Sui monti, nel cielo e nel mare/Lettere dal mare/La sorpresa

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La sorpresa

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Lettere dal mare - Gli avventurieri dell’abisso Lettere dal mare - Oh, l’organizzazione!
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LA SORPRESA.

Giugno.

Dal Comunicato ufficiale dell’8 giugno: «Nella notte sul 7, nella rada di Durazzo è stato silurato e affondato un piroscafo nemico da carico».


La notte era così limpida, che a più di sei miglia di distanza la squadriglia ha potuto riconoscere il Capo Durazzo nella massa di ombra che sorgeva lontano, simile ad una isola. La terra è stata avvistata poco prima dell’una.

La squadriglia aveva navigato durante lunghe ore a velocità ridotta aspettando il tramonto della luna per avvicinare le rive nemiche. Scivolava quasi senza rumore in una calma oleosa. Solo le scie turbavano l’immobilità delle acque con lunghe fughe divergenti di onde brevi, eguali, simmetriche. Verso mezzanotte la luna è discesa all’orizzonte, rossa ed enorme, e per qualche momento il vertice della sua falce è rimasto sul mare come una gran vela fiammante. Poi è affondata, e miriadi di stelle si sono accese nel cielo profondo, tutto lo scintillante pulviscolo di soli e di mondi delle notti più pure, aperte sull’infinito. Le navi hanno ripreso allora la velocità. Ma in vista della terra la squadriglia ha rallentato ancora, [p. 323 modifica] incominciando una crociera di attesa, mentre due delle sue unità si distaccavano e scomparivano in direzione della costa, accompagnate da una voce di saluto e di augurio nella quale era un po’ il commosso fervore di un addio: Buona fortuna!... Buon successo!

Andavano a gettarsi dentro l’ancoraggio di Durazzo, attraverso gli sbarramenti di torpedini, a poche centinaia di metri dalle batterie della difesa austriaca, sotto ai proiettori, in pieno rifugio nemico, per lanciare siluri sulle navi che vi si fossero trovate.

Erano due strane torpediniere incaricate dell’impresa arditissima, due battelli che non vogliamo descrivere, rapidi, docili alla manovra, battelli da assalto e da sbaraglio, pronti al sacrificio. Vi sono operazioni nelle quali tante difficoltà si accumulano, che il ritorno appare come una possibilità di importanza secondaria. L’essenziale è di riuscire, di arrivare ad infliggere al nemico un danno più grave della perdita del battello che lo produce. Come nel giuoco degli scacchi, in guerra si getta spesso una pedina per abbattere un pezzo maggiore.

Un costante movimento notturno di grossi trasporti militari, scortati da cacciatorpediniere, era stato accertato nella rada di Durazzo. L’audacia delle nostre crociere di siluranti e di sommergibili ha costretto da tempo gli austriaci a non navigare più che alla notte. [p. 324 modifica] Bisognava provar loro che, nel Basso Adriatico come nell’Alto, a Durazzo come a Trieste, la notte non è più una protezione sufficiente, e che l’attacco italiano sa varcare tutte le soglie, sa colpire al di là di ogni barriera, nel centro dei porti.

Le due minuscole e fragili torpediniere, due ombre sul mare addormentato, pieno di guizzanti riflessi di stelle, andavano lentamente, con i compartimenti dei motori tutti chiusi perchè il loro rombo non si spandesse nella calma. Gli equipaggi facevano gruppo ai posti di combattimento. Alle ruote dei timoni si erano messi i comandanti stessi. Eretti e rigidi fissavano le sagome della terra con sguardo calcolatore. Conoscevano la baia di Durazzo ed i suoi sbarramenti come due piloti che non l’avessero mai lasciata, e si sentivano più sicuri avendo direttamente nel pugno la condotta delle loro navi.

Per qualche tempo hanno messo la prora sul Capo Durazzo, che si avvicinava lentamente, ingigantendo ed incidendo a poco a poco il suo profilo nero nella diafanità del cielo costellato.

Il Capo, montuoso e dirupato, chiude la baia a settentrione, vi si incurva, ne protegge un lembo dai venti di tramontana, ed è nella insenatura che esso forma che le navi si ancorano, di fronte alla misera cittadina di Durazzo. Dalla spiaggia avanza il lungo pontile, che scavalca [p. 325 modifica] i bassifondi e va, sulle sue mille gambe di legno, incontro al traffico del mare.

Il resto della costa sfumava via incerto, verso il Capo Pali al nord, verso il fondo della baia al sud, lontano ancora e invisibile. Un po’ di foschìa leggera e bassa, la bruma del bel tempo, si formava lontano nell’aria tepida.

Ad un certo momento i battelli hanno deviato filando dolcemente in una nuova direzione. Andavano su rotte di sicurezza, fra banchi di mine. Mine italiane e mine austriache: ce n’è di tutte le sorta. Per dei mesi sono stati accumulati nella rada di Durazzo sbarramenti di protezione e sbarramenti di agguato. Quando noi vi affondavamo esplosivi di difesa, i sommergibili posa-mine del nemico vi affondavano esplosivi di sorpresa; poi loro hanno creato nuove barriere di chiusura, e noi abbiamo gettato mine di tranello. Tutte queste torpedini sono rimaste ormeggiate sott’acqua; i draga-mine si limitano a tenere aperto un passaggio, un varco che vorrebbe essere segreto, lasciando tutto intorno il pericolo di cui nessuno può più determinare l’estensione.

Ogni tanto qualche nave urta, provoca un’esplosione e affonda. Numerosi resti di naufragi emergono qua e là nella baia, carcasse di piroscafi colati a picco, alberature di velieri annegati. Non sono state soltanto le mine a fare strage. Il siluro e il cannone hanno fatto la loro parte. [p. 326 modifica]

Le acque di Durazzo sono un sinistro cimitero di navi. Al limite della baia è affondato il Lika, un grande cacciatorpediniere austriaco, che venne un mattino per bombardare, durante la nostra occupazione, e rimase sventrato da una nostra torpedine. Un altro cacciatorpediniere austriaco, rimorchiato via ferito, si è inabissato più al largo. Non lontano dal Lika giace il Renaudin, cacciatorpediniere francese ammazzato da un siluro. Più vicino all’ancoraggio si leva sulle onde una cosa informe: l’avanzo del Memphi, piroscafo francese torpedinato. Poco discosto spunta sull’acqua una parte del Michael, piroscafo greco squarciato dal cannone austriaco. In fondo alla baia, quasi a secco, un ammasso di ferraglia: il Marechiaro, piccolo piroscafo italiano che serviva da trasporto ospedale e che, sfasciato e incendiato da una mina, fu rimorchiato a morire laggiù. E da ogni parte, brigantini, golette, velieri di tutti i generi, inghiottiti dal mare, sollevano fuori dell’acqua cime inclinate di alberi da cui le sartie spezzate pendono molli con serpeggiamenti da liane. Dove il fondo è basso, qualche fianco di scafo di imbarcazione affiora, mezzo demolito dalle tempeste, mostrando il costato scheletrito del suo fasciame.

Ma tutto questo era ancora lontano, e le due piccole nostre siluranti avevano intorno a loro un mare deserto e silenzioso chiuso dal grande arco del golfo, in fondo al quale la costa [p. 327 modifica] appariva ora, alta e velata. Distinguevano la montagna del Sasso Bianco che domina la rada e che porta ancora le vestigia della fortificazione romana piantata sulla vetta a difesa delle vie dell’Oriente.

Poi delle luci sono apparse.

Luci bianche e luci rosse, alcune sui monti, altre sulla riva. Ve n’erano sul Capo Durazzo, ve n’erano sulla Pietra Bianca, ve n’erano sulla città. Cosa significavano? Dei segnali, certo. Che dicevano? Che volevano?

Al sud, apparentemente dietro al Capo Laghi, un proiettore frugava la notte. Si spegneva, si riaccendeva, girava intorno il suo gran raggio bianco, ma era lontano e metteva oltre al promontorio come un argenteo crepuscolo.

Una luce color rubino, fissa, vivissima, bassa sull’acqua, scintillava avanti a Durazzo. Pareva venire dalla testata del pontile. Un’altra, chiara e splendente, brillava un poco più in alto. Era accesa sul campanile della chiesa greca.

Nessun rumore veniva dalla riva, remota ancora, ma essa sera animata, viveva ora, vegliava. Era cessata di colpo la sensazione della solitudine sul mare. Quell’apparire successivo di bagliori misteriosi era sembrato il segno di un destarsi della terra ostile, il passare di un allarme silenzioso, il chiamarsi di vigilanze lontane lungo la costa: All’erta!... All’erta!... All’erta!... [p. 328 modifica]

Si intuiva laggiù qualche attività inesplicabile, e le due torpediniere italiane, entrate ormai nella cerchia delle rive armate, avanzavano buie, impavide, decise, nelle acque interne della rada, in un silenzio che pareva pieno di aspettazione. Navigavano adesso una a fianco dell’altra, lontane fra loro una cinquantina di metri, e filavano lentamente verso il pontile, verso l’ancoraggio. Ma sembrava che quelle luci da faro rendessero più densa l’oscurità della notte, e nulla scorgevano ancora sul mare tranquillo.

Improvvisamente l’ufficiale che guidava il battello di sinistra ha impresso qualche giro violento alla ruota del timone, comandando alle macchine: «Avanti con forza!» lì battello si è inclinato tutto appoggiando a dritta, veloce. Nello stesso momento l’ufficiale si è voltato a gridare attraverso al megafono un avvertimento al compagno: Due navi da guerra, a destra!

L’altra silurante ha pure accostato, e i due battelli si sono slanciati verso la destra in direzioni divergenti. Iniziavano la manovra di attacco.

Andavano all’attacco. Avanti a loro, due masse oscure si muovevano lente. Erano indefinibili, lunghe, fumiganti. Parevano enormi e lontane. È difficile alla notte apprezzare subito le vere proporzioni di vascelli che emergono inaspettatamente dal buio. Una torpediniera può sembrare un incrociatore, una corazzata può [p. 329 modifica] essere presa per una silurante. Avvicinandosi, la distanza si precisa e la nave avvistata si rivela.

Al primo momento, nelle due ombre era stata riconosciuta soltanto la sagoma di navi combattenti, per le molteplici ciminiere, i bordi bassi, la linea ardita. Dopo alcuni istanti, giunti ad un migliaio di metri, i nostri hanno capito. Di fronte a loro, mostrando tutto il fianco snello, passavano due cacciatorpediniere austriaci, di forme diverse, un Tatra e un Uszar, il più grande avanti. Cosa facevano? Dove andavano?

Erano eccessivamente lontani per tentare di colpirli col siluro. Il siluro più rapido non percorre più di ventiquattro o venticinque metri al secondo; impiega quaranta o quarantacinque secondi per fare un chilometro, ed è impossibile calcolare il suo punto di incontro con un vascello vagamente intravvisto e la cui velocità è inapprezzabile. Bisognava andar vicino, molto vicino. Sotto!

Ad un tratto, il primo cacciatorpediniere nemico ha girato risolutamente la prora sulle siluranti italiane. Le aveva viste?

Esse hanno rallentato un istante aspettando che la manovra dell’austriaco si delineasse, per modificare il loro piano di attacco. Ma subito dopo il cacciatorpediniere ha virato di nuovo a sinistra, ripresentando il fianco, e a tutta velocità si è allontanato. L’altro lo ha [p. 330 modifica] seguìto. In qualche secondo sono scomparsi nel buio.

No, non si erano accorti di niente. Partivano. Si è capito che erano stati avvistati nel momento in cui salpavano l’àncora. Dopo avere scortato qualche importante trasporto militare, arrivato forse allora allora, si affrettavano ad andar via, per rientrare a Cattaro prima del giorno, navigando presso la costa come quella gente che di notte va muro muro. Nel raccogliere l'ormeggio, la prora di un cacciatorpediniere si era girata a destra, tirata dalla catena, ma una volta l'àncora issata all'occhio, la prora aveva preso la direzione di rotta. Se avessero tardato qualche minuto, non sarebbero partiti mai più. Il nostro colpo di mano avrebbe fatto una più grande preda.

I due battelli italiani si sono riaffiancati per proseguire verso l’ancoraggio, cercando di spingere lo sguardo lontano.

Una forma nera e bizzarra è apparsa a poche centinaia di metri, e su di lei le siluranti hanno accostato con confidenza. La cercavano sul mare. Era una specie di bastimento dallo scafo invisibile. Si scorgevano gli alberi, la ciminiera, il ponte di comando, il castello di prua, il castello di poppa, ma il corpo della nave mancava, l’acqua lambiva la coperta. Era il cadavere del Michael, affondato senza sbandarsi, scomparso fino ai bordi.

Più lontano, qualche cosa di tenebroso e di [p. 331 modifica] strano erompeva dal mare, come uno scoglio aguzzo e solitario: la prora del Memphy. Il Memphy andò giù di poppa, ed è rimasto con la prora emersa, sollevata, quasi sospesa, in un atteggiamento che non dà l’idea del riposo, che è pieno di violenza e di sforzo, come se la nave non sia ancora rassegnata e lotti ancora per non inabissarsi tutta.

Navi morte indicano la vicinanza di navi vive. Molte di loro affondarono ormeggiate, e i loro avanzi segnano come dei lugubri limiti alle acque del porto. Infatti, appena hanno girato intorno alla carcassa del Michael, alle due siluranti italiane è apparso il trasporto arrivato poco prima. Aveva dato fondo a poche centinaia di metri dal pontile.

Da qualche minuto esse avevano osservato in una lontananza imprecisabile dei confusi allineamenti di punti luminosi e pallidi, che erano stati nascosti per alcuni momenti dalle sagome sinistre dei vapori naufragati. Ora ricomparivano più vicini, più chiari, più evidenti. Erano gli hublots illuminati del trasporto austriaco, un grande piroscafo di quattro o cinquemila tonnellate. Da quell’istante era condannato.

Tutte le sue lampade di bordo erano accese. In ogni suo angolo si vegliava. Gettata l’àncora dopo il viaggio notturno, la nave si sentiva finalmente sicura, protetta, e compiva tranquillamente le sue operazioni di sbarco. Con [p. 332 modifica] i suoi lumi formava una costellazione bizzarra sull’acqua immota.

Le siluranti si avvicinavano.

La nave nemica era ancora lontana un tre quarti di miglio. Alla sinistra dei nostri si svolgeva ora la sponda, indefinita, sovrastata da un’ombra nebulosa di vegetazioni. Chi non avesse conosciuto la città non l’avrebbe indovinata. Essa veniva avanti lentamente. In qualche chiarore, diffuso, vago, isolato, si delineavano angoli di edifici. Ancora un poco, dei muri lievemente illuminati si facevano riconoscere. Ecco l’antico Konak, l’ex-reggia, col suo aspetto di vecchia villa rintonacata, che si solleva sugli alberi del giardino, folti, rigogliosi e neri. Dei fanali invisibili, nascosti dalle fronde, spandevano il loro quieto riflesso sulla facciata bianca del palazzotto, netta adesso, precisa. Era il loro chiarore che si intravvedeva lontano. Il resto della città dormiva nell’oscurità profonda. Solo il Konak, che ha conosciuto tutte le paure, pareva desto, animato, con una espressione di vigilanza taciturna, penetrante e ansiosa.

Le siluranti si avvicinavano.

Dei rumori imprecisabili venivano dalla riva e dal mare. Qualche voce lontana ha echeggiato. Sulle montagne e sulla spiaggia persistevano le luci di segnale bianche e rosse, fisse, costanti, ostinate, misteriose. Quella accesa alla testata del pontile aveva la violenza di una vampa di incendio. [p. 333 modifica]

La grande nave illuminata cominciava a rivelare certi particolari della sua forma. Aveva due file di hublots che occhieggiavano lungo gli alti fianchi, e delle lampade disseminate sul ponte rischiaravano dei passaggi, dei cantucci fra le soprastrutture, delle parti di attrezzatura. Ma la luce stessa nascondeva i profili del piroscafo che si perdevano incerti nel buio.

Le siluranti si avvicinavano.

A poco a poco il trasporto militare austriaco si definiva, si completava, prendeva una fisionomia, assumeva contorni concreti, si delineava tutto, ombra su ombra, ma consistente, tagliente, nero. Si vedevano due alberi alti, a prora e a poppa, inclinati e sottili, una gran ciminiera fra loro, il ponte di comando ampio e dominante.

Le siluranti si avvicinavano.

Ad un tratto si sono slanciate.

È stata quella di sinistra che ha dato il segnale dell’attacco. È stata quella di destra che ha scoccato il primo siluro.

Erano a poco più di trecento metri dal trasporto di guerra austriaco, quando l’ufficiale che conduceva la prima imbarcazione ha dato la voce ai suoi torpedinieri: Pronti! — e ha ordinato ai macchinisti: Tutta la forza! — I motori hanno urlato e il battello è balzato avanti impetuosamente in una vertigine di spuma. Il compagno ha creduto che avesse già [p. 334 modifica] sferrato il colpo, e, avventandosi alla sua volta, ha liberato un siluro.

Le due piccole torpediniere, la prua sollevata dalla velocità, pareva che volassero rombando, sull’acqua. Il siluro, come una invisibile e terribile avanguardia, aveva lasciato avanti a loro la sua sottile scia bianca.

Sono trascorsi diciotto o venti secondi.

Una cupa esplosione ha rimbombato nella rada.

Il proietto aveva colpito la nave nemica vicino al timone. Non si è vista la colonna d’acqua lanciata dallo scoppio. La svasatura della poppa l’aveva contenuta. Vi è stato un rigonfiarsi d’onda, una convulsione breve sotto allo scafo, un sovvolgimento fluido e oscuro.

Poi un gran silenzio, un attimo di sospensione, di attesa greve, di angoscia ascoltante. È sembrato che la notte subitamente si appesantisse di ansia e di costernazione.

Il trasporto di guerra era ferito ma non si sentiva ancora ferito. Non capiva. Era sempre illuminato. Appariva intatto e muto. Il boato profondo e inesplicabile doveva avere inchiodato tutte le attenzioni. Sulla terra e sul mare si ascoltava palpitando. Le luci bianche e rosse continuavano il loro dialogo dalla Pietra Bianca al Capo Durazzo. Il Konak pallido guardava ancora al di sopra dei suoi alberi.

La prima torpediniera ha voluto trattenere il suo colpo, per essere più sicura, e proseguiva [p. 335 modifica] veemente. Ad un centinaio di metri dalla nave nemica, l’ufficiale ha gridato il «Via!»

Il siluro è guizzato avanti in un tuffo. L’ufficiale ha contato i secondi: uno, due, tre.... cinque, sei, sette.... Una seconda esplosione ha scosso la notte.

Un getto immane d’acqua, un velario di spuma ha biancheggiato come una fosforescenza nel buio nascondendo per qualche istante il trasporto austriaco. Tutte le luci si sono spente. Le dinamo erano, infrante. La ciminiera si è piegata ed è caduta indietro con uno schianto metallico. La nave era colpita nel centro.

Nel medesimo momento la paura, la confusione, l’allarme, hanno urlato. Hanno urlato per tutto. La riva era tutta una voce. Gridi, vociferazioni tumultuose, appelli, comandi, venivano dalla nave colpita, sul cui ponte risuonava il calpestio del pànico. E dalla terra, nel clamore improvviso, si levavano domande affannose: Was ist es passiert?... Was?

Anche le luci di segnale si sono spente, ad una ad una. Il Konak si è abbuiato, e il raggio rosso del pontile è scomparso. Il pontile rombava tutto di passi in fuga. Nel loro allarme gli austriaci hanno creduto forse ad un attacco aereo, e si sono rifugiati nel buio. Come poteva essere arrivato fin lì il nemico se non per le vie del cielo?

Eseguito il lancio, la silurante nostra ha virato per tornare indietro, ma l’impeto della [p. 336 modifica] corsa l’ha portata sotto al bordo del trasporto torpediniero, che s’inclinava lentamente. Il battello italiano si è trovato a pochi metri dalla gran prua sbandata, fra i clamori della nave e quelli della terra, e la domanda ansiosa si rinnovava da ogni parte: Was ist es passiert?

Allora una voce vicina ingigantita dal megafono, è salita dal buio, in mezzo agli austriaci, imprudente e magnifica, e il suo grido ha dominato il tumulto: Viva l’Italia!

Filavano come frecce le due siluranti verso l’uscita della rada. Qualche minuto dopo giravano intorno alla carcassa del Michael. Un’ora dopo uscivano al largo. Erano state trentacinque minuti nell’ancoraggio austriaco.

Ed è così che il cimitero delle navi ha un morto di più.