Sofonisba (Alfieri, 1946)/Atto secondo

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Atto secondo

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ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Sofonisba, Massinissa, Soldati Numidi.

Massin. Donna, deh! quí t’arresta: ecco del duce

il padiglione: udito, o visto appena
Scipione avrai, che dal tuo cor disgombro
ogni sospetto fia.
Sofon.   Né ancor sei pago,
o Massinissa? alta, terribil prova
d’amor li do, figlia d’Asdrubal io,
nel venir teco entro al romano campo:
ma, ch’io sostenga l’abborrito aspetto
del roman duce?... ah! troppo vuoi...
Massin.   Ma questo
campo ove stiamo, il puoi Numida al pari
che Romano appellare. Un forte stuolo
de’ miei v’ha stanza, ed io di guerra stovvi
non inutile arnese. Omai tu figlia
piú d’Asdrubal non sei, né di Siface
vedova piú, da che promessa sposa
di Massinissa sei.
Sofon.   Deh! non ti acciechi
l’amistá troppa, che a Scipion ti stringe.
Qual ch’egli sia costui, Romano è sempre;
quindi ei pospone a Roma tutto; e a nullo
dei nemici di Roma esser può mite.

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Non la sua rabbia contro a me fia paga

di aver vinto ed ucciso e vilipeso
Siface, no: Cirta predata ed arsa,
e i Masséssuli tutti al duro giogo
tratti, no, sazia in lui non han la sete
ambizíosa e cruda. Or, nel vedersi
quasi in sue mani Sofonisba, a dritto
da lui tenuta, qual io son, nemica
implacabil di Roma; or, nel superbo
suo cuor, non vuoi che l’oltraggiosa speme
nutra ei di trarmi al carro avvinta in Roma?
Pur, ciò non temo; ancor che donna...
Massin.   Oh cielo
Che pensi tu? fin che di sangue stilla
mi riman nelle vene, esser ciò puote?
Ah! no; nol credo; or l’odio tuo t’inganna;
tu Scipion non conosci.
Sofon.   Odio, ed amore,
or mi acciecan del pari. Io quí venirne
mai non dovea: ma pur, securo loco
nel mondo omai non rimaneami nullo.
Piacque al mio cor di seguitarti, e al solo
mio cor credei; ma il mio dover, mio senno,
mia fama, in Cirta mi volean sepolta
fra le rovine sue.
Massin.   Ti duol d’avermi
seguito? Oimè! dunque il mio viver duolti.
Sofon. Sol mi dorrebbe ora il morir non tua:
e a ciò mi esponi. O Massinissa, il sai,
ch’io fra le fiamme di mia reggia in Cirta,
infra le stragi del mio popol vinto,
udir da te parole osai d’amore...
Ahi lassa me!... giá da gran tempo, al grido
di tua virtú ch’Affrica tutta empiva,
io di te presa; io, dai piú teneri anni
a te dal padre destinata; a un tempo

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sposa ed amante a te crescea. Nemico

aspro di Roma eri tu allor, com’io:
piacque poscia a Cartagine, ed al padre,
ch’io di Siface fossi; e a te pur piacque
farti ai Romani amico: allor disgiunti
c’ebbe il destino...
Massin.   Ah! riuniti, il giuro,
siamo or per sempre. O avrai tu meco regno,
o morte io teco. — L’aver io dappresso
vista e provata la virtú sovrana
del gran Scipione, e il non aver mai vista
la tua beltá, fur le cagioni allora,
ch’io per Roma pugnassi. Ognor nemico
stato m’era Siface; ei del mio trono
m’avea spogliato: io di fortuna avversa
agli estremi ridotto, amico niuno,
fuor che Scipione, al mondo non trovava;
e a lui mi strinse indissolubil nodo
di gratitudin sacra. Io largamente
compri ho di Roma i beneficj poscia,
col mio sangue, pugnando in sua difesa:
ma i beneficj di Scipion, sua pura
alta amistá, coll’amistá soltanto,
e coll’omaggio a sue virtú, si ponno
pagar da me. Piú di Scipion, te sola
amo; te sola or piú di lui; ch’io t’amo
piú di me stesso assai.
Sofon.   Giurami dunque,
per darmen prova che di noi sia degna,
giurami or tu, che mai d’Affrica trarre
non lascerai me viva.
Massin.   Inutil fia.
Pur, poiché il vuoi, per questo brando io il giuro.
T’avrei condotta io quí, se quí in periglio
io ti credessi? Infra i Numídi miei
potea secura entro il mio regno trarti:

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ma quí mi chiaman l’armi; io dal tuo fianco

me disveller non posso: Affrica e Roma
saper pur denno, che tu sei mia sposa:
quind’io, nemico d’ogni velo ed arte,
tale or mostrarti voglio.
Sofon.   Omai secura
nel tuo giurare, e nel proposto mio,
mi acqueto... Ma, vien gente: infra i Numídi,
alle tue tende io mi ritraggo intanto.
Massin. Poiché a te piace, il fa. Scipion si avanza;
parlargli io vo’. Raggiungerotti in breve.


SCENA SECONDA

Scipione, Massinissa.

Massin. Scipione, io mai piú lieto non ti abbraccio,

che quando io riedo vincitor: piú degno
mi pare allor d’esser di te.
Scip.   Gran parte
dell’armi nostre, o Massinissa, omai
fatto sei tu; di gloria fabro a un tempo
a me tu sei: quindi sa il ciel, s’io t’amo;
e tu lo sai. — Ma, dimmi: (al roman duce
or non favelli; al tuo Scipion favelli)
riedi tu, dimmi, vincitor davvero?
Massin. Cirta espugnata, e per mia man distrutta;
rotto e disperso ogni guerriero avanzo
del morto re...
Scip.   Che parli? e ignori ancora,
che respira Siface?...
Massin.   Oh ciel! che ascolto?...
Scip. Spento in battaglia, è ver, la fama il volle.
Ei nella pugna ferito cadea,
ma non grave era il colpo; e preso quindi
da Lelio, entro al mio campo ei prigioniero...

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Massin. Vivo è Siface? in questo campo?...

Scip.   Il frutto
migliore egli è della vittoria nostra. —
Ma, che fia? Tu ten duoli?...
Massin.   Oh!... che mai... sento!...
Dal mio stupor... Ma... tu, perché mi accogli
in sí freddo contegno?... Entro il tuo petto
che mai rinserri?
Scip.   Ah Massinissa! in petto
tu bensí chiudi, e al tuo fedele amico
tu, sí, nascondi un grande arcano. In volto,
piú che stupor, duolo e furore a prova
ti si pingono: or, donde in te potrebbe
ciò nascer mai, se ostacolo a tue mire
il risorto Siface omai non fosse?
Ah Massinissa! — Io tutto so; mel dice
il tacer tuo: per te null’altro al mondo
io temea. La tua gloria, e in un la mia,
oscurata esser può da colei sola,
ch’ora in campo traesti. In Cirta al fianco
io non ti stava: all’amistá lontana
quindi anteposto hai tu d’amor le fiamme.
Ma pur, di te non io mi dolgo; ah! prova
larga ben or mi dai d’amistá vera,
trar non volendo la tua preda altrove,
che nel mio campo; e nel voler deporre
in cor soltanto al tuo Scipion le fere
tempeste del tuo core.
Massin.   — Inaspettato
mi giunge il viver di Siface. — Io sposa
Sofonisba sperai: promessa fummi,
pria che data a Siface: ei mal la seppe
difender contro all’armi nostre; e nulla
a un vinto re, preso in battaglia, resta.
Pur, benché vinto, è d’alto cor Siface;
a lungo omai, son certo, all’onta sua

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ei non vuol sopravvivere.— Ma, sia

di lui che vuole, odi, o Scipion, miei sensi. —
Caldo e verace amico a lunga prova
tu conosciuto hai Massinissa: or sappi,
che al par verace e ancor piú ardente amante,
nullo ostacolo ei cura. In cor numída
non entra mai tiepida fiamma: o sposo
io sarò dell’amata Sofonisba,
o con lei spento. Entro al tuo campo io stesso
mi affrettai di condurla: era quí solo
pago appieno il mio cor; quí ad alta voce
gloria, onore, amistá, virtú mi appella;
senza tradire l’amor mio, quí spero
tutti adempir gl’incarchi miei. Dal duce,
e in un dal fido amico, udir vogl’io,
come Cartagin debellare affatto
si debba omai; come possanza e lustro
debba accrescersi a Roma, e gloria a noi;
e come, in fin, me far felice io possa.
Scip. Piú che d’unico figlio, a me (tel giuro)
duol del tuo cieco giovenile errore,
che travíar ti fa. La gloria nostra,
la possanza di Roma, la imminente
total rovina di Cartago, e l’alta
felicitá tua vera, in noi ciò tutto
stava finora; anzi che vinto in Cirta
tu soggiacessi a femminile assalto:
ma, tutto a te tolto hai tu stesso, e a noi,
coll’amor tuo fatale. — Ma no; sordo
esser non puoi di tua virtude al grido;
esser non puoi contra Siface istesso,
ingiusto tu; né mai crudel né ingrato
al sol tuo amico esser tu puoi. La vita
di Siface or condanna, e rompe, e annulla
questo amor tuo: né mai...
Massin.   Né mai?... Quest’oggi

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sará mia sposa Sofonisba; io ’l giuro.

E se protrar col viver suo Siface
vuol la sua infamia, e il dolor mio, me debbe
ei stesso quí, di propria man, col suo
brando svenarmi; o per mia man svenato
ei cader oggi.
Scip.   È prigioniero, è inerme
fra noi Siface; e a Massinissa in core
vil pensiero non cape. — Or, tu vaneggi;
ma certo io son, che se al tuo sguardo occorre
quell’infelice re, tu, generoso,
dall’insultarlo lungi, ah! sí, tu primo
ne sentirai pietá. — Ma, posto ancora
che in modo alcun, sia qual si voglia, spento
Siface cada, e possessor tranquillo
quindi sii tu di Sofonisba; a quale
partito allor pensi appigliarti?
Massin.   — A Roma,
e al mio Scipione eternamente avvinto,
nulla mi può...
Scip.   Ma, piú di Roma, or dimmi,
Sofonisba non ami?
Massin.   — Io?... Ciò non voglio
saper, per ora.
Scip.   Oh sfortunato amico!
Io giá ’l so, pria di te. So, che posposto
l’util tuo vero, e la ragione, e i sacri
di gratitudin, d’amistá, di fede
severi nomi, a rio destino in preda
precipitar ti vuoi. Non puossi a lungo
al fianco aver d’Asdrubale la figlia,
e rimaner di Roma amico, e farsi
distruttor di Cartagine. Compiango
caldamente tua sorte. Ai re nemici
di Roma, il sai, qual fera sorte avvenga,
o tosto, o tardi. I detti miei non sono

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minacce, no; deh! tu nol creder: tolga,

tolga il cielo, che mai del giusto sdegno
di Roma in te, ministro farmi io voglia!
Questo mio brando, che a riporti in seggio
valse, ah! no mai, col non minor tuo brando,
ch’or tante aggiunge alte vittorie a Roma,
al paragon, no, non verrá: la punta
pria volgeronne al petto mio: ma, dimmi:
son Roma io forse? un cittadin privato
io son di Roma, il sai; né manca ad essa
consiglio, ed armi, e capitani. A queste
spiagge altro duce, con ugual fortuna,
con maggior senno, e con minor pietade,
verrá in mia vece; e rammentar faratti
la mal serbata tua fede giurata.
Massin. Or, vuoi tu ch’uom, ch’è di Scipion l’amico,
al terror di futuro e incerto danno
doni ciò, ch’egli all’amistá pur niega?
Mal mi conosci. — Io ti domando, in somma,
se di Cirta espugnata col mio ferro,
co’ miei Numídi, e col lor sangue e il mio;
se di Cirta appartiene oggi la preda
a Roma, o a me: se sposa mia promessa,
da me sol Sofonisba or quí condotta,
s’ella è regina quí, s’ella m’è sposa,
o s’ella è pur schiava di Roma.
Scip.   — Ell’era,
e ancor (pur troppo!) di Siface è moglie.
Massin. T’intendo. Oh rabbia!... E speri tu?...
Scip.   La scelta,
Massinissa, a te lascio: inerme io sempre
mi aggiro quí; da’ tuoi Numídi farmi
svenar tu puoi; piantarmi in cor tuo brando,
tu stesso il puoi; ma, se tu me non sveni,
ir non ti lascio a tua rovina. Ov’abbi
cor di voler tu la rovina mia,

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io vi corro per te. Serba tua preda:

Roma, il senato, accusator mi udranno
di me stesso; dirò, che alla privata
amistá nostra e il ben di Roma, e il tuo,
sagrificar mi piacque: e in premio avronne
dell’amistá ch’ebbi per te non vera,
la vera infamia mia.
Massin.   Scipion; m’è cruda
piú mille volte or l’amistá tua troppa,
che non lo foran le minacce, e l’armi...
Misero me!... mi squarci il cuor. — Ma, trarne
nulla può il dardo radicato e saldo,
che amor v’infisse. Alla insanabil piaga
dittamo e tosco il tuo parlare a un tempo
mi porge: ahi! questo è martir nuovo... — O ingrato
fammi del tutto, e qual nemico intero
trattami; o meco, qual pietoso amico,
servi al mio mal... Pianger mi vedi; e il pianto
rattener puoi? — Che dico? ahi vil! che ardisco
dire al cospetto io di Scipione? — Insano
finor mi hai visto, or non piú, no. — Fra breve
saprá Scipion, di Roma il duce, a quale
immutabil partito al fin si appiglia
il re numida Massinissa.
Scip.   Ah! m’odi...


SCENA TERZA

Scipione.

Ei mi s’invola! Il seguirò: lasciarlo

a se stesso non vuolsi; a mal suo grado
salvar si debbe: è d’alto core; il merta.