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Viaggio al centro della Terra/XXVIII

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Jules Verne - Viaggio al centro della Terra (1864)
Traduzione dal francese di Anonimo (1874)
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XXVII XXIX
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XXVIII.

Risensando, il mio viso era bagnato di lagrime. Non saprei dire quanto durasse quello stato d’insensibilità, poichè non mi rimaneva alcun mezzo di rendermi conto del tempo. Non mai solitudine fu pari alla mia, abbandono così completo! La caduta mi aveva fatto perdere molto sangue e me ne sentivo sempre inondato. Come mi doleva di non essere morto, «e che la cosa fosse [p. 117 modifica]ancora da fare!» Non volevo più pensare, cacciavo ogni idea e vinto dal dolore mi rotolai presso la parete opposta.

Già mi sentivo svenir daccapo, e questa volta per sempre, quando un rumore violento mi ferì l’orecchio. Rassomigliava al rullo prolungato del tuono e intesi le onde sonore perdersi a poco a poco nelle lontane profondità dell’abisso.

D’onde proveniva quel rumore? Da qualche fenomeno senza dubbio che si compiva per entro la massa terrestre, dallo scoppio d’un gas o dalla caduta di qualche poderoso sostegno del globo!

Ascoltai ancora. Volli sapere se il rumore si rinnovasse; ma un quarto d’ora passò e il silenzio regnò nella galleria e non intesi nemmeno più i battiti del mio cuore. D’un tratto il mio orecchio appoggiato per caso sulla muraglia credette di cogliere alcune parole vaghe, inafferrabili, lontane. Sobbalzai.

«È un’allucinazione!» pensai.

Ma no. Ascoltando con maggior attenzione, udii proprio un murmure di voci. Ma di comprendere quello che si diceva, fu ciò che la debolezza non mi permise. Pure si parlava. Ne ero certo. Forse io aveva gridato a mia insaputa.

Per un istante ebbi il timore che quelle parole fossero le mie stesse, riportate da un’eco; avevo forse gridato senz’avvedermene? Serrai forte le labbra ed appoggiai di nuovo l’orecchio alla parete.

«Sì, certo, si parla! si parla!»

Spingendomi alcuni piedi più oltre lungo la muraglia mi riuscì di udire alcune parole incerte, bizzarre, incomprensibili, che mi giungevano come se fossero pronunziate a voce bassa, e per così dire mormorate.

La parola förlorad veniva ripetuta molte volte con accento di dolore.

Che cosa significava? Chi la pronunciava! Evidentemente mio zio od Hans; ma se io li intendeva essi pure potevano intendermi.

«Aiuto! gridai con tutte le mie forze; aiuto!»

Ascoltai, spiai nell’ombra una risposta, un grido, un sospiro; ma nulla si fe’ udire.

Passarono alcuni minuti; un mondo d’idee s’era schiuso nel mio spirito; pensai che la mia voce indebolita non potesse arrivare: fino ai miei compagni. [p. 118 modifica]

«Perchè sono essi, ripetei; e qual altri mai potrebbe trovarsi a trenta leghe sotterra?»

Mi rifeci ad ascoltare, ed appoggiando qua e là l’orecchio alle pareti, trovai un punto matematico dove le voci parevano raggiungere la massima intensità. Udii ancora la parola förlorad e poi quel rullo di tuono che m’avea tratto dal mio torpore.

«No, diss’io, non è già traverso la parete di granito . che le voci si fanno udire, poich’essa non permetterebbe alla più forte detonazione di attraversarla. Questo rumore giunge dalla galleria stessa! Conviene che qui vi sia un effetto d’acustica del tutto speciale. Ascoltai di nuovo e questa volta, sì, questa volta udii distintamente il mio nome attraverso lo spazio. Era mio zio che lo pronunziava; egli parlava colla guida, e la parola förlorad era danese.

Allora compresi tutto. Per farmi udire bisognava parlare precisamente lungo la muraglia, la quale doveva servire a condurre la mia voce, come il filo conduce l’elettricità. Ma non avevo tempo da perdere; per poco che i miei compagni si fossero allontanati di qualche passo, il fenomeno acustico sarebbe stato distrutto.

Mi accostai dunque alla muraglia e pronunciai queste parole, più nettamente che mi fu possibile:

«Zio Lidenbrock!»

Aspettai con vivissima ansietà. Il suono non è molto rapido e la densità degli strati d’aria non ne accresce punto la velocità; solo l’intensità ne è aumentata. Passarono alcuni secondi che mi parvero secoli; alla fine mi giunsero all’orecchio queste parole:

«Axel, Axel, sei tu?»

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«Sì, sì,» rispos’io.

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«Fanciullo mio, dove sei?»

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«Perduto nella più profonda oscurità.»

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«Ma la tua lampada?»

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«Spenta.»

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«Ed il ruscello?»

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«Sparito.»

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«Axel, mio povero. Axel, fatti cuore.»

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«Aspettate, io sono stanco, non ho più forza di rispondere, ma parlatemi.»

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«Coraggio, soggiunse mio zio: non parlare, ascoltami. Noi ti abbiamo cercato risalendo e discendendo la galleria. Impossibile trovarti. Ah! io ti ho ben pianto, fanciullo mio! Alla fine credendoti sempre sulla strada dell’Hans-Bach siamo ridiscesi sparando colpi di fucile; ora se le nostre voci possono congiungersi è effetto di acustica! le nostre mani non possono toccarsi, ma non disperare, Axel, è già qualche cosa potersi udire.»

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In questo frattempo io aveva riflettuto; una speranza, vaga tuttavia, mi ritornava al cuore. Prima di tutto vi era una cosa che m’importava di conoscere: però accostai le labbra alla muraglia e dissi:

«Zio.»

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«Figlio mio,» mi fu risposto dopo alcuni istanti.

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«Bisogna prima di tutto sapere che distanza ci separa.»

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«La cosa è facile.»

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«Avete. il vostro cronometro?»

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«Sì.»

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«Ebbene, prendetelo; pronunziate il mio nome notando, esattamente il secondo in cui parlerete; io lo ripeterò appena l’avrò udito, e voi osserverete del pari il momento preciso in cui vi giungerà la mia risposta.»

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«Sta bene, e la metà del tempo compreso tra la domanda e la risposta indicherà quello che la mia voce impiega per arrivare fino a te.»

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«Appunto, zio.» [p. 120 modifica]

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«Sei tu pronto?»

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«Sì.»

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«Ebbene, fa attenzione, che io pronuncierò il tuo nome.»

Appoggiai l’orecchio alla parete, e appena udii la parola «Axel», tosto ripetei «Axel»; poi aspettai.

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«Quaranta secondi, disse allora mio zio; sono passati quaranta secondi fra le due parole; il suono impiega adunque venti secondi da te fino a me; ora a mille e venti piedi per secondo fa venti mila e quattrocento piedi, vale a dire una lega e mezza, più un ottavo.»

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«Una lega e mezza!» mormorai.

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«Non è difficile percorrerla, Axel!»

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«Ma bisogna salire o discendere?»

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«Discendere, ed ecco perchè, Noi siamo arrivati a un vasto spazio, a cui fan capo gran numero di gallerie; quella che tu hai seguito deve guidarti fino a noi, poichè pare che tutti questi crepacci, queste fratture del globo siano come altrettanti raggi che partano dall’immensa caverna che noi occupiamo. Risollevati dunque e rimettiti in cammino; trascinati, se fa bisogno, lasciati andare giù per le rapide balze, e troverai le nostre braccia per riceverti. In cammino fanciullo mio, in cammino!»

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Queste parole mi rianimarono.

«Addio zio, esclamai, io parto! Le nostre voci non potranno più comunicare fra loro non appena avrò lasciato questo luogo. Addio dunque.»

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«Arrivederci, Axel, arrivederci.»

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Tali furono le ultime parole che udii. La meravigliosa conversazione, fatta attraverso la massa terrestre a oltre [p. 121 modifica]una lega di distanza, si conchiuse con queste parole di speranza. Resi grazie a Dio perch’egli m’avesse condotto, in mezzo a quale tetre immensità, al solo punto forse in cui la voce de’ miei compagni potesse giungermi.

Cotale effetto d’acustica si spiegava facilmente colle sole leggi fisiche; proveniva dalla forma del corridoio e dalla conduttibilità della roccia. Si hanno molti esempii di siffatte propagazioni di suoni non percettibili negli spazi intermedi; e mi sovvenni che tale fenomeno fu osservato in molti luoghi e fra gli altri nella galleria interna del Duomo di S. Paolo a Londra e più di tutto entro le curiose caverne di Sicilia, latomie poste presso Siracusa, la più meravigliosa delle quali in siffatto gemere è conosciuta col nome d’Orecchio di Dionigi.

Mi ritornarono in mente questi ricordi e vidi chiaro come, poichè la voce di mio zio arrivava fino a me, nessun ostacolo esistesse fra di noi, e seguendo il cammino del suono io dovessi logicamente arrivare, se pure le forze non mi tradivano.

Mi alzai adunque e mi trascinai piuttosto che non camminassi, e siccome il pendio era rapido mi lasciai scivolare.

Nè andò molto che la velocità della mia discesa si accrebbe in proporzione spaventevole, tanto che minacciava di rassomigliare ad una caduta. Non avevo più la forza di arrestarmi. D’un tratto il terreno mi mancò sotto i piedi e caddi rimbalzando sulle asperità d’una galleria verticale, – un vero pozzo. Battei del capo sopra una roccia acuta e svenni.