Sulla lingua italiana. Discorsi sei/Discorso sesto

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Discorso sesto

Epoca sesta
dall'anno 1500 al 1600

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Discorso sesto

Epoca sesta
dall'anno 1500 al 1600
Discorso quinto


Se gl’Italiani si fossero giovati della tranquillità e dell’indipendenza ch’ebbero nel lungo corso di anni del secolo precedente, quando vivevano meno atterriti da’ papi e non minacciati dalla presenza d’eserciti forestieri, e si fossero allora costituiti in nazione, gli scrittori si sarebbero immedesimati di necessità colla loro patria, ed avrebbero ampliato una lingua men artificiale e più generosa, scritta insieme e parlata, e che non fu mai conosciuta, nè si conoscerà mai forse in Italia. Se non che le città attendevano a contendere, più per via d’ambasciadori che d’eserciti, tra di loro, e gli scrittori contemplavano oziosamente l’antica Roma ed Atene più che l’Italia; e scrivendo in latino, andavano riducendosi più sempre a comunità diversa al tutto dalla nazione. Lorenzo de' Medici forse aspirò, e non potè afferrare l’opportunità che alloramai cominciava a dileguarsi per sempre. La sua morte accompagnata da invasioni straniere e commozioni in tutta l’Italia, e da un nuovo governo popolare in Firenze, condusse una brevissima epoca propizia a’ forti ingegni. Il Machiavelli scriveva allora; e morì poco innanzi che i papi e i loro bastardi, ammogliati a bastarde di monarchi forestieri, togliessero ogni voce e ogni senso di libertà a’ Fiorentini.

Niuno scrisse in Italia mai nè con più forza, nè con più evidenza, nè con più brevità del Machiavelli. Il significato d’ogni suo vocabolo par che partecipi della profondità della sua mente, e le sue frasi hanno la connessione rapida, splendida, stringente della sua logica. Inoltre aveva cuore caldo e di delicate e di generose passioni; e per quanto lo neghino molti anche a’ dì nostri, ci concederanno di dire che o essi non hanno cuore che risponda a quelle passioni, o non lo leggono in originale, o se pure lo leggono, non sanno tanto della lingua italiana da sentirne tutte le proprietà; e quest’ultima opinione a noi pare la più verosimile. Nè lo stile del Machiavelli nè di alcuno di quella età, nè alcuno de’ Romani e de’ Greci hanno quella tinta sentimentale degli scrittori moderni; - ma spesso è artefatta. Invece, chi sente naturalmente e sa scrivere, infonde in modo impercettibile un calore perpetuo ne’ suoi lettori. Ma bisognano lettori che sappiano leggere, che siano nati a sentire, e che non sieno educati ad affettare di sentir troppo. L’unico difetto della lingua e dello stile del Machiavelli deriva dalla barbarie in cui trovò il suo dialetto materno. Ben ei si studiò di dargli tutta la dignità che Sallustio, Cesare e Tacito avevano dato al latino, ma si studiò ad un tempo, e con molta saviezza, di non disnaturare la lingua italiana e il dialetto fiorentino; onde talvolta, per preservarne alcune peculiarità, cadde qua e là in certi sgrammaticamenti, che offendono appunto perchè potevano facilmente evitarsi.

Ognuno sa come Pietro Bembo veneziano fu primo a ridurre la lingua a regole; ma più che le regole giovarono d’allora in poi a ripulirla le opere di molti scrittori per tutta Italia. Ma quantunque ei pronunziasse che l’essere nato fiorentino, a ben volere fiorentino scrivere non fosse di molto vantaggio, nè alcuno s’opponesse per anche a viso aperto alle sue parole tenute tuttavia per oracoli, tutti ad ogni modo se ne giovavano come d’oracoli, e le contorcevano a favorire le loro opinioni. Però i Fiorentini contesero, che, stando letteralmente alla sentenza del cardinal Bembo, s’aveva da scriver fiorentino; dal che veniva la direttissima conseguenza che l’Italia aveva dialetti molti parlati, ed uno solo atto ad essere scritto; e non possedeva in comune lingua veruna. Insorse d’allora in poi, crebbe ed inferocì la tristissima lite - se la lingua letteraria s’avesse a chiamare italiana, toscana, o fiorentina. Frattanto il Bembo, senza inframmettersi nella contesa ch’egli inavvedutamente aveva attizzata, favoriva i Fiorentini; anzi escluse le opere tutte di Dante dal privilegio di somministrare esempj a’ grammatici. Forse il Bembo, educato e promosso alle ecclesiastiche dignità, prese pretesto dalla lingua, ch’ei chiamava rozza, di Dante, affine di condannarlo dell’avere virilmente negata ai papi ogni potestà temporale. L’imitare l’effemminata poesia e l’amore platonico del Petrarca era velo alle passioni sensuali; e, purchè fossero adonestate, non pareva illecito. Nè, a dirne il vero, sappiamo che il mondo siasi mai governato altrimenti.

Or ciò che il cardinal Bembo e gli altri suoi collaboratori avrebbero dovuto insegnare, e che nondimeno niuno può imparare se non per attitudine naturale e per lunga consuetudine, consisteva nell’arte di scriver bene. Questo non riesce mai se non a chi sa ciò che deve sottrarre dalla massa de’ vocaboli e delle frasi perchè nuoce allo stile e alle idee; e ciò che vi deve aggiungere perchè giova: e le sottrazioni e le addizioni devono farsi in guisa, che ciò rechi nuove e geniali sembianze alla lingua, ma senza mai nè snaturarla nell’indole sua, nè travisare la sua nativa fisonomia. Sì fatta arte, necessaria agli scrittori di qualunque lingua e difficile a tutti, fu sempre e sarà difficilissima agli Italiani. Non hanno Corte, nè città capitale, nè parlamenti ove la lingua possa arricchirsi secondando di grado in grado il corso e le mutazioni delle idee, delle fogge, delle opinioni e del tempo; anzi quanto è letteraria, tanto rimanesi artificiale più di quant’altre siano state mai scritte o si scrivano. Il mantenerla purissima adattandola a nuove idee e all’uso corrente; il porvi studio e far sì che non raffreddi lo stile, e l’usarla letteraria com’è, ridurla tuttavia famigliare anche a non letterati, sono sempre state difficoltà che in pratica apparvero tutte indomabili a molti. Quindi le tante teorie di trattatisti, le controversie e la confusione di grammatiche, di cui fu sempre romorosa l’Italia. E per non esservi lingua prevalente in un secolo, vediamo fra gli scrittori italiani d’una medesima età più differenza che in quella d’ogni altro popolo; il che produce il vantaggio della varietà degli stili, e il danno della perplessità e pedanteria de’ giudizj. Spesso accade che il libro esaltato non per altro che per il merito della lingua dai dottissimi uomini d’una città, viene esecrato dagli uomini dottissimi d’un’altra città, appunto per i demeriti della lingua.

Frattanto que’ primi ordinatori della lingua nel discorso giornaliero facevano uso di dialetti discordi, i quali repugnavano a scriversi. Il dialetto fiorentino s’era immiserito, e diveniva sempre più ritroso alla penna; e quel che è peggio, nelle scritture era oggimai intarsiato di crudissimi latinismi. Pare che non potessero mandare una lettera a’ loro domestici, che non fosse pedantesca. Quando poi sul principio del secolo decimosesto vollero pur provvedere l’Italia di una lingua sua propria, s’avvidero che innanzi tratto bisognava depurarla dalla troppa latinità: ma in questo andarono all’altro estremo, appunto perchè temevano di non si poter reggere equabilmente nel centro. Il Bembo e gli altri avevano studiato fin dalla puerizia e scritto e pensato d’ogni cosa letteraria in latino. E non pure l’ammirazione a’ grandi esemplari, ma i precetti rettorici degli autori romani, e la necessità di secondarli in una lingua morta, gli aveano domati alla servitù dell’imitazione. Era radicato nella loro anima il dogma, che a scrivere in qualunque lingua fosse necessario imitare religiosamente alcuni modelli; e in italiano non avevano, dal poema di Dante in fuori, alcuna opera nella quale la moltitudine, la novità e la profondità delle idee, delle immagini e delle passioni avessero partorito gran numero e varietà di locuzioni e parole, ed energia di ardita sintassi. Ma, oltre la ragione di stato ecclesiastica, che rendeva quel poema un testo pericoloso a citarsi, la quantità di formole scolastiche, di giunture strane, di voci latine, e tutto insieme il tenore dello stile di Dante gli atterriva; e non vi fu modo che si persuadessero mai di giovarsene.

Non è dunque difficile l’indovinare fra quante strette e con quale perplessità i primi critici si studiassero di trovare metodi a rimondare la lingua de’ latinismi, idiotismi e sgrammaticamenti che prevalevano a’ loro giorni, e le impedivano di divenire patrimonio letterario di tutta l’Italia. Il Bembo, imbevuto di purissima latinità, doveva studiare fin anche le sue lettere famigliari a guardarle da’ latinismi; il che gli riescì quasi sempre: ma non potè fare che quanto ei dettò in italiano non ridondasse d’idiotismi veneziani, i quali, se non fossero stati protetti sino d’allora dall’autorità del suo nome, sarebbero stati poscia infamati fra’ solecismi. Gli scrittori fiorentini anch’essi scambiavano riboboli per atticismi gentili. Aggiungi che mai non s’avvidero «Essere impossibile di ridurre a scienza atta a potersi insegnare e imparare il processo con che la natura converte in lingue letterarie i rozzi dialetti.» Così nella penuria d’autori che somministrassero osservazioni ed esempj, e di principj che insegnassero un giusto metodo, que’ primi precettori della lingua ricorsero di comune consentimento alle Novelle del Boccaccio. Vi trovarono parole evidenti, native ed elegantissime, artifici di costruzione, periodi musicali e diversi generi di stile; e forse per allora non avrebbero potuto ideare espediente migliore a tante difficoltà. Il cardinal Bembo ad ogni modo si limitò ad osservare ogni cosa in quel libro con ammirazione, ma non convertì le sue opinioni in leggi assolute. E’ non era il solo; bensì il più celebre di quella scuola. Tuttavia la massima e la pratica de’ letterati di quell’età consistevano non tanto a ricavare un metodo dalle osservazioni, quanto a imitare puntualmente, servilmente, puerilmente gli scrittori che parevano eccellenti. In poesia italiana copiavano il Petrarca e cantavano santamente d’amore. In latino imitavano Virgilio e Cicerone, e scrivevano profanamente di cose sacre. Così la dottrina di ristringere tutta una lingua morta nelle opere di pochi scrittori fu più assurdamente applicata alla lingua viva degli Italiani; e i loro critici quasi tutti convennero, non doversi attingere alcun esempio da veruna poesia, fuorchè dal canzoniere amoroso del Petrarca per Laura; nè alcun esempio di prosa da scrittore o scritto veruno, fuorchè dalle novelle del Decamerone. Con quanto frutto della religione, non pretendiamo di dirlo; ma la letteratura purtroppo discese effemminatissima a molte generazioni. Quindi i protestanti pigliarono argomento ad imputare a que’ letterati pochissimo riguardo a’ costumi, e niun senso di religione. La prima accusa è esagerata, e l’altra è assurdissima. Erasmo imputavali di sacrilegio, e derideva a un’ora l’ignoranza fratesca e la latinità non cristiana in Italia, a fine di spianare per tutti i modi la via alla riforma nelle Università di Germania e d’Inghilterra; e giudicavali secondo la tradizione della miscredenza de’ prelati di Leone X. Pur, se non tutti, moltissimi sentivano la fede che professavano, ed erano talor combattuti da superstizioni contrarie. Alcuni votavansi di non leggere mai libri profani; ma non potendo lungamente reggere al voto, ne impetravano l’assoluzione dal papa. Altri, per non contaminare le cose cristiane con l’impura latinità de’ frati e de’ monaci, avrebbero voluto poter tradurre la Bibbia col frasario del secolo d’Augusto.

Trent’anni circa dopo il principio, e pochissimi innanzi la fine del presente secolo, morirono l’Ariosto e il Tasso. L’intervallo di tempo fra la morte dell’uno e dell’altro fu fecondissimo di libri d’ogni maniera, e famoso per questioni grammaticali. I nomi degli autori di quell’età hanno poscia occupato tutti gli storici di letteratura, che ne hanno scritto volumi, biografie ed analisi critiche senza fine. E nondimeno l’Ariosto e Torquato Tasso restano i soli degni del nome di grandi. Che se parecchi altri passano oltre la mediocrità, e furono benemeriti della lingua più con gli esempj che co’ precetti, e fra questi primeggiano Giovanni della Casa, e Annibale Caro, moltissimi non sono che mediocri, e non li nomineremo. Molti altri sono anche di peggio, se peggio può essere, e de’ quali non importerebbe di far memoria neppure in massa, se non appartenessero appunto al secolo decantato come il più illustre della italiana letteratura; se i loro nomi, come abbiamo accennato, non fossero celebri in tutte le storie letterarie; e finalmente se molte delle loro meschine opere non fossero state stampate da poco in qua nella collezione di quattrocento e più volumi, sotto nome di Classici, pubblicati in Milano.

Dell’epoca famosa de’ Medici abbiamo osservato nel Discorso precedente tutto quello che importa a conoscere i primi tentativi degli uomini più illustri d’allora a dare leggi certe e perpetue alla lingua italiana. Scrivevano ne’ pontificati, l’uno vicinissimo all’altro, de’ due Medici Leone X, e Clemente VII; e alcuni sopravvissero a que’ due papi. Le lodi esagerate di quel tempo furono attribuite al secolo decimosesto tutto intero; e quindi tutti gli autori che gli appartengono, e che, con poche eccezioni, meriterebbero d’essere disprezzati da lungo tempo, sono sfuggiti alla dimenticanza che sotterrò la memoria d’uomini molto più degni di loro. Noi non ignoriamo che questa nostra sentenza sommaria parrà strana a tutti que’ nostri lettori, i quali conoscono que’ nomi non tanto per mezzo delle loro opere, quanto degli storici di letteratura che ne hanno parlato. Ma a niuno può essere ignoto che sì fatti storici pigliano non solo gli avvenimenti, ma ben anche i giudizj l’uno dall’altro, e li ripetono con diverse parole; e ne abbiamo esempj frequentissimi e giornalieri, e specialmente ne’ raccoglitori di aneddoti letterarj. Or sì fatti giudizj sono tutti originati e propagati e perpetuati dalla vanità nazionale e municipale degli Italiani, dalle dottrine delle loro accademie e delle loro scuole fratesche, dalla credulità popolare. Queste cagioni cospirarono a formare una concatenazione lunga, debole ma perpetua di mal certe testimonianze; e quindi a propagare e stabilire i diritti potenti della tradizione, alla quale anche gli uomini illuminati sovente sogliono concedere la venerazione ch’essa ottiene dal volgo. Non già che talor non s’avveggano della sua assurdità, ma seguendola, si dispensano dalla fatica e da’ pericoli di combatterla; e nel tempo stesso si giovano delle sue favole maravigliose a riempire volumi di narrazioni che, se non fossero romanzesche e s’approssimassero alla realtà, riescirebbero non solamente ridicole, ma nojose. Quelli che interessandosi in questo soggetto si sentissero preoccupati dalla generale opinione, ma non in guisa che non bramino di appurare la verità, sono tutti accettati volentieri per giudici. E speriamo di persuaderli che le leggi peggiori di lingua e di critica che mai potessero idearsi da uomini, la più misera e ambiziosa povertà ch’abbia mai intristita la letteratura d’un popolo, e finalmente la colpa de’ danni, della servitù letteraria e del vaniloquio degli scrittori italiani in generale da quel tempo sino a’ dì nostri, appartengono tutti al famoso secolo decimosesto.

Da’ fatti osservati fin qui, da che Dante cominciò a scrivere e il Machiavelli morì, appare manifestissimo che la lingua italiana nacque e crebbe dalla libertà popolare delle repubbliche del medio evo. Ma nell’epoca che ora esaminiamo la servitù dell’Italia cominciò ad aggravarsi senza speranza di redenzione sotto il doppio giogo della chiesa de’ papi, e della dominazione de’ forestieri. La tirannide religiosa e politica portò seco necessariamente i ceppi della letteratura; e dopo la morte di Clemente VII, avvenuta nel 1534, la storia della lingua trovavasi a questi termini: - Che a bene scrivere la lingua, bisognava imitare i soli scrittori del secolo del Boccaccio; - Che il Decamerone del Boccaccio contenente le cento novelle era l’unico libro senza umano errore; era il tesoro d’ogni ricchezza di lingua, d’ogni grazia d’idioma; era il modello infallibile d’ogni eleganza e d’ogni eloquenza; - Che in questo libro dovevano unicamente cercarsi tutti gli esempj; e sopra questi esempj dovevano giustificarsi tutti i precetti, e risalire a’ principj generali e certissimi della grammatica italiana; - Che questo libro essendo stato scritto in Firenze e da un fiorentino, ed essendo stati fiorentini anche gli altri scrittori pregevoli del secolo decimoquarto, la lingua non si doveva chiamare italiana, nè toscana, ma fiorentina; - Che, per conseguenza il giudizio, quanto a’ meriti della lingua d’ogni libro scritto o da scriversi in Italia, apparteneva a’ fiorentini; - Che i fiorentini erano rappresentati da’ più dotti de’ loro concittadini; da una compagnia d’uomini chiamata Accademia della Crusca; - Che questa Accademia era sotto la protezione de’ Medici gran duchi di Toscana; - Che Cosimo I gran duca allora regnante, essendo imparentato con la Spagna dominatrice di più che mezza Italia, ed essendo nel tempo stesso figliuolo obbedientissimo della Chiesa, regolava gli studj dell’Accademia della Crusca con una ragione di stato indispensabile a un principe apparentemente indipendente, ma realmente soggetto a Filippo II e al Concilio di Trento; - Che il Concilio di Trento stava per decretare, e poi decretò sotto severissime pene, che non si comportasse più libro veruno nel quale fossero derisi o preti, o monaci, o frati, o reliquie, o altre cose sacre; - Che il libro preziosissimo delle Novelle del Boccaccio, essendo scritto spesso a bello studio contro tutte le cose sacre suddette, non doveva leggersi se non espurgato; - Che l’Accademia, per intercessione de’ principi suoi protettori, otteneva da’ papi il permesso di potere ristampare le Novelle del Boccaccio, espurgandole secondo i canoni del Concilio di Trento; - Che, affinchè i canoni non fossero debitamente interpretati ed applicati, il padre inquisitore, maestro del sacro palazzo del Vaticano, frate domenicano e di nazione spagnuolo, presiedeva a’ lunghi studj dell’Accademia della Crusca a espurgare le Novelle del Boccaccio; - Che le Novelle mutilate, adulterate d’interpolazioni innumerabili a beneplacito dell’inquisitore, erano ristampate per autorità dell’Accademia; - Che quella loro edizione era solennemente dichiarata la sola che dovesse o potesse seguirsi come testo di correttissima lingua; - E finalmente che il Decamerone del Boccaccio così mutilato ed adulterato era la pianta di tutti gli edifizj grammaticali dell’Accademia, e fin anche del Vocabolario della Crusca.

Quanto abbiamo detto sin qui può provarsi con autentici documenti e con narrazione di fatti ordinati per serie di anni; ma vi bisognerebbero limiti meno angusti. Tuttavia, procedendo storicamente, porremo in evidenza alcuni fatti innegabili e sufficienti, a dare ragioni del fenomeno letterario che noi, concludendo l’articolo precedente, abbiamo fatto osservare, e promesso di spiegare a’ nostri lettori. -

Alcuni giovani fiorentini congiuravano contro Ippolito ed Alessandro bastardi de’ Medici per cacciarli dalla loro patria, a fine di costituirla di nuovo in Repubblica. Palliarono la ragione delle loro adunanze, sotto colore di emendare, con confronto di manoscritti e con critico studio, il testo delle Novelle del Boccaccio. La perdita degli autografi sino dall’età dell’autore, e le scorrezioni e alterazioni incorse nelle edizioni ch’erano uscite sino allora di quel libro giustificavano la loro intrapresa letteraria, e celavano i loro disegni politici. Da que’ giovani derivò la celebrata edizione del Giunti del 1527, tenuta oggi fra le più rare curiosità de’ bibliotecarj, e serbata sino d’allora come ricordo della Repubblica Fiorentina, perchè quasi tutti que’ giovani i quali v’attesero combattevano contro alla Casa de’ Medici, e morirono nell’assedio di Firenze, o in esilio. Poscia il libro divenne più raro, perchè stava a rischio di essere mutilato o inibito per amore de’ frati. Il Bembo, mentre era segretario di Leone X, si travagliava molto malvolentieri in cose di frati, perchè vi trovava sotto molte volte tutte le umane scelleratezze coperte da diabolica ipocrisia; - e Leone X faceva commedia dell’Abate di Gaeta, coronandolo d’alloro e di cavoli sopra un elefante. Adriano VI che gli succedeva era stato claustrale, e i cardinali della sua scuola proposero poco dopo che i colloquj d’Erasmo, e ogni libro popolare ingiurioso al clero si proibissero. A Paolo III parve che la minaccia bastasse, nè s’adempì per allora; ma chi sapeva che il Decamerone, già tradotto in più lingue, allegavasi dagli antipapisti, s’affrettò a provvedersi dell’edizione fiorentina, la quale, anche da’ dotti che non ne facevano gran caso per l’emendazione critica, era creduta schietta d’inavvertenze di stampa. Ma neppur questo era vero.

Ad ogni modo è un’edizione divenuta tesoro di libreria, ed oggi pagata a prezzi enormi. Caduta la Repubblica, quell’adunanza continuò, attendendo unicamente alla grammatica, sotto il nome dell’Accademia degli Umidi: poi divenne più pubblica e meno libera, e si chiamò Accademia Fiorentina; finalmente, raccoltasi sotto il patrocinio di Cosimo gran duca, assunse il nome di Accademia della Crusca, e la dittatura grammaticale in Italia. Il progetto incominciato dal cardinale Bembo di stabilire tutte le leggi della prosa italiana sulle Novelle del Boccaccio, fu abbracciato da quell’Accademia, e messo ad esecuzione in guisa da destare meraviglia, e compassione ad un tempo e disprezzo. La Chiesa cessò dal minacciare, e cominciò attualmente a proibire la ristampa e la lettura delle Novelle del Boccaccio; e niuno poteva nemmeno possederne una copia senza licenza del suo confessore. La riforma de’ Protestanti provocò la riforma Cattolica, che rimase meno apparente, benchè forse maggiore, e certamente più stabile. I Protestanti la derivarono dalla libertà d’interpretare gli oracoli dello Spirito Santo con l’ajuto dell’umana ragione; e i Cattolici non ammettevano interpretazioni, se non le ispirate alla Chiesa da Dio rappresentato da’ papi. Quali delle due dottrine provvedesse meglio alla religione, non so: forse ogni religione troppo scandagliata dalla umana ragione cessa d’essere fede; e ogni fede inculcata senza il consentimento della ragione degenera in cieca superstizione. Ma quanto alla letteratura, la libertà di coscienza preparava in molti paesi la libertà civile, e di pensare e di scrivere; mentre in Italia l’obbedienza passiva alla religione accrebbe la politica tirannia, e l’avvilimento e la lunga servitù degli ingegni. La riforma de’ Protestanti mirava principalmente a’ dogmi; e la Cattolica unicamente alla disciplina: e però anche le opinioni intorno alla vita e a’ costumi degli ecclesiastici furono represse, come tendenti a nuove eresie. Il Concilio di Trento vide che i popoli, incominciando in Germania a dolersi che i frati fossero bottegaj d’indulgenze, si ridussero a rinnegare il sacramento della confessione, il celibato degli ecclesiastici e il Papa. Adunque fu provveduto che, per qualunque allusione in vituperio del clero, i libri si registrassero nell’indice de’ proibiti; e che il leggerli e il serbarli senza licenza di vescovi fosse peccato insieme e delitto da punirsi in virtù dell’anatema. Le leggi canoniche furono d’indi in poi interpretate e applicate da’ tribunali civili, presieduti da’ padri Inquisitori della regola di San Domenico; i quali inoltre, per consentimento de’ governi italiani, furono investiti dell’autorità di esaminare, alterare, mutilare e sopprimere ogni libro antico o nuovo innanzi la stampa.

Tuttavia l’Accademia della Crusca temeva che nelle edizioni fin allora uscite, ed erano quasi sessanta, l’emendazioni di critici forestieri, così allora chiamavan gli Italiani, la fama delle novelle del Boccaccio e la purità della lingua fosse guastata. Patteggiarono dunque di potere, non foss’altro, stamparne una mutilata in Firenze; e confidavano che l’utilità della loro emendazione grammaticale sarebbe compenso equivalente allo strazio che il ferro e il fuoco del Santo Uffizio farebbe de’ tratti più comici nelle novelle. Cosimo I, per agevolare il trattato, deputò a negoziare col maestro del sacro Palazzo in Vaticano alcuni uomini dotti, uno de’ quali era vescovo, e quasi tutti ecclesiastici in dignità; e fra gli altri Vincenzo Borghini illustratore delle antichità toscane, e scrittore non pedantesco: ma i nomi degli altri sono men noti alla storia letteraria d’Italia, che a’ fasti consolari, com’ei li chiamavano, delle loro accademie. Le nuove alterazioni al Decamerone mandate a Roma erano quasi sempre lodate; ma non bastavano. Il maestro del sacro Palazzo, frate domenicano e spagnuolo, si aggregò di proprio diritto alla loro adunanza. Scrivendo le sue opinioni in lingua bastarda, dava consiglio anche in virtù della sua autorità di grammatico; non però venivano a conclusione. Finalmente un domenicano italiano e di natura più facile (chiamavasi Eustachio Locatelli, e morì vescovo in Reggio) vi s’interpose; e per essere stato confessore di Pio V, impetrò da Gregorio XIII, che il Decamerone non fosse mutilato, se non in quanto bisognava al buon nome degli ecclesiastici. Così le badesse e le monache innamorate de’ loro ortolani furono mutate in matrone e damigelle; e i frati impostori di miracoli, in negromanti; e i preti adulteri delle comari, in soldati; e in virtù di cent’altre trasformazioni e mutilazioni inevitabili, riuscì agli accademici, dopo quattr’anni di pratiche, di pubblicare in Firenze il Decamerone illustrato da’ loro studj.

Ma Sisto V ordinò che anche l’edizione approvata dal suo predecessore fosse infamata nell’Indice. Fu dunque necessario aver ricorso a nuove storpiature ed interpolazioni; e quindi sopra sì fatti testi gli accademici della Crusca minuzzarono ogni parola e ogni sillaba delle novelle, magnificarono ogni minuzia, e la descrissero sotto nomi di ricchezze, proprietà, grazie, eleganze, figure, leggi, e principj di lingua. Non però poteva venire mai fatto a veruno di conciliare tanta infinità di precetti con un metodo, che ne agevolasse la pratica. Le dottrine e le regole e le applicazioni di esse cozzavano fra loro nelle pagine e nella mente di chi le dettava. Tanto più dunque le dispute fra’ diversi grammatici intricandosi le une su le altre crescevano atroci, oziose, lunghissime, ed occuparono tutti i cent’anni del secolo XVI.

E allora, - mentre l’ozio della servitù intiepidiva le passioni, l’educazione commessa a’ Gesuiti sfibrava gl’ingegni; i letterati divenivano arredi di corti spesso straniere; le università erano pasciute da’ re, e l’Inquisizione le udiva - l’Accademia della Crusca incominciò a insignorirsi della letteratura italiana, e adottare le Novelle del Boccaccio per unico testo regolatore d’ogni dizionario e grammatica, e d’ogni teoria filosofica intorno alla lingua. Era dunque il Decamerone, anche per politica necessità, predicato da’ letterati come unico regolatore della lingua scritta in prosa. Per cancellare ogni memoria di libertà, Cosimo I soppresse tutte le accademie istituite in Toscana quando le città si reggevano a repubbliche, e venne a dilatare la giurisdizione della fiorentina, ch’ei disprezzava. Compiacevasi di vederla sgrammaticare a bell’agio, e udirsi paragonare a Cosimo padre della patria: nè da questo in fuori fece verun favore alle lettere. Teneva a’ suoi stipendj uno o due scrittori di storie della Casa de’ Medici; faceva raccogliere da per tutto le copie delle altre scritte con meno adulazione, e le ardeva.

Pur nondimeno gli scrittori, appunto in quel secolo, quanto più si dipartivano dallo stile del Decamerone, tanto più rendevano i loro libri meno indegni della cura de’ posteri. Il Vasari, fra gli altri, scrivendo le vite degli architetti, pittori e scultori d'Italia, lasciò un tesoro di critica sulle belle arti, e di aneddoti su’ caratteri de’ grandi artisti suoi contemporanei, e insieme un inesauribile deposito di maniere di belle dizioni. Nè la tirannide universale potè imporre silenzio alla storia politica ed ecclesiastica. Il Guicciardini compose la storia d’Europa1 da uomo di stato, in guisa da tracciare le origini ed il progresso del diritto delle genti che prevalse subito dopo la fine della lunga barbarie del medio evo. La sua lingua peraltro è pomposa, misteriosa e artificiale per voler troppo magnificare ogni cosa, e arieggiare la maestà degli storici latini. Benedetto Varchi suo concittadino e contemporaneo andò all’altro estremo, e scrisse la storia fiorentina minutissimamente, così che, per narrare gli avvenimenti di sette anni, occupò forse più pagine che non altri a narrare la storia della Repubblica Romana da Romolo a Giulio Cesare. E il Varchi alla minuzia de’ fatti aggiunge una superfluità di parole che non può essere concepita, se non da chi ha la pazienza di leggerlo; e non v’è vocabolo signorile o triviale di cui egli non si studi di giovarsi alla rinfusa. Il buon uomo era stipendiato a scrivere dal gran duca Cosimo; ma non si potè tenere di dire male de’ papi: e la sua storia non fu pubblicata se non assai tardi, e tronca delle ultime pagine, che poi in altre edizioni fatte alla macchia furono aggiunte. Non molto dopo il Guicciardini e prima del Varchi, Bernardo Segni vivea storico ignoto, e più veritiero. Era nominato a’ suoi tempi fra’ tanti altri traduttori e chiosatori d’Aristotile; ma nacque, crebbe, e fu educato repubblicano di parte, e narrò la storia della servitù; e forse, per non porre a pericolo i suoi figliuoli, ei morendo non disse dove aveva riposto il suo manoscritto. Ritrovato poi a caso, guasto dal tempo, fu donato a uno de’ principi Medici, a’ quali giovava di risotterrarlo; e non fu veduto dal mondo che dopo quasi due secoli, e con fresche lacune; non così per amore degli antichi signori di Firenze, de’ quali la razza allora spegnevasi, come per riverenza alla memoria de’ papi. Tuttavia, mutilata com’è, e benchè letta da pochi, la storia del Segni, dopo quella del Machiavelli. avanza in naturalezza e sobrietà il Guicciardini. Ma e le storie e i poemi di quell’età, ch’oggi s’hanno per depositarj di lingua, erano allora tenuti presso che barbari e indegni di essere nominati con «le cento immortalate novelle.» Anche il Berni e l’Ariosto erano allora più ricercati da’ lettori, che stimati da’ critici; e il Poliziano, come scrittore italiano, non era citato che raramente, e piuttosto con biasimo che con lode.

Vero è che non prima sì fatte leggi cominciano a moltiplicarsi ed acquistare autorità potentissima, bastano a darti indizio che un popolo dallo stato libero passa sotto il potere assoluto. La Grecia dopo Alessandro non ebbe più oratori nè storici; bensì famosi grammatici, alcuni de’ quali regnarono nelle accademie de’ Tolomei, a costringere alla nuova loro pronunzia i poemi d’Omero. Cesare trattò di grammatica: Augusto insegnavala a Mecenate ed a’ suoi nipoti: Tiberio si dilettava di sottigliezze su la notomia de’ vocaboli: Claudio scrisse intorno alle lettere dell’alfabeto; e anche a Plinio filosofo toccò di guerreggiare di penna col maestro del bel dire; e non pare ch’ei n’uscisse senza paura. Ma gli studj liberi in tali condizioni di tempi sono sì fatti; ed a’ principi non rincrescono, perchè frappongono comandamenti infiniti e impraticabili in guisa, che niuno sappia mai come s’abbia da scrivere. La dominazione spagnuola in Italia, il lungo regno di Filippo II tirannissimo fra’ tiranni, e il concilio di Trento avevano imposto silenzio in Italia anche all’eloquenza degli scrittori in latino.

La colpa apposta agli Italiani che, scrivendo una lingua morta, ritardarono i progressi della nuova è giustissima; ma non è giustamente applicata. Noi crediamo di avere nell’epoca precedente applicata con sufficiente severità la censura a que’ che veramente la meritavano; ma abbiamo anche veduto che la dittatura de’ grammatici italiani s’arrogava di concedere celebrità a quegli uomini, che poscia il consenso di molte generazioni ha destinati a perpetua dimenticanza, e di negarla a quegli che hanno il merito di offrire a’ posteri modelli permanenti di stile e di lingua, e indipendenti dalle scuole e da’ capricci dell’uso. Fra questi è il Machiavelli, ma gli Accademici fiorentini deridevano chi lo lodava. Non è dunque meraviglia se gli uomini più dotati di sapere e d’ingegno continuarono a scrivere in latino, e si rimasero quasi a comporre una aristocrazia destinata ad amministrare i tesori della mente umana a pochissimi. Alcuni professori delle università, e specialmente quando Clemente VII coronò Carlo V a Bologna, perorarono perchè alla lingua italiana fosse inibito di parlare ne’ libri - quasi che i decreti d’imperadori e di papi bastassero. L’avviso fu poi suggerito contro la lingua francese al cardinale Mazzarino, o fatto suggerire da esso, affinchè la dottrina della cieca obbedienza si perpetuasse sovra la razza europea. I begl’ingegni, invece di ragioni opposero epigrammi, e fecero da savj; perchè niuno si è più attentato di riparlarne. Ma Napoleone, mentre affrettavasi a quella sublimità che al parer suo precipita gli uomini nel ridicolo, impose che i professori leggessero nelle Università d’Italia in latino. Se non che le lingue non cedono nè prevalgono, se non per leggi invariabili della natura e del tempo, che le vanno procreando l’una dall’altra. Sogliono bensì prosperare nella libertà, ed intristirsi nella servitù. Le loro più dure catene sono procurate per via di leggi grammaticali. Invece gli autori romani somministravano molto maggiore e nobilissimo numero d’esemplari allo stile. La loro lingua governata da leggi assolute ed evidentissime aveva per giudice tutta l’Europa, mentre la fama d’ogni scrittore italiano pendeva dalla sentenza di gloriosi pedanti, i quali giudicavano raffrontano ogni nuovo libro.

Infatti le nobili opere che sopravvissero alle altre mille di quell’età sono dettate in latino. Il Sigonio nelle sue storie, percorrendo lo spazio di venti secoli dalla epoca de’ primi consoli di Roma sino alle repubbliche italiane, fu primo a traversare la solitudine tenebrosa del medio evo. Diresti che un genio illumini tutto il suo corso; e trasfonda abbondanza, splendore e vigore alla sua latinità. Nondimeno le poche cose che gli vennero scritte in lingua italiana sono volgarissime e barbare. Vedeva che ad impararla gli bisognava perdere molta parte della sua mente ne’ laberinti delle nuove grammatiche; ond’esortò i suoi concittadini, che se avevano cura della posterità, le parlassero solamente in latino. Il che non s’ha da imputare a freddezza di carità per la patria, quando, a volere descrivere in italiano le trasformazioni universali del Romano Impero, quel grand’uomo sarebbe stato ridotto ad andare accattando i vocaboli, e l’orditura d’ogni sua frase nelle Novelle. Altri, a modellare i loro pensieri con dignità, scrivevano da prima le storie recenti della lor patria in latino, e le traducevano in italiano da sè; e concorrevano ad arricchire la lingua letteraria.

Così la lingua che sola può dar progresso alla letteratura, impedivala. E nondimeno la letteratura era allora da tutti i precedenti secoli e dalle nuove rivoluzioni del mondo versata sovra l’Italia a torrenti. Tutta la poesia, l’eloquenza, la storia e la filosofia de’ Romani e de’ Greci rivissero quasi di subito con la invenzione della stampa. Gli annali della terra, e i nuovi costumi del genere umano scoperti con l’America eccitavano la curiosità degli ingegni. I mari d’allora in poi incominciarono ad arricchire altri popoli: l’opulenza che avevano portato alle città italiane, non potendosi più ornai applicare al commercio, compiacque al lusso e alle belle arti. I palazzi arredati di monumenti e di biblioteche educarono antiquarj e scrittori d’erudizione, e crescevano la supellettile letteraria. Accrescevala anche la servitù in che declinarono le città libere, dacchè i nuovi signori, costringendo gli uomini generosi al silenzio, stipendiavano lodatori; nè vi fu secolo nel quale l’adulazione sia stata bramata con tanta libidine, o sì sfacciatamente professata ne’ libri. Le controversie inerenti agli oracoli della Bibbia erano allora fierissime, universali. E quanto l’Europa in questa età sua decrepita ciarla di speculazioni politiche, tanto allora farneticava di religione: se non che le condizioni de’ regni e gl’interessi de’ principi, e più assai degl’Italiani, non pendeano, come oggi, da pubblicani che di carta fanno danaro a nudrire soldati, bensì da dottori che di teologia facevano ragioni a sommovere popoli; e perchè quelli studj fruttavano ecclesiastiche dignità, produssero una moltitudine di uomini letterati. Ma le turbe de’ mediocri opprimevano i pochissimi grandi. L’eloquenza era arte ambiziosa nelle Università; la troppa dottrina snervava l’immaginazione; e la sentenza intorno alla quale s’aggira tutta la poetica d’Aristotile - «Che l’uomo è animale imitatore» - quantunque variamente chiosata da molti, era superstiziosamente inculcata e obbedita in questo da tutti: - «Doversi imitare, non la natura, ma gli imitatori della natura.» - Però le lettere, giovando alle arti, a’ governi, alla Chiesa, e alle scuole, non esaltavano le passioni, non illuminavano la verità nelle menti, non ampliavano i confini dell’arte; mortificavano le originalità degli ingegni. E per la nazione non v’era lingua, perchè lo scrivere e intendere la latina era meritamente privilegio de’ dotti; e l’italiana, comecchè men parlata che intesa da tutti, rimanevasi patrimonio di grammatici, che disputavano fin anche intorno al suo nome.

La predizione di Dante pur si avverava, volere e non volere, a ogni modo. Il dialetto fiorentino rifiutava di lasciarsi scrivere, se non era confuso dall’ingegno degli autori nella materia generale della lingua letteraria, e rimodellato con forme diverse. Bernardo Davanzati si provò di negarlo col fatto, e professò di avere tradotto in volgare fiorentino gli Annali, e la Storia di Tacito. Gli fu creduto, perchè così pare a prima vista in chi non è assuefatto da lungo esercizio a discernere il vero in queste materie difficilissime insieme e tediose; e dall’altra parte niuno lo negò, perchè tale fu il decreto unanime e perpetuo dell’Accademia della Crusca di cui egli era membro; ed è un de’ pochissimi ch’oggi meriti d’essere ricordato con ammirazione. Infatti il Davanzati traducendo scrisse in modo sì originale, che non fu poscia, nè sarà mai imitato da veruno: ed è tanto vero che gli scrittori i quali lo hanno preceduto non hanno lasciato neppur l’ombra di sì fatta maniera di composizione; e tanto egli sapeva maneggiare la lingua, che con tutti i disavvantaggi degli articoli, la traduzione stampata a fronte del testo riesce in ogni pagina più breve dell’originale. Ma il popolo fiorentino non ha mai parlato nè poteva parlare a quel modo. Ben il Davanzati usò de’ riboboli ed idiotismi del mercato, e talor n’abusò, ma non servono che di vernice. Chiunque sparpagliasse sopra ogni periodo di Tacito uno o due vocaboli o modi di dire tolti dalle Commedie di Plauto, invece di quelli adoperati dallo storico, avrebbe precisamente nell’originale latino quel libro, quale pare ed è nella traduzione italiana. E chi d’altra parte, sottraendo gl’idiotismi municipali e plateali della traduzione, li supplisse con dizioni più signorili, non nuocerebbe punto alla brevità, gioverebbe alla dignità, ed avrebbe la traduzione più meravigliosa che sia mai stata fatta. La massa delle parole e le frasi appartengono, nello stile del Davanzati, alla lingua letteraria d’Italia; e o non furono usate mai nel dialetto fiorentino, o se furono usate da’ Fiorentini nel discorso giornaliero, essi usandole le corruppero e le trasfigurarono di generazione in generazione. Onde le cagioni reali dello straordinario modo di scrivere del Davanzati derivarono dall’indole del suo ingegno, dall’indole dello stile di Tacito, e dall’indole della lingua italiana.

Frattanto, i due primi libri che Dante innanzi la sua morte potè finire del suo Trattato su questo argomento furono disotterrati e pubblicati. Da prima la loro autenticità fu negata, e l’originale che l’autore scrisse in latino, e tutta la traduzione che ne fu pubblicata furono dichiarate imposture. Quando finalmente, dopo una serie di prove innegabili e di dispute protratte per lunghissimi anni, niuno potè contendere la genuina origine di quel libretto, alcuni negarono la verità della dottrina, altri professarono che non potevano intendere come una lingua potesse scriversi e non parlarsi; e intanto non potevano mai parlare come scrivevano. Altri finalmente, e ne sono parecchi anche a’ di nostri, si stanno in dubbio come i buoni fedeli che non sanno come riconciliare i dogmi della Santa Chiesa su la immobilità della terra con le matematiche dimostrazioni del suo giro diurno ed annuo intorno al Sole: così, dovendo credere a un tempo a’ teologi ed a’ filosofi, non sanno cosa si fare.

Or la costituzione letteraria della lingua italiana somiglia per l’appunto alla Costituzione dell’Inghilterra. Non è conosciuta, nè può farsi conoscere distintamente per legge scritta, ma ognuno ne vede le deviazioni. Dipende da esempj precedenti innumerabili, molti de’ quali sono obliterati nell’uso, ma mantenuti ne’ ricordi, perchè servono alla storia e alle analogie della costituzione; molti altri non sono richiamati in uso se non in certe urgenti occasioni, ma non mai senza le forme prescritte; finalmente, molti sono vigenti perpetuamente. Pur nondimeno, non solo i primi e i secondi, ma anche questi ultimi non sono ben conosciuti da tutti, e pochissimi possono ben applicarli. Così un nuovo membro del Parlamento, per quanto dotto ei siasi delle leggi e della storia della sua patria, deve sempre soggiacere alla sentenza de’ più pratici, a’ quali il lungo uso solo insegnò come interpretare ed applicare i principj costituzionali dello Stato.

Or mentre disputavano senza intendersi, e le liti inferocivano con rabbia municipale, gli Accademici della Crusca s’allontanarono da’ principj di Dante in guisa, che, mentre quel grand’uomo voleva la lingua letteraria appartenesse alla nazione e non a dialetto veruno, gli Accademici scrissero volumi a provare che tutta la lingua consisteva nel dialetto fiorentino scritto nel secolo XIV. Niuna perseveranza potrebbe mai giungere a snodare i gruppi di regole e regoluccie che intricarono le une su le altre nelle loro grammatiche; l’umana ragione non potrebbe mai intenderle, nè l’immaginazione mai concepirle. Così ogni frase, ogni parola, ogni accento di quella loro lingua furono giustificate con la sottigliezza de’ legisti, e de’ teologi casuisti, e si convertirono in altrettanti precetti di lingua e di stile. Le eccezioni alle regole furono anch’esse ridotte a ragioni, e sotto regole minutissime; e per insegnare a imitar cose che non vogliono accomodarsi nè a ragioni, nè a leggi, nè ad imitazione. L’unico loro principio invariabilmente enunziato, ma assurdo in sè stesso, e non applicabile mai, consisteva - «Che quanto più uno scrittore si diparte dagli autori del secolo XIV, tanto più scrive male.» - Quindi una lingua viva e crescente diventava morta, e gli uomini viventi e futuri dovevano concepire ogni idea, nominare ogni cosa, adoperare ogni vocabolo e frase, nè più nè meno, come gli uomini di generazioni sepolte da lunghissimo tempo.

Questo principio e i loro volumi di osservazioni sopra il Decamerone del Boccaccio furono quasi preparazione evangelica al Vocabolario della Crusca, e fondarono tutti i dogmi dell’Accademia. Vero è che poscia questa s’avvide talora degli errori che ne risultarono, e s’è studiata di ripararli. Ma perseverò a mantenere l’infallibilità, e l’applicazione delle dottrine; affettò la vigilanza del Santo Uffizio; e s’aiutò fin anche di magistrati e predicatori contro un letterato sanese che rinnegò le sue leggi2. Da prima, a declinare l’invidia delle città toscane, gli Accademici tennero tre anni di consulte intorno al titolo del Vocabolario, e decretarono che si chiamasse della lingua toscana. Poscia, affinchè tutto l’onore si rimanesse ne’ Fiorentini, v’aggiunsero: cavato dagli scrittori e uso della città di Firenze. Finalmente con politico temperamento lo nominarono: Vocabolario dell’Accademia della Crusca, senz’altro. Così fu stampato; e la prima volta senz’altre voci, se non se del Decamerone e di pochi scrittori contemporanei del Boccaccio; e comecchè sia stato poscia allargato con esempj da’ secoli seguenti, rimane pur sempre Vocabolario di dialetto, ma non di lingua. Senzachè il nome d’italiana ostinatamente negato da quella Accademia alla lingua perpetuò le guerre civili di penna che mai non vennero a tregua; e bastasse: ma talvolta i nobili ingegni hanno parteggiato contro a nobili ingegni. Il Machiavelli su’ primi giorni della contesa rideva dell’Ariosto, che non poteva sormontare la difficoltà di mantenere il decoro di quella lingua ch’egli accattava. E il Galileo, quando l’animosità de’ grammatici inferocì, s’avventò contro al Tasso. E non pertanto sono dessi i quattro scrittori, che non per la vanità nazionale degl’Italiani, o per vanità di erudizione de’ forestieri, ma per la divinità del loro genio, si meritarono la gratitudine di noi tutti; e soli a nostro credere, certo i soli indegni della compagnia di mille esaltati dalle tradizioni di quel secolo millantatore. Or tutti sanno quanto il Salviati congiurò con alcuni grammatici ad aggravare le lunghe sciagure del Tasso, e la sua tendenza alla manìa, con la quale la natura fa scontare ad alcuni mortali i doni, non so quanto desiderabili, dell’ingegno. Cinquant’anni e più dopo, le opere e il nome dell’Autore della Gerusalemme fu citato nel Vocabolario della Crusca; ma fu tarda espiazione e forzata. Nè i Fiorentini dovrebbero gloriarsene; da che non fu per loro proprio rimorso o ravvedimento, bensì per comando del gran duca Leopoldo, pregatone istantemente da un Cardinale3. Così anche un atto di giustizia alla memoria di un uomo grande, generoso, infelice e iniquamente perseguitato fu per l’Accademia della Crusca un atto di vilissima servitù. Non però cessavano le vergognosissime liti intorno al nome della lingua. Durano tuttavia con quelle animosità provinciali, che sino dalle età barbare hanno conteso a quel popolo sciagurato di riunirsi in nazione; e le animosità sono esacerbate insieme e santificate da quegli uomini letterati, i quali negano all’Italia fin anche il diritto di possedere una lingua comune a tutte le sue città.


Note

  1. Così chiaramente leggono l’autografo e una copia dell’amanuense. Sembrerebbe a prima giunta che dovesse dire Italia, anzichè Europa. - (F. S. O.)
  2. Girolamo Gigli.
  3. Così legge chiaramente la copia dell’amanuense corretta dal Foscolo, ma certo con errore manifesto. La persecuzione letteraria contro il Tasso fu soltanto del Salviati e di pochissimi altri Accademici. La maggior parte di essi se ne astenne affatto, ed onorò il gran Poeta quando venne a Firenze; di che fa ampia fede il Serassi. Inoltre le opere del Tasso, come la Gerusalemme, l’Aminta, le Rime e le Lettere, cominciarono ad essere citate dalla Crusca fino dal 1691, in cui fu fatta la terza edizione del Vocabolario. Sembra pertanto che il Foscolo siasi ingannato, equivocando fra Leopoldo I, gran duca, e il cardinale Leopoldo de’ Medici, che fu accademico sino dal 1641. Quest’ultimo, quantunque non possiamo affermarlo sulla fede di alcun documento, potrebbe avere avuto il merito di avere istigato l’Accademia (forse per le premure del Segni, che gli fu segretario ed amico) ad espiare l’onta fatta da una fazione a quel divino, che pur morendo sentiva come il secolo avrebbe raccolto gloria da’ suoi scritti. - (F. S. O.)

FINE