Satire (Ariosto 1809)/Satira I

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Satira I

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Satire (Ariosto 1809) Satira II
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A

M. ALESSANDRO

ARIOSTO

ED A

M. LODOVICO

DA BAGNO


SATIRA PRIMA

Dimostra di qual condizione debbano esser coloro che procacciano di fare acquisti nelle corti; e come la sua lunga servitù, ed il suo divino Poema fosser male rimunerati dal suo Signore.

Io desidero intendere da voi,
     Alessandro fratel, compar mio Bagno,
     Se la corte ha memoria più di noi;
Se più il Signor mi accusa, se compagno
     Per me si lieva, e dice la cagione,
     Perchè, partendo gli altri, io qui rimagno.
O tutti dotti ne la adulazione,
     (L’arte, che più tra noi si studia e cole,)
     L’aiutate a biasmarmi oltre a ragione.

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Pazzo chi al suo Signor contradir vole;
     Se ben dicesse, c’ha veduto il giorno
     Pieno di stelle, e a mezza notte il Sole.
O ch’egli lodi, o voglia altrui far scorno;
     Di varie voci subito un concento
     S’ode accordar di quanti n’ha d’intorno.
E chi non ha per umiltà ardimento
     La bocca aprir, con tutto il viso applaude,
     E par, che voglia dire, anch’io consento.
Ma, se in altro biasmarmi, almen dar laude
     Dovete, che volendo io rimanere,
     Lo dissi a viso aperto, e non con fraude:
Dissi molte ragioni, e tutte vere;
     Delle quali per sè sola ciascuna
     Esser mi dovea degna di tenere.
Prima la vita, a cui poche o nessuna
     Cosa ho da preferir: che far più breve
     Non voglio, che ’l Ciel voglia, o la fortuna.
Ogni alterazíone, ancor che leve,
     C’havessi il mal, ch’io sento, o ne morrei,
     O il Valentino, e il Postumo errar deve.
Oltre, che ’l dicano essi, io meglio i miei
     Casi d’ogni altro intendo; e quai compensi
     Mi siano utili so, so quai sien rei.
So mia natura, come mal conviensi
     Co i freddi verni, e costì sotto il polo
     Gli avete voi, più che in Italia, intensi:

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E non mi nocerebbe il freddo solo,
     Ma il caldo de le stufe, c’ho sì infesto,
     Che più, che da la peste, me gl’involo.
Nè il verno altrove s’abita, in cotesto
     Paese vi si mangia, giuoca, e bee,
     E vi si dorme, e vi si fa anco il resto.
Chi quindi vien, come sorbir si dee
     L’aria, che tien sempre in travaglio il fiato,
     De le montagne prossime Rifee?
Dal vapor, che dal stomaco elevato
     Fa catarro a la testa, e cala al petto,
     Mi rimarrei una notte soffocato:
È il vin fumoso a me via più interdetto,
     Che ’l tosco; costì a inviti si tracanna,
     E sacrilegio è non ber molto e schietto.
I cibi tutti son con pepe e canna
     Di Amomo, e d’altri aromati, che tutti,
     Come nocivi, il medico mi danna.
Qui mi potresti dir, ch’io avrei ridutti,
     Ove sotto il cammin sedería al foco,
     Nè piè, nè ascelle odorerei, nè rutti;
E le vivande condiriami il cuoco,
     Come io volessi, ed inacquarmi il vino
     Potre’ a mia posta, e nulla berne, o poco.
Dunque voi altri insieme, io dal mattino
     A la sera starei solo a la cella,
     Solo a la mensa, come un Certosino?

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Bisognerieno pentole, e vasella
     Da cucina, e da camera, e dotarme
     Di masserizie, qual sposa novella.
Se separatamente cucinarme
     Vorrà mastro Pasquino una o due volte,
     Quattro, e sei mi farà il viso de l’arme.
S’io vorrò de le cose, ch’avrà tolte
     Francesco di Sivier per la famiglia,
     Potrò mattina e sera averne molte.
S’io dirò: spenditor, questo mi piglia,
     Che l’umido crudel poco nudrisce;
     Questo no, ch’ l catar troppo assottiglia:
Per una volta, o due, che mi obbedisce,
     Quattro, e sei se lo scorda, e perchè teme,
     Che non gli sia accettato, non ardisce.
Io mi riduco al pane; e quindi freme
     La collera; cagion, che a li due motti
     Gli amici, ed io, siamo a contesa insieme:
Mi potreste anco dir: degli tuoi scotti
     Fa, che ’l tuo fante comprator ti sia;
     Mangia i tuoi polli a li tuo’ alari cotti.
Io per la mala servitute mia
     Non ho dal Cardinale ancora tanto,
     Ch’io possa fare in corte l’osterìa.
Apollo, tua mercè, tua mercè, santo
     Collegio de le Muse, io non mi trovo
     Tanto per voi, ch’io possa farmi un manto;

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E se ’l Signor m’ha dato, onde far nuovo
     Ogn’anno mi potrei più d’un mantello;
     Che m’abbia per voi dato, non approvo.
Egli l’ha detto; io dirlo a questo, a quello
     Voglio, ed i versi miei posso a mia posta
     Mandare al Culiseo per lo suggello.
Opra, ch’in esaltarlo abbia composta,
     Non vuol, ch’ad acquistar mercè sia buona:
     Di mercè degno è l’ir correndo in posta.
A chi nel Barco, e in villa il segue, dona,
     A chi lo veste, e spoglia, o pone i fiaschi
     Nel pozzo per la sera in fresco a nona.
Vegghi la notte in fin, che i Bergamaschi
     Si levino a far chiodi, sì che spesso
     Col torchio in mano addormentato caschi.
S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo,
     Dice, ch’io l’ho fatto a piacere, e in ozio;
     Più grato fora essergli stato appresso.
E se in cancellerìa m’ha fatto sozio
     A Melan del Costabil, sì c’ho il terzo
     Di quel, ch’al notajo vien d’ogni negozio;
Gliè, perchè alcuna volta io sprono, e sferzo
     Mutando bestie, e guide, e corro in fretta
     Per monti, e balze, e con la morte scherzo.
Fa a mio senno, Maron, tuoi versi getta
     Con la lira in un cesso, e un’arte impara,
     Se beneficio vuoi, che sia più accetta.

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Ma tosto che n’hai, pensa che la cara
     Tua libertà non meno abbi perduta,
     Che se giocata te l’avessi a zara;
E che mai più, (se ben a la canuta
     Età vivi, e viva egli di Nestorre )
     Questa condizion non ti si muta.
E se disegni mai tal nodo sciorre;
     Buon patto avrai, se con amore e pace
     Quel, che t’ha dato, si vorrà ritorre.
A me per esser stato contumace
     Di non voler Agria veder, nè Buda,
     Che si ritoglia il suo già non mi spiace;
Se ben le miglior penne, ch’a la muda
     Avea rimesse, mi tarpasse; come
     Che da l’amor, e grazia sua mi escluda:
Che senza fede, e senza amor mi nome,
     E che dimostri con parole, e cenni,
     Che ’n odio, e che in dispetto abbia ’l mio nome.
E questo fu cagion, ch’io mi ritenni
     Di non gli comparir innanzi mai
     Dal dì, che indarno ad escusar mi venni.
Ruggier, se a la progenie tua mi fai
     Sì poco grato, e nulla mi prevaglio,
     Che gli alti gesti, e ’l tuo valor cantai;
Che debbo fare io qui? poi ch’io non vaglio
     Smembrar su la forcina in aria starne,
     Nè so a sparvier, nè a can metter guinzaglio?

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Non feci mai tai cose, e non so farne,
     Agli usatti, o agli spron, per ch’io son grande,
     Non mi posso adattar per porne, o trarne.
Io non ho molto gusto di vivande,
     Che scalco sia: fui degno esser al mondo,
     Quando viveano gli uomini di ghiande.
Non vo’ il conto di man torre a Gismondo:
     Andar più a Roma in posta non accade
     A placar la grand’ira di Secondo.
E, quando accadesse anco in questa etade,
     Col mal, ch’ebbe principio allora forse,
     Non si convien più correr per le strade.
Se far cotai servigi, e raro terse
     Di sua presenza de’, chi d’oro ha sete,
     E stargli, come Artofilace a l’Orse:
Più tosto che arricchir, voglio quìete;
     Più tosto, che occuparmi in altra cura
     Sì, che inondar lasci il mio studio a Lete;
Il qual, se al corpo non può dar pastura,
     Lo dà a la mente con sì nobil esca,
     Che merta di non star senza cultura.
Fa, che la povertà meno m’incresca,
     E fa, che la ricchezza sì non ami,
     Che di mia libertà per suo amor esca.
Quel, ch’io non spero aver, fa ch’io non brami:
     Che nè sdegno, nè invidia mi consumi,
     Perchè Marone, o Celio il Signor chiami.

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Ch’io non aspetto a mezza estate i lumi
     Per esser col Signor veduto a cena,
     Ch’io non lascio accecarmi in questi fumi;
Io men vo solo, e, a piedi, ove mi mena
     Il mio bisogno; e quando io vo a cavallo,
     Le bisacce gli attacco su la schiena:
E credo, che sia questo minor fallo,
     Che di farmi pagar, s’io raccomando
     Al Prencipe la causa d’un vassallo.
O mover liti in beneficj, quando
     Ragion non v’abbia; e facciami i piovani
     Ad offerir pension venir pregando.
Anco fa che al Ciel levo ambe le mani,
     Ch’abito in casa mia comodamente,
     Voglia tra cittadini, o tra villani;
E che ne i ben paterni il rimanente
     Del viver mio senza imparar nuov’arte
     Posso, e senza rossor far di mia gente:
Ma perchè cinque soldi da pagarte,
     Tu che noti, non ho; rimetter voglio
     La mia favola al loco onde si parte.
Aver cagion di non venir mi doglio,
     Detto ho la prima, e s’io vo’ l’altre dire,
     Nè questo basterà, nè un altro foglio.
Pur ne dirò anco un’altra, che patire
     Non debbo, che, levato ogni sostegno,
     Casa nostra in ruina abbia a venire.

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Di cinque, che noi siam, Carlo è nel regno,
     Onde cacciaro i Turchi il mio Cleandro;
     E di starvi alcun tempo fa disegno.
Galasso vuol ne la città di Evandro
     Por la camicia sopra la guarnaccia:
     E tu sei col Signore ito, Alessandro.
Ecci Gabriel, ma che vuoi tu, ch’ei faccia?
     Che da fanciul restò per mala sorte
     De li piedi impedito e de le braccia.
Egli non fu nè in piazza mai, nè in corte;
     Ed a chi vuol ben reggere una casa,
     Questo si può comprendere, che importe.
A la quinta sorella, che è rimasa,
     È di bisogno apparecchiar la dote,
     Che le siam debitori, or che si accasa.
L’età di nostra madre mi percuote
     Di pietà il cor, che da tutti in un tratto
     Senza infamia lasciata esser non puote.
Io son di dieci il primo, e vecchio fatto
     Di quaranta quattr’anni, e il capo calvo
     Da un tempo in qua sotto la cuffia appiatto.
La vita, che mi avanza, me la salvo
     Meglio, ch’io so: ma tu, che diciott’anni
     Dopo me t’indugiasti a uscir de l’alvo,
Gli Ungari a veder torna, e gli Alemanni;
     Per freddo e caldo segui il Signor nostro;
     Servi per amendue, rifà i miei danni.

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Il qual se vuol di calamo, e d’inchiostro
     Di me servirsi, e non mi tor da bomba,
     Digli: Signore, il mio fratello è vostro.
Io stando qui farò con chiara tromba
     Il suo nome sonar forse tant’alto,
     Che tanto mai non si levò colomba.
A Filo, a Cento, in Ariano, e a Calto
     Arriverei, ma non sino al Danubio,
     Ch’io non ho piè gagliardi a sì gran salto.
Ma se a volger di nuovo avessi al subio
     I quindici anni, che in servirlo ho spesi,
     Passar la Tana ancor non stare’ in dubio.
Se avermi dato, onde ogni quattro mesi
     Ho venticinque scudi, nè sì fermi,
     Che molte volte non mi sian contesi,
Mi debbe incatenar, schiavo tenermi,
     Obligarmi ch’io sudi, e tremi senza
     Rispetto alcun, ch’io muoia, o ch’io m’infermi;
Non gli lasciate aver questa credenza:
     Ditegli, che più tosto, ch’esser servo,
     Torrò la povertade in pazienza.
Un asino fu già, ch’ogni osso e nervo
     Mostrava di magrezza, e entrò pel rotto
     Del muro, ove di grano era uno acervo.
E tanto ne mangiò, che l’epa sotto
     Si fece più d’una gran botte grossa,
     Fin che fu sazio, e non però di botto.

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Temendo poi, che gli sien peste l’ossa,
     Si sforza di tornar, dond’entrato era;
     Ma par, che ’l buco più capir nol possa.
Mentre s’affanna, e uscir indarno spera,
     Gli disse un topolino: se vuoi quinci
     Uscir, tratti, compar, quella panciera.
A vomitar bisogna, che cominci
     Ciò c’hai nel corpo, e che ritorni macro,
     Altrimenti quel buco mai non vinci.
Or concludendo dico, che se ’l sacro
     Cardinal comperato avermi stima
     Con li suoi doni, non mi è acerbo ed acro
Renderli, e tor la libertà mia prima.