Traduzioni e riduzioni/Favole
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Da Virgilio | Poesia popolare eroica civile | ► |
FAVOLE
per chi sono le favole
. . . . . . perchè
codesto tuo figliuolo
fiore de’ fior di Romolo
tra i conti della balia
e il ninna-nanna, favole
abbia sensate ed utili
da divertirsi e apprendere.
son favole
Quella ch’Esopo ritrovò materia
greggia, ho rilavorata in versi giambici.
Ha due pregi il libretto: un, che fa ridere,
poi, che ti dà consigli utili al vivere.
Che se qualche saccente mi dà biasimo,
ch’oltre le bestie, parlino anche gli alberi,
sappia che in fin si scherza e che son favole.
il fine della favola
Esempi: è tutto qui d’Esopo il genere!
Altro non si domanda con le favole
che raddrizzar gli umani pregiudizii,
e l’ingegno aguzzare in chi le studia.
Abbia buon garbo il narratore o piccolo,
pur che ascoltar si faccia e stia ne’ termini,
conta ciò solo: all’inventor non badisi.
da chi fu trovata la favola
Due parole a chiarirti a che la favola
fu ritrovata. Fu lo schiavo, il povero
schiavo impotente: non osando esprimere
il suo pensiero, lo velò con simili
frasche, e così fu d’ogni noia libero.
Io, quanto a me, di quella sua viottola,
feci una strada, fantasie mettendovi
di mio cervello — ahimè! per mia disgrazia. —
Che se l’accusa, i testimoni, il giudice
al sol Seiano non si riducevano,
io dicea: ben mi sta, nè volea mettere
pannicelli alla piaga che mi brucia.
Oh! se ciò ch’è per tutti, un se l’appropria,
stolto, per un sospetto ch’ha nell’anima,
diremo: i lupi avanti il gridar fuggono.
E pure anche quel tale io voglio m’abbia
per iscusato, chè non m’è nell’animo
di bollar questo e quello, ma degli uomini
vita e costumi in genere descrivere.
la vecchina e l’anfora
Una vecchina scorse a terra un’anfora
vuota, che per un poco di fondiglia
sentia falerno, ch’era una delizia,
lontano un miglio. Quell’odor si succia
ella, a forza di naso, ingorda, tenera-
mente, ed, oh! esclama, qual soave spirito
è il tuo! La gran bontà che aveva ad essere
dentro te, se cotale è la reliquia!
Cosa vuol dire? Parli chi m’ha in pratica.
la pantera e i pastori
Tal si bistratta, e a tutti il suo sa rendere.
La pantera una volta non badandosi
cadde in un trabocchetto. Ecco la vedono
i contadini; e giù mazzate e ciottoli.
Certuni invece, per pietà che n’ebbero,
chè la morrebbe senza tanti strazii,
a confortarla un tozzo le gettarono.
Si fa notte; i villani si ritirano:
certo domani sarà morta, pensano.
Ma quella, come racquistò gli spiriti,
dalla buca schizzò fuor con un lancio
e fu in due salti nel suo covo. Passano
pochi giorni ed ella esce, scatta; sperpera
le mandrie, scanna anche i pastori, a furia
tutto devasta, per tutto si scaglia.
Quelli che cortesia fatto le avevano
per sè a temer cominciano e la pregano:
— Facci pur danno, ma lasciane vivere. —
E lei: — Distinguo chi mi trasse ciottoli,
chi pan mi diede. Siate di buon animo,
vado a far guerra a chi mi fece ingiuria.
la testa della scimia
Un tale in beccheria vide una scimia,
tra l’altre carni che vi si vedevano,
appesa, e disse: — Di che sa, beccaio? —
quei, per gioco: — Tale il capo, imagina,
tale il sapore — Or questo è più festevole
motto che vero. Certi Adoni, pessimi
trovai; certi ceffi, galantissimi.
l’uomo e gli alberi
Chi soccorre i nemici alfin ci scapita.
Un tal che aveva la bipenne, agli alberi
disse: — Di legno or ci vorrebbe il manico,
e saldo. — L’oleastro, essi rispondono,
è il fatto tuo. — Prese egli il dono, e il manico
adattando alla scure eccolo all’opera.
Or mentre sceglie gli alberi da fendere,
la quercia, è fama, così disse al frassino:
— Noi s’ha, fratello, quello che si merita.
esopo e il biricchino
buon successo trae molti allo sdrucciolo.
Un monello ad Esopo tira un ciottolo.
— Bene, fa lui. To’ questo, dice: è un picciolo. —
E poi riprende: — altro non ho, per Ercole!
ma ti posso mostrare onde ricoglierne.
Ve’ quel riccone che s’avanza. Tiragli,
che buon per te! —
lo sparviero e il cacciatore
S’era ficcato lo sparvier nel nidio
dell’usignolo, a lui facendo insidia.
Trovò soli i piccini. Esso al pericolo
vola e lo prega: — Lascia stare i piccoli! —
— Bene, fa lo sparviero; ma tu cantami
con la tua voce un canzoncino in quilio. —
Egli che si sentiva, figuratevi,
cadere il cuore, tuttavia canticchia
piagnuccolando, come può, alla meglio.
— Questo, egli fa, non è cantare, e un piccolo
ciuffa e comincia a bezzicarlo. Ora eccoti
un cacciatore quatto quatto, adagio
adagio, leva una sua canna, al vischio
lo prende, e giù che a terra te lo caccia.
Chi certe trame para agli altri, badisi
che gli altri lui non prendano alla pania.
il capretto e il lupo
Una capra che aveva un suo lattonzolo
e ne faceva diligente guardia,
un giorno ch’ella se ne usciva a pascere,
— Bada, gli disse, scioccherello, all’uscio,
che tu non apra, perchè intorno bazzica
certa gentaglia, e non si sa... — Poi vassene.
Appena ell’era uscita, ecco presentasi
il lupo, e finge nella voce d’essere
la mamma, e fa: — Capretto, aprimi l’uscio —
Sente il capretto, ma pur mette l’occhio
a una fessura: — È mamma nel discorrere...
ma tu non sei già mamma: tu vuoi bevere
il nostro sangue, e con codeste smorfie
la nostra carne vuoi mangiarti. O vattene! —
Dar retta ai genitor de’ figli è il pregio.
il povero e il serpente
Un serpe usava in casa un certo povero
uomo, e veniva sempre alla sua tavola
e largamente si pascea di bricciole.
Ricco doventa il povero; comincia
a non volerlo più quel serpe; appioppagli,
anzi, un colpo di scure. Giorni passano
ed egli a un tratto ridoventa povero.
Allora egli capisce che mutatasi
era la sorte sua, quella mutandosi
del serpe; sicchè, dolce e carezzevole,
lo prega: — Io sono un tristo, ma perdonami.—
E il serpe gli risponde: — Penitenzia
farai della tua brutta sceleraggine
finchè sia chiusa questa piaga; e ’n seguito
tuo fido amico non sarò, non credere!
A questo patto solo io ti fo grazia
che quella scure m’esca di memoria. —
Chi te la fa una volta e tu sospettane
sempre, e adagino nel riporlo in grazia!
la cornacchia e la pecora
Stavasi sulla groppa ad una pecora
la cornacchia e beccavala a bell’agio.
Becca che becca, questa che in silenzio
pativa, — Oh!, disse, se una tale ingiuria
facessi al cane, ad un suo bau tu subito
spulezzeresti — E la cornacchia: — O pecora,
io non uso sul collo di tai bestie;
so chi assalire, ch’ho molt’anni e pratica:
noi s’è co’ forti pane e cacio: stuzzico
soltanto i tristi. Che vuoi farci? è l’indole. —
Per certuni vilissimi e bassissimi
che dànno addosso agli innocenti, e tremano
avanti i forti, è scritta questa favola.
il dromedario e la pulce
Per caso sulla groppa al dromedario
che, con molti fardelli addosso, marcia,
una pulce è salita, e molto piacesi
chè le pare infinitamente crescere.
Lunga è la strada: verso sera arrivano
alla stalla. D’un lieve salto subito
balza a terra la pulce, ecco, dicendogli:
— Scendo che non vuo’ darti ancor disagio
stracco morto così come devi essere. —
— Tante grazie, risponde il dromedario;
ma non poteva il peso tuo sentirmelo
sì che sollievo or non ne sento proprio. —
Chi fa del grande essendo un omicciattolo
da nulla, alfin lo marcano e lo beffano.
la lumaca e lo specchio
Una lumaca s’invaghì d’un lucido
specchio, che avea trovato, ed, attaccatasi
a lui, si pose adagio a scombavarselo.
Nulla fare credea di più amorevole
a quella luce, che di macchie offenderla.
Come una scimmia poi lo vide sudicio,
— Oh!, disse, tale disonor si merita
chi si concesse a tale vituperio. —
Per le donne che a stolti si congiunsero,
a sciagurati, è scritta questa favola.
la rondine e gli uccelli
Eran gli uccelli in un sol luogo a pascere.
Un uomo seminava il lino. Vedono
gli uccelli e poco o punto se ne curano.
Ma quando lo riseppe anche la rondine
convocò gli altri e disse in questi termini:
— Grande grande sovrasta a noi pericolo,
quando quel seme sbullettasse. — Ridono
gli uccelli. Ed ecco i semi che sbullettano.
— Meschini a noi!, ripiglia allor la rondine:
su, tutti lesti, tutti insiem si sbarbichi
la mala pianta, che non se ne facciano
reti, ed al laccio non ci prendan gli uomini! —
E quelli pure, sciagurati, a ridere
del prudente consiglio della rondine;
sì ch’ella, savia, si recò dagli uomini
in sicurezza, e chiese di sospendere
alla grondaia della casa il nidio.
E gli altri sciocchi, che se la ridevano,
ne’ lacci fatti di quel lin, perirono.
l’aquila e il gheppio
Stava in un ramo appollaiata un’aquila
maschio, in paturnie: gli era presso un gheppio
femmina — Donde questa cera? — Moglie
cerco invano che sia del mio paraggio —
— To’: prendi me che fo profession d’essere
di te più forte — Che sapresti vivere
di preda tu? — Gnaffe: con queste grinfie
non presi, e spesso, e mi portai per aria
lo struzzo quale egli è? — Credelo l’aquila.
Nozze si fanno. Tempo passa. L’aquila
dice — Vanne a far carne sì ch’io desini. —
Va il gheppio, vola e porta su... la fetida
stantia carogna d’un topaccio — Il canchero!,
dice l’aquila; or credi a baie simili! —
— Pur d’arrivare, egli risponde, ed essere
moglie di re, di fare l’impossibile,
giurato avrei, per quanto non possibile. —
Chi mena donna sopra il suo paraggio,
poi la trova donnetta purchessiasi.
il topo e il ranocchio
A passar la riviera con più comodo
chiese il topo l’aiuto del ranocchio.
Questi prende un lacciuolo, e, un piè legatogli
alla sua zampa posteriore, naviga.
Erano appena a mezzo, ed il ranocchio
tristo, volendo tôr la vita al sorcio,
si tuffa un tratto, e quei contrasta e scalcia.
Ora un gheppio era presso che rotandosi
vide il topo a fior d’acqua. Il ciuffò e in aria
levò, ch’era legato, anche il ranocchio.
Sovente muor chi morte ad altri macchina.
i due galli e il nibbio
Un gallo con un gallo avea battaglia
spesso. Un dì, vinto, egli ricorre al nibbio.
Questi: Se tutti e due, pensa, a me vengono
quel ch’ha mosso la lite io vo’ mangiarmelo.
Vengono infatti l’uno e l’altro. Il giudice
quello arraffa che mosso avea la causa:
e lui schiammazza e grida: — Non la prendere
con me; con quello ch’è scappato, prendila. —
Ma il nibbio: — Adagio; non ti dare a credere
di potermi sguisciare oggi dall’unghie;
perocché all’altro meditavi insidia,
e giusto è che ne soffra tu medesimo. —
Spesso non sa chi l’altrui morte medita
quale sciagura il fato gli apparecchia.
l’asino, il bue e i corvi
Un asinello e un bue sotto il medesimo
giogo tirano il carro. Il bue sforzandosi
soverchiamente rompe un corno, e l’asino
giura che, così monco, egli è un disutile.
E il bove, tira e calca e ponta, all’ultimo
rompe anche l’altra delle corna, e, tombola,
crepa. Il bifolco la carogna all’asino
ne addossa; e, picchia e mena, tante furono
le mazzate che piovvero sull’asino
che anch’esso a mezza via crepò. Si calano
corvi alla preda e starnazzando gracchiano:
— Se buona cera avessi fatto al socio,
saresti vivo, e noi digiuni, bestia! —
gli uccelli, i quadrupedi e il pipistrello
Tra gli uccelli era guerra ed i quadrupedi.
Oggi questi vincevano, vincevano
quelli il domani. Il pipistrello timido
di quel su e giù, se la batteva a vespero
sempre fra quelli che vedea che vinsero.
A pace fatta, tutti e due s’accorsero
del brutto tradimento, e lo bandirono.
Sicchè schivando il sole, e nelle tenebre
di lì innanzi appiattando l’ignominia,
è sempre solo, e sempre a notte egli alia.
A due partiti chi si vorrà vendere
gli andrà male che in due l’avranno in uggia.
il topolino
Chiappalebriciole vo chiamato: io sono la prole
giovane del gran cuore di Rosicapane; m’è madre
Leccalamacina, figlia del principe Rodiprosciutto.
Fecemi in una capanna; a forza di fichi e di noci
ella mi tirò su, con vivande di tutte le sorti...
Ciò ch’è tra gli uomini in uso, io rosico: non mi si cela
pane a finissimo staccio, che posa nel tondo canestro;
non schiacciata di sèsamo piena, dal manto sottile,
non tocchetto di lardo, nè fegati chiusi nel velo
bianco, nè morbidi caci di quel buon latte che caglia.
ciuco vorrei essere
Poniam ch’un degli dei venga e m’annunzii:
Craton, tu, dopo morto, torni ad essere.
Ma ciò che voglia, sei; can, becco, pecora,
uomo, cavallo. E’ ti convien rivivere;
questo è detto; ma il come a te lo scegliere.
Fammi ogni cosa, me gli par rispondere,
uom no, peraltro. Gli è codesto l’unico
che mai nel mondo l’aver suo non abbia.
Un cavallo di sangue, lo governano
meglio d’un altro. Un can, sei, figuriamoci,
un bravo can. Ti si tien me’ d’un botolo,
e di molto. Anche: un gallo che ha rigoglio,
altro si becca d’un gallo qualsiasi;
e poi questi lo teine, e sa ch’ei merita.
L’uom per bravo che sia, bennato ed ottimo
cuore, con questa gente che ci bazzica,
e’ non gli giova punto. Primi vengono
i leccazampe; son secondi i bindoli;
le terze parti, l’imbroglion le recita.
Meglio esser ciuco che veder le peggio
canaglie che ti passano e gavazzano.
infelicità degli uomini
Tutte le bestie sono beatissime,
e più savie, più molto, che non gli uomini.
Prima di tutto, guarda un po’ quell’asino.
Egli è nato in mal punto, a non rispondere.
Pur malanno non ha che fatto e’ s’abbia
da sè: de’ naturali egli contentasi.
Ma noi, che! Fuor de’ mali necessarii,
altri, noi stessi ci se ne procaccia.
Qualcun sternuta? ci attristiam. Bestemmia?
ci adiriam. Solo ch’un si sogni, temesi;
tremasi sol che una civetta gracidi.
Mode, garbugli, ambizioni, dispute:
alla natura giunte di miseria!
il lupo guerriero
Diceva un lupo giovanotto a una volpe:
— Era un eroe mio padre, di gloriosa memoria,
erasi fatto così terribile a tutto il dintorno!
Egli domò via via piucchè duecento nemici:
l’anime loro sospinse allo squallido regno dell’Orco.
Qual meraviglia se finalmente sott’uno lasciò la vita? —
“Ecco„, rispose la volpe: “in un canto funebre sta bene dir così: in una storia si dovrebbe dire invece: — I duecento e più nemici, che domò via via, erano pecore e ciuchi, e quell’uno che domò lui, fu il primo toro, ch’egli osò assalire„.
le cicale e le formiche
Era uno strazio, ne’ granai vederlo
marcire, il grano. Un dì che facea bello,
un di quei dì, ch’esce a cantare il merlo,
le formiche, ciascuna il suo granello,
presero, e tutto stesero il frumento
sopra la rena, a un po’ di solicello.
E le cicale videro, ed a stento
mossero, con la tunica di foglio
che si sentiva scricchiolare al vento.
E dissero: “Sorelle, un po’ di loglio!
s’ha fame„. Una di quelle affaccendate
rispose: “A grano a grano s’empie il doglio.
Voi che facevi nella scorsa estate?„
“Chi gode un tratto, si dicea, non stenta
sempre. Noi cantavamo„. “Ora ballate!
è un bello stentar chi si contenta„.
lo smergo, il pruno e il pipistrello
Quel dì lo smergo, come è suo costume,
era sul lido, a cui sempre più chiare
batteano l’onde con fiorir di spume.
Egli già s’era indotto a mercatare
col pruno aspro e col lieve pipistrello,
e tutto il loro avean fidato al mare:
panni il pruno, esso rame; ed il vascello
noleggiò l’altro con una diecina
di zecchini prestati da un uccello
e da un topo. Infelici!... Ora a marina
torna lo smergo per veder se l’onde
rendano un poco della lor rapina.
Passa una veste: il prun non si confonde:
l’afferra. Il terzo esce di casa, dopo
che rincasò l’uccello tra le fronde;
e svola in fretta prima ch’esca il topo.
il pruno e la volpe
Il pruno era quel pruno aspro che disse
alla volpe... Costei per una china
s’apprese a lui, ch’a’ piedi le confisse,
senza parere, qualche acuta spina:
ond’ella tutta insanguinata: “Ahimè!
che bell’aiuto!„ E il pruno “E poi se’ fina!
M’attacco agli altri... e tu ti attacchi a me!„
il bertuccino re
Fina, oh! fina la volpe era pertanto!
c’era un di l’assemblea degli animali:
il bertuccino vi ballò d’incanto.
— Bene! ci ha il fuoco! bravo! ma ci ha l’ali!
Sia re! — La volpe con pupille torte,
disse tra sè: “Tale il rettore, quali
i popoli!„ Ecco, un dì, vede per sorte
una tagliola con un po’ di carne.
“Vedremo!„ dice e se ne viene a corte.
“Sire, cacciando poco fa le starne
ho veduto un tesoro in una gola
di monte. È vostro: io non saprei che farne,
voi siete il re„. La volpe alla tagliola
conduce il re, che allunga un dito e resta
preso: e la volpe ritornando sola
ride e borbotta: “Un re con quella testa!„
il tesoro
Quanto a tesori, un’altra se ne narra.
C’era una volta un vecchio contadino
ch’aveva un suo campetto e la sua marra
e tre figliuoli. Giunto al lumicino
volle i suoi tre figliuoli accanto al letto.
“Ragazzi„ disse “vado al mio destino:
ma vi lascio un tesoro: è nel campetto....„
E non potè più dire altro, o non volle.
A mente i figli tennero il suo detto.
Quando fu morto, quelli il piano il colle
vangano, vangano, vangano: invano;
voltano al sole e tritano le zolle:
niente. Ma pel raccolto, quando il grano
vinse i granai, lo videro il tesoro
che aveva detto il vecchio; era in lor mano;
era la vanga dalla punta d’oro.
l’ironia dei ranocchi
Brekekekèk... che cosa è quel ch’i’ odo,
or che le rane per lo più dal fosso
salgono e stanno a meriggiar tra il biodo?
Un asino passava con sul dosso
un grave fascio; e con gli orecchi bassi,
zoppicando, pareva dir: Non posso
più! Quel meschino, fatti pochi passi
in mezzo all’acqua, sdrucciolò, sì ch’ora
lungo disteso eccolo là tra i sassi,
che soffia e scalcia e intorbida la gora
verde, per puntellarsi sui ginocchi,
sotto quel peso! e cade e piange. Allora
“Brekekekèk...„ gracchiarono i ranocchi;
“L’anno quant’è noi s’abita gli stagni,
quatti quatti, con l’acqua fino agli occhi:
tu per così pochino, e già ti lagni?„.
la disperazione delle lepri
Presso quella palude solitaria,
una sera, le rane erano sotto
gigari e vepri a prendere un po’ d’aria:
quando sentendo un calpestìo di trotto
che s’appressava, tutte, di tra i vepri
e i gigari, s’attuffano di botto.
Ma chi era? che era? Erano lepri.
Eran quel dì venute da lontani
greppi in un bosco ombroso di ginepri.
“Vivere sempre in forse del domani?
Meglio morire, che da mane a sera
sentirsi dentro il batticuor dei cani!„
Detto così, corsero in una schiera,
per annegarsi; ma giunte alla riva,
quei tonfi udendo dentro l’acqua nera,
dissero: “Oh! c’è chi teme noi? Si viva!„
la tartaruga e giove
“Casa mia, vita mia!„ senza riguardi
disse la vecchia tartaruga a Giove
che le avea detto: “Tu ci arrivi tardi,
a cena! Come t’indugiasti e dove?„
“Casa mia, vita mia! “Dunque e tu sta
a casa tua!„ D’allora in poi si muove
la tartaruga, e mai fuori non va.
il marrello e la vanga
“Codesta punta„ un dì chiese il marrello
“d’oro, dov’è? Noi siamo, tanto io, quanto
te, ferro...„. “Sono gli uomini, fratello„,
disse la vanga “a dirmi d’oro: intanto
noi credon essi, e neppur io nè tu.
Io sono tutta ferro, e me ne vanto:
se fossi d’oro... non ci sarei più„.
l’incenso
Se fanno ch’io mi strugga, ecco, non penso
che in me vedano alcuna alta virtù!
Io muoio; e sanno che vivevo incenso;
mi lodan essi, ed io non sono più.
il cane e la scodella
“Buono tu sei„ diceva la scodella
al cane, “che me, sola, in abbandono,
così carezzi e rifai nuova e bella!„
Rispose il cane, ancor leccando: “Oh! buono
son io per certo, e posso dirlo, senza
falsa modestia: ognuno sa ch’io sono
del comitato di beneficenza„.