Storia della rivoluzione di Roma (vol. I)/Capitolo XIX
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[Anno 1847]
Aprivasi il mese di ottobre sotto men lieti auspici. Il governo aveva toccato con mano essersi appiccato o andarsi ad appiccare il fuoco all’Italia intiera, poichè le grida nella stessa Roma non eran più di papa soltanto ma d’Italia e d’indipendenza. Tali grida s’intesero risonare nei pubblici teatri, tali risonarono nelle pubbliche strade le sere dei 7 ed 8 dello scorso settembre, e tali pure echeggiavano sotto le volte dei circoli divenuti quasi tutti fomiti manifesti di politiche macchinazioni. Ormai eransi tutti chiariti che una leva stessa mosse quelli di Roma, quelli di Firenze, e quelli di Milano nel medesimo tempo. Ricordavansi le ovazioni farnetiche fatte al Canino ed al Masi il giorno 10 in Livorno, e la festa federale del giorno 12 in Firenze per la guardia civica, che finalmente venne strappata a forza al granduca di Toscana,1 e non si dimenticava l’immediato e tumultuario armamento della civica in Livorno il giorno 20.2 Erano infine presenti a tutti le parole bellicose di Carlo Alberto palesate dal conte di Castagneto nei comizi agrari di Casale,3 non che la dimostrazione colossale che in ispreto degli ordini del governo si fece in Torino il primo di ottobre.4 Tutte queste manifestazioni eran di sì grave momento, che considerate unitamente, convincer dovevano anche gli ottimisti a riconoscere che non trattavasi più di semplici miglioramenti e di riforme, ma sì bene di rivoluzione italiana alla quale Roma aveva servito di leva, e punto di appoggio.
Non dubitiamo anzi di asseverare che tanto il Santo Padre quanto il suo primo ministro ne fosser seriamente impensieriti e preoccupati, conoscendo entrambi non esservi più forza umana capace dì allontanare la tempesta che addensavasi sulla italica penisola.
Ed eran le cose giunte a tale, che sebbene il Santo Padre avesse quasi toccato con mano che l’Italia tutta era simile ad una crosta vulcanica, e sapesse che quella scintille, che uscivan dalla cenere che ricuoprivala, erano scintille prenunziatrici di quel fuoco d’indipendenza, che avrebbe poscia minacciato di ardere anche il papato, pur tuttavia trovavasi talmente compromesso per la intempestività delle mosse austriache, che non solo non poteva indietreggiare, ma doveva perseverare in quella sdegnosa fermezza rivendicatrice dei propri diritti; la quale mentre per lui era dignitosa e necessaria, confermava e corroborava quei sensi di ostilità manifesta che già esistevano verso gli Austriaci, e somministrava esca novella al fuoco distruggitore. In una parola se il papa avesse voluto, come altre volte, ricorrere all’Austria per aiuto e soccorso, doveva in questa far sembiante invece di porsi in braccio ed affidarsi alla tutela dei liberali.
Ciò si rileva dalla lettera che il primo di ottobre diresse il cardinal Ferretti a monsignor Viale Prelà nunzio pontificio in Vienna, la quale lettera è riportata dal Farini.5
Lasciando da parte la questione per la occupazione di Ferrara, altra difficoltà sorgeva fra i due governi per le parole ingiuriose, o almeno per le esorbitanze di linguaggio, in cui trascorrevano le pubbliche stampe a carico dell’Austria. Ciò pure formò il soggetto di una corrispondenza fra il generale Fiquelmont ed il conte Lutzow austriaco ambasciatore in Roma,6 ed ai richiami del Fiquelmont rispondeva di nuovo il cardinal Ferretti con lettera del 19 ottobre,7 e con altra senza data.
Tutte queste cose rendevano la situazione del Santo Padre sempre più difficile e pericolosa. Esso trovavasi fra due fuochi, di cui in quel momento non sapremmo dire qual fosse il peggiore. Continuavano però le trattative, delle quali più tardi si darà da noi la soluzione. Certo è che l’Austria colla sua mossa imprudente ed intempestiva non potea meglio porgere motivo o pretesto per rafforzar l’italica agitazione.
Intanto il 4 di ottobre fu tenuto dal Santo Padre un concistoro segreto nel palazzo sul Quirinale,8 nel quale creò il patriarca di Gerusalemme, e pronunziando l’allocuzione: «Quisque vestrum,» provvide a tre chiese arcivescovili e cinque vescovili, e conferi due titoli in partibus e tre pallî. Terminava la sua allocuzione con alcune parole dirette ai popoli, colle quali inculcava loro di essere obbedienti e sottomessi verso i principi regnanti. Eccole:
«Tamen vehementer dolemus in diversis locis nonnullos e populo existere, qui nostro nomine temere abutentes et gravissimam Personæ Nostræ, ac supremæ dignitate injuriam inferentes, debitam erga principes subjectionem denegare, et contra illos turbas pravosque motus concitare audent. Quod certe a nostris consiliis adheo abhorrere constat, ut in nostris encyclicis literis ad omnes venerabiles fratres episcopos die nona mensis novembris superiori anno datis, haud omiserimus inculcare debitam erga principes et potestates obedientiam &.»
Se queste parole fossero state tradotte e divulgate, forse avrebber trascinato qualcuno di meno a farsi illudere, perchè sono tutt’altro che incoraggianti a rivolture, e possono applicarsi non solo ai popoli italiani, ma a tutti i popoli del mondo.
Diciamo ciò perchè, ad omaggio della verità, ci sarebbe piaciuto che fosser divulgate e diffuse popolarmente, allo effetto di disingannare molti e molti ai quali si era fatto credere maliziosamente che il papa fosse in certo modo quasi incoraggiatore delle sommosse anti-austriache, mentre i suoi atti dal primo all’ultimo son sempre consentanei, ed egli tutte le volte che ha parlato sia come papa, sia come principe temporale, mai non ha deviato, neppure unistante, dai doveri impostigli dalla sublime sua missione.
Il giorno 5 ottobre giunse in Roma il conte Carlo Pepoli. Il medesimo, durante il governo provvisorio in Bologna nell’anno 1831, si era trovato al fianco di Orioli e Mamiani, e quindi era uno degli eccettuati dall’amnistia di quei tempi.9
In questa epoca di cui trattiamo, tutto era ancor soggetto di festa e di dimostrazione, e quindi anche le produzioni teatrali ne porgevano l’occasione.
Rappresentavasi nel teatro Argentina la musica del maestro Verdi intitolata Ernani la sera del 6 ottobre, quando, giunti a quelle parole di Carlo V: «Perdono a tutti, (mie brame ho dome). Liberi siate, v’amate ognor: A Carlo Magno sia gloria e onor», furono istantaneamente scambiate sostituendovi: «Al nono Pio sia gloria e onor.» A questo cambiamento inaspettato si ebbero applausi infiniti e grida, e sventolar di pannilini. Ciò si ripetè pure nelle sere successive. 10
Nel medesimo giorno si stabilì d’inviare una bandiera a Gavinana, ov’è la tomba del Ferruccio. La lettera che accompagnavane l’invio, era sottoscritta dai quattordici vessilliferi dei rioni di Roma, fra i quali il Ciceruacchio.
La descrizione della presentazione della bandiera e della festa ch’ebbe luogo il 10, trovasi registrata nella Pallade.11 Il Montanelli ne parla per disteso, e riporta la lettera direttagli in tale occasione da
- Pietro Sterbini,
- Luigi Masi,
- Filippo Meucci,
- Giuseppe Del Frate,
- Mattia Montecchi,
- Terenzio Mamiani.12
Nel detto giorno, morto un tale Monsagrati zappatore civico, il quale era accettissimo agli uomini del movimento, il quarto battaglione cui apparteneva ne accompagnò la spoglia mortale al tempio.13
In comprova maggiore di quanto dicemmo in principio di questo capitolo, e come documento addizionale che la rivoluzione italiana andava apertamente a togliersi la maschera, racconteremo che il giorno 7 di ottobre vi fu una festa militare nei prati della Farnesina vicino al ponte Molle.
Era la truppa di ogni arma che manovrar doveva in quella vasta pianura, in unione alla civica. Dopo le manovre ed il bacio delle armi ebbe luogo l’affratellamento della civica e linea, che facevan di sè magnifica mostra per la bella tenuta, e quindi baci, amplessi ed evviva fragorosi, ai quali associavasi eziandio il popolo numerosissimo ch’eravi accorso. La festa somministrò uno dei più belli spettacoli, e dire il contrario, sarebbe fare onta alla verità. Rientrando le milizie tutte in città per la vìa del Corso, ecco illuminarsi a giorno ogni casa; giacchè in quei tempi ciò che uno faceva tosto veniva imitato dagli altri. Applaudivano pure le soldatesche, quasi che fossero in uno stato di ebrietà, applaudivano i cittadini dalla strada, dai balconi, dai tetti e fu quello per fermo un colpo d’occhio veramente magnifico. I dragoni a cavallo poi con gli squadroni sfoderati agitavanli e rotavanli in aria in segno di feste e gridavano: «Viva l’Italia.» Bello era quel fragor delle armi, il balenare delle amiche spade, e le vicendevoli e festose accoglienze.
Questo, per ciò che si attiene allo spettacolo; ma, se vogliasi riguardare la cosa dal lato morale, sembrò a molti che fosse uno sbaglio madornale quello di aver permesso un cosiffatto affratellamento, inconsapevole senza dubbio il papa stesso dello spirito che dar si voleva alla dimostrazione; imperocchè il permettere e favorire l’affratellamento della truppa coi cittadini equivale ad annientare la forza pubblica, e senza forza pubblica nè ai reggono gli stati composti a ordine nè si difendono i diritti patrî, se minacciati da estere violenze. Ciò insegnaci la storia, da che se ne hanno memorie scritte.
Che se si ammettesse alla truppa stanziale di potere far causa comune, e stringersi le destre, e baciarsi scambievolmente col popolo, si verrebbe insensibilmente a distruggere qualunque forza, a paralizzare la libera azione dei governi. Essi allora non oserebbero bandire ordini severi, e commetterne alla truppa la esecuzione, per tema di non essere obbediti, o banditili, sì vedrebbero esposti al grave cimento di veder truppa e popolo far causa comune.
Aggiungasi pertanto questo nuovo esperimento che il governo fece dello spirito che andavasi svolgendo, con quelli di cui demmo un cenno al principio di questo capitolo, e dovrà convenirsi che il governo non aveva di che andar lieto, vedendo il colore deciso che a poco a poco ogni dimostrazione era andata assumendo, perchè il viva l’Italia che apertamente andavasi gridando, significava ben altro che evviva il papato. Era ormai divenuto a tutti palese qual fosse il carattere della romana agitazione, e de’ suoi non contrastati trionfi.
Raccontò il giornalismo con frasi entusiastiche la festa alla Farnesina,14 e ne parlò freddamente, secondo il solito, e con tinte pallide e slavate il giornale officiale;15 ma tanto i giornali della rivoluzione, quanto quello del governo, si astennero dal parlar delle grida per parte della soldatesca. Gli uni per astuzia onde non far conoscere agli esteri il sentiero sdrucciolevole su cui si camminava; l’altro poi per decoro, per prudenza, e diciamolo ancora per paura, usò le sue reticenze. E così, a forza di malizia i primi, di riguardi e prudenza il secondo, si venne, a concimare ben bene quel terreno che produr doveva i suoi frutti nell’anno 1848.
Continuarono nel mese di ottobre le passeggiate militari ed i banchetti della guardia civica, essendo quella l’epoca più favorevole per cosiffatti divertimenti.
Incominceremo dal parlare del lauto banchetto dato dal principe Doria ai militi del nono battaglione, di cui era colonnello, nella sua villa fuori la porta san Pancrazio, in quella villa stessa ch’esser doveva, men che due anni dopo, teatro di sanguinosi combattimenti, e dove quel Luigi Masi che improvvisò al banchetto come poeta, figurar doveva come colonnello di una legione di repubblicani nel 1849.16
Proseguendo per ordine di data rammenteremo quello che il giorno 12 si dette a monte Mario, e nel quale figurarono molti officiali. Furonvi poesie del Masi, e di Ottavio Gigli, e si parlò perfino del progetto di un casino militare.17
Il 17 ebbe luogo altro pranzo del quinto battaglione a villa Negroni, con discorsi e poesie.18 Vi fu pure nel detto giorno il convito che dette il marchese Campana ai militi del settimo battaglione, che montavano la guardia reale a monte Cavallo.19
11 18 altro convito a ponte Molle della compagnia del capitano Pianciani del secondo battaglione.20
Ed il 27 finalmente fuvvi un campo civico alla Caffarella. La riunione riuscì numerosissima. Erano i civici circa tremila senza parlare degli accorsivi, e tutti militarmente bivaccando refocillaronsi. Il famoso Sterbini, ad onta che il principe Aldobrandini avesse comunicato il divieto di recitar poesie, volle incominciare a far sentire la sua voce. Ma il principe stesso facendo battere il tamburo, impose silenzio al disobbediente poeta. Questo incidente fu raccontato dalla Pallade del 30 ottobre,21 e chiudesi con questo il novero delle passeggiate e dei banchetti militari di quel mese.
Fra gli arrivi in Roma di personaggi ragguardevoli merita una menzione speciale quello del celebre professor Montanelli, uno dei cattedratici della università di Pisa, compilatore del giornale l’Italia ed uno dei capi del movimento in Toscana.22 Esso stesso ci narra nelle sue Memorie, e con molto lepore, l’arrivo e la dimora che fece in Roma ove giunse il 24 di ottobre.23
Giunse pure il 27 il principe di Siracusa, fratello del re di Napoli.24
Il giorno seguente giunse l’avvocato Federigo Pescantini di Lugo naturalizzato svizzero, che essendo però privo dei regolari recapiti, venne respinto al confine. Esso faceva parte di coloro ai quali era vietato di ritornare negli stati romani.25
Dobbiamo ora designare, in aggiunta a quanto dicemmo sotto la dati del 21 settembre, che la deputazione recatasi a Bologna per consegnare il busto del Santo Padre Pio IX fu ricevuta colà il giorno 10 di ottobre da quella municipalità con tutti gli onori propri di sì alto soggetto. I due deputati Potenziani e Gennarelli tennero discorsi ai quali rispose il senatore di Bologna, e l’avvocato Galletti; quello del Gennarelli fu molto importante. Furon tutti riportati dall’Italiano di Bologna.26
Circolavan sempre in quel tempo alcuni indirizzi clandestini per eccitare i Romani, e gli altri popoli italiani a scuotersi dal letargo, e progredire nell’incominciato movimento. Havvene due sottoscritti dai Toscani, uno dei quali datato da Livorno il 10 e diretto ai Romani, l’altro del 18, sottoscritto dai Toscani egualmente, e diretto a Carlo Alberto ed ai popoli a lui soggetti.27
Questi eccitamenti che venivan dall’estero, producevano il loro effetto in Roma, e se n’ebbero subito due prove, perchè ritornando in Roma il 18 di ottobre, dopo breve assenza, il cardinal Ferretti segretario di stato, una deputazione del circolo popolare se gli fece incontro affine di presentargli un indirizzo esprimente il desiderio di progredire nel movimento per corrispondere alle mire ed intenzioni benevole e sapienti della Santità di Nostro Signore.28
La sera del 24 poi un due o tremila persone recaronsi sotto le finestre di monsignor Morandi pro-governatore di Roma, ed una deputazione di circa venti persone lo pregò a nome del popolo di desistere dal suo progetto di rinunzia a tal carica.29
Nel Diario di Roma del 23 ottobre si pubblicò una censura assai forte e vibrata contro un articolo del Contemporaneo del 25 settembre, scritto da monsignor Gazòla, e intitolati): «Del partito così detto cattolico nel Belgio.» Essa censura diceva così:
«La Santità di Nostro Signore ha dovuto vedere con estrema amarezza dell’animo suo che nel diversi giornali, che pubblicansi in Roma e nello stato, non però officiali, e segnatamente nel n. 39 del Contemporaneo del 25 prossimo passato settembre, si osa talvolta inserire articoli, sebbene in qualche guisa larvati, i quali son diretti a contrassegnare persone anche estere di sani e religiosi principî, con note disdicevoli, e narrare fatti capaci di suscitare odiosità contro i cattolici, e lesivi della vera politica. Quantunque siffatti articoli nella moltiplicità e varietà di siffatti giornali si sottraggono alla mente affaticata dei censori, si dichiara espressamente che non essendo i medesimi l’eco del governo, nè della politica pontificia, e molto meno del capo supremo della Chiesa cattolica, la Santità Sua intende di disapprovarli altamente; e mentre va a richiamare su di ciò l’osservanza della legge, vuole che si ritengano soltanto come parto di particolari utopie che sfuggono alla vigilanza della censura.»
In seguito di ciò il Gazòla, per ordine governativo, venne allontanato da Roma, ed il censore professore Salvatore Betti, che aveva passato l’articolo, venne sospeso. Vogliamo però aggiungere le parole del Diario di Roma, colle quali si annunziava al pubblico la sospensione del Betti. Eccole:
«La Santità di Nostro Signore volle dare nel Diario di sabato 23 del corrente un esempio di manifesta disapprovazione per l’intollerabile abuso d’inserire talvolta nei giornali della capitale e dello stato articoli diretti ad offendere persone anche estere di sani religiosi principî, a suscitare odiosità contro i cattolici, non che lesivi della vera politica, designando specialmente il primo articolo contenuto nel n. 39 del Contemporaneo.
» Siccome però ad onta delle moltiplici cure della censura, non può non andare esente da oscitanza il censore che lo approvò, così la Santità Sua, ad oggetto eziandio di richiamare sempre più l’attenzione della censura in sì delicato argomento, ha ordinato che venga sospeso fino a nuove disposizioni il censore predetto dall’esercizio delle sue attribuzioni.30
La sera stessa del 26 però ebbe luogo una dimostrazione di giornalisti ed altri sotto le finestre dell’abitazione del Betti, per gridare: «evviva Betti.» Il medesimo però venne riabilitato il giorno seguente.
Rincrebbero sommamente al Santo Padre le grida della sera del 26 in favore del Betti, e nello accogliere la stessa Santità Sua i militi del nono battaglione (fra i quali era il famoso Masi, ritenuto istigatore delle medesime) disapprovò risentitamente la detta dimostrazione. Sapemmo fin d’allora il fatto, ma non l’avremmo inserito se non ci fosse stato confermato di propria bocca dal Masi stesso, che consultammo all’uopo.
Questi aneddoti dicono abbastanza della libertà di azione ch’era riserbata al governo, dal momento che il governo facevasi per dir così in piazza.
Ora ne narreremo un altro che non vorremmo inserire nelle presenti carte, ma che pure ci è forza di non pretermettere affinchè si conosca con palpabile evidenza lo stato di pressura e d’intimidazione che dal principio al fine della rivoluzione romana prevalse, e che rese fievole tuttociò che in allora si fece, senza che apparisse mai ombra di vera resistenza nè per parte del governo nè per quella dei cittadini stessi, i quali per lo più, in tutti i luoghi ed in tutti i tempi, sono alieni dalle improntitudini.
Diremo pertanto che la sera del 22 di ottobre fuvvi una festa nel caffè di Bagnoli al Corso, detto del Bijou, il quale venne inaugurato sotto il nome di Caffè civico italiana in seguito del fatto seguente.
Ritornati la sera del 21 i civici del terso battaglione da una passeggiata militare fatta in una tenuta del principe Piombino loro colonnello, un civico toscano per nome D. Rossi, che colla divisa del proprio paese trovavasi fra questi, recossi in compagnia di alcun altro civico del terzo battaglione al detto caffè. Si adunò subito una grandissima calca di gente ivi tratta dalla curiosità di vederlo, e come suole accadere in simili casi, molti per meglio mirarlo montarono senz’altro sulle sedie. Allora si vuole che il Bagnoli riprendendoli dicesse: «Badino bene: nom mi guastino le sedie: potrebbero uscir fuori, ov’è maggior spazio, e là baciarsi ed abbracciarsi col comodo loro.»
Rincrebbe questo parlare così risoluto, ed il Bagnoli venne tacciato di oscurantismo (titolo che in quel tempo era peggiore di quello di ladro), e quindi grida, strepito e minaccio di far chiudere il cafi& ove trovavasi il buio di Pio IX. Un tale allora si pose a gridare: «togliamolo con noi: non è degno questo caffè di accoglierlo fra le sue mura. Venite, venite, o grande Pio IX, fra noi;» e presolo fra le sue braccia, recollo al quartiere a piazza Colonna.
Il civico toscano intanto dispiacente dell’accaduto per sua causa, si mostrò al balcone sovrapposto, e pronunziò parole di pace e di conciliazione, assumendo in qualche modo le difese del Bagnoli, il quale più morto che vivo raccomandavasi a tutti, e protestando sul suo inveterato italianismo, attendeva trepidante il suo destino.
Fu allora convenuto che per ribenedire il caffè dovesse il Bagnoli sborsare cinquanta scudi per la guardia civica, cambiare il nome al caffè, dandogli quello menzionato di sopra, ed inaugurandone la cerimonia il giorno seguente in cui vi si sarebbe riposto il busto di Pio IX, e vi si sarebbe aggiunto anche quello del Gioberti, insieme con una iscrizione relativa. E tutto ciò ebbe luogo effettivamente, e costituì la festa di cui abbiam parlato di sopra. Raccontò la Pallade il fatto, ma con qualche variazione di poca importanza.31
Ripiegandoci di qualche giorno indietro, dobbiam fare menzione della visita fatta dal Santo Padre ai paesi dt Albano, Aricia e Castel Gandolfo, ove fu accolto da quelle popolazioni con segni non equivoci di rispetto e di entusiastico attaccamento. Ritornato in Roma alle sei pomeridiane, compartì a un popolo numerosissimo, che attendevalo sul Quirinale, l’apostolica benedizione.32 Ed il giorno 27 recatosi a Porto d’Anzio, ne ritornò la sera stessa alle ore sette.33
Dobbiamo rammemorare un altro fatto, non importante per se stesso, ma del quale si fece molto strepito dagl’irrequieti del paese. Fin dalla metà del mese si manifestò del mal umore in città, e specialmente nei quartieri civici, per una circolare di monsignor Pila delegato di Frosinone, quasi che essa svelasse un animo ostile alla guardia civica. Il Diario di Roma però riportò la circolare, somministrò le occorrenti spiegazioni in difesa dell’ingiustamente malmenato monsignor Pila, e parve che ricomponesse in calma le teste riscaldate.34
Fra le disposizioni governative merita una speciale menzione il motu-proprio emesso dal Santo Padre il 14 di ottobre sulla Consulta di stato, il quale venne esibito in atti il giorno 15, e la sera stessa ne venne festeggiata la promulgazione, con una delle solite processioni, che dalla piazza del Popolo movendo, recossi sulla piazza del Quirinale, e quivi sostando attese e ricevette la benedizione papale, e quindi si sciolse. Erano i festeggianti niti di fari accese. Non inanearon por via le solite grida, fra le quali quelle di viva alF Italia, ed alle provincie.nota
Crediamo pregio dell’opera il riportare quelle memorabili parole del Santo Padre, che sono nell’esordio del motu-proprio, e che parvero ai più assennati un capo lavoro di verità e di sapienza.
PIUS PAPA IX.
Motu-poprio.
«Quando colla circolare 19 aprile del corrente anno rendemmo palese essere nostra sovrana volontà, scegliere e chiamare in Roma da ogni provincia dello stato pontificio varî distinti e commendevoli soggetti, fu nostro intendimento creare con essi una Consulta di stato, e donare in tale modo al governo pontificio una istituzione, la quale, se oggi sta in pregio presso altri governi e stati d’Europa, fu già gloria un tempo dei domini della Santa Sede, e gloria dovuta al genio dei romani pontefici.
» Poi tenemmo per fermo che ove i lumi e la esperienza di persone onorate dai suffragi di intere provincie ne avesser giovati, meno difficile sarebbe riuscito a Noi di por mano vigorosamente all’amministrazione pubblica, riportandola a quell’apice di floridezza, cui per ogni studio, e con decisa volontà confidiamo poterla far pervenire.
» È questo il fine che sapremo certo ottenere, quando alla derminata volontà nostra vada sempre congiunta una generale moderazione di animi, la quale attenda di raccogliere il frutto dal seme già sparso, e manifestisi mondo intiero, sia colla voce, sia collo scritto, sia col contegno, che una popolazione quando è ispirata dalla
35 religione, quando è affezionata al suo principe, quando è fornita di un sano criterio, accoglie il beneficio, e ne palesa la gratitudine collo spirito d’ordine e di moderazione. Questo è il premio che desideriamo ottenere alle nostre incessanti cure pel pubblico bene, e che ci lusinghiamo dì conseguire.
» Confidando dunque nel divino aiuto, e volendo mandare ad effetto le nostre sovrane risoluzioni, di moto proprio, certa scienza, e colla suprema nostra podestà abbiamo ordinato ed ordiniamo quanto segue.
Segue il ristretto delle disposizioni principali.
Titolo I.
La Consulta di stato è composta di
- Un cardinale presidente, di
- Un prelato vice presidente, di
- Ventiquattro consultori di stato.
Sta presso la Consulta di stato
- Un corpo di uditori,
- Un segretario generale, ed
- Un capo contabile.
Titolo II.
La scelta del cardinale presidente e quella del prelato vice presidente sono di nomina sovrana.
Ugualmente quelle dei consultori sopra terne mandate dai consigli provinciali, e queste formate dalle terne dei consigli comunali.
I consultori si scelgono tra i consiglieri provinciali e governativi, tra i gonfalonieri ed anziani possidenti, avvocati, scienziati, e primari commercianti, e proprietari dì grandi stabilimenti industriali.
Requisiti
- Sudditanza pontificia.
- Pieno esercizio dei diritti civili.
- Trent’anni compiti
- Una precedente commendata condotta.
- Durano un quinquennio.
- Se ne rinnova un quinto per anno.
Articolo dodicesimo,
» Le funzioni di consultore sono incompatibili con un impiego governativo.
Articolo tredicesimo.
» Chi divenisse impiegato di governo cessa di eassere consultore.
» I consultori si prestano gratuitamente ma ricevono una semplice indennità di spese dalle provincie.
» Non possono durante il loro officio essere rivocati se non con ordino sovrano.»
Titolo III.
Disposisione sulla divisione e presidenza
della Consulta di stato (si omettono.)
Titolo IV.
Attribuzioni (si omettono)
Titolo V.
Le deliberazioni della consulta di stato sono consultive.
Titolo VI.
Uditori presso la consulta.
Titolo VII.
Offici dicasteri subalterni.
Titolo VIII.
Disposizioni generali.
Titolo IX.
Disposizioni transitorie. -— Consistono negli articoli seguenti:
«Art. 70. — La consulta si adunerà per la prima volta al 15 novembre prossimo.
» Art. 71 e 72. — I consultori nominati per ciascuna provincia dureranno a tutto ottobre 1849, in cui avrà luogo la elezione e nomina dei nuovi.
» Art. 78. — Pel primo quinquennio la sorte deciderà ogni anno sulla quinta parte dei consultori.
» Art. 74. — Le attribuzioni della congregazione di revisione cessano il 15 novembre prossimo. Gl’impiegati passano a servigio della Consulta di stato.
» Art. 75. — Pel primo anno tutti gli uditori sono di seconda classe.
» Art. 76. — Ciò che viene disposto agli articoli 12 e 18 non si applica ai consultori che già sono stati nominati e che seggono pel solo prossimo biennio.»
Son queste in compendio le disposizioni principali di una delle più belle istituzioni concesse dal sommo pontefice Pio IX. Se poi i membri che la componevano rispondessero alle viste del sovrano ed ai bisogni del paese, si vedrà in seguito, e si vedrà pure sotto qual punto di vista si volle riguardare questa istituzione dagli uomini della rivoluziono, i quali fecer di tutto per alterarne e intervertirne lo scopo, credendola o volendola far credere come una sottrazione o smembramento del diritto di sovranità!
Ritornando alle cose occorse noteremo che con notificazione del cardinal Ferretti del 22 ottobre venne annunciata la creazione della carica del presidente di Roma e Comarca, che aver dovea l’alta tutela dell’amministrazione del comune di Roma e Consiglio provinciale,36 e pochi giorni dopo venne eletto da Sua Santità a quest’officio il cardinale Ludovico Altieri.37
Il 2 novembre venne pur nominato da Sua Santità a presidente della Consulta di stato il cardinale Giacomo Antonelli,
A delegato apostolico a Forlì il cardinal Pietro Marini, ed
A delegato apostolico a Ravenna il cardinal Giuseppe Bofondi.38
Lo stesso giorno 2 novembre fu notevole per l’udienza accordata dal Santo Padre al famoso professor Montanelli. Esso stesso ce ne racconta le particolarità nelle sue Memorie, e fra le altre cose ci narra che, venuti in sul discorso della guerra della indipendenza, trovò il Santo Padre irremovibile nella determinazione di non volerla.39 E noi aggiungeremo che tale si mostrò sempre in seguito, e ciò che sarem per narrare nei capitoli successivi lo proverà ad evidenza.
Con ciò chiudiamo il capitolo XIX.
Note
- ↑ Vedi il Corriere livornese del 21 settembre. — il Ranalli, vol. I, pag. 264.
- ↑ Vedi il Corriere livornese del 21 settembre.
- ↑ Vedi il Ranalli, vol. I, pag. 270 e 271.
- ↑ Vedi il Ranalli, vol. I, pag. 341.
- ↑ Vedi Farini, Lo stato romano, vol. I, pag. 236.
- ↑ Detto, vol. I, pag. 239.
- ↑ Detto, pag. 242 e 247.
- ↑ Vedi Diario di Roma del 5 — Moroni Dizionario, vol. LIII, pagina 192 — e il primo vol. Motu-propri, n. 19.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 76, pag. 4.
- ↑ Vedi la Pallade n. 77, quarta pagina e stampe e litografie, n. 47 A.
- ↑ Vedi la Pallade del 16 ottobre 1847 n. 81.
- ↑ Vedi Montanelli, vol. II pag. 25 e seguenti.
- ↑ Vedi la Pallade del 6 ottobre quarta pagina.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 77; — Vedi il Contemporaneo del 9 — Vedi il Documento n. 69 vol. III.
- ↑ Vedi il Diario di Roma, del 9.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 79.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 84.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 82 e 83.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 83.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 83.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 89 del 30 ottobre.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 87 terza pagina.
- ↑ Vedi le Memorie del Montanelli, vol. II pag. 40.
- ↑ Vedi le Notizie del giorno del 28 ottobre 1847.
- ↑ Vedi il Diario di Roma del 2 novembre 1847.
- ↑ Vedi il Documento n. 72 A, nel vol. III Documenti.
- ↑ Vedi il vol. III, Documenti, n. 72 e 73.
- ↑ Vedi la Pallade n. 83, terza pagina.
- ↑ Vedi il Diario di Roma del 26 ottobre 1847.
- ↑ Diario di Roma 26 ottobre 1847.
- ↑ Vedi la Pallade del 22 e 23 ottobre 1847.
- ↑ Vedi il Diario di Roma del 16 ottobre.
- ↑ Vedi la Notizie del giorno del 28.
- ↑ Vedi il Diario di Roma del 23. — Vedi la Pallade, n. 80 — Vedi Documenti, n. 74, 75, vol. III.
- ↑ Vedi il vol. I, Motu-proprî ec. n. 20. — Vedi il Diario di Roma del 16. — Vedi il Contemporaneo del 19. — Vedi la Pallade, n. 31.
- ↑ Vedi il Diario di Roma del 26 ottobre 1847.
- ↑ Vedi il detto giornale del 2 novembre.
- ↑ Vedi il detto giornale di detto giorno.
- ↑ Vedi le Memorie del professor Giuseppe Montanelli, vol. II, pag. 43.
- Testi in cui è citato Carlo Luciano Bonaparte
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