Satire (Alfieri, 1903)/Satira settima. L'antireligioneria

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Satira settima. – L'antireligioneria

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Vittorio Alfieri - Satire (1777-1798)
Satira settima. – L'antireligioneria
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SATIRA SETTIMA.

L’ANTIRELIGIONERIA.

        ... τὸν ἄνθρωπον ἄγχειν βούλομαι,
Ὅς τις ποτ’ ἔσθ’ ὁ τοὺς θεοὺς ἀποτειχίσας.

Aristofane, Uccelli, v. 1575.

Vo’ soffocar, qual ch’ei pur sia, Costui
Che con un muro appartò l’Uom dai Numi.


Con te, Gallo Voltèro, e’ Voltereschi
Figli od aborti ciancerelli tanti,
Convien che a lungo in queste rime io treschi.
Che l’una Setta all’altra arrechi pianti,
E (qual «d’asse si trae chiodo con chiodo»)
Donde un error si svelle, altro sen pianti;
Il Mondo è vecchio, e tal fu ognor suo modo:
Ma, senza edificar, distrugger pria,
Questo prova il cervel Gallico sodo.
Chiesa e Papa schernir, Cristo e Maria,
È picciol’arte: ma inventarli nuovi,
E tali ch’abbian vita, altr’arte fia.
Qui dunque intenso argomentar mi giovi,
Sì ch’io dimostri te, Profeta quarto,
Vie più stupido assai degli Anti-Giovi.
Le antiche Sette a noi men note io scarto;
E alle tre vive (abbrevïando il tema)
Quest’Uccisor di tutte Sette inquarto. —
Mosè, cui vetustà pregio non scema,
Fea di cose politiche e divine
Tal fascio, che in qual vinca è ancor problema.
Dava al servaggio del suo popol fine,
E in un principio all’alto esser novello
Che a scherno prese i secoli a decine.
Feroce impulso, e in ver da Dio, fu quello
Che, propagato in tante menti e etadi,
Sta contro al tempo, a novità rubello.
Son gli apostati e increduli assai radi
Infra’ Giudei, benchè Mosè fallito
Al tristo loro stato omai non badi.

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Tutto al sacro adorato antiquo rito
Pospongon essi, immoti scogli in onda;
E sua credenza anco il più vil fa ardito.
Fievol pianta non dà robusta fronda:
Dotta radice indomita dunqu’era,
Che impressïon solcò tanto profonda. —
Or di Cristo vediam se la severa
Dottrina a lato all’indottrina tua
Debba, o Voltéro, dirsi una chimera.
In poppa ha il vento, e spinta pur la prua
Non ha della tua frale nave al lido
Colui che più ne’ dogmi tuoi s’intua.
Ci vuol altro, a cacciar Cristo di nido,
Che dir ch’ell’è una favola: fa d’uopo
Favola ordir di non minore grido.
Sani precetti, ed a sublime scopo
Dà norma la Evangelica morale;
Nè meglio mai fu detto anzi nè dopo.
Stanco il mondo di un culto irrazionale,
E stomacato da schifosi altari
Su cui sempre scorrea sangue animale,
Di un sol Dio, maestoso e appien dispari
Da’ suoi fin là mal inventati Dei,
I non fetidi templi ebbe più cari.
Certo, in un Dio fatt’uom creder vorrei
A salvar l’uman genere, piuttosto
Che in Giove fatto un tauro a furti rei.
E un sacrificio mistico e composto
Più assai devota riverenza infonde,
Che un macellame e in su l’altar l’arrosto.
E un Sacerdote, che di sangue immonde
Le scannatrici mani al ciel non erge,
Un Iddio più divino in sè nasconde.
Cristo adunque, e, tra’ suoi quegli ch’emerge
Su gli altri tutti, il Divo Saulo, in opra
Ben poser l’acqua ch’ogni macchia asterge.
Gran mente, gran virtù, gran forza adopra
Chi, sradicando inveterato Nume,
Vi pianta il nuovo e se medesmo sopra.
Che se mai Cristo e Saulo al paganume
Stolidamente mossa avesser guerra
Senza vestirsi d’inspirato lume,
Avrian qualch’Idol forse spinto a terra;
Ma l’Idolatra fatto avrian più tristo,
Qual uom ch’a Dio nessun ne’ guai si atterra.

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D’infamia quindi il meritato acquisto
Ai recisori vien d’ogni pia Fede,
Che il Sarà nell’È stato non han visto.
Piace all’uom pingue e stufo e d’ozio erede
Barzellettar sovra le sacre cose,
Ch’egli in prospero stato in lor non crede:
Ma il tempo con suo dente invido ha rose,
Quai ch’elle sien, le basi d’ogni stato:
Quindi è credente allor chi Dio pospose;
E maledice l’Ateo malnato,
Che tor voleagli tanto, e nulla in vece
Dargli, fuorchè il morir da disperato;
E benedice chi i prodigi fece;
E, risperando un avvenire eterno,
Suoi danni alleggia con fervente prece.
Tal è l’uom: tal fu sempre: unico perno
È in lui la speme ed il timor perenne:
E tu vuoi torgli e Paradiso e Inferno?
In prova or dunque, che a giovarci venne
Cristo, più che Voltèro, util Profeta,
Udite il gregge che ognun d’essi ottenne.
Nell’agòn di virtù sublime atleta
Il Cristian primo intrepido e feroce
Cantando affronta la sudante meta:
Contro agl’Idoli altera erge la voce;
Ma, d’ogni invidia e cupidigia esente,
Lauda Iddio, tutto soffre, a nullo ei nuoce.
Non così, no, l’ignaro miscredente,
Figlio di stolta al par che infame Setta,
Ch’oltre il culto le leggi anco vuol spente.
«Non v’è Dìo? non v’è Inferno? a che diam retta
«Omai di leggi ai diseguali patti,
«Onde i poveri in fondo e il ricco in vetta?»
Son Filosofi ai detti e ladri ai fatti:
Quindi or dal remo i mascalzon disciolti
Dottori e in un Carnefici son fatti.
Sotto al vessillo del Niun-Dio raccolti,
Rubano, ammazzan, ardono; e ciò tutto
In nome e a gloria degli Errori Tolti.
Ecco, o Voltèr Micròscopo, il bel frutto
Che dal tuo predicar n’uscìa finora;
Ai Ribaldi trionfo, ai Buoni lutto.
E tu, tu stesso, ove vivessi ancora,
Tu il proveresti, or impiccato forse
Da chi di te sepolto il nome adora.

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Tremante or tu, qual vil coniglio, in forse
Staresti; poichè in auro i lunghi inchiostri
Cangiavi, onde Ferney dal nulla sorse.
Non che Dio ’l Padre e il Cristo, i Santi nostri
Quanti in Leggenda stanno invocheresti,
Caduto in man de’ tuoi Filosomostri;
Che casa e campi e libri e argenti e vesti
E poscia il cuojo ti trarrebber lieti,
Al Filosofo ricco i nudi infesti.
Meglio era dunque tu soffrissi i Preti,
Che l’uom spogliavan sol nei testamenti,
E ciò con blande spemi in atti queti;
Che il procrear Cannibali uccidenti,
Fattisi eredi a forza d’ogni uom vivo,
E quanto ladri più vieppiù pezzenti.
Dirmi t’odo: «E in qual libro io mai ciò scrivo?
«Umanità sempr’io respiro e inspiro
«E tolleranza e pace, in stil festivo».
Qui tu mi cadi or per l’appunto a tiro,
Il festivo tuo stil mettendo innanzi;
In cui tuo ingegno e stupidezza ammiro.
Molti scrittor nel destar riso avanzi;
Quindi adatta al disfar ben è tua penna:
Ma invan destar pensieri ti speranzi.
Pe’ frizzi tuoi Religïon tentenna;
Ma i frizzi tuoi non dan base a virtude:
L’ancora morde i lidi, e non l’antenna.
Buffoneggiando hai fatte e farai crude
L’empie turbe; che han teco Iddio deriso,
Poi la virtù fatta in tua fiacca incude.
Dal conoscer tu gli uomini diviso
Più che da Cristo, di stampar pensasti
A migliaja i Filosofi col riso:
E a migliaja i furfanti ci stampasti,
Senza pure avvedertene, ch’è il peggio;
Il che a provar tua stupidezza basti.
Non ci credevi? E tientilo. Ma veggio
Che ti struggevi pur di farmen parte,
E insegnarmi il perchè miscreder deggio.
Col tuo lepido stile in lievi carte
Tu il volgo adeschi; e in ciò volgo ti fai,
Prostituendo la viril nostr’arte.
In bambinate il tempo lograto hai,
Se pei dotti scrivevi; e agl’idïoti
Niun saper davi, ma arroganza assai.

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Vili sicarj, e stupidi despòti
D’ogni pensier religïoso altrui
Ci dier tuoi scritti anco in mercato noti:
Onde poi, giunta occasïone in cui
Codesti Galli tuoi, schiavi in essenza,
Libertade insegnar vollero a nui;
Niuna seppero usare altra scïenza
Che assassinj codardi e mani ladre
E d’Iddio derisoria irriverenza.
Ahi, Volterin, di quanti rei fu padre
Il Testamento tuo, che fu il Digesto
Donde hanno il Santo or le servili squadre!
Nè dir potrai che a libertà pretesto
Cercassi tu (qual buon Scrittore il de’),
Combattendo ogni errore or quello or questo:
Libertà (Gallo sei) non era in te:
Tua firma stessa io te n’adduco in prova,
Ser Gentiluom di Camera del Re.
Nato in sozzura, o almen di gente nuova,
Fregarti pur vigliaccamente al Trono
Tentavi: e in ciò il deriderti mi giova.
Non sublime, non provido, non buono,
Nè ispirato, nè libero, nè forte,
Di non-durevol Setta all’uom fai dono.
Purché il venduto riso auro ti apporte,
Compiuto hai tu l’Apostolato, e fitta
L’una zampa in taverna e l’altra in Corte. —
Ma, ch’io men rieda per la via più dritta
A pesar te col prode Maometto,
Mel grida questa omai soverchia scritta.
Sacerdote e guerrier di maschio petto,
Contra gl’Idoli ei pur l’arco tendea,
Un sol Dio predicando almo e perfetto.
Poi le opportune favole aggiungea
D’immaginosa fantasia ripiene,
Con cui sprone a virtude i sensi fea.
Col brando è ver che a viva forza ei viene,
Convertitor di chi non crede in esso;
Ma nobil palma in guerra schietta ottiene.
Un generoso fanatismo ha impresso
Nel cuor de’ suoi, non l’assassinio vile
D’ogni età d’ogni grado e d’ogni sesso.
E ancor, mill’anni dopo, il prisco stile
Serbar veggiam da chi tal legge segue,
In Dio credendo rassegnato e umíle.

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Nè v’ha chi in esser giusto il passi o adegue:
Che, ancorchè l’altrui Sette egli odj e sdegni,
Umano pur, nessuna ei ne persegue.
Ma, per quanto anco d’ignoranza pregni
E di barbarie sien Turchi ed Egizj,
Son gemme a petto ai nostri begl’ingegni;
Che traboccanti d’impudenti vizj,
Negan Dio, perchè il temono, accaniti
Contro a chi spera nei celesti auspizj. —
Or, s’io provai che dagli Ebraici riti
E dai Cristiani e dal Coran pur anco
Ne sono assai men rei gli uomini usciti
Che non dal Volteresco rito Franco,
Che ogni Nume schernendo un popol crea
Cui vien pria che i misfatti il ferro manco:
Provato avrò, più assai ch’uopo non fea,
Che Mosè, Cristo, e Maometto, ognuno
Di te, Voltér, più sale e ingegno avea.
E dico Ingegno, poichè in conto niuno
Tu nè di probo nè di santo il nome
Tenevi, appien di pia moral digiuno.
Volar sovr’essi, non ne avendo il come,
Stupido assunto egli era: e tal, che giù
Cadevi, sotto alle stolte tue some.
Tacer dei Culti, un error mai non fu:
Il rifarli, non è da bimbo in culla:
E disfarli, il tentavi indarno Tu,
Disinventor, od Inventor del Nulla.