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Atto primo

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Personaggi Atto secondo

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Atto primo

Scena prima

Sala reale

EROPE con un Fanciulletto per mano

Erope. D’empj rimorsi oggetto, infausto, caro

Pegno d’amor, de’ miei delitti o negra,
O spaventosa immago!... Oh! vien1;pur veggo
In te il conforto mio. Figlio, tu acerbo
Finor mi fosti, e forse... Ahi! quanto acerbo
Più mi sarai! – Ma già su te l’estreme
Lagrime spargo. – O notte, orrida notte
Di profanato amor! volgon cinqu’anni,
Che ad ogni istante a comparir mi torni
Da mie vergogne avvolta; e mi rinfacci
Il vïolato talamo, la fiamma

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Che accesero le furie, e che m’avvampa

Tuttor nel sen, mi rode, e viver fammi
Vita d’inferno. O figlio, o di Tïeste
Sola e trista memoria, io t’amo, e sei
Tu di me degno, e dell’infame casa
In cui scorre tuttor sangue di padre.

Scena II

IPPODAMIA e detti

Ippodamia. Incauta! e a’ suoi custodi il fanciulletto

Rapire osasti? e del furor d’Atreo
Non temi tu? Qui di te vengo in traccia,
Qui a ritorti tuo figlio, ed altri atroci
Delitti risparmiare a questa reggia
Contaminata ahi! troppo.
Erope.   A me dal seno
Strappar mio figlio! Oh! di Tïeste è figlio
Questo e di Erope misera: non l’ira
Del re tremenda, non di morte l’aspra
Minaccia rapiran da disperata
Madre l’unico pegno.— 2 Ah! vieni al fine:
D’Atreo dalle spietate man ti svelsi,
Ma per morir; insiem scorrasi misto
Il sangue nostro: a tante stragi queste
S’aggiungan. Nero alto è delitto, il veggo;
Ma per noi necessario; ma dai numi
Decretato ed accetto. Io... la... tua... vita...
All’ombre inferne con la mia consacro.3.
Ippodamia. (4)
Forsennata! a me il ferro...5 Lutti, colpe
Non bastano oggimai? sazia non credi
Ancor l’ira del Ciel?
Erope.   Sangue mi grida
Il mio rimorso, sangue; e da me il chiede
Del padre mio l’ombra tradita. In questa

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Reggia lo vidi agonizzar: qui ’l nome

Proferì di Tïeste, e i neri inganni
Svelò d’Atreo. – Son io men rea? Ti fui,
Padre, causa di mali, ed io fui mezzo
D’iniquità: scritta è vendetta in cielo;
E il Ciel sazio non fia, s’io pria non pero.
Ippodamia. Qual da’ tuoi detti feroce traluce
Disperazion? Tal non ti vidi io mai.
Misera! e qual colpa n’hai tu? Rapita
Del tuo Tïeste dalle braccia, e indotta
Dall’irritata ambizïon del padre
A’ voleri d’Atreo, non soffocasti
Sin da quel giorno astretta a dover sacro
Tue prime fiamme?
Erope. Ahi! di lusinga questi,
Di pietà troppa accenti son. Non vedi
A te dinanzi di Tïeste un figlio,
Figlio di me, sposa ad Atreo? – Me lassa! –
È ver, dal dì che Atreo ruppe que’ nodi,
Ond’ei mi strinse con Tïeste, e truce
All’amor mio rapimmi, e l’infelice
Fratel dannò ’n Micene, onde träesse
Oscuri giorni abbandonato e solo,
È ver, di morte affanni, iniqui e incerti
Serrai contrasti nel mio sen: ma tutta
Ubbidïenza al sire, amore, e fede
Apparire tentai. – Che pro? più ardea
Di me Tïeste: di Micene sua
Tu il sai, lasciò l’esiglio: ansio, furente
Un giorno, innanzi ch’io giurassi all’ara
Qui...
Ippodamia. Istoria triste a che rinnovi? Solo
Quell’istante per lui, per te fatale
Per sempre ci fu: dalla gelosa possa
Del re fugato, d’ogni bene in bando
Vive. Fu il reo Tïeste; e pena ahi! troppa
Sottentrò al suo delitto.
Erope. Al suo!

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Ippodamia. Delitto

N’hai forse tu? Tuo vano schermo apponsi
A colpa?
Erope. Al suo delitto! Error comune
Comun chiede gastigo: a lui più ch’altro,
Ferro oppor io dovea: non debil mano
Di debil donna. – E ben: io lo mertai
Il supplizio, a cui corro, e ’l Ciel lo vuole;
Ippodamia. Ma il figlio tuo? ma un innocente? Oh numi!
Qual è il delitto suo?
Erope. Di colpa è questo
Frutto esecrando, e di colpa è rampogna.
Ma oimè! non tu, figlio, sol io
La cagione, io ne son... Pure morrommi;
E in mezzo al duol te lascerò? Tu vivi,
E ti segue ognor morte: Atreo non spira,
Che per sfamar sua rabbia in te: nel scorno
Benchè tu nato, mi sei figlio, e merti
Quella pietà che per me cerco. Invano
E doni e pianti avrò d’aspri custodi
A’ piedi sparso? – No, s’io ti dischiusi
Dalla ferrea prigion, per morir teco
Ti schiusi; per morir...
Ippodamia. A che tant’ira?
Qual n’hai ragion? D’Atreo, gli è ver, tu soffri
Dispregio sì, ma non a tal, che tanto
Ti spiri eccesso.
Erope. Ippodamìa, nell’alma
Udisti mai rimorsi? Empia, abborrita
Passion t’agitò mai? Di madre i palpiti
Troppo presaghi, che mio figlio un giorno
Vedrommi a’ piedi strazïar, e senza
Poter prestargli aïta? Ah! tu mal provi
Quanto mi lania e mi dispera. Oh truce
Pena del mio misfatto! Orror succede
A orror: veggo Tïeste egro rammingo
Per le terre non sue, squallido, solo
Gir strascinando una vita languente,

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De’ suoi rimorsi preda: ora l’ascolto

Gemebondo invocar Cocito, e ’l giorno
Maladir che mi vide: or mi s’affaccia
Ombra di morte, e con le mani scarne,
Colle livide braccia il crine, il petto
Afferrami, distrignemi, e mi grida
«All’Averno, all’Averno». – Ah! sì, ti sieguo,
Ombra amata...
Ippodamia. Che di’? come! tu l’ami
Ancor?
Erope. Io l’amo?... Io lui?... No: quando amai,
Sposa non era al re. Misera! Tace
Ogni dover, se si rïalza amore
Dentro ’l mio petto. – Or ben; odilo: l’amo;
Sì, l’amo; ah non l’amassi, o almen cotanto
Non l’abborrissi! chè s’io lo rammento,
L’odio d’Atreo spaventami. Lo scaccio
Da’ miei pensieri; ei la cagion di tutti
I miei disastri, ei fu: ei mi sorprese;
Ei vïolò di suo fratello il sacro
Talamo nuzïale... Ah! tutto, tutto
Io mi rimembro invano, e invan lo scaccio;
Ch’ei qual despota torna, e a’ primi ardori,
E ad altre colpe mi sospinge, ed io
Fra gli attentati ondeggio e fra i rimorsi.
Ippodamia. Quanta mi fai pietà! Pur tu dovresti
Pietosa esser con me: poichè di grandi
Dolor causa mi fosti, e ancor lo sei,
E d’esserlo pur brami? Ancor soppresso,
Ancor non hai quell’ardore esecrando,
Alta cagion di rancor, di vergogna?
Per te passo miei dì penosi, in grembo
A’ sospetti ed affanni.
Erope. Odiami: degna
Sono dell’odio tuo: bersaglio femmi
De’ suoi colpi il destino; odiami: io vivo
Per più penar; eseguirai mio fato. –
Ma omai viver non posso: i numi, i numi

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Col cenno lor mi spingono a’ misfatti.

Odi, e poi danna i miei trasporti crudi.
Mentre all’orror di notte ululi, gemiti,
E pianti diffondea su le passate
Sventure, su mio figlio, e su... Tïeste,
Ecco m’odo tuonar d’alto spavento
Voce, e di pianto intorno. «A che ti stai?»
Grida: «s’appressa l’ora, e ’l figlio tuo»
«Pasto sarà de’ padri suoi». M’arretro:
«T’arma, ferisci, vittima innocente»
«Fia cara al Cielo; schiverà delitti». –
E voce fu d’un dio: l’udii pur ora
Nella gemente stanza rimbombar.
Ippodamia. D’accesa fantasia, figlia, son vote
Larve, che a’ sensi tuoi tuo duol presenta
Ad angoscia maggior. Ma, e tu lor badi?
Sta in te, le scaccia.
Erope. Oh! mal t’apponi. E come
Che le scacci vuoi tu? Co’ miei rimorsi
Deggion esse svanir; co’ miei rimorsi
Mi seguiran perfino entro il sepolcro. –
Pace una volta, pace. – Io non lo merto
Perdon, nè il chieggo: ma perchè d’Atreo
Non scoppia il sanguinoso rancor cupo
A giusta pena? A che mi serba? – Ahi! forse
All’inteso presagio.
Ippodamia. E che? d’Atreo
Qual mai tema n’hai più?
Erope. Non è ancor caldo
Il ferro, ond’ei sotto amistà mi spense
Il genitor? non odi aspre parole
Di menzogna e rimbrotto? irati sguardi
Non vedi in fiel cospersi?... Obbrobrïoso
Ripudio?... atre rattenute minacce?...
Il suo cor?... tutto, tutto?
Ippodamia. I tuoi timori
Fanti veder più che non è. Ma, il credi,
Altri oggimai pensier...

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Erope. E quai pensieri,

Tranne quei di vendetta? Io non mi lagno
Di sue rampogne; giuste son, le fuggo,
Ed a tacite lagrime le sconto.
Ma a che di questo misero, di questo
Innocente fanciul, figlio, che un giorno
Odierà i suoi natali, i giorni in fosca
Prigion rinserra? A che mai farne? Il credi:
Ippodamìa, fuor che di sangue, Atreo
Altro non ha pensier.
Ippodamia. Madre gli sono,
Nè vuoi ch’io lo conosca? A fondo io leggo,
Erope, nel suo cor. T’accerta, ad altro,
Che a nuovi eccessi, ci pensa. Il pargoletto
Troppo rileva custodire: ei l’ama,
Chè di Pelope in lui pur scorre il sangue.
Discaccia alfine i tuoi sospetti, e, il credi:
Pur ei saggio previde. In Argo è sparsa
Fama, che di Tïeste...
Erope. E dove mai
Non s’udì il mio delitto?
Ippodamia. Or statti, e m’odi.
Temer del vulgo i detti a un re conviensi,
E cercar di sopirli. Egli l’oggetto
Al vulgo cela, onde copra silenzio
Lo scorno de’ Pelopidi, ed il tempo
Ogni memoria ne cancelli. Intanto
Questo fanciullo al carcere si renda,
Onde d’Atreo l’ancor piaga stillante
Non s’inacerbi, e non inferocisca
Contro Tïeste, e contro noi.
Erope. Ben parli.
Ma tu, qual io, sei madre?
Ippodamia. Oh che di’ mai?
Non son io madre? e madre sommi, e sono
Preda anch’io di sventura: io vissi, e, lassa!
Ahi! troppo vissi, se veder dovea
Morti nefande, ed odj ed ire e guerre

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Nella casa paterna. Io di Enomao

Prole infelice, a Pelope consorte,
Io madre, e madre di discordi figli,
Cui di rabbia nefaria impeto tragge
A sbranarsi fra lor, io sventurata,
Qual te, non sono? E soffrirò che sparso
D’innocente nipote il sangue sia?
No, tel giuro, non mai: per questo petto
Pria de’ il brando passar: vivrà tuo figlio,
Sgombra il timor, vivrà. Deh! a me l’affida;
Tutta la cura a me ne lascia.
Erope. – Or prendi.
Ma... oh dio!... deh... deh mi lascia... Almeno,
o madre,
Seco lui fuggirò... Romita, ancella,
Purchè sia con mio figlio... Ah lascia. – E dove?
Dove tu il condurresti!... Atreo!... di troppo
Ti fidi tu... No, no... lungi da questa
Reggia di sangue io me n’andrò ... Ma il figlio,
Il figlio meco, e poi morir. – Sì ... morte
Quanto più cara assai!... morte; sì, morte,6.
Ippodamia. Scena di lutto! Oh! figlia, Erope, al fine
Calmati; attendi del tuo fato i cenni:
Tal si de’ a’ sventurati.
Erope. I cenni e ’l fato
Sono di morte, e morte voglio.
Ippodamia. Indarno
Dunque fia ch’io ti prieghi! Il figlio tuo
L’avrai, ti rassicura: ah! soffri ancora
Per poco; il rendi a’ suoi custodi; Atreo
Mal soffrirebbe che degli ordin suoi
Si vïolasse il menomo: di lui
A’ piè mi prostrerò; bagnar di pianti
Mi vedrai le sue man; preci, scongiuri
Per te non fia ch’io mai risparmi; il sire
Si piegherà, lo spero; il figlio allora
Renderatti spontaneo. – E, chi sa!... forse,
Chi sa! umano ha core; a lui ti mostra

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Più sommessa, men trista; i dì tranquilli

Rendratti forse dopo dolor tanto. –
Erope. Sì, l’abbandono a te:7
d’altri delitti,
Se fieno i suoi ed i miei dì cagione,
Colpa non io n’avrò, ma tu: lo grido,
E lo protesto a’ numi.8

Scena terza

Ippodamia, il Fanciulletto

Ippodamia. E a’ numi eterni

Questo fanciul, quella misera donna
In cura io porgo. Di terror, di sangue
Irrequïeti omai gli anni trascorsero
Fra queste mura; ed io, madre infelice,
Altro non ho che il pianto... Il Ciel non cessa
Di punire le colpe: orrida pena
Della colpa di Tantalo, tu incalzi,
E piaghe a piaghe aggiungi, e truci a truci
Opre. – Ma alfin temp’è che ceda il giusto
Sdegno vendicator: no, tanti affanni
Non allettano i numi: in cor mel dice
Credula speme, fia che rieda pace.9

FINE DELL'ATTO PRIMO

  1. abbraciandolo
  2. Dopo breve silenzio, al Fanciulletto
  3. Impugnando un ferro per uccidere il Fanciulletto
  4. trattenendola
  5. Le strappa il ferro e lo ripone
  6. S’abbandona disperata sopra il Fanciulletto
  7. abbandona il Fanciulletto a Ippodamìa
  8. Parte.
  9. Parte col Fanciulletto.