Satire (Orazio)/Libro I/Satira IX

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Libro I

Satira IX

../Satira VIII ../Satira X IncludiIntestazione 29 maggio 2011 100% Poesia satirica

Quinto Orazio Flacco - Satire (I secolo a.C.)
Traduzione dal latino di Luca Antonio Pagnini (1814)
Libro I

Satira IX
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Per la via sacra, com’è mio costume,
Men giva a caso rivolgendo in mente
Non so quai baje, e tutto in quelle assorto,
Mi sopravviene un tal, che a me sol noto,
5Era di nome, e strettami la mano,
Che fai tu, mi dic’egli, o mia delizia?
Sto ben per ora, gli rispondo, e bramo
Che il Cielo amico ogni tua voglia adempia.
Siccome al fianco e’ mi venia, soggiunsi,
10Vuoi da me qualche cosa? Ed esso: Io voglio
Tu mi conoschi. Un letterato io sono.
Tanto più, dissi, in pregio avrò il tuo merto.
Struggendomi di voglia onde potermi
Scantonar da costui, or affrettava
15Or allentava il passo, e qualche cosa
Nell’orecchio diceva al mio valletto.
Scendendomi il sudor fino a’ talloni
Io meco sottovoce: O te, Bollano,
Felice di cervello, iva dicendo.
20Colui pur cinguettando a suo talento,
Lodando i borghi e la città, nè alcuna
Da me risposta avendo: Io da gran tempo

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Disse, m’accorgo che svignar vorresti.
Ma il tenti invan. Ti terrò saldo, e sempre
25Verrotti a lato. Dov’hai volto il piede?
— Non v’è bisogno che a girar ti stanchi.
Vo un amico a trovar, che non conosci.
Sta lontano di qua fin oltre il fiume,
Di Cesare a’ giardini in vicinanza.
30Ed ei: nulla ho che fare, ho buona gamba,
Vo’seguitarti. Allor le orecchie abbasso,
Come asinel di mal umor, che sente
Da troppa soma gravarsi le spalle.
Poi prende a dir: se mal non mi conosco,
35Tu certo avrai piacer d’avermi amico
Non men di Visco e Vario. E chi di fatto
A compor versi è più di me spedito?
Chi più svelto a danzare? Io canto in guisa
Ch’Ermogene medesmo avriane invidia.
40D’interromperlo allor mi venne il destro:
Hai tu madre e parenti, a’ quai sia cara
La vita tua? — Non ho nessun: Già tutti
Sotterra gli adagiai. — Felici loro!
Io son rimasto al mondo. In me ti sfoga.
45Rio destin mi sovrasta. Una Sabina
Vecchia agitando la fatidic’urna

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Presagillo in tai note a me fanciullo.
Non tossico crudel, non ferro ostile,
Non di fianchi malor, tosse o podagra
50A’ nervi infesta ucciderà costui.
Un cicalon torragli un dì la vita.
Però faccia di star, crescendo gli anni,
Quanto più sa da’ cianciator lontano.
Scorsa del dì la quarta parte al tempio
55Di Vesta si arrivò. Costui citato
Dovea allor comparire al tribunale,
Se no, perder la lite. Un poco, ei dice,
Sta qui se mi vuoi ben. — Vorrei morire
S’io son buono a star ritto, o s’io m’intendo
60O molto o poco di ragion civile.
Vo di fretta ove sai. — Son indeciso,
Dice, e non so, s’io lasci te, o la lite. —
Lascia pur me. — Mai no — Va innanzi, ed io
(Poichè duro è giostrar con chi ha più forza)
65Gli vengo appresso. Allor così ripiglia;
Che fa il tuo Mecenate? — Egli ama in casa
Poca brigata, e di cervello sana.
E quegli a me: nessun ha mai trovato
Sorte miglior di te. Se a quel signore
70Tu mi presenti, in me che subalterno

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Ti sarò sempre, un grande appoggio avrai.
Possa crepar, se tu non vieni a capo
Di sbalzar tutti quanti. — Eh no, risposi,
Non vivesi colà come tu pensi.
75Casa alcuna di quella più specchiata
Non v’è, nè più da tai magagne intatta.
A me non reca pregiudizio alcuno
Che altri o più ricco o sia di me più dotto.
Ciascuno avvi il suo loco. — Una gran cosa
80E credibile a pena tu mi narri.
— E pur egli è così. — Tanto più accendi
In me la brama d’appressarmi a lui.
— Sol che tu voglia (tal è il tuo valore)
Espugnar lo saprai. Non mancan arti.
85Perciò ritroso alquanto è a’ primi abbordi.
— Non lascerò di far le parti mie,
Guadagnerò la servitù co’ doni,
Se oggi escluso ne son, non resterommi
Di rinnovar le inchieste; i buoni incontri
90Esplorerò; l’apposterò per via;
Farogli la mia corte. In questa vita
Nulla s’acquista senza gran fatica.
Mentr’ei fa questi conti, ecco che innante
Veggio il caro venirmi Aristio Fusco,

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95Che di lui piena conoscenza avea.
Ci soffermiamo e dimandiam l’un l’altro:
D’onde, e dove si va? Gli afferro e prendo
A pizzicar le penzolanti braccia,
Facendo cenni e stralunando gli occhi,
100Perchè mi scampi. Egli s’infinge e ride
Furbescamente. Io mi sentia di rabbia
Le viscere abbruciar. Già mi dicesti
Che tu avevi a parlar meco in segreto.
— Me ne ricordo ben; ma lo riserbo
105A miglior tempo. Oggi ricorre appunto
Un Sabbato solenne e vorrai forse
De’ circoncisi profanar la festa?
— Oh su questo i’ non ho scrupolo alcuno.
— Io sì; patisco affè tal debolezza,
110Come un del volgo, e tu la mi perdona.
Ci parleremo un altro dì. — Che nero
Sole spuntò per me! Fugge l’iniquo;
E mi lascia a languir sotto il coltello.
Sennonchè vien per buona sorte incontro
115A quel cotale il suo avversario e grida:
Dove si va furfante? In testimonio
Poss’io pigliarti? I’ porgogli l’orecchia.
Ei se ’l tira in giudizio. Al gran fracasso

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Che fanno, accorre d’ogni parte gente.
120E così Apollo mi salvò la vita.