Una notte di Dante/Canto secondo

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Canto secondo

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Canto primo Canto terzo


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Canto secondo.

Datasi al fin delle parole sante
     Mutua salute, per l’orme segnate
     In verso la badia mosser le piante.
Il poeta gentil, cui di pietate
     5Subito parve intenerirsi il volto,
     Porgea l’orecchio desioso al frate.
Ma questi, a viso chino e in sè raccolto,
     Taciturno venia, quasi repente
     Altrove avesse ogni pensier rivolto.
10Quale è colui che a ceneri già spente
     Sovra por crede in securtà le dita
     E da supposta brace arder si sente;
Per simil guisa il povero eremita,
     In cui da lungo e queto volver d’anni
     15L’acerba rimembranza era sopita,
Come prima narrar volle suoi danni,
     Tutta nel cor, che si parea già scarco,
     Sentì la piena degli antichi affanni.
Al fin per gli occhi il doloroso incarco
     20Traboccò quell’oppressa anima; e ’l pianto
     Ad un lungo sospiro aperse il varco.
Egli alle guance allor l’ispido manto
     Recossi, in atto che dicea: Perdona;
     E cominciò con fioca voce intanto:
25Colà ov’Adda il bel lago abbandona
     Per lo cui mezzo nel suo corso è tratta
     E dell’onda del Brembo ancor non suona,
D’antica gente e per ingegno fatta
     Lieta d’auro e di campi io nato fui:
     30Degli Angiolini s’appellò mia schiatta.
Una stirpe superba e grave altrui,
     Detta i Ronchi, albergava indi vicino,
     Pari di stato ed avversaria a nui.
Brivio la nostra si chiamò, Caprino
     35L’avversa terra ha nome; ambo comprese
     Nella fertil vallea di San Martino.

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Poscia che a’ nostri cor l’ira s’apprese
     Che dagli alpini termini a Peloro
     Arde miseramente il bel paese,
40Pe’ ghibellini parteggiâr coloro,
     Pe’ guelfi noi: la popolosa valle
     Parte a noi fu seguace, e parte a loro.
Spesso con man d’armigeri alle spalle
     Quinci e quindi movemmo, e i ferri acuti
     45Menammo sì che ne fu rosso il calle.
Ma come fummo in sul cader venuti
     Del travagliato secolo, a tal crebbe
     Quell’ira in noi, ne’ fidi nostri aiuti,
Che mal tutte narrar lingua saprebbe
     50Quante e quai fur le sanguinose gare,
     A cui nulla fra noi modo più s’ebbe:
Era questo gentil tempo che pare
     Di nova gioventù ridan le cose
     E tutte amando invitino ad amare;
55Quando l’odio crudel l’arti nascose
     Contra me volse, e miserabil segno
     Di quanto ei possa in uman cor, mi pose.
Me di due figli il ciel fatto avea degno:
     Un giovinetto a cui di casto amore
     60Da sei lune era dato il primo pegno,
E una donzella a lui d’anni minore,
     Leggiadra, che cred’io non invermiglia
     Gote più belle il verginal pudore.
Raniero, padre dell’ostil famiglia,
     65Cresciuto avea fra numerosa prole
     Un orfanel che nacque di sua figlia.
In quell’età che a dolci affetti suole
     L’anima aprirsi e in avvenenti spoglie
     Non vide ingegno più ferace il Sole;
70Tutte il garzon le scellerate voglie
     Sempr’ebbe a danno ed a ruina intente
     Di me, de’ miei, di mie paterne soglie.
Ma perchè a guardia continuamente
     Del castel vigilavano e di noi
     75Eletto stuol di mia privata gente,

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Visti indarno oggimai gl’impeti suoi,
     Ecco qual fe’ disegno empio, nefando,
     Se ridir tel poss’io, se udir tu il puoi.
In cotal guisa il monaco narrando
     80E tra per gli anni e pel crudel pensiero
     Tacendosi affannato a quando a quando,
Giunsero al limitar del monistero,
     E quivi, lungo le sacrate mura,
     Sovra marmoreo scanno ambi siedero,
85Sorgea l’astro che molce ogni sventura
     E specchiavasi allor tutto nel fonte
     Della luce che informa la natura.
Fra gli ardui pini onde il ciglion del monte
     Sta foscamente incoronato e cinto
     90Già trasparia la luminosa fronte.
Dell’alta solitudin, dell’estinto
     Giorno i silenzi interrompea d’un fiume
     Il cader lontanissimo, indistinto.
Vorace augello, con le negre piume
     95Ferme al petroso nido, attraversava
     L’aere non tocco dal crescente lume,
Rada nebbia dall’imo si levava,
     Che, giunta ove percossa era dal raggio,
     Biancheggiando per ciel si dileguava.
100Al suol s’affise l’eremita; e il saggio
     Gli occhi levò pensosamente mesti
     Del bel pianeta al tacito viaggio.
Poi l’altro proseguì: Sappi che questi
     (lo cui nome esecrabile fu Gerra),
     105O sia mercè di simulate vesti,
O d’incognito calle di sotterra,
     O di vil traditor che a lui sovvenne,
     Furtivamente penetrò mia terra.
Audace intorno al fido albergo ei venne
     110E, non visto, a cangiar guardi e parole
     Con l’innocente figlia mia pervenne.
Furon le chete mura e l’ombre sole
     Testimoni dell’arti onde colui,
     Qual da malvagio ingannator si suole,

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115Compose i detti ed i sembianti sui.
     Lasso! io questo ben so, che il vergin petto
     Di miserabil fiamma arse per lui.
Da quella tigre in mansueto aspetto
     Fors’anco alla meschina in cor fu posto
     120(Che non crede fanciulla al suo diletto?)
Come ambeduo le genti, non sì tosto
     Lor nodo marital fosse palese,
     Avria le sanguinose ire deposto.
La poverella mia, senza difese
     125Contro forza d’amore e di pietade,
     Ella che sempre a comun pace intese,
Ella nel fior della ridente etade,
     Ella che nova in tutto si rimase
     Del falso mondo e di sue torte strade,
130Dal menzogner che sì la persuase,
     Tutta rapita in sua dolce speranza,
     Trar si lasciò delle paterne case.
Pensa quand’io, per amorosa usanza
     Nè presago in mio cor di nostro danno,
     135Riposi il piè nella deserta stanza!
Che val ch’io dica lo stupor, l’affanno
     E l’inchiedere e ’l correre e ’l chiamare,
     Di sventura temendo e non d’inganno?
Cerchiam tutti il castello; e quando pare
     140Che quivi nulla omai speme rimagna
     Di riscontrar quelle sembianze care,
Io forsennato e il più della compagna
     Gente, di tutto obliviosi allora,
     Fuori ci disperdiam per la campagna.
145Ahi ch’era questa la terribil ora
     Apparecchiata dalle inique frodi!
     Chè i Ronchi dell’agguato uscendo fuora,
Visto libero il varco e sì di prodi
     Scema la terra, dentro s’avventaro,
     150Come lupi in ovil senza custodi.
Al subito furor nullo riparo:
     Primo Ranier, non più degli anni afflitto,
     Brandia con polso giovanil l’acciaro,

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Baldo, il mio figlio, già nell’arme invitto
     155Che pronto accorse al mal guardato loco,
     Da cento colpi vi restò trafitto.
Di faci armata e di coltelli, in poco
     D’ora la turba furïosa orrendo
     Fe’ di strage il terren, l’aere di foco.
160Sul minacciato limitar correndo
     Intanto a quello strepito feroce
     E le man supplichevoli stendendo,
Del mio Baldo la sposa, ad alta voce
     Lui richiamava dal mortal periglio,
     165Quand’ecco dall’albergo uscir veloce,
Col ferro in man, con affocato ciglio,
     Il trionfante Gerra, che pel collo
     Afferrandola, grida: Ov’è ’l tuo figlio?
Ove si cela il novellin rampollo
     170Di quest’arbore illustre? Assai già spazio
     Corsi tue case, ed or da te saprollo,
La donna esterrefatta a tanto strazio,
     Udito il vano suo cercar, d’un riso
     Lampeggiando, sclamò: Dio ti ringrazio.
175D’ira a que’ detti sfavillante in viso
     Lo scellerato del pugnal le diede,
     E a lei mostrollo di suo sangue intriso.
Parla, il fero le dice: ed ella vede
     Quel sangue e non fa motto; ei dell’acuta
     180Punta più crudamente il sen le fiede.
Parla, che vita e libertà renduta
     Ti fia, soggiunse con dolcezza accorta;
     Ma quella bocca, come pria, fu muta.
L’empio, cui rabbia furial trasporta,
     185Vibrò gran colpo; e l’animosa e pia
     Cadde fra cento morti corpi morta.
Io, che la valle discorrendo gia
     In traccia della figlia, ed ahi! pur molta
     Già reputando la sventura mia,
190Incontro a me per una selva folta
     Alcun velocemente venir sento,
     A cui, Sosta, diss’io, sosta ed ascolta.

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Parvemi Gerra, che passò qual vento;
     Tal che in maggior sospetto oltre più corsi,
     195Fin ch’agli orecchi miei giunse un lamento.
I passi là, precipitando torsi
     Ed ahi! su l’erbe, che allagava un rio
     Del sangue suo, quella infelice io scorsi.
Mezza di sè già fuor, me non udio
     200La moribonda, che fra dolci lai,
     Che t’ho fatt’io, dicea, che t’ho fatt’io?
Or m’uccidesti tu perch’io t’amai?
     Ah qual crudel, qual barbaro t’ha ucciso,
     O mia Bianca, o mia vita? allor sclamai.
205Lentamente si volse e il guardo fiso
     Ella alcun tempo in me tenne a quel suono,
     Poscia ad un tratto si coperse il viso,
Padre mio, padre mio, disse, perdono!
     Il rimembrar di me deh non ti gravi,
     210Ch’io fui tradita, ed innocente io sono!
Ahi! Gerra al certo, ahi! che tu Gerra amavi,
     Dissi, e quell’empio... Ed ella: Il tuo furore
     Sovr’esso, padre mio, deh non s’aggravi!
Ch’io gli perdono: E in questo dir, sul core
     215La man fredda posando, nel mio seno
     Il debil suo capo abbandona e muore.
Io, che sentii me tutto venir meno,
     Lena cercai nell’angoscioso petto
     Tanta che a’ miei mi riducessi almeno.
220Oh quante volte il mio figliuol diletto
     Tra via chiamo per nome, e nelle care
     Braccia da lungi col pensier mi getto!
Quando, giunto anelante in su l’entrare
     Della mia terra dimandando aita,
     225Quel fero universal scempio m’appare!
S’ivi morto non caddi, l’infinita
     Pietade i falli miei sì gravi e tanti
     A terger nel dolor mi tenne in vita.
Per mezzo le ruine arse e fumanti
     230Vidi Nastagio, il mio buon servo antico,
     Mal vivo strascinarmisi davanti.

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Quel tristo avanzo del furor nimico
     Narrommi le vedute atroci cose
     Con duol di padre e con pietà d’amico.
235Qual chi a dura novella il cor dispose
     Pur sente innanzi alla risposta un gelo,
     Io del fanciul l’inchiesi; ei non rispose.
Allor vid’io, quasi al cader d’un velo,
     Per me il mondo una selva orrida e sola,
     240E volsi l’alma spaventata al cielo.
Qui l’affannoso duol nodo a la gola
     Fe’ del monaco sì che muta indietro
     Gli tornò fra i singulti la parola.
Una voce in quel punto a lento metro
     245Laude intonò nel vicin tempio a Dio,
     E più voci le tennero poi dietro.
Egli, a Dante con man dicendo addio,
     Com’uom, se nova e maggior cura il tocchi,
     Tacito e ratto quindi si partio.
250Pietosamente seguitò con gli occhi
     Dante il misero veglio; indi alle braccia
     Facendosi puntel d’ambe i ginocchi
Chiuse nel vano della man la faccia.