Storia della rivoluzione di Roma (vol. I)/Capitolo I

Da Wikisource.
Capitolo I

../Lettera di Giuseppe Spada ../Capitolo II IncludiIntestazione 2 maggio 2020 75% Da definire

Lettera di Giuseppe Spada Capitolo II

[p. 36 modifica]


CAPITOLO I.

[Anno 1846]


Impressione prodotta in Roma dalla morte di Gregorio XVI. — Notizie sul di lui carattere, meriti, e dottrina. — Considerazioni sopra i suoi atti. — Spirito pubblico in quel tempo. — Varie categorie del liberalismo italiano.


Passato a miglior vita il 1 di giugno dell’anno 1846 il pontefice Gregorio XVI, il popolo romano era in grandissima sollecitudine per la elezione del novello successore.

Non era spento è vero nei Romani l’amore verso i papi, nè l’ossequio e la venerazione verso il papato. Tuttavia gli ultimi periodi della vita di Gregorio XVI non andarono esenti da un certo indifferentismo, provocato in parte dalle artificiose e malevoli insinuazioni di uomini perversi, in parte da quel mostrarsi poco accessibile, per non dire diffidente inverso i suoi sudditi, di che si ebbe a riprendere massime in sugli ultimi del suo pontificato.

Oltre a ciò gli stranieri incitamenti e le opere di ogni fatta provocatrici a nuove riforme, le quali in appresso enumereremo, rattiepidirono siffattamente l’affetto in quella parte dei Romani più colta e più influente per rapporti, che la morte del pontefice fu per essa poco sentita e meno lamentata. Anzi per fare mostra delle poche simpatie che si nutrivano verso il suo cessato governo, parecchi scritti si propalarono, ove, con acerbe parole e papa e cardinali e governo aspramente si censuravano, tendenti tutti a diffamare l’antico sistema gregoriano.

E questi scritti partivano senza dubbio da nomini avversi per principio al papato; molti de’ quali, anzi la maggior parte, erano estranei del tutto a Roma. Non sì può [p. 37 modifica]negare che sia stato sempre vezzo dei Romani, anche nei tempi più tranquilli, quando meno pensavasi a rivolture, di scrivere componimenti satirici sia in verso, sia in prosa a forma di dialogo, ponendo in iscena Pasquino e Marforio, come interlocutori mordaci.

Ma le satire lanciate in occasione della morte di Gregorio XVI erano così acri e virulente che ben davano a conoscere non essere uscite da bocca o da penna romana, perchè contrarie troppo alla loro indole mite e burlesca. L’andazzo però di quel tempo voleva che si pubblicasse come sentimento comune dei Romani quel ch’era sfogo di malvagità non romana.

Era Gregorio XVI accorto e circospetto, ed ammaestrato inoltre dalle passate vicende, poco si mostrava tenero dei liberali, e poco o nulla credeva alle loro proteste di conversioni e ravvedimenti.

Un muro di bronzo aveva eretto fra i liberali ed il papato, e questo muro di bronzo non volle mai atterrare. Avversava qualsivoglia politica riforma, si opponeva gagliardamente all’attuazione delle vie ferrate, e non propendeva pei Congressi scientifici, siccome colui che ben sapeva esserne la scienza un pretesto, la politica il reale motore.

Eran sempre presenti al suo vigile sguardo i moti del 1831 i quali non furono una verace espressione della volontà dei popoli rispetto al sovrano, imperocchè la rivoluzione scoppiò nelle Romagne appena creato il novello papa, quando cioè non conoscendosi ancora il suo metodo di governare non potevano per conseguente le sue azioni riscuotere plauso o disapprovazione dai suoi sudditi.

Non è a dire neppure che fosse provocata dal suo antecessore, imperocchè la mitezza e la tolleranza del pontefice Pio VIII, ed il prospero stato delle finanze di quel tempo tutt’altro dovevano ingenerare che politiche rivolture.

Dal che consegue che la rivoluzione scoppiò per opera dei cospiratori di Francia, di concerto coi capi del movimento italiano, e venne incoraggiata dalle bugiarde [p. 38 modifica]promesse del non intervento, macchia indelebile del mal fermo, astuto, inqualificabile governo di Luigi Filippo in quei tempi.

E dove pure alcuno avesse voluto persuadersi che siffatti sconvolgimenti fosser suscitati dalle imprudenti parole del generale Sebastiani e dalle mene sovversive dei Lafitte e dei Lafajette, quasi ch’esse ne fossero stata la causa esclusivamente impellente, dovette convincersi del contrario, allorquando, e per gli attentati del 1843 nel bolognese, e per la scoperta cospirazione del Galletti nel 1844, e pel tentativo di Rimini del 1845, venne chiarito ch’esisteva costantemente in azione un partito nelle Romagne il quale desiderava assolutamente di rovesciare il governo clericale.

Se dunque lo spettro terribile della rivoluzione turbava i sonni di Gregorio XVI, ed eccitava le sue cure a combatterla con tutti i mezzi ch’erano in suo potere, area ben ragione di farlo, perchè colle rivolture del 1831, accadute sin dai primordi del suo pontificato, erasegli porta una prova troppo incontrastabile che non al papa rompevasi guerra, sibbene al papato.

Non eran dunque irragionevoli i suoi sospetti, non riprovevoli i suoi atti, non mal fondata la sua sfiducia. Stava cogli occhi forse troppo aperti. Bel difetto in chi è destinato dalla Provvidenza a reggere le sorti dei popoli.

Del resto dottissimo uomo egli era, e sopratutto nelle discipline ecclesiastiche, di che fa fede l’opera che pubblicò sul trionfo della Santa Sede.1

Per amatore intelligente delle belle arti e dotto in archelogia tutti lo conobbero, e ne dette prova luminosa coll’avere arricchito il museo vaticano di un museo etrusco, e di uno egiziano. Migliorò con apposito regolamento il codice dei delitti e delle pene, ordinò la stampa annuale [p. 39 modifica]del bollettino delle leggi, e creò una commissione perla riforma del codice di procedura civile. Abbellì molte chiese, alcune strade migliorò, e per dare corso regolare all’Aniene fece traforare il monte Catillo a Tivoli.

Quanto al suo carattere, era fermo, decisamente, e se mostravasi severo, era però giusto e dignitoso, nè mancavagli affabilità e piacevolezza di modi. Niuno infine contendevagli di essere un uomo di spirito, e di svegliato ingegno.

Non è però che non ci uniamo ancor noi in riprovare quella eccessiva riservatezza, che avea quasi della diffidenza, addimostrata dal pontefice specialmente in sugli ultimi anni, nei quali correva voce che si fosse poco men che racchiuso in Vaticano, e mentre mostravasi piacevole ed accessibile agli esteri che visitavanlo, poco mostravasi desideroso di essere avvicinato da’ suoi sudditi. Non loderemo neppure tutti gli atti della sua amministrazione, nè tutti gli uomini che scelse per sostenere la macchina governativa, nè la creazione dei centurioni, nè quelle commissioni inviate nelle provincie, le quali esasperarono forse, in luogo di calmarle e sopirle, le ire accese in una parte di quelle svegliatissime popolazioni.

Parole di biasimo altresì per molte bocche si udirono a cagione della scelta del tesoriere, e per la incuria che tollerò sulla esibizione dei conti arretrati, i quali vider finalmente la luce sotto il pontificato di Pio IX, e di cui più diffusamente avremo a parlare in appresso.

Di questo all’infuori non credasi alle tante cose che la malvagità diffondeva a suo carico, nè alle esagerate accuse di tirannia, o di sevizie della polizia verso i cittadini romani; che anzi gli ultimi anni del suo pontificato furono notevoli per l’attuazione di quella massima governativa fare e lasciar dire, cosicchè per verità, mentre non gode vasi di libertà legale, di libertà di fatto godevasene moltissima.

E fu appunto in quel tempo che vennero ammessi alla [p. 40 modifica]libera circolazione in Roma Gli ultimi casi di Romagna per Massimo d'Azeglio, ove prodigavansi elogi al cardinale Gizzi, ed il Primato e i Prolegomeni del Gioberti, le quali opere venivano lette pubblicamente, perchè emanante la prima da un uomo, che avendo speso in Roma i più verdi anni della sua giovinezza, era dalla società romana amato ed oltremodo conosciuto; le altre da tale, che vuoi pel merito scientifico, vuoi pel tema propostosi, solleticavano tutti a leggerle, e dalla cui lettura sentivasi ingalluzzito perfino il basso clero.

Aggiungi poi e I conforti all’Italia ovvero preparamenti alla insurrezione che pubblicavansi in Parigi dal napolitano Ricciardi e giungevano in Roma, e i Pensieri sull’Italia di un anonimo lombardo, e l’opera del Durando sulla Nazionalità italiana che pubblicossi in Losanna, e le Speranze d’Italia del Conte Cesare Balbo, pubblicate fino dal 1844 in Capolago, e l’opera di Gabriele Rossetti intitolata: Roma verso la metà del secolo XIX.2

Tutti questi ed altri scritti ancora penetravano in Roma, e tutti tendevano allo scopo o di provocare miglioramenti e riforme, o di rivoluzionare Roma e l’Italia. E con tanta maggior avidità leggevansi, quanto minore era nei lettori l’abitudine di avere fra mani opere siffatte, tanto più che in molti era già nato il desiderio di vedere introdotte quelle migliorìe, che, com’era voce comune in quei tempi, fossero in relazione ooi bisogni della società.

E tanto a forza di dire e ridire, e col sentire i racconti delle altrui beatitudini e quelli delle proprie miserie, eransi rinvigoriti cosiffatti desideri, ohe a certuni pareva, e se ne vantavano senza ben conoscerne il peso, di essere divenuti progressisti e liberaloni.

Egli è un fatto che quando la temperie degli spiriti è alta, tutti, o vogliano o non vogliano, devon parteciparne un poco. È proprietà del calorico di equilibrarsi per via di contatto coi corpi circostanti.

[p. 41 modifica]Ei fu appunto in questi frangenti, e con questa disposizione di animi, che accadde la morte di Gregorio XVI.

Facevansi apparecchi per una festa popolare che nella sera del primo di giugno darsi voleva dal principe Torlonia nella sua villa fuori la porta Pia, e per dare ordine alla riunione, presiedevo io stesso che scrivo alla distribuzione dei biglietti d’ingresso alle 9 antimeridiane, quando ebbi una chiamata dal conte Lutzow ambasciatore di Austria, per prevenirmi che il papa era morto.

Al tristo annunzio fu sospesa incontanente la festa, ma tanto è lungi che se ne sapesse la ragione generalmente, che verso le ore 11 antimeridiane, persona di alto affare mandò a richiederci de’ biglietti.

Tocchiamo queste particolarità per far comprendere con quanto riserbo si cercasse di propalare l’acerbo caso. Certo si è che i cittadini in genere, anche la parte più ragguardevole, vennero in cognizione della morte del pontefice assai più tardi che non avrebber creduto. Perchè poi si volesse tale riserbatezza, nel propagarne la novella, dal fin qui narrato fia agevole il congetturarlo.

Quei che veggono assai più in là nelle cose politiche, che non l’occhio del volgo, erano per siffatta perdita gravemente impensieriti, perchè scorgevano già addensarsi da lontano quella procella che doveva poscia discaricarsi su Roma, ad allontanare la quale non vedevano chi fosse da tanto.

Si rattristavano i buoni in vedere che l’ironia, i motteggi, e la disistima fosser pressoché nelle bocche di tutti.

Ammettasi pure che vi soffiasser per entro elementi a Roma estranei, e con fine perverso. Egli è un fatto incontrastabile però che così per gli scritti che leggevansi, sia nella solitudine dei chiostri, sia fra le mura domestiche, e molto più dalle ardenti scolaresche, anche per il pascolo che più ampio somministravano le satire giocose e pungenti, ed i componimenti poetici, ora scherzevoli, ora aspri ed acerbi, come per il parlare libero e franco che apertamente [p. 42 modifica]facevasi, l’opinione pubblica era alterata, gli animi incerti, la tranquillità malferma.

E guai se questa opinione per artifici tenebrosi, o per altra qualunque causa venga corrotta e traviata, e non si pervenga a ricondurla nel suo compito naturale, imperocchè essa domina e signoreggia, e trascina talvolta anche i più renitenti. Ed appunto perchè questa opinione non mostravasi favorevole al cessato governo, il popolo romano avrebbe visto di mal occhio cadere la elezione del papa novello nella persona o del cardinale Lambruschini, o di quei che partecipavano alla sua politica.

Quale meraviglia pertanto se, divulgatosi l’annunzio nella sera del 16 giugno 1846 che il cardinale Gizzi fosse stato eletto papa, eccitasse colla velocità della scintilla elettrica una specie di tripudio in Roma? Gli agitatori ne accolsero con festa l’annunzio, perchè essendo in fama, per gli elogî del d’Azeglio, di essere uomo saggiamente liberale, ne presagivano bene per le loro vedute, mentre gli onesti e tranquilli credettero ravvisarvi il conciliatore fra il vecchio sistema e le idee moderne, e quindi essere mandato dalla Provvidenza per salvare dall’imminente procella la navicella di san Pietro.

Alla gioia e al tripudio però sottentrò un visibile raffreddamento negli animi allorquando si seppe nella sera stessa da certuni non essere il Gizzi eletto; fra questi pochi fummo noi, e ne demmo l’annunzio in una casa molto distinta, e per sociali rapporti ragguardevole; ma non fummo creduti. Tanta era in tutti la persuasione che il Gizzi fosse stato veramente l’eletto.

Ciò spiega quella piuttosto tiepida accoglienza che fecesi nella mattina seguente all’annunzio del nuovo papa, in persona del cardinale Mastai, dato dalla loggia del Quirinale. Ma di ciò meglio terremo discorso nel capitolo seguente.

Intanto reputiamo pregio dell’opera il narrare come si regolasse negli stati pontifici quel partito che intendeva di migliorarne le sorti coll’introdurvi alcune riforme. [p. 43 modifica]

Prima di tutte fra le città della pontificia dizione dette il segnale Bologna raccogliendo in sui primi giorni del giugno 1846 un numero considerevole di sottoscrizioni che vuolsi giungesse a quello di 1753, compilando una supplica da inviarsi a Roma al cardinale camerlengo. Esercita esso, come tutti sanno, il sommo potere nei momenti di sede vacante.

Domandavasi con detta supplica al futuro pontefice la rappresentanza legale dei bisogni del popolo per mezzo dei consigli provinciali, e ne furono promotori

Minghetti Marco
Aglebert Augusto
Berti-Pichat
Pepoli marchese Gioachino
Tanara marchese Ludovico
Marchetti conte Giovanni. 3

Consimili suppliche o indirizzi elaboravansi in Ferrara, Ravenna e Forlì. In Osimo e Ancona poi vennero presentati dalle magistrature comunali ai rispettivi vescovi.

Ciò faceva il partito dei riformatori che rappresentavano una parte della società colta e distinta, e che per un momento chiameremo i dottrinarî dello stato pontificio, prendendone l’idea dai dottrinarî francesi sotto il ministero Guizot.

Questo partito almeno agiva a fronte scoperta e chiedeva cose che non avevano dell’impossibile ad effettuarsi.

Si trovò per verità inconveniente il modo di chiedere, perchè quell’inviare una supplica coperta da migliaia di firme, scimmiottando così Francia e Inghilterra, dava un carattere se non di violenza, almeno d’imbarazzante pressura alla domanda.

Ciò che si facesse poi in quei giorni il partito degli [p. 44 modifica]avventati fra le tenebre delle congreghe segrete, possiamo piuttosto supporre che dichiarare.

Risulta però da una rivelazione importantissima fattaci recentemente da un affigliato alla Giovane Italia, e che racconteremo meglio in appresso, che questo partito non istavasene già colle mani alla cintola, ma che, sia ricevendo la imbeccata dai rifuggiti all’estero, sia agendo di proprio moto, era in una costante operosità anche in Roma.

Queste pratiche o preparamenti ebber luogo, senza dubbio, nel giugno del 1846, e quindi erano isocrone colle pratiche dei Bolognesi e degli altri popoli delle Romagne, di cui abbiamo di sopra discorso.

Ed intanto apparisce che i due partiti coll’iniziare l’agitazione, ciascuno coi propri mezzi, tendevano ad un fine opposto. Perchè il primo accontentavasi di un governo papale ammodernato, il secondo andava diritto e reciso alla repubblica unitaria italiana.

Diffidenti fra loro cercavan quei del primo partito di prendere l’iniziativa del movimento, quasi temendo di farsi dagli altri antecedere.

Ritenendoli eccessivi troppo nei desideri, o imprudenti e rischiosi nella scelta dei mezzi, posero mente alla necessità di tenerli in briglia e scansarli, per timore che colle loro improntitudini non guastassero l’opera loro. Mentre quei del partito più arrischiato, mostrando fiducia più ardente e fervorosa nei propri mezzi, lasciavan dire agli altri, e intanto ascosamente operavano. Nel di poi delle battaglie sarebbesi veduto in chi fosse per ricadere la palma e gli onori del trionfo vincendo. A cose perdute, non mancan mai i partiti di lacerarsi a vicenda, l’uno addossando all’altro la colpa della sconfitta.

In tanta confusione d’idee e di principi, quanta può esisterne negli uomini della rivoluzione, riesce assai malagevole il determinare nettamente qual cosa si volessero e con quali mezzi; ma non ostante ci sembra di poter rilevare che il liberalismo italiano era diviso in tre sezioni. [p. 45 modifica]La prima degli uomini che sembravano volere, almeno per allora, la conservazione del papato ammodernato bensì e portato alle idee del giorno.

La seconda degli uomini che miravano ad entrare nella sala dorata della repubblica, passando prima per l’anticamera del papato costituzionale.

La terza di quei che diritto giungere volevano alla repubblica senza passare per tante trafile nè di papato, nè di ordini rappresentativi; e questo ci sembra essere stato allora il partito più abile e coerente, o per lo meno (senza approvarne lo scopo e le dottrine) il più sincero.

Arduo ci sembra lo stabilire con precisione quali ne fossero i campioni, imperocchè non sempre ci dicevan chiaramente ciò che pensavano; in prova di che citeremo il famoso Gioberti, che, vero camaleonte politico, si chiarì negli ultimi suoi scritti tutt’altro da quello che nei primi appalesossi.

Pur tuttavia ci sembra che nei primi tempi il movimento fosse capitanato presso a poco nel modo seguente:


            1.° Col papa e coi sovrani mediante governi a forme rappresentative:

Gioberti abate Vincenzo Minghetti Marco
D'Azeglio march. Massimo Ranalli Ferdinando
Balbo conte Cesare Lambruschini abate Raffaello
Petitti conte Ilarione Capponi Gino
Durando gen. Giacomo Salvagnoli avv. Vincenzo
Leopardi Pier Silvestro Ricasoli Bettino
Pasolini conte Giuseppe Troja avvocato Carlo
Pepoli march. Gioachino Bozzelli Francesco Paolo
Recchi conte Gaetano Orioli professore Francesco
Mamiani conte Terenzio Armandi colonnello Pietro
Farini dottore Luigi Carlo Zucchi generale Carlo
Gualterio march. Filippo A. Rossi conte Pellegrino.

[p. 46 modifica]            2.° Di colore più incerto e più vergente al repubblicanismo:

Montanelli prof. Giuseppe Torre Federico
Poerio Carlo Galletti avv. Giuseppe
Canuti avvocato Filippo Settembrini avvocato Luigi
Rusconi Carlo Pepe generale Guglielmo
Gabussi avvocato Giuseppe Tommasèo Niccolò
Dragonetti marchese Luigi Di Campello conte Pompeo
Amari conte Michele Ferrari generale Andrea
Gazola monsignor Carlo Gavazzi Padre Alessandro
Ventura P. Gioacchino Massari Giuseppe
Ferretti conte Pietro Muzzarelli mons. Carlo Em.le


            3.° Repubblicani più decisi, o tali almeno in apparenza:

Mazzini Giuseppe Ruffoni Lizabe
Garibaldi generale Giuseppe Dall’Ongaro Francesco
Manin Daniele De Boni Filippo
Ricciardi Giuseppe
Rossetti Gabriele
Di Canino principe Carlo Modena Gustavo
Masi Luigi Montazio Enrico
Brofferio avvocato Angelo Cattaneo Carlo
Guerrazzi avv. F. Domenico Sterbini Pietro
Lafarina Giuseppe Orsini avvocato Felice
Lamasa Luigi Vannucci Atto
La Cecilia Giovanni Cernuschi Enrico.

Ripetiamo che questo è ciò che presso a poco ci sembra in merito alle varie frazioni o categorie del liberalismo italiano. Del resto, limiti precisi non posson darsi perchè ciascuna categoria può confondersi o compenetrarsi coll’altra, cosicchè si ponga pure ognuno ove meglio credesi, che ciò poco monta, e forse molti non saprebbero essi stessi ove collocarsi.

[p. 47 modifica]Ciò che peraltro ci sembra emergere dal complesso delle cose passate si è che il partito dei non dottrinari, pessimo per il fine cui tendeva, agi più copertamente è vero, ma con maggiore astuzia, abilità ed unità di scopo, imperocché, volendo la rivoluzione radicale, colse nel segno, appoggiandosi tutto, come i fatti il provarono, alle agglomerazioni di popolo, tanto raccomandate dal Mazzini.

Colle agglomeraziom di popolo facevansi le dimostrazioni, e colle dimostrazioni si fece la rivoluzione.

E siccome tutta la rivoluzione consistette in dimostrazioni, che come unico mezzo dal Mazzini e dalla Giovine Italia da esso capitanata, volevansi, così può asserirsi francamente che la Giovane Italia capitanò ab origine tutto il movimento romano.

L ’epoca però che trascorse fra la sparizione dal mondo del vecchio papa e la comparsa del nuovo, fu un’epoca per il partito dell’ultra movimento piuttosto di espettazione che di operosità manifesta e se si fecer apparecchi erano dessi, o consistevan soltanto nel discutere sulle varie ipotesi della condotta da tenersi, ma sempre in un modo ascoso, segreto, inostensibile.

Abbiamo creduto bene di porre sotto gli occhi dei leggitori queste notizie preliminari, per render loro più chiara la esplicazione di quel che si fece, o si vide in seguito. Egli è con ciò che speriamo di conferire al nostro lavoro un qualche pregio di politica utilità.






Note

  1. Vedi il Trionfo della Santa Sede per Don Mauro Cappellari, pubblicata nel 1799, e ristampata dal Battaggia in Venezia nel 1832 in un grosso vol. in-4.
  2. Vedila tra le Miscellanee della nostra raccolta, vol. VII, n. 1.
  3. Vedi Montanelli Memorie, vol. I, pag. 130. — Gualterio Memorie storiche, vol. II, pag. 580. — L’opera intitolata Miscellanea del giorno, stampata in Parigi nel 1846 alla pag. 213.