Scio

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Gabriello Chiabrera

XVII secolo Indice:Opere (Chiabrera).djvu Poemetti Letteratura Scio Intestazione 29 ottobre 2023 75% Da definire

Il rapimento di Proserpina La Disfida di Golia (1834)
Questo testo fa parte della raccolta Poemetti di Gabriello Chiabrera
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XXII

SCIO

ALL’ILLUSTRISSIMO SIGNORE

IL SIG. PIER GIUSEPPE GIUSTINIANI

O bella Euterpe, che di Pindo il regno
     Con aurea cetra rassereni, o Diva,
     Che altrui di chiari spiriti empi l’ingegno
     4Con le belle acque dell’Aonia riva,
     A’ miei stanchi pensier porgi sostegno,
     Sicchè ascosa memoria al mondo io scriva,
     Onde possa colmar nobili cuori
     8Pur di diletto, e me medesmo onori.

Già di Scio nella terra, alma Isoletta
     Fra’ regni Argivi, alla stagion felice
     Una Donna ci naque al ciel diletta,
     12Che detta da ciascun fu Callinice:
     Costei l’etate inferma e pargoletta
     Crebbe con Melibea sua genitrice,
     Che Erasto il genitor dopo non molto
     16Il natale di lei giacque sepolto.

Ella per nobiltate e per tesori
     Splendeva altiera, e s’adeguava a’ regi
     E cresceva ornamento a tanti onori
     20Con eccellenza di costumi egregi;
     Ma della sua beltà gli almi splendori
     Vili facean di tutta l’Asia i pregi,
     Ed ogni donna invidiava, come
     24Di Callinice risonava il nome.

Qual se il carro nel mar Febo rimena,
     Espero i raggi ha di vibrar costume,
     Tal sotto la sua fronte alma e serena
     28Degli occhi ardenti sfavillava il lume;
     E qual tenera rosa in piaggia amena
     Tra fresche aurette al mormorar del fiume,
     Su cui vampa di Sol mai non percote,
     32Tal di vivo rossor splendean le gote.

Appo il collo gentil sembrava oscura
     Neve caduta su per gioghi alpini,
     Ne l’ambra in paragon giva secura
     36Con lo splendor degl’increspati crini:
     Ambe le labbra, a cui fidò natura
     I sorrisi d’Amor, parean rubini,
     Ed ivi perle si scoprian talora,
     40Che sul Gange non vide unqua l’Aurora.

Queste bellezze ad infiammar la gente
     Ornar soleva; ed or cerulea veste
     Spargeasi intorno; e si chiudea sovente
     44In ricche gonne, e tutte d’or conteste:
     Spesso di più color manto lucente
     Apparir la faceva Iri celeste,
     Quando sue pompe dispiegando intorno
     48Chiaro promette, e più sereno il giorno.

Ma lucido oro i suoi desir non prese,
     Ne ciò che d’ostro la Fenicia aduna,
     Anzi avea di vestir le voglie accese
     52Sempre di seta tenebrosa e bruna;
     E seco a mezza notte, in mezzo il mese
     Allora scorno sofferia la Luna:
     Sì fattamente dalle spoglie negre
     56Spandea di sua beltà le luci allegre.

Quinci la gioventute alti sospiri
     Per lei traea dall’infiammato fianco;
     Nè dall’assalto di sì bei desiri
     60Spirto allor fu che rimanesse franco;
     Ma vinto dall’angosce e da i martiri
     Osman sovra ciascun ne venia manco,
     E distruggendo il cor pena infinita
     64Menava l’ore in miserabil vita.

Ei nacque in Lesbo; e singolare erede
     Rimaneva a Giaffer, ch’empio di core,
     Abbandonata di Gesù la fede,
     68Fessi schiavo de’ Turchi al Gran Signore;
     E corseggiando, ed adducendo prede
     Lunga prova mostrò del suo valore,
     Sicchè illustre nell’armi infra più chiari
     72Fatto Ammiraglio, comandava a’ mari.

Onde arricchito alta magione egli erse
     Dentro Bisanzio; indi partito Osmano,
     Peregrinando la bellezza ei scerse,
     76Che tanto udiva celebrar lontano;
     Ed ella con tal forza il cuor gli aperse,
     Che a risaldarlo fu la speme invano,
     Nè mai poscia di là mosse le piante;
     80Sì fortemente ivi divenne amante.

Misero! che mai sempre il passo ha lento,
     La fronte bassa, impallidito il viso,
     Ed in bando gli tiene il fier tormento
     84Dagli occhi il sonno, e dalla bocca il riso;
     E per tal via d’ogni allegrezza spento
     Ha sempre in Callinice il pensier fiso,
     Ne della patria il punge unqua desío,
     88Ed ha posto se stesso anco in obblío.

Sol per ogni contrada, e a ciascun’ora
     Imprime l’orme alla donzella appresso,
     E le mostra il desir, che l’innamora
     92Con umil cor nella sembianza espresso:
     Ma da quella beltà, perch’ei non mora,
     Pietoso sguardo non fu mai concesso,
     Nè mai segno gli diè, che fosse accorta
     96Dell’alta fiamma, che nel seno ei porta.

Ed egli ardendo volentier sostiene
     La feritate, in aspettar, che Amore
     Modo gli presti di contar sue pene
     100A lei, che lo nudrisce in tanto ardore:
     Ed ecco la giornata al fin sen viene
     Sì desiata da sfogare il core,
     E da far manifesto il suo desire:
     104Ma nulla ne trasse ei, salvo il morire.

La bella donna alla stagion nojosa,
     Che fa più grave il Sol sentirsi al mondo,
     Cercar solea per la campagna ombrosa
     108Il bel fiato di Zefiro giocondo;
     Ed avea stanza dentro un bosco ascosa,
     Lungo un ruscello di una valle in fondo
     Comodamente alla città vicina,
     112Nè lunge al risonar della marina.

Nobile albergo, che di selce dura
     Opra di gran scarpelli al ciel s’ergea,
     E dentro con lavor d’aurea pittura
     116Mirabilmente agli occhi altrui splendea;
     Ma fuori intorno alle marmoree mura
     Del chiarissimo rio l’onda correa,
     Ed ivi quasi di Meandro al fiume
     120Stavansi i Cigni dalle bianche piume,

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A ciascun’ora quel piacevol vento,
     Che fea del bosco mormorar le fronde,
     Dolce feriva nel vivace argento
     124Del bel torrente, e n’increspava l’onde:
     Ma chi potria narrar l’almo concento
     Degli augelletti, che la selva asconde,
     Quando il Sol mette a’ suoi destrieri il freno,
     128E quando posa ad Anfitrite in seno?

Tra gl’infiniti, che innalzando i canti,
     Mandano al ciel le care note insieme,
     Talora udiasi rinnovar suoi pianti
     132La tortorella, che solinga geme;
     E la dolente, che cangiò sembianti,
     Posta da Amore intra miserie estreme,
     Iti chiamava Filomena, ed Iti,
     136Ah misero Iti, rispondeano i liti.

Or quivi stando Callinice, offerse
     In loggia aperta d’un bel Sole a’ rai
     Sue belle chiome, che in belle onde terse
     140Sì chiaro il Sol non rimirò giammai,
     Ed il misero Osman tosto le scerse:
     Ei procacciando di dar pace a’ guai,
     Da quelle selve dipartir non suole
     144Ed ecco vide il suo bel Sole al Sole.

Subitamente dal desir sospinto,
     A lei manifestarsi ei muove il piede;
     Ma tosto poi da riverenza vinto,
     148Timido divenuto, indietro ei riede:
     Di pallor, di rossore in viso è tinto,
     Non sa s’ei vede il vero, o s’ei nol vede:
     Da sì diverse passioni oppresso,
     152A quella loggia al fin fassi da presso.

La bella donna a ravvisar non tarda
     Il Turco amante, e ne pigliò disdegno,
     E co’ begli occhi oscuramente il guarda,
     156E se scotendo, di partir fe’ segno,
     Ed ei gridava: Un, che si strugga ed arda,
     È così dunque d’ascoltarsi indegno?
     Infinito dolor non si consola?
     160Tanto timor d’una preghiera sola?

A questi detti di partir s’invoglia
     La Damigella; indi si ferma in petto
     Quivi ascoltar, per dimostrar sua voglia,
     164Poi fargli sempre universal disdetto:
     Allora il Turco a raccontar sua doglia
     S’apparecchiava, e con afflitto aspetto,
     E sospirando, e palpitando fisse
     168Gli occhi nel volto della donna, e disse:

Donna, se miei pensier, se miei desiri,
     Che serbansi nel cor sincero e puro,
     E se il focoso ardor de’ miei sospiri
     172A’ sereni occhi tuoi non punto oscuro;
     E se la sofferenza de i martiri
     Non usati a provarsi, io ben misuro
     Con quella eterna rigidezza, onde armi
     176L’alma gentil, gran meraviglia parmi.

Ne so trovar cagion, perchè tua mente
     Si trastulli nel duolo, onde io mi moro,
     Se non perchè da voi diversamente
     180Nell’alto ciel la Deïtate adoro:
     Se ciò vêr me ti fa crudel, repente
     Vedrai lasciarmi ogni costume Moro,
     E tu, che nel mio cor siedi reina,
     184Mi detterai la legge anco divina.

Ma colà, dove a gindicar si prende
     Sul guiderdon d’un amoroso ardore,
     Deve forse bastar, s’egli s’attende
     188Solo alla legge, che ne detta Amore;
     E trattando di ciò, chi mi riprende?
     Quando peccai? dove commisi errore?
     Certo il misero Osman non può dannarsi
     192Fin qui dal giorno che ti vidi, ed arsi.

Non pria giunse il tuo volto al guardo mio,
     Che tutta l’alma alle tue voglie esposi,
     Sicchè del genitor mi prese obblio,
     196E le case paterne in bando io posi:
     Qui di fermare albergo ebbi desío,
     Qui far la vita, e qui morir disposi:
     E nel fulgido ciel di queste parti
     200Inchinar tue bellezze, ed adorarti.

E perchè no? se de’ tesori suoi
     Natura in te tanta abbondanzia piove?
     Che fuor del volto, e de’ begli occhi tuoi
     204Farsi felice uomo dispera altrove.
     Puoi col bel guardo incenerir; ma puoi
     Rinnovellarne poscia in forme nuove:
     E son tue grazie a tramutar possenti
     208In fonti di gioir tutti i tormenti.

Oh sovra ogni altro peregrin beato,
     Oh venturosi in viaggiar miei passi,
     Se, Te chinando dall’eccelso stato,
     212Me tuo fedel de’ tuoi favor degnassi;
     E se ben tanto ti seconda il Fato,
     Che ogni mortal prosperità trapassi,
     Pur, se a me non sdegnar pieghi tuoi spirti,
     216Non arai, Callinice, onde pentirti.

Qual sia lo scettro suo, quanto Ottomano
     Quaggiù comandi a chi non è palese?
     Ed egli di tesor con larga mano
     220A mio padre Giaffer stato è cortese:
     Ciò che in armi solcar per l’Oceano
     Di navi suol per le reali imprese
     Ei regge; ed è soggetto al suo potere
     224L’onorato valor di mille schiere.

Pensar quinci si può quante ricchezze,
     E gemme e pompe ed onorate spoglie,
     E quanti servi e quante ancelle avvezze
     228Saranno ognora ad ubbidir tue voglie:
     Perchè dunque nudrir tante fierezze?
     Perchè bramar ch’io mi consumi in doglie?
     E sostener che si rimiri uom vivo,
     232Ma d’ogni bene, e della vita privo?

Aspro destino! e chi nomar può vita
     Questa, che in guisa tal mi si concede?
     Il viso chin, la guancia impallidita,
     236Nubilosa la fronte, infermo il piede:
     Sempre fanno sospir dal petto uscita,
     E gli occhi afflitti il sonno unqua non vede,
     E nel profondo dell’angosce estreme
     240Non mi conforta pure ombra di speme.

O per gli egri mortali in questa etate
     Di celeste splendor lampa superna,
     Se quella, onde sfavilli alma beltate,
     244Siccome immensa, anco diventi eterna:
     Deh per te non si giunga a crudeltate;
     Ne l’imperio d’amor mai sempre scherna,
     Ma schifa al fin d’abbominevol scempio
     248Rimanga al mondo di clemenza esempio

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Ei qui si tacque, ed aspettava; intanto
     250Nella donna gentil ferma le ciglia:
     Ella nol mira; e stassi immota alquanto,
     Pur siccome uom, che suoi pensier consiglia;
     E quasi di quei detti, e di quel pianto
     Tratto avesse in udir gran meraviglia,
     255Scosse le belle tempie, indi cortese
     Con alquanto di sdegno a parlar prese:

Che nella grazia d’Ottoman salito
     Di dignitate, e di tesoro abbondi
     Tuo genitore, ho di buon grado udito,
     260Osmano; i vostri dì sieno giocondi;
     Ma del martíre tuo, quasi infinito,
     De’ mali, che in parlar fai sì profondi,
     Non ti porsi consiglio ad incontrarli,
     Prendi dunque a pensar come cessarli.

265Eccitar nel mio cor voglie amorose,
     O me sposar tu vanamente speri,
     Il ti contrasta infinità di cose;
     Volgi a porto migliore i tuoi pensieri.
     Ciò detto, al favellar termine pose,
     270E guardando vêr lui con modi altieri,
     Schifa si dimostrò di più sentire,
     E già moveva l’orme a dipartire.

Allor gridava Osmano: alma spietata,
     Perchè tanto fuggir? ferma le piante.
     275Che se prendi a disdegno essere amata,
     Ed io mi pentirò d’essere amante:
     Voce d’amor non fia per me formata;
     Begli occhi, io sarò muto a voi davante:
     Ah petto di ria selce; ogni parola
     280A lei cresce le piume, onde sen vola.

Mentre piagne così, con lieve passo
     La bella donna agli occhi suoi si fura:
     E quei con guardo nubiloso e lasso
     Immobil stassi in pena acerba e dura.
     285Qual se scarpel di peregrino sasso
     Tragge in sembianza d’uom regia figura,
     Che poscia fonte in verde bosco onora,
     Sì fatto il Turco era a vedersi allora.

Poscia che muto, e nel profondo immerso
     290Alquanto stette dell’angoscia atroce,
     Egli si scosse co’ pensier converso
     Pur a lei, che sparío tanto veloce;
     La bocca aprì, ma tutto il sen cosperso
     Di pianti amari, non trovò la voce;
     295Pur finalmente d’amorosi accenti
     Un cotal suon fece volare a i venti:

Misero! in qual paese, ed in qual ora
     Fu proposto a mirare infra mortali,
     Che per mercede un amator si mora
     300Con tanto peso di cotanti mali?
     O tu, che il mondo riverente adora
     Per l’immenso valor degli aurei strali,
     Amor che attendi? e dove gli occhi giri?
     Cotanta iniquitate oggi non miri?

305Per tal modo suoi regni un re governa?
     Io fedele a’ tuoi scettri acerbi e duri,
     E non ti cal di me? ma che ti scherna
     Quel rubellante cor nulla non curi?
     Ah mostro, ah furia della valle inferna,
     310Nato negli antri d’Acheronte oscuri,
     E poi nudrito di crudel veneno
     All’empia Scilla, ed a Cariddi in seno.

Ben sciocco è l’uom, che al nome tuo s’inchina,
     Se mi riguarda; o che spiegasse i rai,
     315O s’ascondesse il Sol nella marina,
     Non diffusi sospir? non trassi guai?
     Beltà d’un volto non mi fei reina?
     Non l’ebbi a riverir? non l’adorai?
     A’ soli cenni suoi non fui divoto?
     320L’anima ardente non gli porsi in voto?

Parte di questo a ciascuno altro amante
     Recato avrebbe disïata sorte,
     E tutto insieme a me non è bastante,
     Salvo a dar pena, ed a spronarmi a morte;
     325Ah cor di tigre sotto umíl sembiante!
     Fossi io, deh fossi a vendicarmi forte;
     Pascer ben mi sapria ne i tuoi tormenti:
     Ma s’io nol posso, almen fortuna il tenti.

Giù dal fondo infernal mandi Megera
     330Febbre più ria, che tua beltà deprede,
     Sicchè fra donne, ove or trïonfi altiera,
     Gran vergogna ti sia movere il piede;
     Ed ad onta di te turba guerriera
     Rapisca tuoi tesor, strugga tua sede;
     335E ti deserti; e di tuo stato antico
     Guasti l’onor: ma lasso me, che dico?

O sulla terra, oltra l’uman desire
     Di beltate, ammirabil Callinice,
     Soverchia passïon, troppo martire
     340Oggi fa traviar questo infelice,
     Non ti turbi disdegno: a così dire
     Corse la lingua, il cor nulla non dice:
     Vivi pur lieta, e del tuo viver sieno
     I giorni lieti, e fortunati appieno.

345Mentre così dicea, vennegli in core
     Per fuggir pena, abbandonar la vita,
     Onde per entro un boschereccio orrore
     Mosse, dove s’estolle alpe romita;
     E pensando in cammin su quel dolore
     350Grave cotanto, che a morir l’invita,
     E sul ben trapassato, onde godea
     Dianzi in Bizanzio, a così dir prendea:

Poteva egli per uomo unqua aspettarsi
     Sì miserabil caso in un momento?
     355Dianzi godei ciò, che più suol bramarsi,
     Gioventù, nobiltate, oro ed argento;
     Ed or miei pregi dissipati e sparsi
     Cascano a terra, e va mia speme al vento,
     E sol mi avanza di morir desío:
     360Cotanto costa porre il piede in Scio.

La bella calma, che mie navi scorse
     Sull’infausto confin di queste sponde,
     Chi me la diede? a mio gran mal non sorse
     Allor sdegno di Borea a turbar l’onde:
     365In tal guisa parlando, il piè trascorse
     Le chiuse vie delle selvagge fronde;
     E d’una balza in cima ei ferma il passo,
     E così dice riguardando a basso;

Tempo è da ricercar stato giocondo,
     370E qualche speme di fortuna lieta;
     Ma da cercarne in alcuno altro mondo,
     Però che in questo Callinice il vieta:
     Quinci dall’alto in un vallon profondo
     Scagliossi l’alma torbida, inquieta;
     375E tra le rupi del suo sangue asperse
     La bella etate in sul fiorir disperse.

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Era quivi a mirar l’aspro tormento
     Fuor degli abissi, regione oscura,
     Tetro un demon, che a ciascun’ora intento
     380Di Scio le pene, ed i dolor procura:
     L’empio s’immaginò del corpo spento
     Potersi suscitar strana ventura,
     E col martir del giovinetto morto,
     T¡orre all’Isola bella ogni conforto.

385Quinci su dal terren le membra ei toglie
     Stillanti ancor nella mortal ruina;
     Indi verso Bizanzio il volo ei scioglie,
     Che presentarle al genitor destina:
     Su quel punto Giaffer tutte sue voglie
     390Volgeva a trastullar sulla marina,
     A piè d’un monte, che con verde eterno
     Ogni oltraggio di Sol prendeva a scherno.

Nel più sublime giogo, altiera mole,
     Stanza di marmo singolar splendea,
     395Che quando sorge, e quando cade il Sole,
     Correr per l’alto i suoi destrier scorgea;
     Ma se scherza placato, o come ei suole,
     Giammai freme Nettun per l’onda Egea,
     Veggonsi di colà, viste soavi,
     400Solcar gioconde, o travagliar le navi.

L’alte spalle del monte orridamente
     D’ogn’intorno ricopre ampia foresta;
     Ma per industre calle agevolmente
     Quelle erme balze il peregrin calpesta;
     405E nel gentile orror doppio torrente,
     Bagnando il bosco, di sonar non resta,
     Finchè tra’ sassi ripercosso ei posa
     Nel gran seno del mar l’onda spumosa.

Cotal godeasi per quella alpe oscura
     410Dolce diletto; ma del mare in riva
     Agli umani piacer pronta natura
     Per entro lei larga spelonca apriva:
     Quivi sul suol, come cristallo pura,
     Acqua gorgoglia di fontana viva,
     415E folta serpeggiando edera intorno
     Di corimbi copría l’ampio soggiorno.

Quindi del queto mar l’onda d’argento,
     Allor che a’ lidi lusinghevol viene,
     Vedeasi, ad ascoltar dolce concento,
     420Lavar gli scogli, e raggirar l’arene;
     Vedeasi a schiere lo squamoso armento;
     E quando trascorreano aure serene
     Sotto il volo leggier potea mirarsi
     Il pelago vicin tutto incresparsi.

425Qui dalla turba popolar lontano
     E dal fasto real prendea diletto
     Giaffer superbo, e seco aveva Orcano
     Di segreti pensier ministro eletto;
     Ed a costui così parlava: Osmano,
     430Che tanto è dire, il cor di questo petto,
     Come vaghezza giovenile il prese,
     Mosse cercando peregrin paese.

Ha sei volte la Luna in ciel rivolto
     Il carro, ed egli appaga il suo disio,
     435Ma senza vagheggiar quel caro volto,
     Io giammai non appago il disir mio:
     Varie terre ha trascorse; ed ora ascolto,
     Ch’ei lietamente fa soggiorno in Scio;
     Ne perchè io scriva, ed a tornare il preghi,
     440Veggio, che al mio pregar l’animo pieghi.

Tu va colà, dove ei ne mena i giorni,
     E digli, che io per lui pena sopporto;
     Però subitamente a me ritorni,
     E renda al vecchio padre il suo conforto:
     445Ciò detto impon, che duo begli archi adorni,
     Ed un si rechi a lui brando ritorto,
     Ove sull’oro, e sulle gemme sparte
     Vegghiò di Siria e di Bizanzio l’arte.

I ricchi arnesi con piacevol ciglio
     450Consignolli alla man del messaggiero,
     Acciocchè poscia dati al nobil figlio,
     Se n’allegrasse il giovenil pensiero:
     Ed ecco a consumar l’empio consiglio,
     Vien dall’atro Acheronte il menzognero,
     455Che lamentando con uman sembiante,
     Il lacerato Osman pongli davante.

E dice: In Scio, per ingiustissima ira,
     Hanno condotto a tal questo innocente:
     Mira lo strazio dispietato, e mira
     460Se devi odiar la scellerata gente;
     Poscia qual nube in ciel se Borea spira
     Al forte soffio, se ne va repente:
     Tal dagli occhi dolenti il fiero mostro
     Torna alle fiamme del Tartareo chiostro.

465Allor che forza di crudel tormento
     Nel tristo cor? che sentimento avesti?
     Come piangesti tu? sul figlio spento,
     Giaffer infelicissimo, che festi?
     Stracciossi i crini, e gli disperse al vento,
     470E sul petto inondò pianti funesti,
     E d’intorno a quei monti, ed a quei liti
     Fea risonar sospiri, anzi ruggiti.

Forsennato, gridava, e chi ti spose
     Sul fior degli anni a miserabil sorte,
     475Osmano? onde le piaghe sanguinose?
     Per qual cagion così condotto a morte?
     O guance, o labbra già rubini e rose,
     Io sceglieva per voi degna consorte,
     Ma se l’ha preso in giuoco il cielo avverso
     480Nelle miserie mie tutto converso.

Poteva pur sul mare, e fra lo sdegno
     Di cotante procelle anzi affogarmi,
     Che viver tanto; o difendendo il regno
     Del signor nostro, traboccar fra l’armi:
     485Oggi dunque a finir mio strazio indegno
     Almen s’apra la terra ad ingojarmi;
     O discenda dal ciel fulmine ardente
     A tormi questa vita egra e dolente.

Ove ho da fermar gli occhi? in quale aspetto,
     490Misero me! qual rimirar sembianza?
     E che omai più nel mondo alcun diletto
     Trovar mi deggia, ove riman speranza?
     O del grande Ottomano alto ricetto,
     E di tanti Baroni inclita stanza,
     495Addio restate, ogni allegrezza è gita:
     Un antro oscuro ha da fornir mia vita.

Mentre il cordoglio a disperarsi il guida,
     E la forza del duol sì mal sostiene,
     Che fino al ciel manda sospiri, e grida
     500Abbandonato nelle proprie pene;
     Ecco turba di servi a lui più fida
     Piena d’affanno, e di pietà sen viene,
     E di porgli conforto ivi s’ajuta,
     Ma tolto di sè stesso egli il rifiuta.

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505Alza ululati oltra l’uman costume,
     E, battendo le palme, il sen percote,
     E benchè agli occhi venga manco il lume
     Dal pianto, ei piagne, e fa sentir tai note:
     Non farò lagrimando un largo fiume?
     510Non griderò, non graffierò le gote?
     Non piangerò? chi può biasmar s’io piango?
     Che dell’unico figlio orbo rimango?

Lasso! che Luna per lo ciel correa
     Allor che sposo mi corcai fra i lini?
     515Di che martir? di che miserie rea?
     Come ministra di crudel destini?
     E come infausta per lo ciel s’ergea
     La voce de i cantor falsi indovini,
     Che presagio facean tanto giocondo
     520Sul primier punto che venisti al mondo.

Per te chiari trofei, chiare vittorie
     Poteano in Tracia riportarsi Osmano;
     I gran titoli altrui, l’altrui memorie
     Doveano teco pareggiarsi invano;
     525Ed ora, ecco i trionfi, ecco le glorie,
     Di che gioir dovea per la tua mano:
     Perfide insidie poste a tua salute,
     E chiuso il varco alla tua gran virtute.

Qui tace; e come chi di duol vien meno,
     530Cader si lascia sovra il corpo ucciso,
     E pure al pianto rallargando il freno,
     Con lunghi baci glie ne lava il viso;
     Poscia risorge, e di mestizia pieno
     Tiene in quelle ferite il guardo fiso,
     535Muto ed immoto per la pena atroce;
     Al fine ismanïando alza la voce:

Se di nobile guerra intra i furori
     Guerriero d’Ottoman cadevi morto,
     Per tue chiare prodezze a’ miei dolori,
     540Alle mie pene rimanea conforto;
     Or per inique man di traditori
     Fuor di battaglia assassinato a torto,
     Che di te mi rimane, alma diletta,
     Salvo, giusto desir d’alta vendetta?

545Ed io farolla: addosso al popolo empio
     Spingerò del re nostro ogni bandiera,
     Finchè divenga lagrimoso esempio
     Di quella Isola iniqua ogni riviera:
     Soffriran le donzelle oltraggio e scempio,
     550A giogo andrà la nobiltate altiera,
     Fia la terra disfatta, arsa, deserta,
     Ed in fier nembo di dolor coperta.

Quinci con vista venenosa, oscura,
     Pien d’orgoglio crudel move repente,
     555E lascia i servi suoi, che a sepoltura
     Dieno le membra lacerate e spente:
     Sembrò leon, se cacciator gli fura
     I figli inermi, che sen va fremente,
     E con alto ruggir disfoga l’ira:
     560Trema il pastor, che per campagna il mira.

Udì le note minacciose, e scorse
     Dell’orrido demon l’arte spietata,
     E che Scio tosto caderia s’accorse
     Di Francesco fedel l’alma beata;
     565Onde agitato da pietà sen corse
     Oltra l’eccelsa regïon stellata,
     Campi immensi di luce, ed ivi inchina
     La sempiterna potestà divina.

E dice: incontrastabile potere,
     570Che l’universo a tuo voler governi,
     Tosto vedrem la bella Scio cadere
     Per la malvagità de’ mostri inferni:
     Ma per me dentro lei non mai tacere
     Odonsi gl’inni, e sono i canti eterni,
     575E sempre a mio favore ardono incensi;
     Però che io l’ami, a carità conviensi.

Dunque riguarda, e l’infernal furore
     Forte correggi, e non sprezzar miei prieghi,
     E che all’Isola bella il suo splendore
     580Tuttavia duri, tua bontà non nieghi,
     Cui risponde de’ cieli il gran Motore:
     Veracemente tue preghiere impieghi
     In opra di pietà; ma non consente
     A me la mia giustizia esser clemente.

585Di quel popolo rio falli infiniti
     Hanno d’ogni mercè passato il segno,
     Nè son di disprezzarmi anco pentiti,
     E però proveran del mio disdegno:
     Non comincio ora; di Sïonne i liti
     590Specchio ne sieno, e del Giordano il regno,
     Che di lor falli e di lor colpe in pena
     Han sul piede e sul collo aspra catena.

Dietro a’ falsi pensier l’uomo non vada:
     In ciel regna pietà, ma regna ancora
     595Con lei giustizia, la cui forte spada
     Gli scellerati peccator divora:
     Se flagellar si dee l’alma contrada,
     Il pio Francesco soggiungeva allora,
     Certo non dee soffrir duro servaggio
     600De i gran Giustinian l’alto legnaggio.

Inclita gente, che divota appieno
     Della tua legge a’ sacrosanti imperi,
     Or di quella città rivolge il freno,
     A te sempre volgendo i suoi pensieri:
     605Qui con sembiante a rimirar sereno
     Il Rettor degli eccelsi ampj emisperi
     Spande un mare di raggi, onde lampeggia
     Di lume eterno l’immortal sua reggia.

E dice: lunge dal crudel furore
     610Dell’Ottoman questi ben nati andranno,
     E quanto in petto lor splende valore,
     Per chiara prova testimon daranno:
     Altri pompa mortal, mortale onore,
     E mortali sollazzi a scherno avranno,
     615E chiusi in cella per ardente zelo,
     Faransi cari, e ben diletti al cielo.

Di questi un, che di picciolo convento.
     Tra’ muri angusti abbatterà l’inferno,
     Fia tal, che in giovinezza, alto ornamento,
     620Avrà mille conventi in suo governo;
     E poi che oprando e favellando in Trento,
     Il suo bel nome sarà fatto eterno,
     Goderà, tolto al solitario chiostro,
     La sacra insegna del più nobile ostro.

625Ed altri presso lui movendo il piede,
     In celeste desire anima accesa,
     Di questo ostro non men farassi erede,
     Grande splendor della romana Chiesa;
     Pronto a partir la pena e la mercede,
     630Franco ne i rischi d’ogni bella impresa,
     E sue vaghezze a raffrenar possente,
     Ne caso incerto ingannerà sua mente.

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Serberà di costui la rimembranza
     Sull’Italico Reno ampia cittate,
     635Poichè raccomandata a sua possanza
     Avrà goduto fortunata etate;
     Ed a ragione, oltre l’umana usanza,
     Astrea daragli le bilance amate,
     Se ben l’alma gentil non fie mai schiva
     640Di dispensar la disïata oliva.

Andranne a paro a par seco il Germano,
     Qua su volgendo i suoi pensieri intenti,
     Mentre pietoso sotto il ciel romano
     Volgerà fren di tributarie genti,
     645Benche ogni Impero egli terrà per vano
     Se non se quel di soggiogar le menti,
     Sicchè de’ suoi desir nessun risorga
     A gir per via, dove virtù non scorga.

E nella bella Reggia, ove l’Impero
     650Della Liguria è stabilito a’ mari,
     Il merto d’un sorgerà tanto altiero,
     Che additato saranne intra i più chiari:
     Costui fra tutti apparirà primiero,
     Nato là giù, perchè da lui s’impari
     655Arte ben certa di menar la vita
     Gioconda in terra, e su nel ciel gradita.

Tosco d’invidia tormentargli il petto
     Non oserà; ma degli estranei pregi,
     Qual de’ suoi propri sentirà diletto;
     660E vorrà, che virtute il privilegi;
     Nè della patria alle fatiche eletto
     Avralle a schivo; anzi de i carchi egregi
     Egregiamente reggerà le some,
     E fia tuo caro, e porterà tuo nome.

665E quando al mondo rimarrassi estinto
     Nel più bel corso del verace onore,
     Vedrassi il figlio in fresca età sospinto
     Da’ patrii pregi, procacciar valore:
     Ei da piede mortal giammai non vinto
     670Su nobil campo apparirà cursore,
     E giovinetto illustrerà suoi vanti
     Con soave armonia d’incliti canti.

Crescerà suo valor, siccome in seno
     Di fertile terren platano suole,
     675E fia sua gloria, come in ciel sereno
     Espero terso allo sparir del Sole;
     Ne si vedrà giammai che vengan meno
     Titoli chiari alla gentil sua prole,
     Che di virtù sull’elevate cime
     680Fie di sua stirpe imitator sublime.

Tal sull’Olimpo il re dell’universo
     Alto diceva; e ne pigliò conforto
     Il pio Francesco, che nel tempo avverso
     Il gran legnaggio rimirava in porto:
     685Poscia il Dio grande a celebrar converso
     Fea d’intorno sonar l’Occaso e l’Orto
     Con le schiere degli angeli, che ardenti
     Spandean rimbombo di beati accenti.