Sopra lo amore/II

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Orazione II

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I III
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ORAZIONE II

Capitolo I

Iddio è bontà, bellezza, giustizia; principio, mezzo e fine.


Vollono i Pitagorici Filosofi, che il numero ternario fusse di tutte le cose misura. Stimo io per cagione che col numero di tre, Iddio governa tutte le cose: e le cose ancora con esso ternario numero sono terminate. Di qui è quel verso di Virgilio: «Del numero non pari si diletta Dio». Certamente quel sommo Autore prima crea tutte le cose: secondo, a sè le rapisce: terzo, dà loro perfezione. Tutte le cose principalmente in mentre che elle nascono, escono di quel sempiterno Fonte: dipoi in quel medesimo ritornano, quando la lor propria origine addimandano: ultimamente perfette divengono, quando elle sono nel loro principio ritornate. Questo divinamente cantò Orfeo, quando disse Giove essere Principio, Mezzo e Fine dell’universo. Principio, in quanto egli tutte le cose produce: mezzo, in quanto, poi che son prodotte, a sè le tira: fine, in quanto le fa perfette in mentre che a lui ritornano. E per questo quel Re dello Universo, Buono e Bello e Giusto possiamo chiamare, come appresso Platone spesse volte si dice: Buono, in quanto le cose crea: in quanto egli le alletta, Bello: Giusto, in quanto secondo i meriti di ciascuna, le fa perfette. La Bellezza adunque la quale per sua natura a sè tira le cose, sta tra la Bontà e la Giustizia: e certamente dalla Bontà nasce e va alla Giustizia.

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Capitolo II

Come la bellezza di Dio partorisce lo amore


E questa spezie divina, cioè Bellezza, in tutte le cose lo Amore, cioè desiderio di sè, ha procreato. Imperocchè se Dio a sè rapisce il Mondo, e il Mondo è rapito da lui, un certo continuo attraimento è tra Dio e il Mondo, che da Dio comincia e nel Mondo trapassa, e finalmente in Dio termina: e come per un certo cerchio donde si partì ritorna. Sì che un cerchio solo, è quel medesimo da Dio nel Mondo, e da il Mondo in Dio: e in tre modi si chiama. In quanto ei comincia in Dio e alletta, Bellezza in quanto ei passa nel Mondo e quel rapisce Amore in quanto, in mentre che ei ritorna nello Autore, a lui congiugne l’opera sua. Delettazione Lo Amore adunque cominciando da la Bellezza, termina in delettazione. E questo intese Jeroteo e Dionisio Areopagita in quello inno preclaro, nel quale così questi Teologi cantarono Amore è un cerchio buono, il quale sempre da bene in bene si rivolta. E necessario è che lo Amore sia buono, con ciò sia che egli nato da Bene si ritorni in Bene. Perchè quel medesimo Dio è la Bellezza, il quale tutte le cose desiderano: e nella cui possessione tutte si contentano sì che di qui il nostro desiderio s’accende. Qui lo ardore degli Amanti si riposa: non perchè si spenga, ma perchè egli si adempie. E non senza ragione Dionisio agguaglia Iddio al Sole. Imperocchè sì come il Sole illumina i corpi e scalda: similmente Iddio, lume del vero agli animi concede e ardore di carità.

Questa comparazione del VI Libro della Repubblica di Platone, certamente in questo modo, come udirete, si trae. Veramente il Sole i corpi visibili crea, e così gli occhi coi quali si vede: e acciocchè gli occhi veggano, infonde in loro spirito rilucente: e acciocchè i corpi siano veduti, di colore gli dipinge. Nè ancora il proprio raggio agli occhi, nè i propri colori a’ corpi, a lo offizio del [p. 27 modifica]vedere sono abbastanza, se già quel lume, che è uno sopra tutti i lumi, dal qual lume molti e propri lumi agli occhi e a’ corpi sono distribuiti, in loro non discenda: e quelli illumini, desti e augumenti1.

In questo medesimo modo quel primo atto di tutte le cose il quale si dice Iddio, producendo le cose, a ciascuna ha donato Spezie e Atto: il quale atto certamente è debole e impotente alla esecuzione dell’opera: perchè da cosa creata e da paziente subbietto fu ricevuto. Ma la perpetua invisibile unica luce del divino Sole sempre a tutte le cose, con la sua presenza, dà conforto, vita e perfezione. Della qual cosa divinamente cantò Orfeo, dicendo, esso Dio confortare tutte le cose, e sè sopra tutte spandere. In quanto Iddio è Atto di tutte le cose, e quelle augumenta, si chiama Bene: in quanto egli secondo le loro possibilità le fa deste, vivaci, dolci e grate, e tanto spirituali quanto esser possono, si dice Bellezza. In quanto egli alletta quelle tre potenze dell’Anima, Mente, Viso e Udito agli obbietti che hanno ad essere conosciuti, Pulcritudo si chiama. E in quanto essendo nella potenzia, che è atta a conosocere, quella congiugne alla cosa conosciuta, si chiama Verità. [p. 28 modifica]Finalmente come Bene crea e regge, e dà alle cose perfezione: come Bello, le illumina, e dà loro Grazia.


Capitolo III

Come la bellezza è splendore della bontà divina: e come Dio è centro di quattro cerchi.


E non senza proposito gli antichi Teologi, posero la Bontà nel centro: e nel cerchio la Bellezza. Dico certamente la Bontà in un centro: e in quattro cerchi la Bellezza. L’unico centro di tutte le cose è Dio. I quattro cerchi che d’intorno a Dio continovamente si rivolgono, sono la Mente, l’Anima, la Natura e la Materia. La Mente Angelica è cerchio stabile: l’Anima, per sè mobile: la Natura, in altri, ma non per altri si muove: la Materia non solo in altri, ma ancora da altri è mossa.

Ma perchè noi Dio chiamiamo Centro e quelli altri quattro perchè cerchi, dichiareremo.

Il Centro è un punto del cerchio stabile e indivisibile: donde molte linee divisibili e mobili, vanno a la lor simile circonferenza. La quale circonferenza che è divisibile, non altrimenti si volge intorno al Centro, che un corporale tondo in un ganghero si faccia. E tale è la natura del centro, che, benchè sia uno, indivisibile e stabile, niente di meno in ogni parte di molte, anzi di tutte, le mobili e divisibili linee si trova: perocchè in ogni parte di ciascuna linea è il punto. Ma perchè nessuna cosa può essere dal suo dissimile tocca: le linee che vanno dalla circonferenzia insino al centro, non possono questo tal punto toccare, se non con un lor punto medesimamente semplice, unico e immobile. Chi negherà Iddio di tutte le cose essere meritamente chiamato il centro? considerando che sia in tutte le cose al tutto unico, semplice e immobile: e tutte le cose che sono prodotte da lui, sieno molteplici, composte e in qualche modo mobili: e come elle escono da lui, così ancora a similitudini di linee o di circonferenze [p. 29 modifica]in lui ritornano. In tal modo la Mente, l’Anima, la Natura e la Materia, che da Dio procedono, in quel medesimo si ingegnano di ritornare: e da ciascuna parte con ogni diligenzia quello attorniano. E come il centro in ogni parte di linea, e in tutto il cerchio si truova: e tutte le linee per il lor punto toccano il punto che è nel mezzo del cerchio: similmente Dio che è centro di tutte le cose, il quale è unità semplicissima e Atto purissimo, sè medesimo in tutte le cose mette. Non solamente per cagione che egli è a tutte le cose presente, ma ancora perchè, a tutte le cose create da lui, ha dato qualche intrinseca parte e potenzia semplicissima e prestantissima, che la unità delle cose si chiama: dalla quale e alla quale, come da centro e a centro suo, tutte le altre potenzie e parti di ciascuna parte dependono. E certamente bisogna che le cose create, innanzi a questo lor proprio centro e a questa lor propria unità sì raccolgano, che a il loro Creatore si accostino: acciocchè per il loro proprio centro, al centro di tutte le cose si accostino. La Mente Angelica, prima nella sua supereminenzia e nel suo capo si leva, che ella salga a Dio: e similmente l’Anima e l’altre cose fanno. Il cerchio del Mondo che noi veggiamo, è immagine di quelli che non si veggono, cioè della Mente e dell’Anima e della Natura. Imperocchè i corpi sono ombre e vestigii dell’Anima e delle Menti. Le ombre e i vestigi, la figura di quella cosa rappresentano, della quale elle sono vestigii e ombre. Il perchè quelle quattro cose, meritamente son quattro cerchi chiamati. Ma la Mente è tondo immobile: perchè la sua operazione come la sua sustanzia sempre è quella medesima. Imperocchè sempre a un medesimo modo intende, e le medesime cose vuole. E possiamo qualche volta la Mente, per una sola cagione, mobile chiamare: perchè sì come tutte le altre cose, da Dio procede, e in lui medesimo per ritornare si volge. L’Anima del Mondo, e qualunque altra Anima è mobile cerchio: perchè per sua natura, non senza discorso conosce, nè senza spazio di tempo adopera: e il discorso da una cosa in altra, e la temporale [p. 30 modifica]operazione, senza dubbio Moto si chiamano. E se alcuna stabilità è nella cognizione dell’Anima, più tosto è per benefizio della Mente, che per natura dell’Anima. Ancora la Natura mobile cerchio si dice. Quando noi diciamo Anima secondo l’uso degli antichi Teologi, intendiamo la potenzia che è nella ragione e nel senso dell’Anima posta. Quando diciamo Natura, la forza della Anima atta a generare si intende. Quella Virtù in noi propriamente chiamarono lo uomo: questa altra dell’uomo idolo e ombra. Questa virtù del generare mobile certamente si dice, perchè con ispazio di tempo finisce la opera sua. E in questo da quella proprietà dell’Anima è differente, che la Anima per sè e in sè si muove: per sè, dico, perchè ella è principio di moto: in sè ancora, perchè in essa sustanzia dell’Anima rimane l’operazione della Ragione e del senso: e di questo non resulta nel corpo necessariamente opera alcuna. Ma quella potenzia del generare, la qual chiamiamo Natura, per sè si muove, essendo ella una certa potenzia dell’Anima, la quale Anima si muove per sè. Dicesi ancora che si muove in altri, perchè ogni operazione sua nel corpo si termina, nutricando, augumentando e generando il corpo. Ma la Materia corporale è cerchio che si muove da altri e in altri. Da altri dico, perchè è dall’Anima agitato: in altri, dico, perchè si muove in ispazio di luogo.

Già dunque possiamo apertamente intendere, per qual cagione li antichi teologi la Bontà nel centro e la Bellezza nel cerchio pongano La Bontà di tutte le cose è uno Dio, pei il quale tutte son buone: la Bellezza è il raggio di Dio, infuso in que’ quattro cerchi, che intorno a Dio si rivolgono. Questo raggio dipinge in questi quattro cerchi, tutte le spezie di tutte le cose; e noi chiamiamo quelle spezie, nella Mente Angelica, idee: nell’Anima, ragioni: nella Natura, semi e nella Materia, forme. Per il che in quattro cerchi, quattro splendori appariscono lo splendore delle idee, nel primo: lo splendore delle ragioni, nel secondo: lo splendor de’ semi, nel terzo, e lo splendor delle forme, nell’ultimo.

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Capitolo IV

Come Platone delle cose divine si espone


Questo misterio significò Platone, nella epistola al Re Dionisio, quando egli affermò, Dio esser cagione di tutte le cose belle; quasi dicesse Dio essere di tutta la Bellezza principio. E disse così: « Circa il Re del tutto, sono tutte le cose, e per cagione di lui sono tutte. Egli è cagione di tutte le cose belle. Le seconde cose sono circa il secondo; le terze circa il terzo. L’Animo dello uomo desidera quali sieno quelle cose intendere, guardando in quelle cose che sono a lui propinque: tra le quali nessuna è suffiziente. Ma circa esso Re, e quelle cose che io dissi, non è alcuna cosa tale: e quello che è dopo questo, l’Animo parla ».

Questo testo sì espone in questo modo.

Circa il Re. Significa non dentro al Re, ma fuori dei Re, perchè in Dio non è composizione alcuna: e quello che significhi questa parola circa, Platone lo espone quando aggiugne tutte le cose sono per cagione di lui: ed egli è cagione di tutte le cose belle; come se e’ dicesse così: circa il Re del tutto, tutte le cose sono: perchè a lui come a fine tutte per natura si rivolgono: si come da lui come principio sono prodotte. Di tutte le cose belle, cioè di tutta la Bellezza, la quale ne’ Cerchi sopradetti risplende. Imperocchè le Forme de’ corpi si riducono a Dio per i semi: i Semi per le ragioni: le ragioni per le Idee: e co’ medesimi gradi da Dio si producono. E proprio quando ei dice, tutte le cose, intende le Idee: perchè in queste tutto il resto si rinchiude.

Le seconde circa il secondo, le terze circa il terzo. Zoroastro pose tre principii del Mondo, Signori di tre ordini: Oromasin, Mitrin, Arimanin: i quali Platone chiama Dio, Mente, Anima; e quei tre ordini pose nelle spezie divine, cioè Idee, Ragioni e Semi. Le prime adunque, cioè le Idee, circa il primo, cioè circa Dio: perchè da Dio son date [p. 32 modifica]alla Mente, e riducono essa Mente a Dio medesimo: le seconde circa il secondo, cioè le Ragioni circa la Mente, perchè elle passano per la Mente nell’Anima: e dirizzano l’Anima a la Mente: le terze circa il terzo, cioè i Semi delle cose circa l’Anima: perchè mediante l’Anima passano nella Natura, che s’intende nella potenzia dei generare: e ancora congiungono la natura all’Anima. Per il medesimo ordine, dalla natura nella materia discendono le forme. Ma Platone non computa le forme nello ordine sopra detto: perchè avendolo Dionisio Re dimandato solo delle cose divine, egli addusse tre ordini, che si appartengono alle spezie incorporali, come divini: e pretermesse le forme de’ corpi. Ancora non volle Platone chiamare Dio, il primo Re, ma il Re del tutto: perchè se l’avesse chiamato il primo, parrebbe forse che ei lo collocasse in qualche spezie di numero e parità di condizione, insieme con i seguenti Duci. E non disse: circa lui sono le prime cose, ma tutte. Acciocchè non credessimo Dio esser governatore d’un certo ordine, più tosto che dello universo.

Lo animo dell’uomo desidera quali sieno quelle cose intendere. Accortamente dopo que’ tre splendori della divina Bellezza, i quali ne’ tre cerchi risplendono, indusse lo Amore dello Animo inverso quelli: perchè di quindi lo ardore dell’Animo s’accende. Conveniente cosa è, che lo Animo divino le cose divine desideri.

Guardando in quelle cose, che sono a lui propinque. La cognizione umana comincia dai sensi, e però per quelle cose che noi veggiamo più prestanti ne’ corpi, sogliamo spesso delle divine dare giudizio. Per le forze delle cose corporali investighiamo la Potenzia di Dio: per l’ordine la Sapienzia: per la utilità, la Bontà divina. Chiamò Platone le forme de’ corpi propinque all’Anima: perchè queste forme nel seguente grado dopo l’Anima sono locate.

Tra le quali nessuna è suffiziente, che s’intende che queste forme, nè suffizientemente sono, nè suffizientemente ci dimostrano le divine. Imperocchè le vere cose sono le Idee, le Ragioni e i Semi. [p. 33 modifica]Ma le forme de’ corpi sono più tosto ombre delle cose vere, che vere cose: e come l’ombra del corpo non mostra la figura del corpo distinta: così i corpi non mostrano la natura propria delle sustanzie divine.

Ma circa esso Re, e quelle cose che io dissi, non è alcuna cosa tale: perchè le nature mortali e false non sono proprio simili alle immortali e vere.

E quel che è dopo questo l’animo parla: questo s’intende che l’animo, mentre che giudica le nature divine con le mortali, falsamente delle divine parla: e non pronunzia le divine, ma le mortali.


Capitolo V

Come la bellezza di Dio per tutto splende ed amasi


E acciocché noi in breve molto comprendiamo, il Bene è essa supereminente essenza di Dio: la Bellezza è un certo atto, ovvero raggio, di quindi per tutto penetrante: prima nella Angelica Mente: poi nell’Anima dello Universo e nelle altre Anime: terzo nella Natura: quarto nella Materia de’ corpi. E questo raggio, la Mente d’ordine di Idee adorna, l’Anima d’ordine di ragioni empie, fortifica la Natura di semi, veste la Materia di forme. E come un medesimo raggio di Sole illustra quattro corpi, Fuoco, Aria, Acqua, e Terra: così un raggio di Dio, la Mente, l’Anima, la Natura e la Materia illumina. E qualunque in questi quattro elementi guarda il lume, vede esso raggio di Sole, e per esso si converte a considerare la luce superna del Sole. Così qualunque considera l’ornamento in questi quattro, Mente, Anima, Natura e Corpo, e esso ama, certamente il fulgore di Dio in questi, è per detto fulgore esso Dio vede ed ama.


Capitolo VI

Delle passioni degli amanti


Di qui avviene che l’impeto dello Amatore non si spegne per aspetto o tatto di corpo alcuno: [p. 34 modifica]perchè egli non desidera questo corpo o quello: ma desidera lo splendore della maestà superna, refulgente ne’ corpi: e di questo si maraviglia. Per la qual cosa gli Amanti non sanno quello si desiderino, o cerchino: perchè ei non conoscono Dio: l’occulto sapore del quale mise nelle opere uno dolcissimo odore di sè: per il quale odore tutto dì siano incitati. E sentiamo questo odore, ma non sentiamo il sapore. Con ciò sia adunque che noi allettati per il manifesto odore, appetiamo il sapore nascoso, meritamente non sappiamo, che cosa si sia quella che noi desideriamo. Ancora di qui sempre avviene che gli Amanti hanno timore e riverenza all’aspetto della persona amata: e questo avviene eziandio a forti e sapienti uomini in presenza della persona amata benchè sia molto inferiore. Certamente non è cosa umana quella che gli spaventa, occupa e frange, perchè la forza umana negli uomini più forti e sapienti, è sempre più eccellente. Ma quel fulgore della divinità, che risplende nel corpo bello, costringe gli amanti a maravigliarsi, temere e venerare detta persona, come una statua di Dio. Per la ragione medesima l’Amatore sprezza per la persona amata ricchezze e onori. Egli è ben dovere, che le cose divine alle umane si prepongano. Avviene eziandio spesse volte, che lo Amante desidera transferirsi nella persona amata: e meritamente. Perchè in questo atto egli appetisce, e sforzasi di uomo farsi Dio. O quale è quello che non voglia esser Dio, piuttosto che uomo? Accade ancora che quelli che son presi dal laccio di Amore, alcuna volta sospirano, alcuna volta si allegrano. Ei sospirano, perchè ei lasciano sè medesimi e distruggonsi: rallegransi, perchè in migliore abbietto si transferiscono. Sentono scambievolmente gli Amanti, or caldo, or freddo, ad esempio di coloro che hanno terzana errante. Meritamente sentono freddo quelli che il proprio caldo perdono. Ancora sentono caldo, essendo dal fulgore del superno raggio accesi. Da frigidità nasce timidità: da calidità nasce audacia, però gli innamorati altra volta timidi sono, e altra audaci. Gli uomini eziandio di ingegno tardo, amando diventano molto [p. 35 modifica]acuti. Quale è quello occhio, che per celeste raggio non vegga?

Infine a qui basti aver trattato de la diffinizione dello Amore, e de la Pulcritudine, che è sua origine, e de le passioni degli Amanti.


Capitolo VII

Di due generazioni di amore e di due Veneri


Ora disputeremo brevemente di due generazioni di Amore.

Pausania appresso di Platone afferma lo Amore esser compagno di Venere: e tanti essere gli Amori quante sono le Veneri: e racconta due Veneri da duoi Amori accompagnate. L’una Venere, Celeste, l’altra Vulgare: e la Celeste esser nata di Cielo senza Madre, la Vulgare nata di Giove e di Dione.

I Platonici chiamano il sommo Dio Cielo. Perchè come il Cielo contiene tutti gli altri, corpi, così Dio tutti gli altri spiriti. E chiamano la Mente Angelica per più nomi: alle volte Saturno, alle volte Giove, altra volta Venere. Perchè la Mente Angelica è, e vive, e intende, la sua Essenzia chiamano Saturno: la Vita Giove: la Intelligenzia Venere. Oltre a questo similmente l’Anima del Mondo chiamano Saturno, Giove e Venere. In quanto ella intende le cose supreme, s’appella Saturno: in quanto muove i Cieli, Giove: in quanto genera le cose inferiori si appella Venere. La prima Venere che abbiamo nominata, che è nella Mente Angelica, si dice esser nata di Cielo senza Madre: perchè la Materia da’ Fisici è chiamata Madre: e quella Mente è aliena dalla corporale Materia. La seconda Venere, che nell’Anima del Mondo si pone, di Giove e di Dione è generata: di Giove, cioè di quella virtù dell’Anima mondana: la qual virtù muove i Cieli. Imperocchè tal virtù ha creato quella potenzia, che le cose inferiori genera. Dicono ancora questa Venere aver Madre, per [p. 36 modifica]cagione che essendo ella infusa nella Materia del Mondo, pare che con la Materia si accompagni.

Finalmente per arrecare in somma, Venere, è di due ragioni: una è quella intelligenzia, la quale nella Mente Angelica ponemmo: l’altra è la forza del generare, all’Anima del Mondo attribuita. L’una e l’altra ha lo Amore simile, a sè compagno. Perchè la prima per Amor naturale a considerare la Bellezza di Dio è rapita: la seconda è rapita ancora per il suo Amore, a creare la divina Bellezza ne’ corpi mondani. La prima abbraccia prima in sè lo splendore divino: dipoi diffonde questo alla seconda Venere. Questa seconda transfonde nella Materia del Mondo le scintille dallo splendore già ricevuto. Per la presenza di queste scintille, tutti i corpi del Mondo, secondo sua capacità, resultano belli. Questa Bellezza de’ corpi l’animo dell’uomo apprende per gli occhi: e questo Animo, ha due potenzie in sè: la potenzia di conoscere, e la potenzia del generare. Queste due potenzie sono in noi due Veneri: le quali da duoi Amori sono accompagnate. Quando la Bellezza del corpo umano si rappresenta agli occhi nostri, la nostra Mente, la quale è in noi la prima Venere, ha in reverenza e in amore la detta Bellezza, come immagine dell’ornamento divino: e per questa a quello spesse volte si desta. Oltre a questo la potenza del generare, che è Venere in noi seconda, appetisce di generare una forma a questa simile. Adunque in amendue queste potenze è lo Amore il quale nella prima è desiderio di contemplare; nella seconda è desiderio di generare bellezza. L’uno e l’altro Amore è onesto, seguitando l’uno e l’altro divina immagine.

Or che è quello che Pausania nello Amore vitupera? Io ve lo dirò. Se alcuno per grande avidità di generare pospone il contemplare, o veramente attende alla generazione per modi indebiti, o veramente antepone la Pulcritudine del corpo a quella dell’Anima, costui non usa bene la degnità d’Amore: e questo uso perverso è da Pausania vituperato. Certamente colui che usa rettamente l’Amore, loda la forma del corpo: ma per mezzo di quella cogita una più eccellente spezie nell’Anima, [p. 37 modifica]nell’Angelo, e in Dio: e quella con più fervore desidera. Ed usa intanto l’uffizio della generazione, in quanto l’ordine naturale, e le leggi dai prudenti poste, ci dettano. Di queste cose tratta Pausania diffusamente.


Capitolo VIII

Esortazione allo amore, e disputa de lo amore semplice, e dello scambievole.


Ma voi, o Amici, conforto e priego, che con tutte le forze abbracciate l’Amore, che è senza dubbio cosa divina. E non vi sbigottisca quello, che di un certo Amante disse Platone: il quale, veggendo un Amante, disse: quello Amatore è un Animo nel proprio corpo morto, e nel corpo d’altri vivo. Nè ancora vi sbigottisca quello che della amara e miserabile sorte delli Amanti canta Orfeo. Queste come si abbiano ad intendere, e come si possa loro rimediare, io ve lo dirò: ma pregovi, che diligentemente mi ascoltiate.

Platone chiama l’Amore amaro, e non senza cagione, perchè qualunque ama, muore amando: e Orfeo chiama l’Amore un pomo dolce amaro2. Essendo l’Amore volontaria morte, in quanto è morte, è cosa amara: in quanto volontaria, è dolce. Muore amando qualunque ama: perchè il suo pensiero dimenticando sè, nella persona amata si rivolge. Se egli non pensa di sè, certamente non pensa in sè: e però tale animo non adopera in sè medesimo: con ciò sia che la principale operazione dell’Animo sia il pensare. Colui che non opera in sè, non è in sè: perchè queste due cose, cioè l’essere e l’operare, insieme si ragguagliano. Non è l’essere senza l’operare: l’operare non eccede l’essere: non adopera alcuno dove egli non è, e dovunque egli è, adopera. Adunque non è in sè l’Animo dell’Amante, da poi che in sè non adopera. [p. 38 modifica]Se egli non è in sè, ancora non vive in sè medesimo; chi non vive è morto, e però è morto in sè qualunque ama: o egli vive almeno in altri.

Senza dubbio due sono le spezie d’Amore, l’uno è semplice, l’altro è reciproco. L’Amore semplice è dove l’Amatore non ama l’Amante. Quivi in tutto l’Amatore è morto, perchè non vive in sè, come mostrammo, e non vive nell’Amato, essendo da lui sprezzato. Adunque dove vive? vive egli in Aria, o in Acqua, o in Fuoco, o in Terra, o in corpo di bruto animale? No: perchè l’animo umano, non vive in altro corpo che umano. Vive forse in qualche altro corpo di persona non amata? Nè qui ancora: imperocchè se ei non vive dove veementemente viver desidera, molto meno viverà altrove. Adunque in nessun luogo vive, chi ama altrui, e non è d’altrui amato: e però interamente è morto il non amato Amante. E mai non risuscita, se già la indegnazione noi fa risuscitare. Ma dove lo Amato nell’Amore risponde, l’Amatore almen che sia nello Amato vive. Qui cosa maravigliosa avviene, quando duoi insieme si amano: costui in colui, e colui in costui vive. Costoro fanno a cambio insieme, e ciascuno da sè ad altri, per altri ricevere. E in che modo e’ diano sè medesimi, si vede, perchè sè dimenticano: ma come ricevono altri non è sì chiaro. Perchè chi non ha sè, molto meno può altri possedere. Anzi l’uno e l’altro ha sè medesimo, e ha altrui: perchè questo ha sè, ma in colui: colui possiede sè, ma in costui. Certamente mentre che io amo te amante me, io in te cogitante di me ritruovo me: e me, da me medesimo sprezzato, in te conservante riacquisto. Quel medesimo in me fai tu.

Questo ancora mi pare meraviglioso: imperocchè da poi che io me medesimo perdei, se per te mi racquisto, per te ho me. Se per te io ho me, io ho te prima, e più che me: e sono più a te che a me propinquo. Con ciò sia che io non mi accosto a me, per altro mezzo che per te.

In questo la virtù di Cupidine dalla forza di Marte è differente. Perchè l’Imperio e l’Amore così sono differenti. L’Imperatore, per sè altri possiede: [p. 39 modifica]l’Amatore, per altri ripiglia sè, e l’uno e l’altro degli Amanti di lungi si fa da sè, e propinquo ad altri: e in sè morto, in altri risuscita. Una solamente è la morte nell’Amore reciproco: le resurrezioni sono due, perchè chi ama, muore una volta in sè, quando si lascia:3 risuscita subito nell’Amato quando l’amato lo riceve con ardente pensiero: risuscita ancora quando egli nell’Amato finalmente si riconosce, e non dubita sè esser amato. O felice morte alla quale seguitano due vite, o maraviglioso contratto4 nel quale l’uomo da sè per altri, e ha altri, e sè non lascia5. O inestimabile guadagno, quando duoi in tal modo uno divengono, che ciascheduno de’ duoi per un solo diventa due: e, come raddoppiato, colui che una vita aveva, intercedente una morte, ha già due vite: imperocché colui, che essendo una volta morto, due volte risurge, senza dubbio per una vita, due vite, e per sè uno, duoi sè, acquista.

Manifestamente nell’Amore reciproco giustissima vendetta si vede. L’omicidiale si dee punire di morte: e chi negherà colui che è amato, essere micidiale? con ciò sia che l’Anima separi dall’Armante. E chi negherà lui similmente morire? quando egli similmente ama lo Amante. Questa è restituzione molto debita: quando costui a colui, e colui a costui, rende l’Anima, che già tolse. L’uno e l’altro amando dà la sua: e riamando, per la sua restituisce l’Anima d’altri! Per la qual cosa per ragione debbe riamare qualunque è amato. E chi non ama l’Amante è in colpa di omicidio, anzi è ladro, micidiale e sacrilego. La pecunia dal corpo è posseduta: e il corpo dall’animo: adunque chi rapisce l’animo, dal quale il corpo e la pecunia si possiede, costui rapisce insieme l’animo, il corpo, e la pecunia; il perchè come ladro, micidiale e sacrilego si debbe a tre morti condannare. E come infame ed empio, può senza pena da ciascuno essere ucciso: se già egli medesimo spontaneamente [p. 40 modifica]non adempie la legge: e questo è, che egli ami l’Amante suo. E così facendo egli, con quello che una volta è morto, similmente una volta muore: e con colui che due volte risuscita, egli ancora due volte risuscita6.

Per le ragioni predette abbiam dimostro l’amato dovere riamare l’amante suo. Di nuovo non solamente dovere, ma essere costretto, così si mostra. L’Amore nasce da similitudine: la similitudine è una certa qualità medesima in più subbietti: sì che se io son simile a te, tu per necessità sei simile a me. E però la medesima similitudine, che costringe me che io ti ami, costringe te a me amare. Oltre a questo l’amatore sè toglie a sè, e allo amato si dà, e così diventa cosa dello amato. L’amato ha adunque cura di costui come di cosa sua: perchè a ciascuno sono le sue cose care. Aggiugnesi che l’Amante scolpisce la figura dell’Amato nel suo Animo. Diventa dunque l’Animo dell’Amante un certo specchio, nel quale riluce la imagine dell’Amato. Il perchè quando l’Amato riconosce sè nell’Amante, è costretto a lui amare.

Tengono gli Astrologi l’Amore essere veramente scambievole tra coloro nelle natività de’ quali si scambiano i luoghi del Sole e della Luna: come se nascendo io, si trovasse il Sole nell’Ariete e nella Libra la Luna: e nascendo tu, il Sole fusse nella Libra e la Luna nell’Ariete: o se veramente avessimo nell’ascendente7 un medesimo e simile segno, ovvero un medesimo e simile pianeta, o che benigni Pianeti similmente riguardassino l’angolo orientale, o che Venere venisse posta nella medesima casa e nel medesimo grado. I Platonici aggiungono a questi, coloro la vita de’ quali è da un medesimo Demone governata. I fisici e i morali vogliono che la similitudine della complessione, dell’essere allevato, dell’essere erudito, della domestichezza e dei pareri, sia cagione di simili affetti. Finalmente quivi si truova maggiormente [p. 41 modifica]scambiarsi l’Amore dove più cagioni concorrono insieme: e dove elle concorron tutte quivi si veggono surgere gli affetti di Pitia e di Damone, e di Pilade e di Oreste.


Capitolo IX

Che cercano gli amanti


Ma che cercano costoro, quando scambievolmente si amano? Cercano la pulcritudine: perchè l’Amore è desiderio di fruire pulcritudine, cioè Bellezza. La Bellezza è un certo splendore, che l’Animo umano a sè rapisce. La bellezza del corpo non è altro, che splendore nell’ornamento de’ colori e linee: la bellezza dell’animo è fulgore nella consonanza di scienze e costumi: quella luce del corpo non è conosciuta dagli orecchi, naso, gusto o tatto, ma dall’occhio. Se l’occhio la conosce, solo la fruisce: solo adunque l’occhio fruisce la corporale Bellezza. Ed essendo l’Amore desiderio di fruire Bellezza, e questa conoscendosi dagli occhi soli, l’amatore del corpo è solo del vedere contento: sì che la libidine del toccare non è parte di Amore, nè affetto di amante, ma spezie di lascivia e perturbazione di uomo servile. Ancora quella luce dell’Animo, solo con la mente comprendiamo: onde chi ama la Bellezza dell’Animo, solo si contenta di considerazione mentale. Finalmente la Bellezza tra gli amanti per Bellezza si scambia. Il più antico8 con gli occhi fruisce la Bellezza del più giovane: e il più giovane fruisce con la mente fa Bellezza del più antico. E colui che solo di corpo è bello, per questa consuetudine diventa bello dell’Animo: e colui che dell’Animo solo è bello, riempie gli occhi di corporale Bellezza. Questo è cambio maraviglioso all’uno e all’altro, onesto, utile e giocondo: la onestà in amendue è pari: perchè egualmente è onestà lo apparire e lo insegnare. Nel più antico9 è giocondità [p. 42 modifica]maggiore, il quale ha delegazione di aspetto e di intelletto. Nel giovane è maggiore utilità imperocchè quanto è più prestante l’anima che il corpo, tanto è più prezioso l’acquisto della Bellezza intellettuale, che della corporale.

Insino a qui abbiamo esposto la Orazione di Pausania, per l’avvenire la Orazione di Erissimaco dichiareremo.


Note

  1. Il passo della Repubblica, a cui il Ficino allude, è il seguente:
    «Quale pertanto degli dei che sono nel cielo, puoi tu chiamare autore di questo, che la luce faccia sì che vegga la nostra vista benissimo e le cose che sotto la vista cadono siano vedute?
    «Quell’istesso che tu e gli altri, rispose; da che manifestamente tu mi domandi del sole.
    «Ora, a rispetto di questo dio, la nostra vista non è ella naturalmente a questo modo disposta?
    «Come?
    «Così che la vista non sia il sole medesimo, nè ciò dove la vista è posta, e che noi appunto occhio denominiamo.
    «No da vero.
    «Ma il più simile al sole è, per mio avviso, di tutti gli organi che servono a’ sensi.
    «Di certo.
    «Ed anco la facoltà sua non l’ha ministrata e come infusa da esso?
    «Sicuramente».

    (Trad. Ferrai).

  2. Il testo latino reca: «Nunc et Orpheum γλυχυπιχρου id est dulce amarum nominat».
  3. Cum se negligit.
  4. O mirum commercium!
  5. Nec habere se desinit.
  6. Ubi cum semel moriente, semel ipse similiter moritur: cum bis reviviscente, bis itidem reviviscit.
  7. Aut quibus signum idem simileve, idemque pianeta similisve ascenderit.
  8. Vir.
  9. In seniore.