Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera LXI

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Lettera LXI

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LETTERA LXI

29 giugno.

Piangi, o Lorenzo, il tuo povero amico! Poco a poco mi consumo... mi struggo. E può ancora il mio languente core palpitare, adorarla? Cosí presso alla tomba! con tanto gelo nelle fibre! Io non ho piú lagrime, piú non m’esce un sospiro; arsi pur sono i miei labbri... Oh, piangi! No, amico, consolati, ché a momenti tutto è terminato! Addio!


La veemente passione del giovanetto infelice aveva preso un carattere invero compassionevole ed estremo. La solitudine, in cui vivea, concentrava tutte le idee in una sola; e giammai fu possibile staccarlo da una fissazione cosí spaventosa. Rade volte si vide trattenersi con i pochi abitatori di quel villaggio; e, conversando alcun’ora con essi, fu visto sovente intenerirli e muoverli a pietá. Dolci erano i suoi modi, amabili le sue parole, commoventi i suoi gesti; poi ad un tratto piangeva, ed or troncava i detti, or con un gran sospiro partiva. Aggiravasi quindi solitario e pensoso nella via piú folta del bosco, e, quasi fosse inseguito da qualche spettro minaccioso, arretrava il piede talvolta con una specie d’orrore. Tramontava intanto il sole dall’orizzonte, e l’ombre si diffondeano sulla faccia della terra; ma Iacopo non vedeasi ritornare al suo pacifico albergo: soltanto al freddo raggio di luna, lento e muto appariva, e si chiudea nella sua stanza.

Il giorno ventinove di giugno, arrivai al monte di Bertinoro. Troppo mi pesava la sorte dell’amico; e, dacché lo vidi in Bologna, piú non seppi cancellare dal cuore il doloroso sentimento che m’inspirarono i suoi mali. Oh, gl’infelici s’amano sinceramente fra di loro e si compiangono! Ancora mi stava sugli occhi l’aspetto melanconico e languente, le sue parole, i suoi sguardi. Giunsi colá sull’imbrunir della notte, e domandai dell’amico. — Oh, oh! — mi [p. 176 modifica] rispose un venerabil vecchio pastore: — quel giovane cosí buono ed infelice í... Tutti noi lo piangiamo, o signore; ma, vedete bene, le passioni sono un gran male! Eccolo lá fra quelle fratte, lungo quel ruscello, appunto sotto quell’elce: non lo sturbate per caritá! — Io gli sono amico: non temete, buon vecchio. E che fa egli? — soggiunsi. — Oh! sempre fra il bosco o alla cima del monte! Legge, sospira, si lagna, tace; e questa è la sua vita. — Io m’incamminai verso di lui. La natura dipingeva al mio sguardo un non so che di grande e di taciturno in que’ balzi selvaggi e ne’ petrosi fianchi dell’opposta rupe. Alto silenzio regnava attorno la foresta; non si udiva mormorar d’aura né un batter solo di foglia; soltanto il mesto gufo rompea col rauco e funebre strido la quieta solitudine di quella sera. Al calpestio de’ miei piedi ed allo strisciar delle vesti or dietro un basso virgulto, or d’un picciolo arbuscello, Iacopo s’accorse che alcuno s’inoltrava. Alzò la fronte, e, in atto di svegliarsi da un profondo letargo, volse attonite le pupille e mi guardò. Brillavano le tremule stelle nel firmamento, e la soave lor luce, scintillando fra le branche degli arbori, produceva un bel misto di bianco vivo e d’un gran verde nereggiante. Giunto ad esso vicino, lo salutai. Quando mi vide e conobbe, sedente ancora e stendendomi le braccia, trasse un lungo e debile: — Oh Dio! — Respirò alquanto. — Amico — mi disse, — vieni a chiudermi gli occhi! — E mi porse languidamente un bacio. Indarno tentai (ed io, cosí sventurato, il potea?) con ricercate parole di consolarlo. — Taci! —esclamò, ed, alzatosi, mi strinse fortemente una mano, e, guardandomi fiso fiso, tacitamente meco si diresse verso casa. In rimirarlo, mi si stringeva con fieri palpiti il cuore, né sapea frenare il pianto. Vedea le sue guance pallide e sparute, gli occhi smorti e incavati, la pelle aggricciata e scarna, le membra tutte sfinite, magre, addolorate. Ahi! piú ad ombra di morte che ad uomo vivo assomigliava. La sua dolce físonomia per altro imprimeva nelle anime sensibili non so qual amabile tristezza e melanconica simpatia.

Giunti a casa, ambidue sedemmo assieme ad una tavola. Ivi con aria patetica mi additò esser quella la sua camera e quello il suo letto. — Qui..., qui finirò pure i miei mali! — diceva, ed, abbassando la testa, incrocicchiava pensieroso le braccia. — È qualche tempo — riprese — ch’io vo stancando con fervide preci l’Eterno padre della natura che tronchi gl’infelici miei dí... Ma! non m’ode; no! mi niega questo lieve conforto...— [p. 177 modifica]

Io. Amico, Iddio è buono, ama gli sventurati e non saprá abbandonarti. Spera! In sí giovane etá brami d;i morire e di perdere i tuoi freschi anni? Vivi alla virtú, alla patria, a te stesso!...

Iacopo. Vivere?... io?... con questo cuore?... Oh, gl’infelici non vivono che d’affanni! E i miei sono duri, insoffribili, estremi!

Si battea con una mano la fronte, e poscia risoluto: — Sí, ho deciso! — E che! tentaresti forse?... — l’interruppi. — Nulla! — mi rispose con una cupa e fredda calma annunziatrice di orrori. — Nulla! —

Tu, o sensibil Lettore, avrai ben compreso da queste lettere quanto radicata e profonda gli fosse l’idea della morte. Da lungo tempo covava il funesto pensiero di uccidersi; ma l’aspetto di Teresa, i suoi angelici sguardi e gli atti soavi gli sopivano di quando in quando nella stravolta fantasia le immagini lugubri e feroci. Un sorriso di Teresa rasserenava il suo spirito, siccome le rugiadose stille dell’alba ravvivano le languenti rose. Il fatale avvenimento del giardino, il perpetuo e crudele abbandono, la lettera stessa di Teresa, lo stato miserando di sua salute, la tetra solitudine di quelle montagne, ultimo asilo dell’infelice, fomentarono e riaccesero una idea tanto a lui cara e gradita. Alfine un’altra lettera, che recentemente, non so come, avea ricevuto, diede l’estremo crollo alla sua disperata passione. Egli, tremando, me la ripose fra le mani.

Dai colli Euganei, io giugno.

 Amico!

Odoardo ha sorpreso una tua lettera... Avvilita e confusa, come sostenere i suoi sguardi feroci, le sue tremende parole, i suoi gesti di rabbia, le sue minacce? Caddi svenuta, e, oh Dio! né meno mi porse un aiuto o mi stese una mano. Borbottava sdegnoso alcune tronche espressioni e fremeva. Quella voce, quei sguardi mi parevano d’uno sposo tradito e furibondo. Ma Dio sa pure i miei sentimenti, la mia fede, il mio cuore!...

Quest’oggi è ritornato alquanto tranquillo nella mia camera. Io mi giaceva in letto, ove tuttora languisco. A me parve pentito de’ suoi fieri trasporti, e mi diresse alcune parole cosí toccanti, cosi dolci... Oh, amico, qual rossore nel rammentarlo! Quanto è buono ed amabile il mio sposo! Dopo lunghi discorsi è venuto [p. 178 modifica] in scena il fatale ritratto. Dio! Dio! mi tremano le fibre nello scriverti. E che rispondergli? che dirgli? Dispietato! hai posto il dolore, la costernazione, il sospetto fra due sposi innocenti, in seno d’una famiglia... Guardati per sempre dal funestare colla tua presenza e con tue lettere una misera donna, che... Oh, se la vedessi! se sapessi! Troppo debole core, taci! Tu, amico, abbi cura di tua languida salute, estingui la crudele passione...; ti consola! Addio.

Teresa.


Il servo ci chiamò a cena. Iacopo non prese cibo, non parlò; ma, tenendo aperta la lettera suddetta, la contemplava, tornava a rileggerla pian piano, e la bagnò piú volte d’alcune rare e grosse stille di pianto. Lo scongiurai vivamente che prendesse qualche cibo e che avesse riguardo alla sua salute. Egli, per contentarmi, prese alcuna piccola cosa da un piatto, ed, appena l’ebbe assaggiata, che svogliatamente la rimise nella tavola; bevette pochi sorsi di vino; e, datomi un tenero amplesso: — Buona notte, amico, — ed entrò nella sua stanza. Chiesi al domestico se tale era sempre la funesta malinconia di Iacopo. — Oh, sempre! — mi rispose. — Il suo viaggio è stato accompagnato or da febbri violenti, or da delirio, or da diluvi di lagrime: rare volte l’ho veduto tranquillo. Qui, poi, non vi so narrar quanta compassione egli abbia risvegliato nei semplici cuori di questi buoni montanari; ma, Dio sommo! alle volte il suo stato spaventa, e fa gelar il sangue. Quando avran fine i suoi guai? — E quella lettera — gli soggiunsi — quando l’ha ricevuta? — Questa mattina, da un incognito. — Io me ne andai al riposo.

Iacopo prima di coricarsi, scrisse:

Teresa! non temere; io piú non renderò funesti i tuoi giorni. Sí; tu l’hai pronunziata la terribil sentenza: estingui la crudele passione... Oh donna adorata! l’estinguerò, se pure tutto il gelo della tomba è capace di ammorzar la mia fiamma.

È notte! Tutto mi tace d’intorno; riposano i mortali e le belve in seno d’un caro sonno; l’intenerita natura dorme velata di negre bende. Io solo qui veglio, e contemplo la muta oscuritá: gli aridi miei lumi cercano invano un qualche pietoso refrigerio; secca è la fonte delle lagrime, ed i sospiri mi ripiombano affannosi sul [p. 179 modifica] cuore. Vedi tu, o Teresa, fra le ombre piú tetre della notte aggirarsi uno squallido e taciturno fantasma attorno al tuo letto? Egli è l’ombra mesta, estenuata, gemebonda del tuo Iacopo. Il mio spirito erra mai sempre vicino a’ tuoi fianchi, ed io qui non sono che un muto e freddo cadavere!

Morire!... Quale idea spaventosa! Non esser piú che lurido scheltro, che ossa spolpate, che verminoso marciume! E queste mani e questi labbri resi sacri da quelli di Teresa, in breve fracidi e schifosi... Dio!... che miserabile e vile cosa è l’uomo!... Ma sentirò io, colá rinchiuso nella cassa sepolcrale? vedrò cascarmi a pezzi le carni, rodermi le membra putrefatte? Un lieve fiato di spirito fará palpitarmi il cuore gelido e consunto? Amerò forse? Insensato!... tu giacerai freddo, immobile e senza senso; e piú non rimarrai che poca cenere e polve.

E dove, gran Dio, andrá cotesta forza motrice del mio corpo, dei miei pensieri, del mio cuore? Svanirá ella forse negli abissi del nulla? Tornerá nella infinita massa degli esseri ad animar la natura sotto forme novelle? Oppure... altra vita..., un tremendo destino..., l’eternitá? Io gelo...


Le ultime parole erano scritte con mano tremante, ed appena intelligibili. Qui forse dovette abbandonarsi a tutto l’orrore d’un sí funesto pensiero. Dopo lung’ora tornò a scrivere in un altro foglio.


Or mi riscuoto dal profondo abbattimento; un freddo sudore mi scorre per tutto il corpo; i miei capelli mi si arrizzano dallo spavento. E perché tremo adunque?... È pur dolce cosa il sollevarsi da un peso che t’opprime! Sí, Iacopo, la vita non ti è forse amara? E quando hai perduto Teresa, che piú ti resta d’una misera esistenza che tu stentatamente trascini?

E che? Questo corpo, vile e mortale, è tanto rispettabile e sacro, che l’anima, che lo muove, non possa e debba lasciarlo a suo talento? L’Essere supremo si compiace forse di farmi provar cento volte colla vita le tremende agonie della morte? Egli, cosí buono e pietoso! Ma non mi vede sfinito e consunto? Io sono un’ombra di me stesso; e dovrei pure terminarla... [p. 180 modifica]

Un’ora dopo la mezza notte, una flebile voce mi riscuote dal sonno e mi chiama. Mi desto, veggo ai raggi di luna, che trapelavano dalla finestra, il giovane amico, mezzo ignudo, coi capelli ritti, pallido ed atterrito, abbracciarmi.

— Oh Dio! che avete?

— Ella mi persegue!... mi afferra. Non la vedete... lá...?

— Chi mai?

— Teresa stessa!

— Iacopo! Iacopo! e fin dove v’affascinano ed acciecano le vostre folli illusioni? Per pietá calmatevi: siate ragionevole e filosofo. —

Egli mi narrò che, dopo aver scritto alcune cose (né giá mi disse quai fossero), si era gettato nel letto. Caduto in un funesto assopimento, pareagli di vedere la sua Teresa, non piú bella e ridente, ma languida e scontrafatta giacersi in una bara funebre. Essa, alzando la testa, lo guardava cupamente, e poscia ricadea senza parlargli. Iacopo se le accostò, ed ella gli strinse con gelida mano la sua destra, e: — Qui — gli diceva — la tua cieca passione mi ha spinto. — Frattanto l’inseguiva, né giammai lo lasciava. Svegliossi, è vero; ma l’infiammata fantasia sempre gli dipingeva quell’immagine lugubre davanti a’ suoi occhi. Ecco l’orribile sogno che lo spaventò.

Io, per certo, non mancai di porre in opra tutti quei mezzi, che l’amicizia mi suggeriva per consolarlo. Pregai, piansi, ed ei si commosse. Udiva le mie ragioni con pace, e si mostrava meno sbigottito. L’apparir dell’alba rosseggiante, che spargeva un’aura fresca e serena, lo innondò di una soave tristezza. Non si saziò giammai quel mattino di guardare estatico le bellezze della natura; ma le stanche ciglia si chiudeano suo malgrado. — Prendi, amico, un momento di quiete e di riposo. Io te ne priego per l’amicizia nostra; e sa il cielo s’io t’amo! — dissi; ed egli, sospirando: — Via, — mi rispose — non affannarti: obbedisco. — E si chiuse nella sua camera. Prima di riposare, scrisse:


Per l’ultima volta io ti saluto, o vezzosa aurora. Piú non vedrò la tua faccia soave rallegrar la natura ed avvivar le erbe fresche e i dipinti fiori. Non berrò piú l’aura del mattino, raccogliendo le umili violette o le vergini rose. Fu giá tempo, ch’io, troppo felice, le offriva devotamente a Teresa; ed ella, arrossendo, mi [p. 181 modifica] ringraziava con un sorriso. Funeste memorie! Tu, ridente aurora, sorgi pur lieta ne’ venturi giorni, e sorgi solo per Teresa. Ch’ella si racconsoli al tuo delizioso sembiante, e rimembri pur quelle rose e que’ fioretti che un dí le porgeva l’amico del suo cuore! Verrá giorno che tu, bell’alba, cadrai per sempre, e non avrai, nella notte funerea dell’universo, chi pianga o canti la tua morte!


Poscia si coricò e dormí alcune ore. Destatosi, pose in ordine le sue carte, ed altre ne lacerò. Di nuovo scrisse: