale. Poche ore dopo il Circo bruciava da cima a fondo, minacciando seriamente le case limitrofe e gettando un grande sgomento nella popolazione.
Il 21 ottobre nella palazzina in via Venti Settembre spirava Lord Vivian, ambasciatore d’Inghilterra, amico sincero dell’Italia. La sua morte fu un vero lutto. Il Re telegrafò subito alla vedova esprimendole la parte che prendeva, insieme con la Regina, al dolore di lei, e a cura dello Stato gli furono fatti solenni funerali. Il Principe di Napoli seguì il feretro dall’ambasciata alla chiesa inglese in via del Babbuino, a fianco del nuovo Lord Vivian, giovinetto che era guardato da tutti con commiserazione, e del colonnello Slade, addetto militare all’ambasciata. Nel corteo figuravano l’ammiraglio Seimour e quattro ufficiali della squadra inglese ancorata a Spezia. A quella squadra la marina italiana aveva fatto nei nostri porti militari, affettuosa accoglienza, come si conviene a vecchi e provati amici, che contrastava assai con quella calorosissma, alquanto teatrale, fatta dai francesi alle navi russe.
La cerimonia nella chiesa inglese riuscì semplice e solenne e la salma fu tumulata nel cimitero protestante del Testaccio.
Sul finire di ottobre fu inaugurato a Roma nel padiglione dell’Eldorado il concorso bandito dalla Croce Rossa per provvedere mezzi di trasporto per i feriti. Vennero qui i rappresentanti della Croce Rossa di tutta Europa e il Re invitò a Monza i componenti il giurì internazionale e fu con essi pieno di cortesie. Fra gl’invitati era pure il professore Postempski, al quale il Sovrano consegnò le insegne di commendatore e rammentando le cure avute per il caporale Cattaneo, ferito nello scoppio della polveriera, lo pregò di assisterlo a Torino, ov’era ricaduto malato.
Nella quiete del convento di San Sebastianello, alle falde del Pincio, si spense l’ultimo d’ottobre una preziosa esistenza. Ivi moriva colpito da apoplessia l’ottantenne padre Guglielmotti dell’ordine dei Domenicani, il quale aveva speso tutta la sua vita negli studi sulla marineria italiana, e benchè appartenesse a un ordine religioso, pure aveva molti amici fra i patrioti e i nostri marinari. Nino Bixio, il Saint-Bon lo avevano in particolare stima e tutta la marina italiana lo considerava come una delle sue glorie, tanto è vero che al foglio d’ordine del Ministero di marina comparve per il padre Guglielmotti il seguente brano firmato dal ministro Racchia:
«Esso non militò nell’armata, ma richiamando con grande amore e con somma perizia alla memoria nostra le gloriose gesta dei marinari italiani delle età passate, ci sollevò gli animi a notabili ideali e ci spronò a continuare quelle glorie; perciò sento l’obbligo di rammaricarne la perdita, e di tributare ufficialmente un sincero omaggio alla sua memoria».
La morte del Guglielmotti fu seguita subito da quella del cardinale Laurenzi, uomo mite e conciliante, che si spense nei palazzo Torlonia in Borgo Nuovo e la cui perdita fu un vero dolore per il Papa, e da quella del Genala, ministro dei Lavori Pubblici, fulminato dall’apoplessia, mentre erasi recato a pranzo in casa dei suoi amici Marchesini, in via Lucullo. La morte del ministro, colpito in piena attività, giovane ancora, fu un ultimo crollo per il Gabinetto, che si cominciava a dire avesse la jettatura e la portasse all’Italia. Il Genala era uomo di grandi meriti, e di specchiata onestà. Più volte in questo libro ho avuto occasione di parlare di lui, ma l’indole dell’opera mi ha impedito di notarne tutte le benemerenze, come avrei voluto. Le ultime sue parole alla Camera erano state pronunziate per fare approvare il progetto di legge, che assicurava la prosecuzione dei lavori edilizi per Roma, e Roma rese alla sua memoria un tributo di stima e d’affetto.
La salma del Genala fu trasportata in una delle sale del Ministero, a San Silvestro, ed esposta al pubblico. Dopo un accompagnamento solenne, venne tumulata a Soresine, ove il ministro era nato e cresciuto.
Le finanze di Roma, anche sotto l’amministrazione Ruspoli, si mantenevano in buono assetto e il bilancio preventivo presentava una lieve eccedenza; esso era per altro sempre minacciato dalla Esposizione. Dimessosi da Presidente del Comitato il Baccelli, era stato eletto presidente l’on. Tommaso Villa, e vice presidenti Menotti Garibaldi, Vincenzo e Romolo Tittoni, il professore Bettocchi, e i senatori Monteverde e Morelli, in attesa delle concessioni che il Comitato sperava dal Parlamento.
A metà di novembre venne a Roma un numeroso pellegrinaggio italiano. Il Papa disse messa a San Pietro per i pellegrini, e colse quell’occasione per far loro un discorso molto significante, dal quale tolgo la parte principale. Il Papa disse:
«Sia concorde il vostro suffragio per assicurare che nei consigli delle provincie e dei comuni vengano tutelati, nel modo che è ora possibile, i vostri vitali interessi».
Queste parole erano un incitamento per ispingere i clericali alle urne nelle elezioni amministrative, e così vennero interpretate da essi con nuovo zelo.
L’illustre generale Cosenz, che aveva coperto per dieci anni la carica di Capo dello Stato Maggiore Generale, fu collocato in posizione ausiliaria, e il Re gli conferì la gran croce dell’ordine militare di Savoia. A sostituirlo fu chiamato il general Primerano, colui che nel 1870, essendo Capo di Stato Maggiore del Cadorna, aveva firmato la capitolazione di Roma.
Prima che si convocasse il Parlamento, il Ministero ebbe un’altra tediosa faccenda: lo sciopero dei telegrafisti. Dovevano capitar tutte le noie a quel povero Ministero! Difatti nella storia dell’Italia non c’era esempio di uno sciopero d’impiegati dello Stato. Quello sciopero durò più giorni e il ministro Finocchiaro-Aprile con molta energia provvide ai servizi, inviando militari all’ufficio telegrafico, e richiamando tutti i telegrafisti militari in congedo, ma tenne duro e la riforma da lui proposta fu attuata.
Il 23 novembre si riaprì la Camera sotto l’impressione dei vasti moti di Sicilia, dove scarso era il numero dei soldati, con le compagnie ridotte al disotto di un quarto dell’effettivo, e cattivo il servizio di pubblica sicurezza. Fu subito letta la relazione del Comitato dei Sette e da ogni parte volevasi che fosse discussa. L’on. Zanardelli, non potendo dominare il tumulto, usci dall’aula Il giorno seguente discutendo sull’ordine del giorno per la mozione Cavallotti, che voleva la pronta discussione, l’on. Imbriani si scagliò contro il banco dei ministri, dicendo che non erano galantuomini. Il Senatore Gagliardo, ministro delle finanze, gli rispose: «Io sono galantuomo più di lei, ritiri quella parola». Dalla estrema sinistra partivano invettive, alle quali rispondevano da altri banchi. L’on. Zanardelli peraltro riusci a calmare gli animi e dette schiarimenti sulla levata della seduta del giorno precedente. Ma mentre la Camera era ancora tutta agitata, si alzò l’on. Giolitti, annunziando le dimissioni del Ministero. «Noi desideriamo - egli aggiunse tornare al nostro posto di deputato per aver piena libertà di linguaggio su tutto e contro tutti». A queste parole partirono gridi all’estrema sinistra. «Scappate» urlavano alcuni, mentre l’on. Imbriani apostrofava il Giolitti, dicendogli: «Scivolate nel fango!» L’ex-presidente del consiglio, agitatissimo, rispondeva: «Per quanto faccia, non riuscirà mai a gittar fango, nemmeno sui miei stivali».
Ho riferito in parte quella scena per dimostrare a qual punto erasi arrivati.
Dimessosi il Gabinetto, l’on. Zanardelli ebbe incarico di formare il nuovo. Esso tentò di costituire un Ministero a larga base, che dal gruppo legalitario si estendesse fino al centro destro, comprendendovi gli onorevoli Ricotti, Saracco e Sonnino, ma il tentativo di assicurarsi questi tre uomini di incontestata capacità, fallì per il loro rifiuto. Allora lo Zanardelli componeva un Ministero di sola sinistra, nel quale si riservò la presidenza e l’Interno. Al generale Baratieri affidò gli Esteri, il Tesoro e le Finanze al Vacchelli, la Guerra al generale San Marzano, la Marina al vice ammiraglio Racchia, i Lavori Pubblici all’on. Fortis, l’Istruzione all’on. Gallo, l’Agricoltura all’on. Cocco Ortu e le Poste e Telegrafi al di Blasio. Era un Ministero di seconde figure, senza autorità e non visse neppure un giorno, perchè il San Marzano rifiutò e dopo di lui il Racchia e il Baratieri. Si volle vedere in questo rifiuto una ingerenza sovrana; vi fu chi disse infine che l’ambasciatore d’Austria avesse protestato contro la nomina del Baratieri a ministro degli Esteri, perchè inviso al suo governo. Tutte queste dicerie non avevano base; il San Marzano fu il primo che si accorse della sciocchezza fatta, accettando di far parte di un Ministero che non poteva essere vitale, e fece rinsavire i suoi colleghi.
La crise ricominciò e sulle bocche di tutti, com’era avvenuto anche durante la lunga gestazione del Gabinetto Zanardelli, correva un nome: quello di Crispi, del solo uomo che possedesse sufficiente energia e autorità per salvare il paese dalle sventure in cui avevalo piombato il Giolitti.
L’on. Crispi in tutto quel tempo era rimasto lontano dalla capitale, nella sua villa di Napoli. Il Re lo chiamò ed egli venne a Roma, e in sei giorni compose il nuovo Ministero. A sè assegnò la Presidenza e l’Interno, al barone Blanc gli Esteri, all’on. Sonnino le Finanze, al Boselli l’Agricoltura, la Guerra al generale Mocenni, la Marina al vice-ammiraglio Morin, i Lavori pubblici al Saracco, le Poste e Telegrafi a Maggiorino Ferraris, la Grazia e Giustizia al Senatore Calenda e il 20 dicembre presentavasi alla Camera, dichiarando che il Governo nuovo non era di partito, non rappresentava settori.
Fu approvato l’emendamento Rudinì per la pubblicazione parziale degli atti annessi alla Relazione del Comitato del Sette e la Camera si prorogò.
Al Senato pure era stato presentato l’elenco delle sofferenze allegate alla inchiesta, e l’on. Pierantoni colse quell’opportunità per sollevare la quistione bancaria. Il Senato nominò una commissione di cinque dei suoi membri per dissigillare il plico e decidere quello che eravi da fare, a fine di tutelare la dignità e la responsabilità dei colleghi, che avevano sofferenze.
In piena crise ministeriale, e per l’appunto il 30 novembre, il Credito Mobiliare chiese la moratoria per sei mesi, che il tribunale gli accordò. Fu un colpo per Roma. Intanto l’aggio era salito al 16%, la rendita, che in giugno era a 94, era scesa fino a 74 per risalire a 80, il disagio e il panico generali. Sotto questi auspicii, pendente il processo per la Banca Romana, con i torbidi crescenti della Sicilia, il Crispi era andato al Governo e la fiducia era rinata negli animi.
Sul finire dell’anno morì Sbarbaro, che aveva avuto un momento di grande celebrità, e morì poverissimo e compianto perché aveva sempre sbraitato contro la corruzione.
Due ambasciatori lasciavano Roma prima che il 1893 sparisse: il signor Macedo, al quale il Governo portoghese dette per successore il conte Carvalho y Vasconcellos, e il conte di Solms, il bel soldato prussiano, che fu sostituito dal signor de Bülow, quasi italiano per il suo matrimonio con la principessa di Camporeale, figlia di donna Laura Minghetti.
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