Santippe/X

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X - Santippe nella prigione di Socrate

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X - Santippe nella prigione di Socrate
IX XI

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X.

Santippe nella prigione di Socrate.

Vi sono nella vita certe cose meravigliose ed indomite che la ragione di un galantuomo non riesce a capire.

Io, per esempio, non capisco perchè Socrate non volle fuggire dal carcere quando quel giorno, che non era nè notte nè l’alba, venne l’amico Critone e gli disse: — Socrate, fuggi!

E glielo disse con quella sollecitudine e con quell’affanno con cui noi avvertiamo una persona molto cara di campare da un grave pericolo e la solleci[p. 203 modifica]tiamo, perchè essa non vede, non cura, non è sollecita.

E Critone trovò Socrate non stoicamente «impassibile», nel suo carcere, come spesso si legge di alcuni grandi eroi che erano condannati a morte; ma lo trovò, come sempre, buono ed affabile. Era forse un po’ disturbato, in quanto che Critone lo aveva allontanato dal sonno, e pareva quasi voler rimproverare il suo giovane discepolo con quelle parole: — Come, Critone, a quest’ora? È già spuntato il sole? — e pareva volesse dire: — Perchè mi hai tu chiamato alla vita?

— Perchè tu devi fuggire, — dice Critone, — devi salvarti: tutto è pronto per la fuga, le guardie del carcere sono state comperate da noi.

E Socrate disse che non voleva fuggire, e Critone vide la faccia di Socrate [p. 204 modifica]distendersi nel suo umile sorriso come se dentro un lume di letizia si fosse improvvisamente acceso.

Critone cominciò a lagrimare. E Socrate cominciò a spiegargli le belle ragioni perchè non voleva fuggire.

Ed è proprio vero quello che noi sappiamo, cioè che Socrate non volle fuggire per non far del male alla sua adorata, unica patria disubbidendo alle sue leggi?

Sì, questo può darsi. Allora non usavano le nostre grandi patrie; ma usavano piccole patrie, le quali si abbracciavano con un’occhiata, e si abbracciavano anche col cuore più facilmente che non le nostre troppo grandi patrie. Ma può anche darsi che Socrate udisse al di là della voce di Critone che supplicava: «Socrate, fuggi!», la voce dell’umanità che diceva: «Socrate, non fug[p. 205 modifica]gire; Socrate, per carità, fatti ammazzare!». Perchè è un fatto che l’umanità ha bisogno, ha bisogno, ogni tanto, come l’Orco della favola, di divorare qualche uomo giusto.

E potrebbe darsi inoltre che Socrate avesse sentito in quell’ora tutta la verità di quelle parole inebbrianti che egli già aveva dette ad Assioco: «Da quest’ora in avanti la mia anima desidera la morte».

E potrebbe anche darsi che Socrate provasse in quell’ora quel furente entusiasmo, quella follia che Dante colloca nell’animo di un altro eroe tutt’altro che ingenuo, quando lo sospinge, vecchio, ad affrontare l’immenso mare, ignoto, delle tenebre: «Suvvia, Socrate, facciamo l’esperimento della morte! Scagliamo la nostra vita, con ancora tutte [p. 206 modifica]le fiaccole dei sensi vive ed accese, contro la morte!».

Ma che ne sappiamo noi?

Noi sappiamo che egli non volle fuggire e che la mattina in cui, a giorno già fatto, gli amici suoi, Fedone, Critone, Apollodoro, Cebete e altri entrarono nel carcere, per l’ultima volta, vi trovarono già Santippe.

Povera e calunniata signora!

Quante volte abbiamo letto nei libri, nei giornali, che mentre il marito sta per morire, la moglie consulta la sarta sull’abito da lutto!

Ma Santippe, no: ella era nel carcere di suo marito perchè aveva saputo che in quel giorno Socrate doveva morire.

Ella non disse: «Oh, finalmente se ne va quel buon uomo».

Ella seguiva il marito. [p. 207 modifica]

*

Però la sentenza non potè subito essere coronata dalla esecuzione; passò più di un mese tra la sentenza e l’esecuzione. Ciò avvenne perchè non sarebbe stato legale uccidere Socrate in quel frattempo! Quello era un sacro tempo. Ogni anno una nave salpava dal porto di Atene per portare doni ex voto solemni pro accepta gratia, al dio Apollo che abitava l’isoletta di Delo. Ora per tutto quel tempo era per legge vietato di ammazzare. Dopo, sì, si poteva ammazzare! Ma a cagione del mare cattivo e dei sacri banchetti, la sacra nave tardava ad arrivare. Ora finalmente era arrivata ed era permesso ammazzare.

Ad Anito e Meleto, all’aristocrazia [p. 208 modifica]ed alla democrazia, stava a cuore la più scrupolosa legalità.

Gli ufficiali di giustizia, che erano Undici, si erano affrettati di buon mattino a slegare Socrate, che per tutto quel mese era stato incatenato come una malvagia bestia, e il servo dei magistrati — noi diremmo, il boia — pestava tranquillamente la cicuta nel suo mortaio.

Era press’a poco l’ora lugubre in cui l’esecutore delle grandi opere — come i Francesi, eleganti sempre, chiamano il carnefice — sorveglia al lume delle fiaccole se la ghigliottina è montata a dovere; e si veste l’abito nero: l’ora lugubre in cui gli elettricisti in America provano la bontà della corrente nella sedia elettrica: in cui in altri paesi il boia impiccatore sporge per l’apertura della [p. 209 modifica]carcere la sua pupilla per vedere sul condannato di quale lunghezza deve essere la corda della forca. Ai tempi di Socrate non esistevano questi lugubri progressi tecnici e la morte legale era somministrata in una maniera più intima e meno spettacolosa.

Si dava la cicuta.

La cicuta è una pianticella che cresce nei luoghi umidi. Essa è molto simile all’utile prezzemolo e produce una morte — dicono — quasi tranquilla, come quella che spesso avviene naturalmente, quando questo povero nostro cuore improvvisamente si ferma per non riprendere più. Certo non così estetica e tranquilla come la descrive Platone, ma insomma una cosa discreta!

Dunque gli amici entrarono e trovarono Santippe nella prigione. [p. 210 modifica]

Ella ora venuta di buon’ora insieme con i magistrati, detti gli Undici. Si era levata presto quella mattina perchè aveva saputo anche lei che la sacra nave era giunta. Il più piccino dei figliuoli si era svegliato di soprassalto sentendo che la mamma si levava che era quasi notte, e: — No via, no via anche tu, come il babbo! — aveva detto e poi si era messo a piangere; e allora Santippe lo aveva infagottato alla meglio per non farlo piangere di più e non svegliare gli altri due fratelli che, per fortuna, dormivano.

E per le vie ancor buie di Atene, era corsa alle carceri e aveva veduto entrare i signori Undici. Allora s’era messa a galoppare col suo figliuolo in braccio: li aveva raggiunti e: — Oh, Madonna, oh, Signore, è vero — chiedeva all’uno e [p. 211 modifica]all’altro degli Undici — è vero che oggi mio marito deve morire?

— È arrivata infine la sacra nave da Delo, — risposero gravemente gli uomini della legge.

— Andate là, vedete di aspettare, lasciatemi andare da Anito, — chi sa che non gli possa parlare, che non abbia pietà di noi meschinelli.

— La mia buona donna, — disse uno degli Undici — intanto a quest’ora Sua Celsitudine Anito dorme, e poi dite un po’, dove andrebbe a finire il mondo se si potesse così leggermente fermare la spada punitrice della Giustizia?

— Ma infine, — urlò Santippe, — cos’ha fatto questo pover’uomo? Ha rubato? Ha ammazzato? No! Diceva delle cose senza capo nè coda perchè aveva come una fissazione! Eh, se si dovessero [p. 212 modifica]ammazzare gli uomini per le sciocchezze che dicono, allora non ci resterebbe neppur più la cria della vostra brutta razza prepotente.

— Delle «sciocchezze»? — disse il più grave degli Undici, spalancando la bocca ammirativa dentro la sua venerabile barba, mentre gli altri degli Undici già salivano le scale della prigione. — Delle sciocchezze? Ha fatto grande scandalo!

— Ma che scandalo?...

— Ha disprezzato la legge della città! Ma sapete voi cos’è la legge? La legge è quella cosa...

— Che la fa chi può, o la mangia chi deve, — disse Santippe.

— Vi compatisco che non sapete quel che vi dite. E l’avere offeso Giove Olimpio che è il padre degli dei e degli uomini, vi par poco? [p. 213 modifica]

— Eh, che non ci credete più neppur voi a Giove Olimpio, buffoni!

E a quell’invettiva il bambinello che aveva, coi grandi occhi attoniti, sull’alto della spalla di Santippe, assistito a quella scena al lume delle lanterne che ingiallivano già per l’alba nascente, scoppiò in pianto dirotto.

— Sta buono, cocco di mamma tua, sta buono; ora andiamo dal babbo. Vuoi vedere il babbo? Sì? Ora lo andiamo a vedere. Ma non piangere.

E salì dietro gli Undici, i quali erano molto seriamente occupati a levare le catene a Socrate.

Ora appena fu entrata: — Socrate, Socrate, Socrate, — esclamò Santippe — ma dunque è vero? Ma perchè ti sei difeso così male? Anche Pericle si è messo a piangere davanti ai giurati, e tu [p. 214 modifica]perchè non l’hai fatto? Perchè non hai gridato «è Anito che mi odia»? E adesso come si fa? E per gli affari chi ci pensa? E come si rimedia a quel l’ipoteca che ci mangia tutta la casa? Ah, vedi, che guadagno ci hai fatto con quella tua idea fissa del kaloì kagathoì!

Intanto gli Undici avevano tolto la catena e se ne erano andati, lasciando Santippe, giacchè le antiche leggi ateniesi non erano così formaliste come le nostre, in quanto che non era stata ancora ben perfezionata la burocrazia.

E quando fu sola con lui, gli si assise vicino sul letticciuolo, col bimbo, che tirava al babbo la barba con le sue dolci manine, e proseguì: — Ma se ieri l’altro, prima che arrivasse quella maledetta nave, Critone aveva combinato tutto, aveva pagato i carcerieri, era venuto [p. 215 modifica]a casa a dirmi di tenerci pronti! Io avevo messo da parte quei quattro stracci per poter scappare tutti insieme.... Io pensava: To’, non tutto il male vien per nuocere. Andremo a vivere a Megara, a Tebe; là, lontano dalle occasioni, senza più tutti quei suoi cattivi compagni che lo fanno parlare, chi sa che lui non badi di più alla sua famiglia. Così io pensava e chi sa anche che non gli entri in testa che il primo dovere di un uomo serio è quello di badare a sè ed alla sua famiglia.... Ma cosa ti saltò in mente, povero infelice, di rifiutare? Ma almeno parla, rispondi, ma di’! Se non lo vuoi fare per me, chè non mi vuoi bene, lo so!, fallo per questa creaturina qui, che è tuo sangue.... Non vedi come è pallidino, smorto? Ha un’anima anche lui, sai! Alza la testa. [p. 216 modifica]

E fu in quel punto, che già il giorno era ben chiaro, che entrarono gli amici di Socrate; o allora Santippe, come una lampada su cui è versato dell’olio, scoppiò in un gran pianto, e la realtà imminente della morte le si affacciò nel suo orrore.

— O Socrate, Socrate, — gridava fra i singhiozzi, — ecco l’ultima volta che io e i tuoi amici parleremo con te e tu con noi!

E allora Socrate infine parlò. Si rivolse specialmente a Critone e gli disse: — Suvvia, amici, conducete via quella donna e rimenatela a casa.

E allora avvenne una dolorosa scena perchè Santippe non voleva andar via, e ingiuriava e piangeva, lei e il bimbo.

Ma finalmente fu trascinata a forza e spinta fuori e poi fu chiusa la porta. [p. 217 modifica]

E stavano gli amici in mortale silenzio, quando Socrate, che era seduto come dicemmo — sul lettuccio, soffregandosi la gamba che era stata per quasi un mese stretta nel morso della bestiale catena, sorridendo disse: — Ecco qui, — e indicava il lividore delle carni piagate dalla catena, — io provo un grande piacere, mentre prima provavo un grande dolore. Sapete che è una gran cosa, una meravigliosa cosa quella del dolore e del piacere? Che cosa sono essi? Ci stavo appunto pensando quando entrò colei, anzi mi era venuto in mente di comporre una favola come quelle di Esopo, nella quale volevo dire quello che me ne pareva, cioè che il Piacere ed il Dolore sono così strettamente congiunti insieme, che quando l’uomo vuole prendere l’uno è costretto a pren[p. 218 modifica]dore anche l’altro. Vi pare? E perciò imaginavo che Esopo componesse così la favola, che il Dio volendo far fare pace a questi due nemici inconciliabili, il Piacere ed il Dolore, e non potendo, li legò insieme. Ed è quello che è avvenuto a me. Nella gamba, prima, per effetto della catena vi era il dolore, adesso, tolta la catena, vi è il piacere. Bella la favola, è vero? Più bella del ragionamento. Ora ci vorrebbero i versi. Ma chi ne ha tempo?

Ora urgeva il tempo della morte.

Mentre così parlava, Santippe col figlioletto si era rincantucciata, disperata e piangente, in fondo a un corridoio della prigione. [p. 219 modifica]

*

Che peccato che Sofocle, il vecchio immortale, che fu trascinato anche lui dai figli davanti ai giudici perchè pe’ suoi sogni negligeva gli affari di casa, che peccato — dico — che egli fosse morto da qualche anno! Se fosse stato in vita allora, avrebbe scritto su la povera Santippe una nuova tragedia, più potente assai delle molte che scrisse su gli eroi e sugli Dei.