Scola della Patienza/Parte seconda/Capitolo I
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CAP. I.
Come l’afflittione insegna la Fortezza, e la Fedeltà.
Adesso mò, habbiamo da vedere, che dottrine dobbiamo cavare da questi libri di queste penalità, e che profitto, e giovamento ci apportino le afflittioni; che virtù particolarmente s’hanno da imparare nelle avversità: Poiche a dir’il vero da i mali siamo fatti più saggi. Le prosperità levano il cervello.
Le prime virtù, che fra l’altre ci si fanno innanzi, da servircene nelle avversità, sono la Fortezza, e la Fedeltà. Mà in che modo queste due virtù s’imparino molto meglio nelle scommodità, e nelle asprezze, che nelle cose prospere, e allegre, hora l’esplicaremo.
§.1.
Mà la Madre troppo tenera, e amorosa, quando vede molli di lagrime gl’occhiucci del suo figliuolino, rivolta al marito, così gli dice: Per qual cagione, marito mio, vogliamo, che i nostri figliuoli stiano più tosto malenconici, che allegri? Sono ancor tenerelli, perche così crudelmente li castighiamo? Spesse volte co’ i castighi diventano peggiori. Così dice la Madre. E non solamente con queste carezze snerva la maschia virtù de i figliuoli, mà la corrompe ancora con regalarli fuor di tempo con mille bagatelle, dando loro mille golosità, e mille appetitelli, guastando la loro buona indole, hora con paste reali, hora con confetture, hora con biscottelli, e mostacciuoli, hora con focaccie, e mille altre simili ghiottonerie, che lor porge di nascosto; E così mentre tanto li liscia, e fà loro tante carezze, affatto li rovina. Chi sarà dunque quell’huomo prudente, che non voglia essere più tosto allevato dalla discreta severità del padre, ch’esser con carezze soverchie mandato in rovina dalla Madre? Così a punto fà Dio, che qual magnifico Padre, e severo essattore delle virtù, aspramente allieva i suoi, nel modo che fanno i più severi, e prudenti padri à i loro figliuoli.
Seneca trattando elegantissimamente di questa istessa materia, così dice: Non vides, quanto aliter Patres, aliter matres indulgeant? Illi excitari iubent liberos ad studia obeunda mature; feriatis quoque diebus non patiuntur esse otiosos, & sudorem illis, et interdum lachrymas excutiunt. At matres fovere in sinu, continere in umbra volunt; nunquam flere, nunquam tristari, nunquam laborare. Patrium habet Deus aduerfus viros bonos animum, et illos fortiter amat, et operibus, inquit, doloribus, ac damnis exagitentur, ut verum colligant robur. Non fert ullum ictum illaesa felicitas. Miraris tu, si Deus ille bonorum amantissimus, qui illos quam optimos esse, atque excellentissimos vult, fortunam illis, cum qua exerceantur assignat? Mavult illis esse male, quam molliter. Et nobis etiam interdum voluptati est, si adolesces constantis animi irruentem feram venabulo excepit, si Leonis incursum interritus pertulit, tantoque spectaculum est gratius, quanto id honestior fecit. Ecce spectaculum dignum, ad quod respiciat intentus operi suo Deus: Deo dignum. Vir fortis cum calamitate compositus. 1 Non vedi tù (dice egli) quanto diversamente amino i padri da quello, che fanno le madri? Quelli danno ordine, che i figliuoli siano per tempo svegliati, e si levino di buon’hora à studiare; ne manco i giorni di vacanza vogliono, che stiano otiosi facendoli molto bene sudare, e alle volte ancora lagrimare. Mà le Madri non sanno far altro, che tenerli in braccio ò farli stare all’ombra, non li vorrebbero mai vedere piangere, ne star malenconici, ne travagliare. Iddio hà un amore paterno verso gli huomini da bene, e li ama con un amore forte, e vuole, che siano travagliati con fatiche, con dolori, e danni, accioche anch’essi diventino veramente forti. Non sopporta colpo alcuno quella felicità, che mai fù tocca. Tu ti meravigli, se Iddio, che tanto ama gli huomini da bene, e li vuole i migliori, e più eccellenti, che si possano trovare, assegna loro quella fortuna con la quale possano essere molto bene essercitati. Egli vuole più tosto che stiano male, che delicatamente. E noi ancora ci pigliamo alle volte piacere, se un giovane valoroso uccise con lo spiedo una fiera, che gli veniva incontro, ò pure sostenne intrepido l’assalto di un Leone, e tanto più grato è questo spettacolo, quanto è più honorato chi lo fece. Ecco uno spettacolo degno veramente di essere rimirato da Dio, che sta sempre con gl’occhi aperti sopra le sue creature. Ecco una coppia degna di Dio, un’huomo forte con la calamità congiunto.
Nè meno io sò vedere Seneca mio, che cosa habbia più bella Iddio in questo mondo, che vedere un Tobia, ò un Giob, che fra le morti di tanti figliuoli, frà tante, e sì gran rovine di tutta la robba, stia nondimeno forte, e costante.
Quando Christo chiamò Saulo da quella nuvola, fra l’altre gli disse queste parole: Exurge, et sta super pedes tuos.2 Lievati sù, e sta sopra i tuoi piedi; e fù come se gl’havesse detto: Perciò io ti feci cadere accioche da quella caduta tu ti levassi più forte.
§. 2.
Vi è una sorte d’albero, che si chiama Larice, questo albero è dei più alti, che si trovino; non gli cadono mai le foglie, è incorruttibile, dura sempre senza mai marcire, nè tarlarsi; Non arde, nè fa carbone, e a guisa di pietra per niuna forza si consuma. Han trovato, che questo legno per le pitture è immortale, come quello, che non si spacca, non si tarla, e sempre dura.1
Celio Rodigino dice d’haver veduto una Torre fatta di Larice, la quale Giulio Cesare non potè gettare à terra col fuoco. A questo albero si può benissimo assomigliare un’huomo patiente, e che con animo forte sopporta ogni cosa. Arde egli talvolta in mezo le fiamme delle calamità, e delle miserie mà non se gli brugia pure una minima foglia, non gli scappando di bocca ne anche una minima parolina, che sappia d’impatienza. Tale onninamente fù Giob, il quale come un legno, che non teme il fuoco In omnibus his non peccavit labiis suis. 2 In tutte le cose, che patì, non peccò mai con la sua bocca; cioè non disse mai parola, che sapesse d’impatienza.
Eccovi un Rubo nel mezo delle fiamme illeso; Eccovi una Torre fatta di Larice tanto forte, e insuperabile, che tutta la forza dell’inferno non basterebbe per gettarla a terra. E questo è quello, che s’impara nella Scuola della Patienza, di sopportare con animo quieto tutte quelle cose, che non sono male se non à chi malamente le sopporta.
Sentendosi Rebecca moglie d’Israel, contrastare nel ventre i due gemelli, se n’andò a consigliare con il Signore: Le fù risposto: Duae Gentes sunt in utero tuo, &c. Et maior serviet minori. 3 Tu hai nel ventre due sorti di gente, etc. E il maggiore servirà al minore. Qui Santo Agostino fà una gran questione, e và cercando, in che modo s’adempisse. Poiche si sapeva benissimo, che il maggiore, non solo non havea mai servito al minore, ma che di più l’havea voluto uccidere. Poiche Esaù havea fatto questa risoluzione. Venientr dies luctus Patris mei, et occidam Iacob fratrem meum. 4 Verrà una volta il giorno, che morirà mio padre, e io ammazzerò Giacob mio fratello. Hor in che modo gli servì, havendo cercato di ammazzarlo? Al che risponde ottimamente S. Agostino: Serviet (dice egli) non obsequendo, sed persequendo, eo modo quo mali serviunt bonis. 5 Gli servirà, non con l’ossequiarlo, ma sì bene col perseguitarlo, in quel modo appunto, che gl’huomini tristi sogliono servire a i buoni. Et in quel modo, che la lima serve al ferro, il martello all’oro, la mola al frumento, e al pane il forno.
Giacob poi figliuolo d’Isac non sarebbe mai diventato quell’huomo, ch’ei diventò, se non fusse stato travagliato da suo fratello. Egli stava benissimo in casa di suo padre, era ben trattato, la madre gli voleva gran bene, e in somma faceva tutto quello, che voleva. Ma quando il fratello lo cominciò a perseguitare, e si lasciò intendere, che lo voleva uccidere, fuggendosene in Mesopotamia da Laban suo zio, fece per più di vinti anni l’arte di Pastore. Hor qui Giacob sentì molto di non esser a casa sua, poiche essendo malissimamente trattato, imparò a sopportare la fame, la sete, a tolerare il caldo, e ’l gelo, a superare il sonno, e tutta la notte starsene al sereno. Quivi egli si fece un corpo, e un’animo di ferro, e diventò un’huomo pazientissimo delle fatiche, della penuria, e de’ travagli. E di tutte queste cose, ne fù causa la malignità, e l’ invidia del fratello. E tutto questo, che giovamento, e che utile apportò a Giacob? Molto, e più di quello, che si possa dire, ne pensare. Perche fuggì la morte, che gl’era preparata, cacciò da se l’otio cagionatogli dalle carezze di sua madre, s’avezzò alle fatiche, e alle scommodità, s’acquistò per se forze, e ricchezze, si pigliò due mogli, Lia, e Rachele, dalle quali nacquero poi i dodici Patriarchi, e Christo ancora ne trasse poi l’origine sua. Et ecco, come il maggiore servì al minore, non con gli ossequij, ma con le persecutioni. Questo è unico modo d’imparar la fortezza, a questo modo diventiamo forti. E’ molto ben noto ciò, che disse quell’huomo fortissimo: Cum infirmior, tunc potens sum. Quando io m’infermo, all’hora divento forte.
Note
§. 3.
Quelli si possono chiamare con molta ragione miseri, e infelici, che nella troppa felicità si marciscono, che come in un placido, e tranquillo mare sono da una soverchia bonaccia, e da una tediosa calma trattenuti. Tutto quello, che loro accadrà darà lor pena, e gran tormento. Poiche le molestie travagliano più quelli, che non vi sono usati, e sempre fù grave il giogo a una tenera cervice. Et un nuovo soldato si impallidisce anche al sospettar delle ferite; dove un veterano piglia animo in vedersi uscire il sangue, sapendo che dopo il sangue e le ferite hà molte volte ottenuto la vittoria. Considera Germanos (dice Seneca) & quidquid circa Istrum vagarum gentium occursat. Perpetua illos hyems, & triste coelum premit; maligne solum sterile sustentat Imbrem culmo, aut fronde defendunt, in alimentum feras captant. Miseri tibi videntur? Nihil miserum est, quod in naturam consuetudo perduxit. Quid miraris bonos viros, ut confirmentur, concuti? Non est solida, nec fortis arbor nisi in quam frequens ventus incursat: ipsa enim vexatione constringitur, & radices certius figit. Fragiles sunt, quae in aprica valle creverunt.1 Considera (dice questo Autore) i popoli della Germania, e tutti quei, che habbitano i Paesi intorno all’Istro. Quelli hanno un perpetuo inverno, e un’aria sempre malinconica. La terra sterile malamente li sustenta, si difendono dalle pioggie sotto case di paglia, ò di rami, e foglie d’alberi, e per mangiare vanno cacciando fiere. Hora costoro ti paiono forse miseri? Niente è misero di quello, che la consuetudine mutò in natura. Perche ti maravigli, che gl’huomini da bene siano travagliati? perche diventino più forti. Non è sodo, ne forte quell’albero se non è spesso da venti battuto: Poiche con l’istessa agitatione più si conferma, e getta più forti, e più profonde le radici. E fragili sono quei, che in aprica valle crebbero. Sic femina messium (dice S. Gregorio) gelu cooperta laetius germinant; sic ignis flatu premitur, ut crescat.2 Così vediamo, che i seminati coperti prima di neve più felicemente germoglino: così si soffia nel fuoco, perche cresca. Che male fa all’oro, e all’argento il martello? Certo, che non si batte altramente la moneta: Ne di quelli si può fare un vato, se ’l metallo da spessi colpi non viene battuto. Getta pur via quell’oro, e quell’argento, che non sostiene i colpi del martello. A questo modo senta ciascuno di se stesso.
Pare talvolta a noi stessi d’esser virtuosi, e vogliamo esser chiamati patienti; ma ci converrà molto bene quello, che a tutti disse Pitagora: Et si argentum sis, ex te tamen nec obolus proba moneta fiet, cum tam impatiens existas. b Se bene tu sei argento, non si farà però di te nè anche un minimo denarello di buona moneta, essendo tù tanto impatiente. Così si può dire con ragione a molti. Benche tu sij tutto d’argento, e d’oro, benche tu stij tutto il giorno in ginocchioni, tenghi le mani alzate al cielo, e facci oratione a Dio; nondimeno (perdonimi il tuo genio) non vali un dinaro. E per qual cagione di grazia? perche non stai saldo alli martelli; e perciò come un peso inutile bisogna tenerti rinchiuso in cassa. Poiche non così presto sei toccato da un martelletto, non così tosto ti vien detta una parolina un poco brusca, che subito ti scappa bruttamente la patienza. O argento, ò oro, mà basso di mala lega, e falso; perche non stà alla prova del martello: fatto solamente per star otioso, e mettersi per mostra alla bottega.
Gugliemo Peraldo vescovo di Lione và gratiosamente discorrendo in che modo si possino romper i denti al Demonio. I denti del Demonio sono i calunniatori, i maldicenti, e quelli, che ci travagliano a i quali disse Isaia: Quare atteritis populum meum, et facies pauperum commolitis? dicit Dominus Deus exercituum.3 Perche travagliate il mio popolo, dice il Signore Iddio degli esserciti, e perche andate mortificando la faccia dei poverelli? Con questi denti morde il Demonio gli huomini da bene mà in che modo s’hanno a rompere questi denti? Con la patienza. E’ più volte accaduto, che la segnalata patienza di un solo Christiano hà convertito a Christo molte migliaia d’Idolatri.
Pontio Pilato Presidente della Giudea, maravigliandosi della maravigliosa patienza di Christo, non senza ragione venne in sospetto, che quell’huomo sapeva più, che d’huomo, e ch’era di gran sangue. Occorre ogni giorno, che un ciarlone, che non sa far altro, che ingiuriare, e dir mille villanie, osservando la taciturna patienza d’un’altro, ancor’egli si componga a poco a poco alla modestia, dove non basteriano quante ingiurie sono al mondo per farlo stare quieto, e disarmarlo. Ma questa Fortezza christiana non s’impara nella Scuola di ballare, ma nella Scuola della Patienza. L’afflittione è la maestra, e quella, che insegna la fortezza.
Note
§. 4
Nella Scuola della Patienza non solamente s’insegna la Fortezza, ma la fedeltà ancora, virtù così lodata nella Sacra Scrittura. Sono a tutti note quelle parole del Signore: Euge serve bone, et fidelis: Sù servo mio buono, e fedele. I discepoli di Christo fecero molti errori, e spesso ancora ne furono ripresi. Nondimeno quando Christo nell’ultima cena da loro si licenziava lodandoli tutti assai, disse loro: Vos estis, qui permansistis mecum in tentationibus meis. Et ego dispono vobis, sicut disposuit mihi Pater meus, Regnum. Voi sete quelli, che non mi havete abandonato mai ne’ miei travagli. Et ecco ch’io vò ad apparecchiarvi un Regno, sì come il mio Padre l’apparecchiò per me. Come se havesse lor voluto dire: io vi perdono, Apostoli miei, i vostri errori, e non si parli più delle cose passate. Io procuro più tosto di rimunerare più, che sia possibile la vostra fedeltà, che meco havete usata. Poiche quasi solamente a voi non hà dispiaciuto la povertà, e l’humiltà mia: io vi riconosco non pure per servi mà per fedelissimi amici: Itaque dispono vobis regnum, ut edat, et bibatis super mensam meam in regno meo.1 Perciò io me ne vò a prepararvi il Regno, accioche voi siate miei continui commensali nel Regno. Qui saltò il cuor nel petto a gl’Apostoli per l’allegrezza, e chi di loro haveria potuto imaginarsi altro, che questo. O Dio volesse, che già ci godessimo insieme in questo Regno. O piacesse a Dio, che hormai c’assentassimo insieme a mangiare, e a bere in questa tavola? Ma Christo amorevolmente ammaestrandoli, e avvisandoli, che queste sicure allegrezze non s’hanno da pigliare importunamente avanti tempo, soggiunse loro: Ecce Satana expetivit vos, ut cribraret sicut triticum. Ecco, che il Demonio hà fatto instanza di crivellarvi ben prima, come il frumento. Vi restano da fare alcune prove molto difficili di voi altri, Discepoli miei; Voi sete a punto come le campane, che havete da far sentire il vostro suono per tutto il mondo, ma queste campane s’hanno prima da provare. E s’incominciarà in questa notte. Perche si come il fonditore quando hà fornito di lavorare una campana, non la mette subito su la torre; mà la prova prima molto bene col martello, per vedere se suona bene, e se hà bella voce, e se vi è qualche fissura: così coloro, che vogliono essere de’ miei, s’hanno da provare in molti modi, se hanno soda patienza, se stan forti, e costanti nelle avversità, e se ne’ i tempi travagliosi, e duri sian fedeli. Poiche a questo paragone si prova l’oro della fedeltà.
Disse benissimo Seneca: Quid quisque posset, nisi tentando non didicit?2 Niuno imparò a sapere quello, ch’egli possa, se non con farne prova. Niuno saprà mai quanto tu sij paziente, ne anche tu stesso, se non hai molti contrarij, che ti travaglino. Languisce la virtù se non hà chi la contradica. All’hora si vede, che animo tu habbi, quanto possa, e quanto vaglia, quando la patienza il mostra. E però con ogni verità disse S. Gregorio. Nemo quantum profecerit, nisi inter adversa cognoscit. Niuno conosce il profitto, che hà fatto se non fra le cose avverse. La virtù dell’incenso si sente, quando è posto su i carboni accesi. Le spetiarie all’hora si fanno sentire, quando sono pestate nel mortaro; e l’odor de i profumi tanto più si sente quanto più questi si maneggiano. L’Unguento della Maddalena riempì col suo odore tutta la casa, quando si sparse sopra il capo di Christo: A questo modo si conosce il marinaro nella tempesta, il soldato nella guerra, e il Lottatore nell’arena. A questo alludendo S. Girolamo dice così: Christianae militae est infelicitatibus feliciter ampliari, pressuris adolescere, et pressuras pubescendo calcare frequentibus procellis Christiana vita quatitur, atque tentatur, et pressuris innumeris latatur ac crescit. 3 E’ proprio della Christiana militia il dilatarsi felicemente con l’infelicità, crescere co’i travagli, e crescendo superarli. La vita Christiana è travagliata da spesse procelle, e da spessi travagli tentata, e dell’innumerabili suoi stenti si rallegra, e con quelli và sempre crescendo. A questo modo la vera fedeltà non si scorge altrimente nella bocca degli huomini pigri, e dapochi, mà sì bene, nelle opere de’ fortissimi heroi; Perche altra cosa è promettere fedeltà, e altra cosa è l’esser fedele.
Christo per allettare i suoi a dimandar l’accrescimento della fede, disse loro: Si habueritis fidem, sicut granum Sinapis. 4 Se haverete fede quanto un grano di senape. Che tanta gran fede, di grattia, è quella ch’è quanto un picciolo granello di Senape. La Senape, come sappiamo, ha un seme molto minuto, e vile, e per la sua picciolezza a pena si vede; ma pestato nel mortaro, ò con la bocca masticato, quì mette fuori la sua acrimonia, e l’odor suo. E chi crederia già mai, che in un granello così picciolo stasse rinchiuso sì gran fuoco? Una tale fedeltà verso di sè richiede Christo da noi, che all’hora più, che mai mostriamo l’amor, che gli portiamo, e facciamo sentire l’odore della patienza nostra, quando siamo dalle calamità ben pesti, e triti. Poiche come dice S.Gregorio: Bonum, quod in tranquillitate sumitur, in tribulatione manifestatur. 5 Il bene che s’acquista nella prosperità, si mostra nella tribulatione.
Note
§. 5.
Ciascuno, che è divoto, e fedele a Dio, così sente nell’animo suo. Anchorche si muova contra di me l’inferno; benche mi caschi adosso il cielo, benche tutte le calamità me solo assaltino, io però, con l’aiuto di Dio sarò sempre fedele; essendo apparecchiato ad esser per amor di Dio brugiato, legato, tagliato in pezzi, e all’ultimo amazzato. Perciochè (come dice l’Apostolo) Si commortui sumus, et conregnabimus: Si negaverimus, et ille negabit nos.1 Se moriamo per Lui, vivremo ancor con esso, se haveremo patienza, regneremo ancora insieme: e se il negaremo egli ancora negarà noi.
E dobbiamo molto ben sapere, ò Christiani, che non basta haver havuto il battesimo, non basta lo stare alla messa, digiunare, far oratione, e dar la limosina; ma bisogna ancora, che Iddio ci trovi sempre fedeli, e degni di sè; sì come egli trovò fedeli, e degni di sè in tutte l’avversità un’Abramo, un Gioseppe, e un Giob. Poiche, come dice l’historia dei Macabei; Ioseph in tempore angustiae suae custodivit mandatum.2 Gioseppe nel tempo della sua tribulatione fù fedele, e osservò la legge.
Noi altri, benche siamo tutti d’oro, e d’argento; se però siamo impatienti, e non stiamo saldi à colpi del martello, non vagliamo un picciolo. E si come nel corpo humano, quando uno vien meno, ò l’assalta qualche subito timore; tutto il sangue se ne corre al cuore per darli aiuto: così in tutte l’afflittioni, e angustie, ogni sorte di virtù si ritiri nell’huomo da bene; e gli faccia animo in questo modo: Se hora, che Dio ti vuol provare, tu manchi del debito tuo, dimmi, di grazia, dov’è la tua fede? dov’è il tuo amore? Dove l’ubidienza, dove la speranza, dove la patienza? Dove è la fortezza, e la tua fedeltà? E’ forse questo il desiderio, che hai di patire? E’ questo il proposito che hai di perseverare? Ricordati del giuramento, che come soldato hai fatto; Ricordati della fede, che hai data a Dio, e mostrati fedele fino al fine. Tù hai una fedelissima sicurtà; non ti si negarà il premio, ne ti si differirà punto la corona, purche tu hora non rifiuti la pugna, e non disperi della vittoria.