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Traduzioni e riduzioni/Favole

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Favole

../Da Virgilio ../Poesia popolare eroica civile IncludiIntestazione 2 novembre 2023 100% Da definire

Da Virgilio Poesia popolare eroica civile

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FAVOLE

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per chi sono le favole

.    .    .    .    .    .     perchè
     codesto tuo figliuolo
     fiore de’ fior di Romolo
     tra i conti della balia
     e il ninna-nanna, favole
     abbia sensate ed utili
     da divertirsi e apprendere.


son favole

Quella ch’Esopo ritrovò materia
     greggia, ho rilavorata in versi giambici.
     Ha due pregi il libretto: un, che fa ridere,
     poi, che ti dà consigli utili al vivere.
     Che se qualche saccente mi dà biasimo,
     ch’oltre le bestie, parlino anche gli alberi,
     sappia che in fin si scherza e che son favole.


il fine della favola

Esempi: è tutto qui d’Esopo il genere!
     Altro non si domanda con le favole

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     che raddrizzar gli umani pregiudizii,
     e l’ingegno aguzzare in chi le studia.
     Abbia buon garbo il narratore o piccolo,
     pur che ascoltar si faccia e stia ne’ termini,
     conta ciò solo: all’inventor non badisi.


da chi fu trovata la favola

Due parole a chiarirti a che la favola
     fu ritrovata. Fu lo schiavo, il povero
     schiavo impotente: non osando esprimere
     il suo pensiero, lo velò con simili
     frasche, e così fu d’ogni noia libero.
     Io, quanto a me, di quella sua viottola,
     feci una strada, fantasie mettendovi
     di mio cervello — ahimè! per mia disgrazia. —
     Che se l’accusa, i testimoni, il giudice
     al sol Seiano non si riducevano,
     io dicea: ben mi sta, nè volea mettere
     pannicelli alla piaga che mi brucia.
     Oh! se ciò ch’è per tutti, un se l’appropria,
     stolto, per un sospetto ch’ha nell’anima,
     diremo: i lupi avanti il gridar fuggono.
     E pure anche quel tale io voglio m’abbia
     per iscusato, chè non m’è nell’animo
     di bollar questo e quello, ma degli uomini
     vita e costumi in genere descrivere.


la vecchina e l’anfora

Una vecchina scorse a terra un’anfora
     vuota, che per un poco di fondiglia

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     sentia falerno, ch’era una delizia,
     lontano un miglio. Quell’odor si succia
     ella, a forza di naso, ingorda, tenera-
     mente, ed, oh! esclama, qual soave spirito
     è il tuo! La gran bontà che aveva ad essere
     dentro te, se cotale è la reliquia!
Cosa vuol dire? Parli chi m’ha in pratica.


la pantera e i pastori

Tal si bistratta, e a tutti il suo sa rendere.
     La pantera una volta non badandosi
     cadde in un trabocchetto. Ecco la vedono
     i contadini; e giù mazzate e ciottoli.
     Certuni invece, per pietà che n’ebbero,
     chè la morrebbe senza tanti strazii,
     a confortarla un tozzo le gettarono.
     Si fa notte; i villani si ritirano:
     certo domani sarà morta, pensano.
     Ma quella, come racquistò gli spiriti,
     dalla buca schizzò fuor con un lancio
     e fu in due salti nel suo covo. Passano
     pochi giorni ed ella esce, scatta; sperpera
     le mandrie, scanna anche i pastori, a furia
     tutto devasta, per tutto si scaglia.
     Quelli che cortesia fatto le avevano
     per sè a temer cominciano e la pregano:
     — Facci pur danno, ma lasciane vivere. —
     E lei: — Distinguo chi mi trasse ciottoli,
     chi pan mi diede. Siate di buon animo,
     vado a far guerra a chi mi fece ingiuria.

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la testa della scimia

Un tale in beccheria vide una scimia,
     tra l’altre carni che vi si vedevano,
     appesa, e disse: — Di che sa, beccaio? —
          quei, per gioco: — Tale il capo, imagina,
     tale il sapore — Or questo è più festevole
     motto che vero. Certi Adoni, pessimi
          trovai; certi ceffi, galantissimi.


l’uomo e gli alberi

Chi soccorre i nemici alfin ci scapita.
     Un tal che aveva la bipenne, agli alberi
     disse: — Di legno or ci vorrebbe il manico,
     e saldo. — L’oleastro, essi rispondono,
     è il fatto tuo. — Prese egli il dono, e il manico
     adattando alla scure eccolo all’opera.
     Or mentre sceglie gli alberi da fendere,
     la quercia, è fama, così disse al frassino:
     — Noi s’ha, fratello, quello che si merita.


esopo e il biricchino

     buon successo trae molti allo sdrucciolo.
     Un monello ad Esopo tira un ciottolo.
     — Bene, fa lui. To’ questo, dice: è un picciolo. —
     E poi riprende: — altro non ho, per Ercole!

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     ma ti posso mostrare onde ricoglierne.
     Ve’ quel riccone che s’avanza. Tiragli,
     che buon per te! —


lo sparviero e il cacciatore

S’era ficcato lo sparvier nel nidio
     dell’usignolo, a lui facendo insidia.
     Trovò soli i piccini. Esso al pericolo
     vola e lo prega: — Lascia stare i piccoli! —
     — Bene, fa lo sparviero; ma tu cantami
     con la tua voce un canzoncino in quilio. —
     Egli che si sentiva, figuratevi,
     cadere il cuore, tuttavia canticchia
     piagnuccolando, come può, alla meglio.
     — Questo, egli fa, non è cantare, e un piccolo
     ciuffa e comincia a bezzicarlo. Ora eccoti
     un cacciatore quatto quatto, adagio
     adagio, leva una sua canna, al vischio
     lo prende, e giù che a terra te lo caccia.
Chi certe trame para agli altri, badisi
     che gli altri lui non prendano alla pania.


il capretto e il lupo

Una capra che aveva un suo lattonzolo
     e ne faceva diligente guardia,
     un giorno ch’ella se ne usciva a pascere,
     — Bada, gli disse, scioccherello, all’uscio,
     che tu non apra, perchè intorno bazzica
     certa gentaglia, e non si sa... — Poi vassene.

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     Appena ell’era uscita, ecco presentasi
     il lupo, e finge nella voce d’essere
     la mamma, e fa: — Capretto, aprimi l’uscio —
     Sente il capretto, ma pur mette l’occhio
     a una fessura: — È mamma nel discorrere...
     ma tu non sei già mamma: tu vuoi bevere
     il nostro sangue, e con codeste smorfie
     la nostra carne vuoi mangiarti. O vattene! —
Dar retta ai genitor de’ figli è il pregio.


il povero e il serpente

Un serpe usava in casa un certo povero
     uomo, e veniva sempre alla sua tavola
     e largamente si pascea di bricciole.
     Ricco doventa il povero; comincia
     a non volerlo più quel serpe; appioppagli,
     anzi, un colpo di scure. Giorni passano
     ed egli a un tratto ridoventa povero.
     Allora egli capisce che mutatasi
     era la sorte sua, quella mutandosi
     del serpe; sicchè, dolce e carezzevole,
     lo prega: — Io sono un tristo, ma perdonami.—
     E il serpe gli risponde: — Penitenzia
     farai della tua brutta sceleraggine
     finchè sia chiusa questa piaga; e ’n seguito
     tuo fido amico non sarò, non credere!
     A questo patto solo io ti fo grazia
     che quella scure m’esca di memoria. —
Chi te la fa una volta e tu sospettane
     sempre, e adagino nel riporlo in grazia!

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la cornacchia e la pecora

Stavasi sulla groppa ad una pecora
     la cornacchia e beccavala a bell’agio.
     Becca che becca, questa che in silenzio
     pativa, — Oh!, disse, se una tale ingiuria
     facessi al cane, ad un suo bau tu subito
     spulezzeresti — E la cornacchia: — O pecora,
     io non uso sul collo di tai bestie;
     so chi assalire, ch’ho molt’anni e pratica:
     noi s’è co’ forti pane e cacio: stuzzico
     soltanto i tristi. Che vuoi farci? è l’indole. —
Per certuni vilissimi e bassissimi
     che dànno addosso agli innocenti, e tremano
     avanti i forti, è scritta questa favola.


il dromedario e la pulce

Per caso sulla groppa al dromedario
     che, con molti fardelli addosso, marcia,
     una pulce è salita, e molto piacesi
     chè le pare infinitamente crescere.
     Lunga è la strada: verso sera arrivano
     alla stalla. D’un lieve salto subito
     balza a terra la pulce, ecco, dicendogli:
     — Scendo che non vuo’ darti ancor disagio
     stracco morto così come devi essere. —
     — Tante grazie, risponde il dromedario;
     ma non poteva il peso tuo sentirmelo
     sì che sollievo or non ne sento proprio. —
Chi fa del grande essendo un omicciattolo
     da nulla, alfin lo marcano e lo beffano.

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la lumaca e lo specchio

Una lumaca s’invaghì d’un lucido
     specchio, che avea trovato, ed, attaccatasi
     a lui, si pose adagio a scombavarselo.
     Nulla fare credea di più amorevole
     a quella luce, che di macchie offenderla.
     Come una scimmia poi lo vide sudicio,
     — Oh!, disse, tale disonor si merita
     chi si concesse a tale vituperio. —
Per le donne che a stolti si congiunsero,
     a sciagurati, è scritta questa favola.


la rondine e gli uccelli

Eran gli uccelli in un sol luogo a pascere.
     Un uomo seminava il lino. Vedono
     gli uccelli e poco o punto se ne curano.
     Ma quando lo riseppe anche la rondine
     convocò gli altri e disse in questi termini:
     — Grande grande sovrasta a noi pericolo,
     quando quel seme sbullettasse. — Ridono
     gli uccelli. Ed ecco i semi che sbullettano.
     — Meschini a noi!, ripiglia allor la rondine:
     su, tutti lesti, tutti insiem si sbarbichi
     la mala pianta, che non se ne facciano
     reti, ed al laccio non ci prendan gli uomini! —
     E quelli pure, sciagurati, a ridere
     del prudente consiglio della rondine;
     sì ch’ella, savia, si recò dagli uomini

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     in sicurezza, e chiese di sospendere
     alla grondaia della casa il nidio.
     E gli altri sciocchi, che se la ridevano,
     ne’ lacci fatti di quel lin, perirono.


l’aquila e il gheppio

Stava in un ramo appollaiata un’aquila
     maschio, in paturnie: gli era presso un gheppio
     femmina — Donde questa cera? — Moglie
     cerco invano che sia del mio paraggio —
     — To’: prendi me che fo profession d’essere
     di te più forte — Che sapresti vivere
     di preda tu? — Gnaffe: con queste grinfie
     non presi, e spesso, e mi portai per aria
     lo struzzo quale egli è? — Credelo l’aquila.
     Nozze si fanno. Tempo passa. L’aquila
     dice — Vanne a far carne sì ch’io desini. —
     Va il gheppio, vola e porta su... la fetida
     stantia carogna d’un topaccio — Il canchero!,
     dice l’aquila; or credi a baie simili! —
     — Pur d’arrivare, egli risponde, ed essere
     moglie di re, di fare l’impossibile,
     giurato avrei, per quanto non possibile. —
Chi mena donna sopra il suo paraggio,
     poi la trova donnetta purchessiasi.


il topo e il ranocchio

A passar la riviera con più comodo
     chiese il topo l’aiuto del ranocchio.

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     Questi prende un lacciuolo, e, un piè legatogli
     alla sua zampa posteriore, naviga.
     Erano appena a mezzo, ed il ranocchio
     tristo, volendo tôr la vita al sorcio,
     si tuffa un tratto, e quei contrasta e scalcia.
     Ora un gheppio era presso che rotandosi
     vide il topo a fior d’acqua. Il ciuffò e in aria
     levò, ch’era legato, anche il ranocchio.
Sovente muor chi morte ad altri macchina.


i due galli e il nibbio

Un gallo con un gallo avea battaglia
     spesso. Un dì, vinto, egli ricorre al nibbio.
     Questi: Se tutti e due, pensa, a me vengono
     quel ch’ha mosso la lite io vo’ mangiarmelo.
     Vengono infatti l’uno e l’altro. Il giudice
     quello arraffa che mosso avea la causa:
     e lui schiammazza e grida: — Non la prendere
     con me; con quello ch’è scappato, prendila. —
     Ma il nibbio: — Adagio; non ti dare a credere
     di potermi sguisciare oggi dall’unghie;
     perocché all’altro meditavi insidia,
     e giusto è che ne soffra tu medesimo. —
Spesso non sa chi l’altrui morte medita
     quale sciagura il fato gli apparecchia.


l’asino, il bue e i corvi

Un asinello e un bue sotto il medesimo
     giogo tirano il carro. Il bue sforzandosi

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     soverchiamente rompe un corno, e l’asino
     giura che, così monco, egli è un disutile.
     E il bove, tira e calca e ponta, all’ultimo
     rompe anche l’altra delle corna, e, tombola,
     crepa. Il bifolco la carogna all’asino
     ne addossa; e, picchia e mena, tante furono
     le mazzate che piovvero sull’asino
     che anch’esso a mezza via crepò. Si calano
     corvi alla preda e starnazzando gracchiano:
— Se buona cera avessi fatto al socio,
     saresti vivo, e noi digiuni, bestia! —


gli uccelli, i quadrupedi e il pipistrello

Tra gli uccelli era guerra ed i quadrupedi.
     Oggi questi vincevano, vincevano
     quelli il domani. Il pipistrello timido
     di quel su e giù, se la batteva a vespero
     sempre fra quelli che vedea che vinsero.
     A pace fatta, tutti e due s’accorsero
     del brutto tradimento, e lo bandirono.
     Sicchè schivando il sole, e nelle tenebre
     di lì innanzi appiattando l’ignominia,
     è sempre solo, e sempre a notte egli alia.
A due partiti chi si vorrà vendere
     gli andrà male che in due l’avranno in uggia.


il topolino

Chiappalebriciole vo chiamato: io sono la prole
     giovane del gran cuore di Rosicapane; m’è madre

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     Leccalamacina, figlia del principe Rodiprosciutto.
     Fecemi in una capanna; a forza di fichi e di noci
     ella mi tirò su, con vivande di tutte le sorti...
     Ciò ch’è tra gli uomini in uso, io rosico: non mi si cela
     pane a finissimo staccio, che posa nel tondo canestro;
     non schiacciata di sèsamo piena, dal manto sottile,
     non tocchetto di lardo, nè fegati chiusi nel velo
     bianco, nè morbidi caci di quel buon latte che caglia.


ciuco vorrei essere

Poniam ch’un degli dei venga e m’annunzii:
     Craton, tu, dopo morto, torni ad essere.
     Ma ciò che voglia, sei; can, becco, pecora,
     uomo, cavallo. E’ ti convien rivivere;
     questo è detto; ma il come a te lo scegliere.
     Fammi ogni cosa, me gli par rispondere,
     uom no, peraltro. Gli è codesto l’unico
     che mai nel mondo l’aver suo non abbia.
     Un cavallo di sangue, lo governano
     meglio d’un altro. Un can, sei, figuriamoci,
     un bravo can. Ti si tien me’ d’un botolo,
     e di molto. Anche: un gallo che ha rigoglio,
     altro si becca d’un gallo qualsiasi;
     e poi questi lo teine, e sa ch’ei merita.
     L’uom per bravo che sia, bennato ed ottimo
     cuore, con questa gente che ci bazzica,
     e’ non gli giova punto. Primi vengono
     i leccazampe; son secondi i bindoli;
     le terze parti, l’imbroglion le recita.
     Meglio esser ciuco che veder le peggio
     canaglie che ti passano e gavazzano.

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infelicità degli uomini

Tutte le bestie sono beatissime,
     e più savie, più molto, che non gli uomini.
     Prima di tutto, guarda un po’ quell’asino.
     Egli è nato in mal punto, a non rispondere.
     Pur malanno non ha che fatto e’ s’abbia
     da sè: de’ naturali egli contentasi.
     Ma noi, che! Fuor de’ mali necessarii,
     altri, noi stessi ci se ne procaccia.
     Qualcun sternuta? ci attristiam. Bestemmia?
     ci adiriam. Solo ch’un si sogni, temesi;
     tremasi sol che una civetta gracidi.
     Mode, garbugli, ambizioni, dispute:
     alla natura giunte di miseria!


il lupo guerriero

Diceva un lupo giovanotto a una volpe:

     — Era un eroe mio padre, di gloriosa memoria,
     erasi fatto così terribile a tutto il dintorno!
     Egli domò via via piucchè duecento nemici:
     l’anime loro sospinse allo squallido regno dell’Orco.

Qual meraviglia se finalmente sott’uno lasciò la vita? —

“Ecco„, rispose la volpe: “in un canto funebre sta bene dir così: in una storia si dovrebbe dire invece: — I duecento e più nemici, che domò via via, erano pecore e ciuchi, e quell’uno che domò lui, fu il primo toro, ch’egli osò assalire„. [p. 152 modifica]


le cicale e le formiche

Era uno strazio, ne’ granai vederlo
marcire, il grano. Un dì che facea bello,
un di quei dì, ch’esce a cantare il merlo,

le formiche, ciascuna il suo granello,
presero, e tutto stesero il frumento
sopra la rena, a un po’ di solicello.

E le cicale videro, ed a stento
mossero, con la tunica di foglio
che si sentiva scricchiolare al vento.

E dissero: “Sorelle, un po’ di loglio!
s’ha fame„. Una di quelle affaccendate
rispose: “A grano a grano s’empie il doglio.

Voi che facevi nella scorsa estate?„
“Chi gode un tratto, si dicea, non stenta
sempre. Noi cantavamo„. “Ora ballate!

è un bello stentar chi si contenta„.


lo smergo, il pruno e il pipistrello

Quel dì lo smergo, come è suo costume,
era sul lido, a cui sempre più chiare
batteano l’onde con fiorir di spume.

Egli già s’era indotto a mercatare
col pruno aspro e col lieve pipistrello,
e tutto il loro avean fidato al mare:

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panni il pruno, esso rame; ed il vascello
noleggiò l’altro con una diecina
di zecchini prestati da un uccello

e da un topo. Infelici!... Ora a marina
torna lo smergo per veder se l’onde
rendano un poco della lor rapina.

Passa una veste: il prun non si confonde:
l’afferra. Il terzo esce di casa, dopo
che rincasò l’uccello tra le fronde;

e svola in fretta prima ch’esca il topo.


il pruno e la volpe

Il pruno era quel pruno aspro che disse
alla volpe... Costei per una china
s’apprese a lui, ch’a’ piedi le confisse,

senza parere, qualche acuta spina:
ond’ella tutta insanguinata: “Ahimè!
che bell’aiuto!„ E il pruno “E poi se’ fina!

M’attacco agli altri... e tu ti attacchi a me!„


il bertuccino re

Fina, oh! fina la volpe era pertanto!
c’era un di l’assemblea degli animali:
il bertuccino vi ballò d’incanto.

— Bene! ci ha il fuoco! bravo! ma ci ha l’ali!
Sia re! — La volpe con pupille torte,
disse tra sè: “Tale il rettore, quali

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i popoli!„ Ecco, un dì, vede per sorte
una tagliola con un po’ di carne.
“Vedremo!„ dice e se ne viene a corte.

“Sire, cacciando poco fa le starne
ho veduto un tesoro in una gola
di monte. È vostro: io non saprei che farne,

voi siete il re„. La volpe alla tagliola
conduce il re, che allunga un dito e resta
preso: e la volpe ritornando sola

ride e borbotta: “Un re con quella testa!„


il tesoro

Quanto a tesori, un’altra se ne narra.
C’era una volta un vecchio contadino
ch’aveva un suo campetto e la sua marra

e tre figliuoli. Giunto al lumicino
volle i suoi tre figliuoli accanto al letto.
“Ragazzi„ disse “vado al mio destino:

ma vi lascio un tesoro: è nel campetto....„
E non potè più dire altro, o non volle.
A mente i figli tennero il suo detto.

Quando fu morto, quelli il piano il colle
vangano, vangano, vangano: invano;
voltano al sole e tritano le zolle:

niente. Ma pel raccolto, quando il grano
vinse i granai, lo videro il tesoro
che aveva detto il vecchio; era in lor mano;

era la vanga dalla punta d’oro.

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l’ironia dei ranocchi

Brekekekèk... che cosa è quel ch’i’ odo,
or che le rane per lo più dal fosso
salgono e stanno a meriggiar tra il biodo?

Un asino passava con sul dosso
un grave fascio; e con gli orecchi bassi,
zoppicando, pareva dir: Non posso

più! Quel meschino, fatti pochi passi
in mezzo all’acqua, sdrucciolò, sì ch’ora
lungo disteso eccolo là tra i sassi,

che soffia e scalcia e intorbida la gora
verde, per puntellarsi sui ginocchi,
sotto quel peso! e cade e piange. Allora

Brekekekèk...„ gracchiarono i ranocchi;
“L’anno quant’è noi s’abita gli stagni,
quatti quatti, con l’acqua fino agli occhi:

tu per così pochino, e già ti lagni?„.


la disperazione delle lepri

Presso quella palude solitaria,
una sera, le rane erano sotto
gigari e vepri a prendere un po’ d’aria:

quando sentendo un calpestìo di trotto
che s’appressava, tutte, di tra i vepri
e i gigari, s’attuffano di botto.

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Ma chi era? che era? Erano lepri.
Eran quel dì venute da lontani
greppi in un bosco ombroso di ginepri.

“Vivere sempre in forse del domani?
Meglio morire, che da mane a sera
sentirsi dentro il batticuor dei cani!„

Detto così, corsero in una schiera,
per annegarsi; ma giunte alla riva,
quei tonfi udendo dentro l’acqua nera,
dissero: “Oh! c’è chi teme noi? Si viva!„


la tartaruga e giove

“Casa mia, vita mia!„ senza riguardi
disse la vecchia tartaruga a Giove
che le avea detto: “Tu ci arrivi tardi,

a cena! Come t’indugiasti e dove?„
“Casa mia, vita mia! “Dunque e tu sta
a casa tua!„ D’allora in poi si muove

la tartaruga, e mai fuori non va.


il marrello e la vanga

“Codesta punta„ un dì chiese il marrello
“d’oro, dov’è? Noi siamo, tanto io, quanto
te, ferro...„. “Sono gli uomini, fratello„,

disse la vanga “a dirmi d’oro: intanto
noi credon essi, e neppur io nè tu.
Io sono tutta ferro, e me ne vanto:

se fossi d’oro... non ci sarei più„.

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l’incenso

Se fanno ch’io mi strugga, ecco, non penso
che in me vedano alcuna alta virtù!
Io muoio; e sanno che vivevo incenso;
mi lodan essi, ed io non sono più.


il cane e la scodella

“Buono tu sei„ diceva la scodella
al cane, “che me, sola, in abbandono,
così carezzi e rifai nuova e bella!„

Rispose il cane, ancor leccando: “Oh! buono
son io per certo, e posso dirlo, senza
falsa modestia: ognuno sa ch’io sono

del comitato di beneficenza„.