Vita di Dante/Libro II/Capitolo V
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O gloria de' Latin .....per cui
Mostrò ciò che potea la lingua nostra
Nel giudicare de’ libri, sono alcuni i quali tengon più conto della dottrina mostratavi dallo scrittore, che non dell’uso fattone in servigio de’ leggitori. Ammirano questi il Convito, perchè Dante vi si mostra dotto nell’astronomia, nella filosofia e nella teologia de’ tempi suoi; e dicono, che se non avessimo la Commedia, basterebbe il Convito a provarci la gran dottrina di lui. Ma certo è, che niuno ve l’andrebbe a cercare, nemmeno forse gli storici
di quelle scienze, i quali ne troverebbero più precise tracce negli autori speciali di ognuna. I libri veramente gloriosi allo scrittore sono i libri veramente utili a’ leggitori; e tali
sono quelli solamente che fanno fare un passo ad una scienza, ad un’arte qualunque. E tal fu senza dubbio il Trattato che Dante prese a scrivere in lingua latina, migliore, se non m’inganno, che al solito suo, e in quattro libri (di che non compiè nemmeno due), sull’idioma volgare.
Che egli l’imprendesse l’anno 1304 appunto, e che prima del gennajo 1305 fosse giunto al Capo XII del Libro I, è chiaro dal trovarsi in questo fatta menzione, come di vivente, di Guglielmo marchese di Monferrato, il quale morì in quel mese1. Nè io veggo ragione onde supporre che il restante fosse scritto molto più tardi2. E che fosse scritto in Bologna, pare molto probabile dalle lodi e da gran parlare ch’ei fa di quella città e del dialetto di essa3; essendo canone di critica dantesca, molto conforme alla natura di lui, che dalle impressioni accennate in ogni scritto si possono dedurre, quando non s’oppongano memorie più certe, il luogo e il tempo in che egli scrisse via via.
Il titolo De vulgari eloquio, sive idiomate, che dagli antichi trovasi tradotto Della volgare eloquenza, parmi s’abbia a tradurre ed intender meglio Dell’idioma volgare, cioè della lingua italiana4. Era assunto nuovissimo allora; fu trattato sovente poi, ma in modo di gran lunga inferiore. Imperciocchè, incominciando dalle origini d’ogni parlare umano e dalla divisione delle lingue, e queste due altissime quistioni di filosofia e di linguistica trattando se non adeguatamente, almeno non falsamente5; e venendo ai dialetti dell’Europa romano-barbara, e questi dividendo in tre, come già accennammo, secondo le tre affermazioni dell’ oc, dell’ oil e del sì6; quando poi viene a trattare del volgare italiano del sì7, ei non ne tratta come tanti erroneamente, nè quasi d’una sola lingua nata comune a tutti, nè quasi d’un sol dialetto diventato pur comune; ma distingue e numera quattordici dialetti allor parlati nella Penisola8; esamina ed apprezza i meriti e demeriti di ciascuno, e ne trae poi la conseguenza: che di tutti dee conformarsi quella lingua comune ch’ei chiama illustre, cardinale, aulica e curiale9. Alla quale conseguenza attendendo unicamente tutti coloro che finora seguirono e commentarono Dante, e disputandone variamente, e forse interminabilmente, trascurarono di lodarlo e d’imitarlo in quanto egli dice sui dialetti d’Italia, che è forse la parte più osservabile di tutto il Trattato. Disprezzan gli uni e temono gli altri questo argomento. Ma non giovano i disprezzi contra a un fatto. Ed è fatto innegabile, che esistettero ed esistono da Dante in poi questi dialetti, e che furono non solo parlati, ma pure scritti in tutti i secoli nostri: come si vede da parecchie cronache romanesche, pugliesi, veneziane e piemontesi; nelle traduzioni del Tasso, in molte canzoni popolari; od ultimamente nelle Commedie del Goldoni, e nelle Poesie liriche e satiriche del Meli, del Calvi, del Porta, del Grossi e di altri ancora, che posson talora fare invidia in queste parti alla stessa letteratura italiana, e mostrare sempre vivo l’amore ai dialetti d’ogni provincia d’ Italia. E quanto al timore che siffatta coltura dei dialetti, o il trattarne solamente, possa nuocere a quella lingua ch’è sola comunanza tra noi Italiani; certo, se fosse ragionevole tal timore, noi ci dovremmo religiosamente astenere da tali studii. Ma, ridotto com’ è l’uso dei dialetti alle cose più popolaresche, le quali ad ogni modo non si scriverebbero in lingua studiata, non può nuocere a questa; e l’aggiungere agli onesti piaceri intellettuali e cosi alla coltura d’una popolazione italiana qualunque, non può nuocere mai all’Italia. Anche men giusto timore sarebbe, poi, quello che s’avesse delle disquisizioni storiche sulle origini dei nostri dialetti; e tuttavia, elle non furono tentate quasi da Dante in poi, se non forse da quel sommo Muratori, uomo anch’esso superiore a’ suoi contemporanei e a tanti posteri. Nè è d’uopo dimostrar quindi, quanto prezioso sia un libro scritto fin dal principio del secolo XIV e da un Dante su’ due argomenti, dell’origine delle lingue moderne, e della somiglianza e differenza de’ dialetti italiani. E sarebbe bello ritentarli, aggiungendo a Dante e a Muratori ciò che è dato delle cognizioni progredite.
Quanto poi alla conclusione di Dante, che di tutti i dialetti insieme debba trarsi la lingua comune od illustre, non potendo interamente scansar di parlarne, io ne dirò brevemente. Tutte le lingue, senza dubbio, trasser l’origine dai dialetti parlati variamente in più regioni della medesima nazione, e mantennero tale indeterminatezza e varietà, finchè uno di quelli non diventò regnante, o almeno principale. Ma una gran differenza vi è tra le nazioni che hanno un centro di governo e coltura, e quelle che no. Nelle prime, la città dov’è il centro, diventa sede quasi unica, e rimane fonte perenne della lingua; tanto che, se una parte di essa città, come la corte o un pubblico parlamento, vi diventi principale, in essa parte si restrigne naturalmente l’autorità della lingua. Così avvenne della lingua italiana antica, regolata in Roma dalla urbanità, cioè dal costume di essa città; così poi delle lingue moderne, spagnuola, francese ed inglese. All’incontro, nelle nazioni senza centro, diventa bensì principale nella lingua un dialetto (imperciocchè è impossibile che tutti vi contribuiscano per parti uguali); ma il principato di esso, non ajutato dalla centralità delle istituzioni civili, rimane di necessità meno certo fin da principio, e disputato poi continuamente. Tal fu il caso della Grecia antica, tale quello dell’Italia moderna; che in ciò, come in tante altre cose, la varietà dei nostri destini ci fece soffrire, tra antichi e nuovi, tutti gli sperimenti, ci fece dare al mondo tutti gli esempi. Che il dialetto fiorentino non fosse il primo scritto nè in poesia nè in prosa, quando due fuochi della civiltà italiana erano la Corte siciliana di Federigo II e lo Studio di Bologna, già lo dicemmo; ma dicemmo poi, come passasse tal civiltà a Firenze, come vi si facesse più progressiva, come Dante fosse figliuolo non unico, non primogenito, ma principalissimo di tal civiltà. Che fin d’allora i Toscani vantassero il loro volgare come principale della lingua italiana, vedesi dal capo XIII del Volgare Eloquio. Naturalmente crebbe tal vanto di principato dopo Dante, Petrarca e Boccaccio e parecchi altri, per oltre a due secoli, che Firenze rimase pur prima della civiltà italiana. Cadutane essa, poi, per qualunque ragione, volle il principato di lei volgersi in tirannia: misera e minutissima tirannia di paroluzze o parolacce, riboboli e modi di dire popolareschi e furbeschi; che fu allora opportunamente rigettata con proteste di fatto e ricerche di diritti, come succede a tutte le tirannie. Ma il negare l’esistenza di quel principato, parmi a un tempo negazione di fatti, solenne ingratitudine ai nostri migliori, ed ignoranza dei veri interessi della lingua; la quale non si può mantenere viva e bella in niun luogo, come in quelli ov’è universalmente e volgarmente parlata.
Errò egli, dunque, Dante non riconoscendo il principato, osservato da lui e preteso da’ suoi contemporanei, del proprio dialetto? Certo sì, a parer mio; ma potè essere indotto in errore dalla novità di tal fatto non universalmente riconosciuto, se non appunto dopo lui, e per effetto di lui; e forse da quella sua natura larga, e per cosi dire eclettica, che gli faceva abbracciare tutte le scienze, scrivere in tutti gli stili, accettare tutti i dialetti, e raccogliere da tutti questi, ed anche dalle lingue straniere, tutte le parole che gli venivano in acconcio. E certo, tal modo di sentire doveva tanto più valere in lui, se, come vedremo probabile, ei rivolgeva fin d’allora in sè il pensiero di scrivere il Poema in quel volgare di che ei veniva cercando le regole. Nè è mestieri così d’ apporre a Dante il ristretto e vii pensiero di voler per vendetta tórre il vanto della lingua alla propria città. Non sogliono gl’irosi essere vendicatori; e chi si sfoga in parole alte ed aperte, non si vendica poi con altre coperte ed indirette. Il fatto sta, che questo scritto, citato da alcuni qual frutto dell’ira di Dante, è assolutamente puro d’ingiurie a Firenze; sia che la feroce ma gentile anima di lui vedesse di doversene astenere qui, dove dava giudicio contrario ad essa d’un vanto di essa; sia perchè questo, come il Convito, furono scritti in tempo di maggior mansuetudine di lui, in uno di que’ periodi d’amore e desiderii, a cui non isfugge niun esiliato, o almeno niun buono, mai. Certo, non sono di animo ruminante vendetta le espressioni seguenti, con che egli si scusa di non far la lingua fiorentina la più antica del mondo; e possono servire a scusarlo dell’errore di non averla fatta la prima d’Italia. "Ma noi, a cui il mondo è patria, sì come a’ pesci il mare, quantunque abbiamo bevuto l’acqua d’Arno avanti che avessimo denti, e che amiamo tanto Fiorenza, che per averla amata patiamo ingiusto esilio; nondimeno, le spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiano. E benchè secondo il piacer nostro, ovvero secondo la quiete della nostra sensualità, non sia in terra loco più ameno di Fiorenza; pure, rivolgendo i volumi de’ poeti, e degli altri scrittori nei quali il mondo universalmente e particolarmente si descrive, e discorrendo fra noi i vari siti dei luoghi del mondo, e le abitudini loro tra l’uno e l’altro polo e ’1 circolo equatore, fermamente comprendo e credo, molte regioni e città essere più nobili e deliziose che Toscana e Fiorenza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e molte genti usare più dilettevole e più utile sermone che gl’Italiani"10. Nemmeno nella Vita Nova, scritta prima di tutte le ire da Dante giovane e innamorato d’una figlia di Firenze, egli non die a questa o a Toscana niun primato di lingua; e l’avrebbe certo fatto allora volentieri, se tal fosse stata la sua opinione. La quale, dunque, qualunque fosse, non fu almeno una di quelle in lui mutate per ira. Del resto, poichè fu frammischiata tal quistione con quella dell’amor patrio di Dante, gioverà notar qui che l’amor patrio di lui fu prima a tutta Italia, ma fu senza detrimento dell’amore alla propria città; e ch’egli è in ciò da lodare sopra que’ tanti i quali sembrano non poter amar Italia senza disamare la propria provincia, quasi potessero essere Italiani senza esser prima Piemontesi, Lombardi, Toscani, Romagnoli, Napoletani, o via via. Ma certi animi sono così stretti, che non cape in essi mai un po’ d’amore senza cacciarne ogni altro, senza cercar compenso di qualche odio. Vituperano costoro ogni lingua, ogni letteratura straniera, ogni dialetto provinciale, quasi il leggerne o solo l’udirne una parola avesse a nuocere al loro bello scrivere in quella lingua che poi non scrivono; vanno in cerca colle lenti di certi vanti microscopici di quell’Italia che n’ha di cosi immensi è patenti; e profferiscono come amatori d’Italia sè soli, che la lodano in ogni cosa, l’adulano ne’vizii, l’assonnano nel vecchio ozio, e la accarezzano, se ci sia lecito dir con Dante, men da donna che da meretrice. Non cosi Dante; il quale, largo e virile in tutti i suoi amori, seppe amare e lodare le lingue straniere e la nazionale e i dialetti provinciali; amare, e lodare insieme, e pure sgridare con cuore d’amante, e l’Italia e Toscana e Firenze, sua nazione, sua provincia e sua città, tre modi di patria, comprese l’una nell’altra. E non così poi Alfieri; il quale anch’egli, mescendo con simil natura severità, ire ed amori, dopo tante grida contro il paese suo, portava a cielo pure le poesie piemontesi del Calvi; diceva con sospiri, non iscriversi con tal grazia e spontaneità e non nel dialetto della balia, e in questa tentava poi di scrivere egli stesso. Ma di Dante e d’Alfieri molti sanno esagerare le ire, pochi sentire gli amori.
Del resto, tutte le questioni dette, sono trattate nel primo libro del Volgare Eloquio; il più importante così per la storia della nostra lingua, per la vita e le opinioni di Dante. Continua egli nel secondo con meno amore, od anzi con istanchezza dell’assunto suo. Cerca prima, per quali persone e di quali cose abbiasi a scrivere nel volgare illustre11. Lasciate le prose, tratta delle tre forme di poesie volgari allora usate; i sonetti, le ballate e le canzoni: dice che in queste, siccome più degne, deve usarsi quel volgare12; e quindi a queste restrignendo l’argomento, per dieci capi tanto vi s’interna13, che alfine vi si perde; e lascia evidentemente incompiuto questo stesso libro dello stile tragico od altissimo, ed intentati i due altri, che doveano seguire, degli stili elegiaco e comico14. Vedesi quindi, che, come il Convito, cosi pur serve questo scritto all’interpretazione dell’opera grande di Dante, e specialmente del titolo di Commedia dato ad essa, e dello stile usatovi, e così dell’intenzione generale di essa. Ma vedesi che, fissate cosi collo scrivere le proprie idee, l’autore si stancò di quest’opera, inadeguata all’ingegno suo, inadeguatissima al
turbine sempre crescente delle sue idee. Ed anche in questo secondo libro ritroviamo un cenno dei desiderii dell’esule verso la patria. Per dare idea della costruzione di parole ch’ei chiama sapida, ei fa un esempio della frase seguente: "Di tutti i miseri ei mi duole; ma pietà maggiore ho di quelli qualunque sieno, i quali nell’esilio affiggendosi (tabescentes), non rivedono se non ne’ sogni la patria loro"15. Ed osservabile è quell’altro luogo, ove, accennando di che specialmente abbiano cantato i principali poeti di sua età, e dicendo che Cino da Pistoja cantò d’amore, dice di sè, chiamandosi amico di Cino, ch’ ei cantò la rettitudine. Bell’assunto, per vero dire, e che concorda co’ soggetti da lui cantati nelle Canzoni del Convito, o almeno coll’interpretazione filosofica ivi data di esse.
Vedesi in tutto, che contemporanee più o meno furono queste due fatiche del Convito e del Volgare Eloquio: quella assolutamente mediocre; questa, quantunque di gran lunga migliore, pur inferiore all’ ingegno suo: e così quella lasciata per questa; questa in breve, per l’opera della sua gioventù, del suo amore, della sua virtù. Vedremo che, secondo tutte le memorie, un caso fu che gli fece riprendere tal’opera somma; ma fu un caso ajutato dalle disposizioni
dell’ animo e da questi primi studii ripresi. Già fin dalla Vita Nova, ei sentiva altamente della potenza della lingua volgare; vi ritorna nel Convito, deliberando scriverne espressamente; abbandona il Convito per ciò fare: ma interrotto nel farlo da nuovi accidenti dell’esilio, quando poi riprese il lavoro, riprende, delle tre opere interrotte, la maggiore, la più difficile, la più sublime di gran lunga; ma la riprende mutata dalle idee sue maturate sul Volgare; e tanto più volentieri, che queste sue idee lo liberavano quindi dalle pastoje della lingua latina, e quinci anche da ogni soggezione al proprio dialetto. Dirà forse taluno,
che nello scuotere cosi ogni freno, Dante si procacciò non solo libertà, ma licenza. Ma dicasi quel che si voglia della teorica di lui, ella gli sarà da tutti perdonata, grazie alla
pratica che ne fece. E del resto, tutti i grandi sono così, e valgono più in questa, che in quella. A loro, gli esempi da seguirsi; a noi minori la ricerca, le distinzioni delle regole,
da desumersi più dai lor fatti che dai lor detti. La Divina Commedia è fiorentina senza esclusione, senza pedanteria. E chi scrive così, scriverà sempre bene, qualunque sieno le teorie.
Nè era Dante solamente scevro di quella pedanteria che sta nel modo di scrivere: ora l’abbiamo di nuovo a vedere libero di quell’altra maggiore del perdersi studiando negli studii, dell’anteporre a poco a poco la vita contemplativa diventando indifferente, o, peggio, disprezzator dell’attiva. Non era egli letterato, come tanti, seduto a ciò ch’egli chiama il banco dello studio; e più che su questo, certo è che in sella e per le vie, per li campi e i monti e le valli, nacquero i pensieri delle opere di lui. Non sarebbero di ciò mestieri altre prove, che le tante descrizioni di luoghi particolari onde va ingemmato il Poema; ma vi s’aggiungono poi quelle d’ ogni qualità di paesi, ogni ora del giorno, ogni effetto di luce e di suono, e quasi direi ognuno di que’ fenomeni naturali che non s’ osservano mai se non da coloro che sanno vivere a cielo aperto. Solenne, principalmente, è la descrizione della sera del viandante al tocco dell’ Ave Maria:
Era già l’ora che volge il desio
Ai naviganti e intenerisce il core
Lo dì ch’ han detto ai dolci amici addio;
E che lo nuovo peregrin, d’amore
Punge, se ode squilla di lontano,
Che paia il giorno pianger che si muore.
Alla quale è uguale o superiore quell’ altra descrizione dell’altro Ave Maria o Angelus mattutino, al sonar del quale negli orologi paragona Dante il rotear di alcune anime beate in Paradiso:
Indi, come orologio che ne chiami
Nell’ora che la sposa di Dio surge
A mattinar16 lo sposo perchè l’ami,
Che l’una parte e l’altra tira ed urge
Tin tin sonando con si dolce nota,
Che ’l ben disposto spirto d’amor turge;17
Cosi vid’io la gloriosa ruota
Muoversi, e render voce a voce in tempra
Ed in dolcezza, ch’esser non può nota
Se non colà dove ’l gioir s’insempra
Dal 1304 al 1306, vedemmo Dante tranquillo e scrivente, forse in altri luoghi, ma certo insieme con Pietro suo figliuolo, agli Studi di Bologna e di Padova; della quale inquilino, il vedemmo assistere da testimonio in un atto privato addi 27 agosto di quell’ultimo anno. Trentanove giorni dopo, il troviamo adoprato in negozi all’altra sponda d’Italia; nè di tal mutazione possiam fare niuna probabile congettura, senza ricorrere a tutto ciò che si travagliò nella Penisola durante que’ due anni che Dante rimase ritirato sì, ma non indifferente ai negozii.
Dicemmo morto il buon papa Benedetto XI addì 22 luglio del 1304 in Perugia, dove egli avea passato quasi tutto il breve papato, sia per trovarsi più presso a Toscana, sia anzi perchè ingrata gli si facea la dimora in Roma per le Parti continuanti de’ Colonna e degli Orsini, che or gli uni or altri vi potevano più di lui. Fu detto che morisse avvelenato in certi fichi recatigli da un giovane travestito in serva di monache; e fu attribuito il veneficio dagli uni ai cardinali nemici di lui, da altri al re di Francia. Raccoltisi i cardinali a conclave, parteggiarono così, che quantunque stretti e quasi affamati da’ Perugini, non fu compiuta l’elezione, se non dopo l’anno revoluto, addì 23 luglio 1305. E certo, fu una delle scandalose che siensi vedute mai. Due Parti erano ne’ cardinali: a capo dell’una, un Orsini, e Francesco Gaetani nipote di Bonifazio VIII, che stavano per la memoria di questo e volevano un papa italiano: dall’altra, quel cardinal Niccolò da Prato che vedemmo far il paciero in Toscana, e il cardinal Napoleone Orsini, che vedremo in breve far il medesimo e senza più frutto, ambi partigiani francesi. Convennero in fine: che i primi proponessero tre vescovi francesi, e gli ultimi scegliessero fra i tre. La proposta fu naturalmente di tre Francesi creature di Bonifazio, e nemici fin allora di Filippo. Ma avutala questi per tempo dai cardinali partigiani suoi, fece chiamare uno dei tre proposti, Bertrando d’Agoust arcivescovo di Bordella; e mostratogli che potea farlo papa, il fe giurare, quando il fosse, di concedergli sei cose: assolverlo del misfatto contro Bonifazio; condannare la memoria di questo; rimettere nel sacro Collegio due Colonnesi cacciatine; far altri cardinali da lui proposti; concedergli le decime del clero di Francia per cinque anni; e (peggio che tutto ciò) dicesi, una sesta cosa da palesarsi a suo tempo, Bertrando giurò tutto, e fu papa Clemente V; e non toccò mai Roma nè Italia, a lui dispiacevoli non solo per le Parti, ma perchè oramai ogni Parte era contro lui, ed egli non si potea fidar guari che di Francia. E, quindi, non solo ei rimase colà, ma creando poi Cardinali francesi, essendo da questi eletti successori francesi, settant’anni dimorarono là poscia i papi. Qual diminuzione d’autorità e di potenza ne soffrisse quindi il papato, e come’ principato italiano e come sommo pontificato, fu avvertito da molti, ma non forse abbastanza da nessuno moderno. Ai contemporanei si vuoi ricorrere per veder lo sdegno de’ buoni, il trionfo de’ malvagi per questa nnaturale, inusitata e pericolosa traslazione della Sedia, detta allora da tutti la cattività di Babilonia. Imperciocchè non è Roma, come male interpretano i più, ma Avignone e la Corte colà, quella che è chiamata Babilonia da Dante e Petrarca. Questa traslazione fu quella la quale poco meno che distrusse la grand’opera di Gregorio VII e suoi seguaci per due secoli; questa, che avvezzando i popoli a vedere, i principi a desiderare il papa fuor di Roma, agevolò od anzi causò e produsse poi il lungo grande scisma d’Occidente; scisma esso, origine delle dispute e delle divisioni de’ concilii di Pisa e Costanza; origini queste più ch’ogni altra cosa delle eresie de’ secoli XV e XVI, e così di quella riforma che dura ai nostri dì, e divide tante preziose membra del sacro corpo della cristianità. E quindi è che non solo volentieri scuseremo, ma se ci sia conceduto di conchiudere dalle opinioni degli storici più approvati della chiesa nostra, noi loderemo anzi Dante d’essersi rivolto contro Clemente V e il suo francese successore, primi motori di tanti danni; ed anzi, considerando che gli stessi vituperi ai loro predecessori non furono scritti da lui se non dopo quel fatto, giusta e cristiana cagione d’ira, noi pur condannando l’ingiusta estensione, in parte pure ne lo scuseremo. I papi dei tempi di Dante, meritarono la disapprovazione, e in quanto lice a cristiano e a cattolico, l’ira di lui. La colpa di Dante verso i papi non fu il male che disse di Bonifazio, di Clemente o di Giovanni; fu il bene che non disse di Benedetto buono contemporaneo suo, e massime dei grandi e sommi predecessori di tutti questi, che per compier giustizia avrebbe dovuto. E vedesi quindi più che mai, se abbiano buona ragione i nemici dei Papi di vantarsi di quell’ira dantesca; la quale, dannabile o no nelle espressioni, sorse in età, e si rivolse contro tali Papi che fecero sì gran danno alla Santa Sede; ondechè, quella si si vuol dire figlia, anzi, di buono zelo a questa. Il rivolgere, poi, e generalizzare le espressioni di Dante da que’ Papi traslatori della Sedia nel 1300, ai Papi così diversi de’ nostri tempi, che vedemmo martiri per non la voler trasferire; è tale ingiustizia o mala fede, da non meritar isdegno nè riposta.
I danni politici, poi, venuti particolarmente all’Italia dalla traslazione, furono pure grandissimi. Glà vedemmo scaduti i Papi dal principato di parte guelfa, e sottentrarvi gli Angioini di Napoli, e gli altri Reali di Francia. Dal misfatto d’Anagni in qua, tal principato, appena interrotto dal buono e breve regno di Benedetto XI, era diventato tirannia. E quindi pure nuova scusa all’ira di Dante contra que’ Reali, e loro Parte oramai straniera. Il papa stesso, gli stessi Papi francesi legati e lor legati e cardinali, pur servendo a quella tirannia, sollevaronsi talora contro gli eccessi di essa, e facendo come Dante, si mostrarono di tempo in tempo quasi Ghibellini. Ciò è da tener bene a mente per intendere le vicende della Parti, duranti questi anni 1305, 1306. Stavano per parte Bianca-Ghibellina Bologna, Pistoja, Pisa ed Arezzo. Firenze Guelfa-Nera stava in mezzo contro a tutti; ed ajutata da Lucca sola, non che difendersi, offendeva. Addì 26 maggio 1305, l’esercito fiorentino, guidato da Roberto duca di Calabria, rimasto dopo la morte di Carlo Martello primogenito del re di Napoli, mosse contra Pistoja, nido de’ fuorusciti Bianchi, capitanati dal prode e perdurante Tolosato degli Uberti. I Lucchesi vennervi a campo da un altro lato. L’assedio si stabilì. A settembre, due legati del nuovo papa vennero da pacieri ad inibirlo. Il duca di Calabria obbedì, e lasciòllo ; i Fiorentini e Lucchesi non dieron retta. L’assedio incrudelì. A chi usciva dalla terra, se uomo, era tagliato il piede; se donna, il naso. Intanto, a Bologna furono cacciati i Bianchi e Ghibellini, e la città si rivolse a Guelfa-Nera. Allora i Pistojesi si arrendettero, addì 10 aprile 1306. Pistoja fu smurata; il contado diviso tra Lucca e Firenze; la terra retta da un podestà mandato dall’una, e un capitano mandato dall’altra; i rifuggiti dispersi; il nome de’ Bianchi ivi nato, poco meno che spento; i rimasugli sempre più confusi co’ Ghibellini. Il Papa, uditi questi disprezzi della sua intervenzione, fece suo legato e paciere in Italia il cardinal Napoleone Orsini; il quale venuto, e offerta la sua pacierfa a Firenze, non fu ricevuto; ed offertala a Bologna, ne fu cacciato. Scomunicò l’una e l’altra; e tolse, come vedemmo, lo Studio a Bologna; e si rimase poi in Italia a raccòrrò un esercito di Bianchi e Ghibellini contro a Firenze. Tanto eran mutate le cose! Un legato del Papa a capo di un esercito Ghibellino contro all’antica ròcca di parte Guelfa18!
Dante non aveva avuto che fare con tutto ciò, se non nel mutar prima la sua studiosa dimora da Bologna a Padova, e nel l’appressarsi poi a Firenze ed a’ luoghi dove si travagliavano tali cose; onde non parrà troppo ardita congettura il tenere che da queste fosse tratto.
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[modifica]Note
- ↑ Vedi ivi, e Veltro Alleg., p. 78
- ↑ Le parole del Villani (lib. IX, Cap. 54, p. 508) addotte sovente in contrario, sono dette di passo e dubitativamente.
- ↑ Lib. I, Cap. IX e XV.
- ↑ Le prime linee del Cap. I farebbero veramente più approvabile la tradizione antica; ma le linee seguenti, e tutto il libro, e il titolo latino aggiunto, debbono forse far accettare la seconda
- ↑ Cap. I VII
- ↑ Cap. VIII, IX,
- ↑ Cap. IX, pag. 258 fino al XV.
- ↑ Pag. 262
- ↑ Lib. I, Cap. XVI - XVIII.
- ↑ Lib. I, Cap. VI, pp. 251-252.
- ↑ Lib. II, Cap. I e II.
- ↑ Cap. III
- ↑ Cap. IV - XIII.
- ↑ Cap. IV.
- ↑ Nell’ esempio che segue, di senso favorevole in apparenza al marchese d’Este, non parmi che abbia a cercarsi un altro Marchese che Azzone VIII, vituperato nel libro I, Cap. 12; né che vi sia niuna contraddizione tra que’ vituperi. Ei si vuol seguir l’opinione dell’Autore del Veltro (p. 91), che qui queste lodi sieno ironiche. Se vi fosse contraddizione, sarebbe certo inesplicabile.
- ↑ Ogni parola è notevole per affollate bellezze. Qui è accennato certamente il mattutino delle monachelle; ma di passo, e quasi tacitamente, o col semplice uso d’una parola, è paragonato quel mattutino a que’ canti detti mattinate, che si facevano dagli amanti allo svegliarsi di lor amate in sul mattino.
- ↑ E quì si può ben dire al leggitore avverti; ma come spiegare tutte le bellezze intellettuali di quelle due parole?
- ↑ Murat. 1305-1306; Villani, p. 420-422.