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Tragedie, inni sacri e odi/Prefazione

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Michele Scherillo

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PREFAZIONE



Questo volume contiene, e, quando è stato possibile, nell’ordine che volle l’autore:

a) tutti quei componimenti in versi, che furono dal Manzoni stesso ristampati tra le sue Opere varie, nel 1845 (le due Tragedie, gl’Inni sacri e lo Strofe per una prima comunione, il Cinque maggio), e quegli altri due (l’ode Marzo 1821 e il frammento di canzone sul Proclama di Rimini) ch’ei pubblicò a parte nel 1848, e aggiunse poi, nel 1860, all’antico volume delle Opere varie;

b) quelli che furono già da lui o da altri, lui vivente, pubblicati, ma ch’egli non più accolse tra lo suo poesie (il carme In morte dell’Imbonati, l’Urania, l’Ira d’Apollo, gli sciolti A Parteneide, il sonetto al Lomonaco, un frammento dell'inno Ai Santi, l’epigramma pel ritratto del Monti);

c) alcune dello sue poesie giovanili (i sonetti Alla sua donna, il Ritratto di se stesso, Alla Musa, finora inedito; l’idillio Adda, la canzone Aprile 1814);

d) i pochi versi latini composti da vecchio (l’epigramma Volucres e i distici al Ferrucci).

Ho lasciato da parte, per ragioni di varia natura, i tre Sermoni (1803-1804), il frammento di un’Ode alle Muse (1804?), l’Ode erotica «Qual su le Cinzie cime» (1804), il poemetto in quattro canti e in terzine Del Trionfo della Libertà (1800), le traduzioni da Virgilio e da Orazio, l’epigramma Ad Angelica Palli (1827), Il canto XVI del Tasso, «dramma, quasi improvvisato, per celia», e qualche altro [p. viii modifica]frammento di assai dubbia paternità, o che il Bonghi raccattò nel volume I delle Opere inedite o rare del Manzoni, o che altri è venuto pubblicando.

Non ho mancato di riprodurre, a illustrazione dei diversi componimenti, pur quello Prefazioni e Note e Notizie storiche, onde il Manzoni, o fin dalla prima edizione o nelle successivo ristampe, li volle accompagnati. E a ciascun componimento, o gruppo di componimenti, ho fatto precedere una succinta Notizia bibliografica.

Sennonché — e questa è forse la principale tra lo singolarità che distinguon la nostra da tutto le precedenti edizioni — al testo definitivo dei diversi componimenti, quale lo divulgò il poeta, ho fatto seguire, in separato appendici, anche gli abbozzi rinvenuti tra lo sue carte. Essi son documenti di straordinaria importanza, che ci permettono di penetrare più a dentro nel pensiero e nello intenzioni artistiche del Manzoni. Si tratta non di semplici brutte copie o di scarabocchi informi, bensì di frammenti spesso molto estesi e lavorati con cura, dove quasi sempre il poeta si rivela più schiettamente e risolutamente ribelle. Perchè poi li mettesse da parte o li lasciasse incompiuti (non li distrusse però; del che dovrebbero tener conto certi schizzinosi che si scandalizzano di siffatte pubblicazioni postume, a parer loro indiscrete e dannose), sarà istruttivo o gradevole indagare1. [p. ix modifica]

In un mio discorso del 1894, per inaugurare il nuovo anno scolastico della R. Accademia Scientifico-Letteraria di Milano, ebbi già a dare un modesto saggio del grande partito che dall’esame di quello pagine si può cavare per intendere a pieno la riforma drammatica tentata dal Manzoni. Il quale, a buon conto, se è il maggiore, o l’uno dei due maggiori nostri prosatori, è anche, insieme con l’Alfieri, l’uno dei due nostri tragediografi più insigni. E mi sia lecito ricordare che di quelle mie osservazioni si dichiarò assai compiaciuto, in uno degli arguti suoi articoletti della Cultura, il primo, per tempo e per merito, dei manzoniani d’Italia, il Bonghi; e la sola volta che a me toccò la fortuna d’intrattenermi con lui di letteratura — eravamo andati, col D’Ovidio, a visitarlo nella tranquilla villetta di Torre del Greco, dove di lì a qualche mese quella magnifica fiamma d’intelligenza si spense —, ei mi riparlò ancora dei mirabili abbozzi del Manzoni, sui quali egli aveva fin allora invano richiamata l’attenzione degli studiosi2. Questi avevan preferito continuare a far, come si dice, dell’accademia pur intorno al poeta ch’ebbe più in uggia l’accademia; e gli ortodossi stracchi non riuscivano meno stucchevoli, con lo loro rifritture, dei pappagalli eterodossi.

Un’altra singolarità della nostra edizione riguarda il testo. Dei componimenti ripubblicati dall’autore abbiamo, s’intende, ridato scrupolosamente il testo da lui fissato nel 1845, e in qualche minimo particolare ricorretto nel 1870; ma, a piè di pagina, ho altresì segnate le varianti delle prime edizioni. Chi vorrà gettarvi un’occhiata, troverà che metteva ben conto di rifare per le opere poetiche quel lavoro di confronto che già altri ha compiuto pel Romanzo. Le osservazioni sarebbero molte e curiose, e qualcuna n’ho accennata qua e là nelle note. Mi limiterò qui a qualche altra spigolatura. [p. x modifica]

Per la più parte, i mutamenti dell’autore riguardano l’ortografia. Anche alle opere poetiche egli avrebbe voluto infliggere una buona risciacquatura in Arno; ma il Conte di Carmagnola e il Re Adelchi non gli si mostraron così docili come i due sposi del contado di Lecco. Il linguaggio della poesia — soprattutto poi in Italia, dov’è ancor viva e gagliarda una tradizione poetica nobilissima — ha pretese che quello della prosa o conosce poco o non conosce affatto3. E lo stesso inesorabile scrittore che, in grazia dell’uso fiorentino, rinunzia, nel capolavoro prosastico, al benefizio della varietà e della convenienza armonica, e muta, per esempio, in tra quanti mai fra o in fra gli erano altra volta caduti dalla penna4, può trovarsi costretto a lasciar correre, nelle tragedie: «fra tante ambasce, «ella è, fra tante,... una fallita impresa», «in fra i perigli». Vero è che, quando è prεso dal dèmone della pedanteria, anche qui ei si sente il coraggio di far εsclamare al povero Conte: «Non troverò tra tanti prenci... un sol»; ma si direbbe che un tale sforzo lo faccia altrove dormicchiare. E allora riescono a sgattaiolare qualche «fra di noi» o «fra noi» o «fra loro», che senza scandalo sarebbero potuti diventare altrettanti tra. Può esser curioso notare come nel verso: «Fia risoluta in fra noi due la lite», ei s’affretti bensì a cancellare l’in, ma non trasformi in tra il fra; come pur fece, ad esempio, nell’altro verso dove prima aveva scritto: «in fra costor chiarito...» (p. 41 e 45).

Insomma, nel Romanzo, lo scrittore poteva sbizzar[p. xi modifica]rirsi più a suo agio; e perfino, com’ebbe ad avvertire il D’Ovidio!5, sacrificare l’aritmetica alla sua norma linguistica e all’armonia dello stile, sostituendo al primitivo «fra tre o quattro confidenti» un «tra quattro o cinque confidenti»6. Ma in poesia, specialmente se già divenuta celebre e già sulle bocche di tutti, non era ugualmente agevole abbandonarsi a simili bizzarrie; o manomettere a cuor leggiero, poniamo, i due versi dei due Cori dell’Adelchi:

Fra tema e desire, s’avanza e ristà....

Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi.


A ogni modo, dovunque può lo zelante apostolo della fiorentinità della lingua porta, in questi lavori giovanili d’avanti la sua conversione filologica, il ferro e il fuoco purificatore. Fa ogni sforzo per iscrostare la pàtina arcaica, o magari detergere la muffa dell’ortografia stantìa. Così, tutte le noje proprj principj, i piccioli picciola, gli eguali eguaglianza, i verisimili e verisimiglianza, le obbiezioni, le contraddizioni, le quistioni, le voci del verbo obbedire, le forme verbali debba e debbono, chieggio e veggio, cangio e sieno, i vi era, e i si è, i quei, i dei dai nei, sui o su di un, fra i ecc., son diventate noie, propri, principi, piccolo e piccola (una «picciola appendice» è rimasta, p. 154), uguale e uguaglianza, verosimile o verosimiglianza, obiezione, contradizione (nel Romanzo tornò a «contraddizione» e a «contraddire»!), questione, ubbidire (nella prima stampa si oscillava tra le due forme), deva e devono, chiedo e vedo, cambio e siano, ci era e il semplice è, que’, de’ da’ ne’, su’ o su un, tra’. Non si riesce a capire se, costretto com’era [p. xii modifica]dalle esigenze metriche a mantenere intatti gli havvi e gli hàvvene, ei preferisse scriver quelle voci con l’h iniziale, o senza. Nell’Adelchi (p. 25) rimase «havvi altra via», ma altrove (46) il primitivo «via non havvi» divenne «via non avvi»; e «avvi» rimase immutato nel Carmagnola (191): «avvi una via». Qui stesso però mutò in «havvene» due «avvene» successivi, e un altro in «haccene». Che forse, con quell’h onoraria, volle distinguer la voce sdrucciola del verbo «avere» dalla piana, o petrarchesea («Se da lo proprio mani Questo n’avven...»), del verbo «avvenire»?

Un tempo, era piaciuto anche a lui (come pur ora forma la delizia dogli scrittori novellini, e qualche volta pur di quelli che non son più, come Dante direbbe, «novi augelletti »!) disarticolare certi nessi che l’uso fiorentino impone; e scrisse «su l’affannoso», «su la pupilla», «su le sciolte redini», «su le fronde», «su la tua fortuna», «su la tua fede», «su le chiome», «su l’armi», e fino in una didascalìa «su le mura». Poi reputò meglio non separare, neanche in versi, quod Deus coniunxit, e ripristinò: sulla, sulle ecc., e nella ristampa del 1870 anche «sull’armi». Dove prima aveva scritto «in su l’altar», «in sul mattin», dopo scrisse «su l’altar» e «sul mattin»; dov’era «in su lo scudo», mise «in sullo scudo»; lasciò intatto «spargendo in sulla via»; e non osò toccare, pur nel Coro per Ermengarda dove tanti su la divennero sulla, il verso «Calata in su la gelida». Invece, coi composti di con usò il procedimento inverso; e dove era scritto: «colla spada», «coll’occhio», «cogli amici», «cogli altri», più tardi sostituì: «con la spada», «con l’occhio», «con gli amici». Vero è che anche prima non s’era peritato, in un certo luogo, di disgiungere: «con gli eserciti» (p. 200).

Circa al povero dittongo uo, il D’Ovidio ebbe già a notare le fortunato contradizioni in cui il Manzoni era caduto ritoccando lo tragedie. All’imprigionato Carmagnola egli non risparmia la pena di correggersi: «Ah! tu vedrai Come si mor!», «Oh perchè almeno Lunge da lor non moio!... Che val di novo Affacciarsi alla vita...?», o peggio ancora, con curioso equivoco, «Allor che Dio sui boni Fa cader la [p. xiii modifica]sventura...». Nè all’infelicissima moglie del Conte risparmia l’affettazione: «io moio di dolor!». Tuttavia lasciò indisturbata la sentenza: «i buoni mai Non fur senza nemici». Gli è che codesti rari atti d’indulgenza son quasi sempre semplice effetto di distrazione7: giacchè, non paia soverchio l’insistervi, anche un così oculato e attento scrittore dà non iscarse prove di saper distrarsi. E allora gli sfuggono, oltre le forme dianzi rilevate, un «ajuto», qualche «contra», degli «anco», dei «sovra».

Del terribile egli non sempre qui gli riesce di far lo scempio che nel Romanzo. E se, per esempio, ottiene che un senatore veneziano dica: «Giustizia troverà... Ma se ricusa, se sta in forse», invece di «Giustizia ei troverà... Ma se ricusa, s’egli indugia», non può togliergli di bocca, iniziando il discorso: «Ov’egli Pronto ubbidisca». E ancora, se nella Prefazione al Carmagnola riesce a fare a meno dell’inviso pronome, sostituendo «quando è» a «quando egli è»; nella tragedia si vede costretto, se vuol cancellare un incomodo «dunque», ad accettar il soccorso che gli offre proprio quel pronome. Vero è che gliel offre in una frase interrogativa, e nell’umile condizione d’un pleonasmo; dove cioè la parlata toscana, non solo lo tollera, ma gli fa festa. Prima faceva dire dal Conte (p. 214):

                    E che! Sì nuova
Dunque mi giunge una vittoria? E parvi
Che questa gioja mi confonda il core....?,


e dopo, ha modificato:

                    E che! Sì nova
Mi giungo una vittoria? E vi par egli
Che questa gioia mi confonda il core....?8


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Anche quanto agli arcaismi il poeta si sente le mani legate. A volte, la correzione è agevole; come quando muta «e tostamente un guardo» in «e subito uno sguardo», ovvero quando trasforma le frasi, che per di più si seguivano a breve distanza: «E guata al lume della luna», «Perchè così mi guati Attonito?...», nelle altre: «E osserva al lume della luna», «Perchè così mi guardi Attonito?...». Ma nel primo Coro dell’Adelchi gli è convenuto meglio non toccare il verso: «I figli pensosi pensose guatar». Come pure non toccò «le gioie dei prandi festosi», contento ad accorciar gl’j di «gioje» e di «prandj»; «t’aiti Quel tuo figliuol», «nosco trarrem Gerberga», «se quandunque mentirò», «le grazie a lui rendute», «dal suolo Uliginoso», «che a loro Caglia di lui», «ve ne rammenta?», «ricòrdivi di me», «del solio indegna» (mentre altrove: «Quand’egli osò di contrastarmi il soglio?», e «Quei che il crollante Soglio reggere han fermo»); e tante altre forme e frasi di uso o di sapore più o men vieto9, fino a quell’ammuffito e curioso «E comple?» (p. 69), che un critico maligno ebbe subito a rimproverargli, senza che un giudice ben altrimenti equo e gentile, «per ammenda tarda, ma dolce ancor», ne lo redarguisse10.

Rari sono i ritocchi un po’ più essenziali. Dal diacono Martino, nell’Adelchi (II, 3), aveva fatto narrare, equivocando nella topografia:

                         L’orme ripresi
Poco innanzi calcate; indi alla destra
Piegai verso aquilone....


Il marchese Cesare d’Azeglio, padre di Massimo, lo avvertì dello svarione, ed egli corresse: «alla manca Piegai». L’equivoco, dichiarò nella famosa lettera Sul Romanticismo del 22 settembre 1823, «è nato dall’aver io... dimenticato [p. xv modifica]affatto che in quel momento io rappresentava il viaggiatore tornante indietro dalle Chiuse verso l’Italia. Non badai a quella sua situazione accidentale, o lo immaginai rivolto con la persona verso il campo di Carlomagno, dove, per dir così, guardavano i suoi disegni»11.

Qualche verso aggiunse, per giovare alla chiarezza o all’armonia (cfr. p. 52, 103, 251); qualche altro cancellò, reputandolo forse ozioso (cfr. p. 65); ne modificò felicemente altri (cfr. p. 96, 111). Notevole — per chi ricordi quale largo uso della parola orma, rimastagli forse nelle orecchie dalle letture del Parini e del Monti, il Manzoni abbia fatto — la correzione della strana frase cadutagli dalla penna (p. 91): «se un’orma, se un respiro intendi», che richiama il melodrammatico «sento l’orma dei passi spietati». Sostituì garbatamente: «se un passo, se un respiro ascolti».

Quelli tra i lettori che dell’opera poetica del Manzoni desiderino avere un’informazione storica e critica un po’ più larga, potranno cercare di questa nostra raccolta l’edizione maggiore, che costituisce il vol. III dello Opere del sommo Lombardo. La quale io volli dedicata — e la ragione ne è, spero, «manifestissima a li più semplici» — alla gloriosa memoria di Ruggiero Bonghi.

1907.

Poscritto. — In questa terza ristampa, che coincide con la celebrazione del primo centenario dei Promessi Sposi, mi è parso opportuno far seguire allo Poesie Manzoniane, insieme con l’antico discorso sui rapporti del sommo poeta col sommo statista del nostro Risorgimento, alcuno altre Illustrazioni e Discussioni, riguardanti la sua vita intima, la sua arte e, specialmente, il suo pensiero politico.

Note

  1. Nella lettera al Fauriel del 12 settembre 1822, 11 Manzoni ancora discorreva di modificazioni apportate all’Adelchi, in corso di stampa. «J’ai fait une addition», scriveva, «de quelques vers à la dernière scène de l’acte 2e, sur l’avis de Visconti, qui a observé que ce qui a dû se passer dans l’intervalle du 2e au 3e acte n’est pas assez clairement, ou au moins pas assez tot, expliqué, au commencement de celui-ci. Il a prétendu, je crois avec raison, qu’en annonçant d’avance cet effet d’une marche qui a l’air d’une retraite, on préparerait mieux le lecteur à le comprendre sans fatigue dès l’ouverture du 3me acte». E mandò il brano da «Intento, Dalle vedette sue...» fino a «Risvegliator non aspettato». Soggiungeva: «Enfin, daus la scène 7e du 3e acte, cette description du petit combat d’Anfrido m’a paru pas trop embrouillée, et j’ai tâchè de la rendre un peu plus claire en changeant depuis Confusi, vers 3me, jusqu’à Arrenditi, ainsi que vous trouverez ci-contre». E trascrisse l’altro brano, da «Gran parte Gettan l’arme...» fino ad «Arrenditi, Gli gridiamo....»
  2. Quegli abbozzi, quali il Bonghi li pubblicò, non sono immuni di errori e di sviste; che non sarebbe stato arduo correggere o scansare. Il Bonghi, sempre troppo affaccendato e spesso frettoloso, ebbe troppo a fidarsi delle copie e delle collazioni, eseguite per lui da chi non aveva nè l’occhio n+ la mano a lavori di tal genere.
  3. Preziosa la dichiarazione in nota alle Notizie storiche premesse al Carmagnola, a proposito di Nicolò Piccinino. Vi si dice: «Per servire alla dignità del verso, il nome di quest’ultimo personaggio nella Tragedia venne cambiato con quello di Fortebraccio». Dunque il verso ha «una dignità» che la prosa ignora, e che va rispettata! Nel primo getto il poeta aveva osato d’infilzare in un verso: «Il Pergola, il Torello, il Piccinino». Che gli abbia poi incusso paura il ricordo dei «Salamini» dell’Ajace foscoliano?
  4. Il cangiamento precisamente opposto venne compiendo il Parini nel ritoccare i suoi poemetti: dove prima aveva scritto tra, sostituì fra. E si capisce: agl’intenti del poeta popolano rispondeva meglio render sempre più ricercata e preziosa la forma del Giorno; come al propositi del poeta di sangue gentile si confaceva meglio lo sfrondare il suo stile d’ogni futile pompa.
  5. Le correzioni ai Promessi Sposi e la questione della lingua; 4ª ed., Napoli, Pierro, 1895, p. 102. — Circa alla «contradizione fra le teoriche tenacissimamente professate, e la pratica degl’Inni Sacri, delle Tragedie, del Cinque maggio, piene di forme e atteggiamenti ignoti affatto all’uso fiorentino, colto o non colto», è pur da vedere quel che osserva il Rajna, nella conferenza sul Trattato «De Vulgari Eloquentia», Firenze, 1908, p. 16-17 dell’estratto.
  6. Promessi Sposi, cap. IX, p. 137 della ediz. Hoepli, vol. I delle Opere. Poche righe dopo, nello stesso Romanzo (p. 138), non si fece tuttavia scrupolo di correggere: «tra loro tre».
  7. In un biglietto al figliastro, il Manzoni soggiunge: «Però, però... che non t’avessi a dare nessuna seccatura? Impossibile! Fammi dunque il piacere di ripassare dallo stampatore, per dirgli che se, nella correzione del torchio, si trovi qualche buono o cuore o nuovo, si levi l’u». Cfr. De Marchi, Dalle Carte ined. Manzoniane, p. 30 n.
  8. Anche nel Romanzo (cap. II, p. 26) fa dir da Perpetua: «Oh! vi par egli ch’io sappia i segreti del mio padrone?». Ma in tutto il libro non ce n’è che un altro solo di codesti egli pleonastici, nel cap. XXIII, p. 327: «E questa consolazione.... vi par egli ch’io dovessi provarla....?».
  9. Nel Coro dell’atto III dell’Adelchi, in luogo di «valli petrose», il Manzoni aveva, nel primo getto, scritto «valli rigose», che vuol dire «valli nel cui fondo scorre un rivo», ovvero «irrigue» (il Leopardi, nell’Inno ai Patriarchi, 108-9: «onde ministra L’irrigua valle»). Il Bonghi, non so perchè, v’appose un segno d’interrogazione (?).
  10. Cfr. D’Ovidio, Le correzioni ecc., p. 210 ss.
  11. Cfr. Scritti postumi di A. Manzoni pubblicati da Pietro Brambilla, a cura di Giovanni Sforza; Milano, Rechiedei, 1900, vol. I, p. 32.