Vita di Giacomo Leopardi/Capitolo XIV

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Capitolo XIII Capitolo XV

[p. 264 modifica]264 Capitolo XIV. SEMPRE A BOLOGNA. 1826. Sommario: Il gran freddo dell'inverno 1825-26, — "L'Epistola ni Popoli. — Lettura all'Accademia dei Felsinei. — Teresa Car- niani Malvezzi. — Relazione del poeta con lei. — Amoretto per la Padovani. — Il poeta gode della crescente sua fama. — Saggio delle Operette morali pubblicato nella Antologia. — Nuove proposte del Vieusseux al Leopardi perchè scriva nella sua Rivista. — Coscienza di scrittore. — Trattative con lo Stella per la pubblicazione delle Operette morali. — La stampa dei Versi a Bologna. — Il Leopardi finisce il com- mento al Petrarca. — Monaldo tenta ricondurre all' ovile la pecorella smarrita. — Nobile rifiuto. — Giacomo si congeda dalla Malvezzi. Quell'inverno (1825-26) a Bologna fu molto rigido: cosi almeno parve al Leopardi; il quale, pur essendo rimasto incantato, come abbiamo visto, del soggiorno di quella città, fino dal 28 ottobre scriveva al fratello Carlo che era risoluto di accettare la cattedra di elo- quenza greca e latina a lioma, anche per sottrarsi a quel bestialissimo freddo bolognese; < che, diceva, mi ha talmente avvilito da farmi immalinconichire e di- sperare. > Il 18 gennaio 1826 scriveva al cugino Mel- chiorri: < Dei miei studi non posso dirti niente, perchè sto spasimando dal freddo, e non ho coraggio di star mez//ora a tavolino. Questo ò certamente V ultimo in- verno che passo qui. > E con la lettera già citata del 1° febbraio al Bunsen, ringraziandolo della cat- tedra offertagli in Germania, si scusava di non po- terla subito accettare, a cagione della sua salute e del freddo, che recava grandissimo pregiudizio alla sua malattia d'intestini. Ma sperava di guarire in [p. 265 modifica]SEMPRE A BOLOGNA. 265 primavera, come i medici gli promettevano ; e perciò non rinunciava all'idea della cattedra ofiFertagli; anzi appena potesse sarebbe andato a Roma per conferirne con lui. L'inverno fortunatamente stava per passare; ed egli pochi giorni dopo (l'S febbraio) scriveva al padre che il freddo era già scemato, anzi si erano avute al- cune giornate di primavera ; che aveva ripreso le sue passeggiate campestri, e gli pareva d'essere rinato. Non era vero che nell'inverno non avesse fatto nulla. Oltre la revisione dei fogli del Cicerone, che lo Stella gli mandava regolarmente, perchè vi facesse le sue osservazioni, aveva compiuto la traduzione del- l' J'.^^V^e^o, della quale era assai sodisfatto, e messo in pronto la materia di due volumetti del Petrarca. Ma coU'avvicinarsi della primavera, sentendosi rinvigorire il corpo e lo spirito, andava ripigliando gli uffici della vita, andava ripigliando più gagliardamente il lavoro. Ed era anche tornato alla poesia. Dopo la canzone Alla sua donna non gli era più uscito un verso dalla testa, tutta piena della materia e della forma delle Operette inorali. Nei due anni 1824 e 1825 la sua mente, disavvezza dalla poesia, aveva preso l'abito del ragionamento; e di questo abito si sentono gli effetti anche nei nuovi versi che la nuova primavera gli suscitò. Non c'è più, come nelle Canzoni^ l'intonazione solenne del poeta che, con l'ardenza elo- quente dei suoi pensieri e de' suoi periodi, vuol tra- scinare il lettore ; e' è il pacato e tranquillo argomen- tare del filosofo che vuol persuadere. Perciò l'autore indirizzò i suoi versi al conte Carlo Pepoli, in forma di Epistola. Sono versi sciolti, di fattura semplice ed elegante, signorile anche, ma piani e discorsivi, illu- minati appena in due luoghi da un lampo fugace di poesia ; là dove il poeta nomina la bellezza femminile e la primavera, le due cose che ebbero sempre virtù di far palpitare il suo cuore. [p. 266 modifica]266 CAPITOLO XIV. Tutto il discorso àeìVEpistola è Io svolgimento e la illustrazione di questo singolare raziocinio : poiché l'uomo, per fare che faccia, non riesce mai a conse- guire la felicità, che è lo scopo della sua vita, così tutte le opere e fatiche umane sono puro ozio. Le notti e i giorni Tragge in ozio il nocchiero ; ozio il perenne Sudar ne le officine; ozio le vegghie Son de' guerrieri e '1 perigliar ne l'armi ; E '1 mercatante avaro in ozio vive. In questo paradosso sta tutto il succo e la novità deW Epistola. Chi enuncia una sentenza eh' è in per- fetta opposizione col comun modo di pensare, vi fa sulle prime restare meravigliati ed increduli; ma se poi conforta quella sua sentenza paradossale con una serie di ragionamenti che han tutti l'aria di essere condotti a filo di logica, a mano a mano ch'ei parla va crescendo in voi la meraviglia, e scema l'incredu- lità. Magari, alla fine del discorso non rimarrete per- suasi, ma ammirerete il ragionatore. UEpistola è strettamente legata con le Operette morali : potrebbe anche esserne l' epilogo, o meglio il prologo. Che fu ispirata dalla primavera, oltre il fatto d'essere stata composta nel marzo, ò attestato da uno dei due luoghi poetici ai quali ho accennato. Anche il Pepoli era poeta, cioè faceva dei versi: ora Giacomo, dopo avere augurato all'amico la ventura che sentiva mancare a sé, di conservare eterna la gioventù del cuore (ti faccia un tempo La favilla che il petto oggi ti scalda, Di poesia canuto amante); prosegue : Or quando al tutto irrigidito o freddo Questo petto sarà, nò degli aprichi [p. 267 modifica]SEMPRE A BOLOGNA. 267 Campi il sereno e solitario riso, Né degli augelli mattutini il canto Di primavera, né per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna Coramoverammi il cor; quando mi fia Ogni beltade o di natura o d'arte, Fatta inanime e muta; ogni alto senso, Ogni tenero affetto, ignoto e strano; Del mio solo conforto allor mendico. Altri studi raen dolci, in ch'io riponga L'ingrato avanzo della ferrea vita, Eleggerò. Questi studi luen dolci li aveva già eletti : erano la sostanza delle Operette morali; ma nelle parole stesse del suo rimpianto si sente che le bellezze della na- tura avevano virtù di commuoverlo ancora ; come in queste parole dell'altro luogo poetico da me accennato, E non lo sguardo tenero, tremante. Di due nere pupille, il caro sguardo. La più degna del ciel cosa mortale, si sente che il suo cuore non era chiuso per sempre

ii teneri alletti.
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Durante l'inverno, scrivendo ai suoi, specialmente a Carlo e a Paolina, aveva espresso più volte il de- siderio di tornare presto a rivederli. Carlo era dispe- rato, e come fuori di sé, per trovarsi solo senza oc- cupai:ione, senza godimenti di sorte alcuna; e sfogava la sua disperazione scrivendo lunghe e desolate let- tere al fratello,' il quale prendeva viva parte al suo misero stato e si studiava di fargli animo. Avrebbe ' Vedi Lettere scritte a Giacomo Leopardi dai suoi parenti, pag. 132 e seg., 146 e seg. [p. 268 modifica]268 CAPITOLO XIV. voluto chiamarlo per qualche tempo a Bologna presso di sé; ma le spese che doveva sostenere per le sue malattie e per ripararsi dal freddo avevano consu- mato ogni suo risparmio. Ripeteva nelle lettere che presto sarebbe tornato a Recanati ; ma come fu passato r inverno, era passata la ragione più forte di fuggire da Bologna, e restavano invece le ragioni che ve lo trattenevano e gli facevano gradita quella dimora. Il suo amico Papadopoli era, è vero, sempre lon- tano ; col Greco aveva rotto ogni relazione fino dal novembre del 1825 ; ma aveva la compagnia affettuosa e servizievole del Brighenti ; vedeva spesso, e con pia- cere, le sue graziose figliuole, specialmente la mag- giore, la Marianna, che poi, quand'ei fu morto, s'im- maginò di essere stata amata da lui ; aveva l'amicizia del Pepoli, del Costa, del Marchetti ; sapeva che la sua conversazione era gradita nelle migliori società ; aveva fatto nuove conoscenze, fra le quali quella della famiglia Tommasini, che gli fu poi sempre carissima; tutte cose che davano alla sua misera vita quel pregio ch'essa non aveva a Recanati. Ho accennato a spese che il Leopardi dovè soste- nere per le sue malattie; ma veramente, ad eccezione degli incomodi arrecatigli dal freddo, che per lui erano come malattie, non si sa che durante la sua dimora in Bologna nel 1820 avesse altra malattia che un as- salto nervoso al petto, che gli diede forti dolori, ma non ebbe alcuna conseguenza.' Sino dal novembre 1825 era stata fatta a Giacomo la proposta di stampare in Bologna una raccolta di tutte le suo Opere, con ritratto, cenni biografici, in- somma con tutte le cerimonie che sogliono accompa- gnare simili edizioni riserbato agli uomini già famosi. La proposta rimase poi senza efiotto, benché se no riparlasse più volto fra il Leopardi e il Brighenti, che ' Vadi Ptn$iért di varia fltotofia co., voi. VII, pag. 176. [p. 269 modifica]SEMPRE A BOLOGNA. 269 doveva essere l'editore; ma fu disegnato e inciso il ritratto, di cui il Brighenti regalò poi il rame al Leo- pardi, e furono scritte da Giacomo le brevi notiae biografiche, ch'egli mandò in quell'anno al Popoli.' Se l'edizione delle Opere non ebbe effetto, non perciò il poeta ne ebbe allora meno piacere. Un altro fatto gli arrecò pure grande sodisfazione. L'Accademia dei Felsinei, di cui il Pepoli era vi- cepresidente, dovendo tenere la sera del 27 marzo una delle sue solenni adunanze, mandò il suo segretario in persona ad invitare il Leopardi, affinchè vi inter- venisse e recitasse. Con ciò s'intese di fargli un onore straordinario, non essendo egli accademico. Il Leopardi intervenne, e recitò in presenea del Legato e del fiore (Idia nobiltà holognese, muschi e femmine, l'Epistola al Popoli. < Mi dicono, scriveva egli poi a Carlo, che i miei versi facessero molto effetto,e che tutti, uomini e donne, li vogliono leggere. >* E il povero Carlo, che a Reca- nati moriva di noia, e che conosceva il suo Giacomo, rispose rallegrandosi con lui, < perchè, diceva, il suc- c esso è cosa che molto rassomiglia alla felicità. >' Veramente questo fu il tempo più felice nella in- felicissima vita del Leopardi. Egli ora per la prima volta provava intera la sodisfazione di essere tenuto per quello che sapeva di essere, un uomo d' ingegno straordinario. Vedemmo che fin da quando nella prima giovinezza s' infatuò d'amore per la Cassi, ben sa- pendo che le donne non avrebbero potuto amarlo per la sua figura, s' immaginava di potere forse una volta diveìiuto qualche cosa di grande nelle lettere farsi in- nanzi alla donna amata in modo da esseme accolto con piacere e stimai Quella immaginazione d' allora ♦ Vedi Epistolario, voi. II, pag. 178 e seg. ' Epistolario, II, pag. 119. ' Lettere scritte a Giacomo Leopardi dai suoi parenti, pag. 173.

  • Le parole in corsivo sono tratte dal citato Diario f amore

nelle carte napoletane. [p. 270 modifica]270 CAPITOLO XIV. stava per divenire una realtà. Ciò che in Recanati non lo salvava dallo scherno degli ignoranti, a Bo- logna lo faceva ricercato e pregiato da tutti, anche dalle signore. È naturale che dopo il successo dei versi, molti di quelli e di quelle che non lo conosce- vano ancora, desiderassero di essergli presentati. S'in- tende che questo desiderio nelle donne, anche in quelle che erano, o pretendevano di essere, ciò che oggi si dice intellettuali, era più che altro curiosità, benché non disgiunta da ammirazione: naturalmente non pensavano di potersi innamorare di lui, e nemmeno ch'egli potesse innamorarsi di loro; perchè egli era un gran letterato, un gran poeta, non era un uomo. E appunto questo fatto singolare, anormale, cresceva la loro curiosità.

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Una delle signore più eulte di Bologna, forse la più eulta letterariamente, era la contessa Teresa Car- niani Malvezzi. D'origine fiorentina, aveva a sedici anni sposato il conte Francesco Malvezzi de' Medici bolognese, e si era con lui stabilita a Bologna nel 1802. Appassionata per gli studi fin da giovinetta, seguitò a coltivarli da maritata, dedicando ad essi tutto il tempo che lo restava libero dalle cure della famiglia. Ebbe maestri e consiglieri, nella filosofia e nella let- teratura greca il Biamonti, nella lingua e letteratura latina il Garatoni, nella lingua inglese il Mozzofanti. Ad una contessa, giovine, graziosa, e innamorata delle lettere, non poteva mancare l'ammirazione e l'amicizia dei letterati più illustri del tempo suo; e la ebbe larghissima. Basta nominare fra quelli che più la tennero in pregio il Monti, che por lei scrisse anche dei versi ; il Costa, che le fu largo di avverti- menti consigli nella letteratura e poesia italiami; lo Strocchi, il Perticari, il Pindomonte, il Lanii)rc(li, [p. 271 modifica]SEMPEE A BOLOGNA. 271 il Mai, che non le lesinarono gli elogi. Ebbe una grande smania di far versi : e troppi ne fece, imme- more del precetto oraziano : Mediocribus esse poetis — Non Dì, non homines, non concessere cohimncv. Nel 182G, quando il Leopardi la conobbe, essa non aveva dato alle stampe altro che la traduzione in versi sciolti del Riccio rapito del Pope.' Se la conoscesse prima di recitare i suoi versi all'Accademia non so ; ma è certo che a quella Accademia la signora dovè intervenire, e che la relazione amichevole strettasi poi fra loro cominciò poco dopo. In quel tempo essa era tutta occupata nel volgarizzare alcune delle opere di Cicerone, i frammenti Bella Repuhhìica e il libro Della natura degli Bei: certo aveva sentito parlare con am- mirazione del giovine conte, del suo sapere e della sua infelicità; conosceva probabilmente e ammirava le Camoni di lui, se anche non era in grado di in- tendere tutto ciò che era in esse di nuovo, di forte, di originale; e alla lettura fatta da lui stesso àeì- V Epistola al Pepoli, dovè rimanere meravigliata e commossa. Questo giovine pieno di dottrina e d'ingegno, min- gherlino e malaticcio, che a ventotto anni cantava, con l'accento della più schietta sincerità: lo tutti Della prima stagione i dolci inganni Mancar già sento, e dileguar dagli occhi I^e dilettose immagini, che tanto Amai, che sempre infino all'ora estrema Mi fieno, a ricordar, bramate e piante; questo reietto della gioventù e della vita, ne' cui oc- chi dolci e malinconici sedeva il dolore, dovè inte- ressare la contessa letterata, a cui nella florida ma- turità degli anni sorridevano ancora tutti i sentimenti • Il Riccio rapito di Alessandro Pope, Bologna, 1822. [p. 272 modifica]272 CAPITOLO XIV. e gli entusiasmi della gioventù e della vita; e forse r idea di entrare in comunione di pensieri con cotesto alto intelletto, di consolare cotesto grande infelice, la tentò, e le fece desiderare di conoscerlo da vicino. La sola espressione di questo desiderio eh' egli dovè leggere nella faccia sorridente della signora, fu per lui un lampo di felicità; le prime parole cortesi ch'ella gli diresse lo fecero fremere di gioia; le lodi che gli sussurrò ebbero per lui sapore d'ambrosia. Dopo le prime presentazioni, la conoscenza divenne ben presto intimità. Egli desiderò di trovarsi a con- versare da solo a sola con lei: e ciò a lei non di- spiacque. Ella s'interessava alle confidenze di lui, e gli faceva le sue. Le conversazioni cominciavano la sera all'avemaria e duravano fino alla mezzanotte passata; ciò che a lui pareva un momento, e forse nel primo tempo anche a lei. Non le poteva balenare, e non le balenò allora il pensiero che in questa inti- mità ci potesse essere, non dirò nessun pericolo, ma neppure niente di men che corretto, da porgere il più lontano appiglio a maldicenze volgari : ella aveva tredici anni più di lui, e lui non era un uomo, era uno spirito. Giacomo però, scrivendo il 30 maggio al fratello Carlo di questa relazione, che formava alloi'a gran parte della sua vita^ diceva che la conoscenza della con- tessa aveva risuscitato il suo cuore dopo un sonno, anzi una morte completa, durata per tanti anni; che nei primi giorni cìie la conobbe visse in una specie di delirio e di febbre; o che, per quanto ella non fosse giovane, era di utia grazia e di uno spirito che suppliva alla gioventù e creava un'illusione meravigliosa.^ Questo dunque, da parto del poeta, era amore, e di quel buono ; per quanto egli dicesso che nello loro lunghe conversazioni non parlavano mai d'amore se non per « VimIÌ KpMolaHa, Tol. II, pAg. VM [p. 273 modifica]SEMPRE A BOLOGNA. 273 ischerzo. — C'è un proverbio che dice: Chi scherza si confessa. — E per quanto, passato il primo delirio, egli vivesse con lei in una amicizia tenera e sensibile, non si può credere che lei sotto l'amicizia tenera e sen- sibile non sentisse di tratto in tratto far cai)olino l'amore. Ad ogni modo ella, pare, non se ne offese. E come quelle conversazioni serali erano la maggiore felicità del poeta, egli non pensò (e fu male) che sa- rebbe stato prudente dissetarvisi con un poco di di- screzione. Intorno a questo tempo il Leopardi ebbe un altro amoretto, se pure si può dargli questo nome. Nella casa Badini, ov'egli si era stabilito dopo il suo ri- torno da Milano, abitava una Rosa Padovani, mode- nese, nata Simonazzi, che, lasciato il marito a Modena, era andata a Bologna a studiarvi il canto per darsi al teatro. Aveva un paio d' occhi e una persona che al Leopardi e ad altri parevano belli ; conosceva la fami- glia Stella, e abitava allo stesso piano del poeta. Que- ste due circostanze dovettero essere l' occasione della loro conoscenza. Giacomo uscendo di casa, quando ai primi tepori della primavera aveva ricominciato le sue passeggiate campestri, dovè imbattersi nella can- tante, e notare la bella persona di lei e i belli occhi, che forse gli suggerirono i versi della Epistola già citati da me, E non lo sguardo tenero tremante, Di due nere pupille, il caro sguardo, La più degna del ciel cosa mortale. Dagli accenni ad essa nelle lettere del Leopardi si capisce ch'egli non ne ebbe nessuna stima; ch'essa cercò di attirarlo con le arti che sono proprie di quel genere di donne; e ch'egli, disgustato, non tardò ad allontanarsene. L'allontanamento dovette avvenire in- torno al tempo ch'egli fece la conoscenza della Mal- vezzi. Ma il Papadopoli, al quale probabilmente Gia- CuiAKiNi, Leop. • 18 [p. 274 modifica]274 CAPITOLO XIV. comò dovè parlare della Padovani quando esso nel maggio del 1826 tornò a Bologna a rivedere gli amici, e quando la relazione fra il poeta e la cantante era cessata, o stava per cessare, lo credette rimasto an- cora nei lacci di lei, e rimastoci a lungo ; poiché Gia- como con lettera del 3 luglio dell'anno di poi cercò di disingannarlo. È vero che allora aveva già rotta, come vedremo, la sua relazione con la contessa; ma non possiamo credere che all'amico non parlasse sin- ceramente. < Non so, gli scriveva, perchè vogli dubi- tare della mia costanza in tenermi lontano da quella donna. Quasi mi vergogno a dirti che essa, vedendo che io non andava più da lei, mandò a domandarmi delle mie nuove, ed io non ci andai ; che dopo alcuni giorni, mandò ad invitarmi a pranzo, ed io non ci andai; che sono partito per Firenze senza vederla; che non l'ho mai veduta dopo la tua partenza da Bologna. Dico che mi vergogno a raccontarti questo, perchè par eh' io ti voglia provare una cosa di cui mi fai torto a dubitare. Certo che la gioventù, le bellezze, le grazie di quella strega sono tanto grandi, che ci vuole molta forza per resistere. >' Dalla relazione con la Malvezzi il Leopardi si era come sentito trasportare in un altro mondo, nel quale alla bellezza della Padovani era vietato l'ingresso. A quella cagione di contentezza si aggiungeva l'altra già accennata, della crescente sua fuma. Egli tanto si sentiva cresciuto nella opinione pubblica, che ap- punto in questo tempo, rispondendo alla I*aoliiia in proposito di una cattedra offertagli all' Università di Urbino, si lasciò ingenuamente scappare queste pa- role: < Una cattedra di provincia non sarebbe di con- yenicnza d'un letterato mio pari. >' K poco appresso avendogli la sorella riferito che a Sinigaglia alcuni francesi avevano parlato con alto lodi di lui, lo risposo

  • KpMeJarto, voi. II, pag. 210. ' Idom, pag. 110. [p. 275 modifica]SEMPRE A BOLOGNA. 275

scherzando: < Che meraviglia che i Francesi parlino di me a Sinigaglia. Non sai tu ch'io sono un gran- d'uomo, che in Komagna sono andato come in trionfo, (he donne e uomini facevano a gara per vedermi? >'

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Il lavoro del Petrarca gli era noioso e inglorioso; ma aveva in serho, ancora inedite, le Operette morali, lille quali fondava le sue maggiori speranze. Era im- paziente di vedere qualche effetto della consegna di esse fatta nell'ottobre del 1825 al Giordani; e scri- vendo al Papadopoli il 26 gennaio 1826 esprimeva il dubl)io che l'amico si fosse dimenticato di lui e del suo manoscritto. Invece il Giordani finiva proprio al- lora di scrivere quella magnifica prosa indirizzata al Colletta e al Niccolini, con la quale voleva presen- tare ai lettori della Antologia le Operette morali.* Quando scriveva o parlava di Giacomo, il piacen- tino non conosceva misura nelle lodi. Se ciò pare anche a noi oggi, tanto pia doveva parere ai contempora- nei. Ma la cagione che impedì al Vieusseux di acco- gliere quella prosa nella sua Rivista fu un'altra: fu la tirata che ci è contro il Lamartine, veramente un po' fuori di luogo, e un po' lunga ed eccessiva. Il Gior- dani, accettando le ragioni del Vieusseux, sostituì a quella prosa una breve letterina, e con essa furono pubblicati nel N° 61 (gennaio 1826) della Antologia i tre dialoghi, Timamìro ed Eleandro, Cristoforo Co- lombo e Pietro Gutierrez, ■ Torquato Tasso e il stw gemo familiare, come saggio delle Operette. Firenze e la Società del Vieusseux non erano il luogo e le persone meglio adatte per un giudizio im- ' Epistolario, voi. II, pag. 157. « Fu pubblicata poi dal Gussalli nel voi. IV degli Scritti di P. Giordani, a pag. 149 e seg. [p. 276 modifica]parziale e sereno sul Leopardi. L'uomo meno capace d'intenderlo era fra gli scrittori della Antologia il Tommaseo. Il quale, come ebbe veduti i dialoghi, scrisse al Vieusseux biasimandone la pubblicazione e dicendo molto male dell'autore, che chiamava un'arrogante mediocrità. Il Vieusseux rispose scusandosi dell'avere stampato i dialoghi per riverenza al Giordani, e dicendo che le sciocche lodi di lui avevano fatto molto torto al Leopardi, il quale veramente non era quello che si credeva, ma che a lui non sembrava si potesse chiamare unarrogante mediocrità. < Ho, scriveva, delle sue lettere confidenziali, che mostrano il pensatore istruito e l'ottimo cittadino. > Al che il Tommaseo ribadiva: < Non è già che mi spiaccia l'arrogante mediocrità.... Ma io, se non erro, direi fredda e arrogante. Quest' è che mi cuoce : la fredda. >1 D'allora in poi il Dalmata, quanto più conobbe del Leopardi, tanto lo giudicò più duramente e ingiustamente. Il nostro era ben lontano dall'iramaginarsi cosìJ{j gli attacchi del Tommaseo, come le deboli difese del '^ Vieusseux ; il quale allora, e poi sempre, gli fece le | più larghe e sincere dimostrazioni di stima; e, dopo pubblicato il saggio delle Operette morali, rimandan- dogli il manoscritto, lo pregò di nuovo a scrivere per la Antologia. Gli suggerì di fare delle corrispondenze che flagellassero i pessimi costumi del tempo, i me- todi di educazione e di pubblica istruzione, tutto ciò infine che si poteva flagellare. Questo corrisi)ondenze sa- rebbero firmate col pseudonimo, Un romito degli Ap- pennini, al quale avrebbe potuto rispondere Un re- mito deWArno.^ Il Leopardi, riconoscendo opportunissima l'idea in sd, si dichiarò affatto incapace di attuarla, dicendo • Vodl lo Hcritto di M. lUiiiii, AUtnandi'O Manzoni « il tuo romanzo nel carteggio del Tommuiieo eoi Vieu»teuT, noi voliimo do> dieato ad Arturo Uraf; liorgAmo, iNtituto nrti «raddlio, 1!>03| I>Ag. 280, noU 4. * KpiHtnìnrio voi. Ili, png. 2<'i<.>. [p. 277 modifica]SEMPRE A BOLOGNA. 277 die nella filosofia sociale egli era per otpìi parte un raro ignorante. Per parlare delle istituzioni sociali e do' costumi, bisognava esser vissuto nel mondo e avere avuto parte nella società, mentre egli, anche in mezzo agli uomini, era sempre vissuto come in solitudine, os- servando e studiando sé stesso, cioè l'uomo in sé e i suoi rapporti col resto della natura. Il rifiuto era definitivo, e non ammetteva insistenze da parte del \'ieusseux. Ciò nonostante il Leopardi dovè sentirsi lusingato e riconoscente dell'offerta fattagli dal Di- rettore della Antologia, il quale gli proponeva anche un compenso in denaro, che sarebbe tornato oppor- tunissimo ai suoi bisogni. Ma egli non era uomo da transigere menomamente, per qualsiasi ragione, con la coscienza sua di scrittore. In ciò era così diverso da tutti i letterati del tempo, che questi non compre- sero com'egli, invece di piegarsi a scrivere cose che potessero gradire all'universale, si ostinasse a met- tere in versi ed in prosa i suoi tristi pensieri, che a lungo andare rendevano i suoi scritti uggiosi e an- tipatici. Quei tristi pensieri erano il frutto dei suoi studi, delle sue meditazioni, erano la voce della sua coscienza, alla quale egli non poteva mentire. Il Vieusseux probabilmente restò meravighato della risposta del Leopardi ; tuttavia non perdo la speranza di avere la collaborazione di lui al suo giornale ; ed il Leopardi stesso non ne abbandonò l'idea; ma i lavori nei quali era impegnato con lo Stella, la poca salute ed altre cagioni gl'irapedirono di attuare quell'idea. Ai primi del gennaio 182G lo Stella aveva pubbli- cato il Martino dei Santi Padri; intorno alla autenti- cità del quale, nonostante il giudizio del Padre Cesari, non tardò a sorgere qualche dubbio ; com'era naturale, anche perchè la verità era nota allo Stella e ad altre persone. Ma ciò importava poco al Leopardi. Ciò che gli importava era di pubblicare, dopo il saggio uscito nella Antologia, tutte insieme le Operette morali. [p. 278 modifica]278 CAPITOLO XIV. Scrisse all'editore milanese, domandandogli so aveva veduto il saggio, pregandolo di leggerlo attentamente e dirgliene il suo parere ; < perchè, piacendo a lei, sog- giungeva, rifiuterò qualunque altra occasione, come ho sospeso di accettarle fin qui, per intendere il piacer suo.... In quel ms. consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora passata, e io l'ho più caro de' miei occhi. >' Con questa medesima lettera, eh' è del 12 mar- zo 1826, si doleva con lo Stella che mostrasse fare poco nessun conto del suo Epitteto e dell'Isocrate e gli raccomandava a mani giunte quei suoi cari e povein manoscritti, che gli sarebbe stato gran pena se fossero andati perdidi. Lo Stella rispose subito (lett. 22 marzo, 1° aprile) che VEpitteto e Vlsocrate erano stati già li- cenziati dalla Censura, che aveva letto il saggio delle Operette morali, che lo aveva trovato mirabile e su- periore a quanto dai moderni da lui conosciuti era stato scritto in fatto di fdosofia morale, e clie sarebbe stato ben contento di stampare il volumQ delle Operette mo- rali, pel quale gli cliiedeva libertà, quando si fosse veduto l'esito dell'opera, che, secondo lui, non poteva, mancare, di compensarlo come gli fosse sembrato me- glio. Intanto ristampava nel Bicoglitore il saggio della3 Antologia, e ne faceva tirare delle copie a parte. Il] Leopardi, che non desiderava di meglio, fu grato alloj Stella delle sue cortesi esibizioni, gli scrisse ai primi ! d'aprilo che teneva a sua disposizione il manoscrittO| e ai primi di maggio glie lo spedì.' llicevuto il nianosciitto, l'editore che dubitava d^ trovare ostacoli alla pubblicazione del volume pei parte della Censura, proposo di stampare le Opereti a poco per volta nel Jiicoglitore, salvo riunirle poi in un' volume; al quale l'autore avrebbe dovuto mandare in- • Kphtolario, voi. II, pn». 111.

  • V«di h'pMotarh, voi. II, pag. 133. [p. 279 modifica]SEMPRE A BOLOGNA. 279

nanzi una prefazione. Anzi pregava il Leopardi di farla presto; perch'egli potesse comunicarla privatamente al Censore; il quale forse, compreso lo spirito del- l'opera, avrebbe potuto persuadersi di lasciarla stam- pare da sé sola, senza che uscisse prima nel Bicogìi' tore.^ Il Leopardi rispose che il tuono ironico delle Ope- rette morali escludeva assolutamente un preambolo ; che nondimeno egli aveva supplito ad esso col Dialogo di Timandro ed Eleandro, da lui perciò collocato nel fine; e pregò caldamente lo Stella di comunicare privata- mente il manoscritto alla Censura, come aveva divisato di fare, e di dargliene poi una risposta decisiva.* Frattanto il Brighenti, senza abbandonare l'idea di quella edizione delle opere complete del Leopardi, della quale abbiamo parlato, propose all'amico di rac- cogliere in un volumetto, di formato eguale a quello delle Canzoni stampato a Bologna nel 1824, tutti gli altri versi da lui composti, che restavano ancora ine- diti, pubblicati sparsamente nel Nuovo Eicoglitore. 11 Leopardi acconsentì, e nello stesso anno 1826 il Brighenti mise insieme e pubblicò il volumetto, il quale comprendeva gli Idilli, le due Elegie, i Sonetti in persona di Ser Pecora, V Epistola a Carlo Pepali, la Guerra dei topi e delle rane, e il Volgarizzamento della Satira di Simonide. Da principio l'autore voleva comprendervi anche Vlnno a Nettuno e la Torta; ma poi, quando la stampa era già cominciata, ne abban- donò l'idea, moditicando l'avvertimento degli Editori, come può vedersi a pag. 477 degli Studi filologici rac- colti e ordinati dal Pellegrini e dal Giordani. Che il volumetto fu tìnito di stampare nel 1826 non c'è dub- bio; quando propriamente fosse pubblicato non si sa; non certo prima della partenza di Giacomo da Bolo- gna, che avvenne, come vedremo, il 3 di novembre ; ' Vedi Epistolario, voi. II, pag. 348, 349.

  • Vedi Lettera inedita nell' Opinione letteraria del 19 otto-

bre 1882. [p. 280 modifica]280 CAPITOLO XIV. poiché questi, scrivendo il 27 dicembre al Brighenti, gli domandava : < Hai tu mai pubblicato il libretto de' miei Versi ? >

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Ai primi di luglio Giacomo aveva, con sua grande sodisfazione, terminato e spedito a Milano tutto il la- voro sul Petrarca ; e sperava di essersi con ciò libe- rato per sempre da quel genere di lavori pedanteschi ; ma l'amico editore, senza aspettare che il Petrarca fosse finito di pubblicare, gli propose un lavoro an- che più pedantesco e più grave, un compendio del Cinonio. Il Leopardi lasciò capire che non lo faceva volentieri, ma che era rassegnato a farlo, a condizione però che il libro uscisse senza il suo nome; se non clie, messosi all'opera, per vedere di che si trattava, e persuasosi che voler rifondere e perfezionare il Ci- nonio, come egli e l'editore si erano proposti, era cosa impossibile, si dichiarò incapace dell'impresa, e suggerì senz'altro allo Stella di ristampare il Cinonio tal quale come era nella edizione dei Classici italiani. Naturalmente il Leopardi aveva bisogno di segui- tare a lavorare per lo Stella, mancandogli ogni altro mezzo di guadagno per mantenersi fuori di casa, e non potendo sperare nessun assegno dai suoi. Nel gennaio del 182G essendo rimasto vacante un benefizio ecclesiastico nella famiglia Leopardi, Mo- naldo aveva offerto a Giacomo di conferirlo a lui ; ed egli io avrebbe accettato, so avesse potuto otte- nere la dispensa dall'obbligo di leggere l'ullizio divino di vestire da prete. Saputo che non si i)otova, vi rinunciò. Agli impieghi oramai era inutile pensare. Co8Ìcch(> unica via di salvezza al poeta, per non es- Kcre obbligato a tornare a rinchiudersi in Recanati, era procurare di conservarsi l'assegno dello Stella. Perciò, finito il Petrarca e tramontato il Cinonio, gli [p. 281 modifica]SEMPRE A BOLOGNA. 281 propose altri lavori; un'antologia della prosa itdiana, in due volumi, e un dizionario filosofico filologico, pel quale diceva d'aver pronto molto materiale nello Zibal- done. L'editore accettò le proposte, rimanendo inteso che, se al Leopardi nello scrivere il dizionario venisse fatto qualche articolo che gli paresse opportuno per il Bicoglitorc, glie lo avrebbe mandato. Otìrendo a Giacomo il benefizio ecclesiastico, Mo- naldo aveva profittato della occasione per tentare di ricondurre nel grembo della Chiesa la pecorella smar- rita. — Chi sa che il miraggio di una grande ambi- zione sodisfatta non potesse indurre il figlio suo ad abbracciare la carriera ecclesiastica ! — E infatuatosi in questa idea, gli magnificò, con la lettera che allora gli scrisse, i vantaggi che avrebbe ottenuti, i meriti che avrebbe acquistati, se, fattosi prete, avesse spie- gato arditamente la bandiera della Chiesa. < Voi con questo atto, arrivò a dirgli, fareste forse più che non fecero isolatamente i martiri con lo spargimento del loro sangue. > ' Giacomo rispose che provava per lo stato ecclesiastico tale ripuynanza che quasi lo assicu- rava di non esservi chiamato.- Anche il Giordani, mosso da ragioni diverse, aveva, come s'è veduto, proposto una volta a Giacomo di farsi prete ; ed ei non ne volle sapere. Vestirsi prete voleva dire rinnegare tutta la vita intellettuale da lui vissuta fino allora, sopprimere le Operette morali, ab- dicare a sé stesso. Oh no ! Quel po' di vita che gli re- stava, sia pure ch'egli dovesse viverla sempre infeli- cissimamente, relegato per sempre nel selvaggio suo borgo, egli voleva viverla libero e ardito, protestando contro le occulte potenze che glie l'avevano data, che condannavano tutto il genere umano innocente alla infelicità. Egli voleva essere nel mondo ciò che natura

  • Lettere scritte a Giacomo Leopardi dai suoi parenti, ■psi^. 153.

' Vedi Epistolario, voi. II, pag. 81. [p. 282 modifica]282 CAPITOLO XIV. lo aveva fatto, un ribelle contro la stessa sua madre. Era brutto, era gobbo ; sapeva che la società, le donne specialmente, non perdonano questa disgrazia, e amava appassionatamente la bellezza femminile. Non importa; si sentiva moralmente bello, intellettualmente grande ; e se si fosse adattato a coprire la deformità delle spalle con la mantellina del prelato, si sarebbe sentito mo- ralmente e intellettualmente piccolo e brutto. Accennai le ragioni che avevano impedito a Gia- como di mantenere le promesse fatte ripetutamente ai suoi, di andare presto a trovarli. A quelle ragioni se n'era poi, come sappiamo, aggiunta un'altra, la relazione con la Malvezzi, le cui conversazioni riem- pivano tanta parte della sua giornata. Ai primi d'ago- sto andò a fare un giro per la Romagna, invitato e quasi forzato dal marchese Antonio Cavalli, amico suo, a vedere le antichità di Ravenna. Profittando di quella occasione, adempì un incarico datogli dal pa- dre, di cercare una giovane con buona dote che po- tesse entrare in casa loro, sposa, s' intende, di Carlo, •il cui nome non è fatto tuttavia nelle lettere; ma come non aveva fino allora trovato niente in Bolo- gna, non trovò niente in Romagna. Forse fu bene, perchè Carlo non era uomo da prendere a occhi chiusi una moglie datagli dai genitori. La Mariuccia Antici si era maritata, ed egli ora forse non ci pensava pia; ma la sposa mostrò poi col fatto elio voleva sceglier- sela da so. La Romagna piacque infinitamente a Giacomo, an- che perchè vi ebbe, corno scrisse alla Paolina, acco- glienze festose. Tornato a Bologna, non c'erano piiì ragioni d'in- dugiare la sua partenza per Recanati. Agli ultimi di settembre e ai primi d'ottobre scrìsse ripetutamente a Carlo, facendogli animo e annunziandogli prossimo il suo ritorno. £ il 18 ottobre scrisse allo Stella che, se non gli dispiaceva, sarebbe andato a passare l'in[p. 283 modifica]SEMPRE A BOLOGNA. 283 verno a Recanati, dove avrebbe potuto attendere al lavoro della antologia più facilmente che a Bologna. Lo Stella gli rispose che andasse pure; e così Gia- como il 1° di novembre scrisse al padre che fra due giorni sarebbe partito; ma che, per diminuirsi la noia e l'incomodo del viaggio, si sarebbe venuto fermando per la strada; onde non stesse in pena se non arri' vava subito.^ Prima di dare questo annunzio, Giacomo aveva ri- cevuta una lettera dal padre, con la data 18 ottobre, che gli diceva : < Sono oramai quindici mesi che state fuori di casa, e avete viaggiato, e vi siete mantenuto senza il concorso mio. Dovete conoscere il mio cuore, e potete dedurne quanto dolore mi abbia arrecato il non provvedere alli vostri bisogni, o anche alli vostri piaceri; e se pur voi non avevate bisogno del mio concorso, io avevo bisogno e desiderio ardentissimo di dimostrarvi frequentemente il mio tenerissimo affetto. I tempi però veramente funesti, ma più di tutti mamma vostra che, come sapete, mi tiene non solamente in dieta, ma in un perfetto digiuno, mi hanno costretto ad un contegno, riprovato prima di tutto dal mio cuore, e poi dalla equità e quasi dalla convenienza. Nulladimeno son vivo e, quantunque alla lontana come di cosa ormai prescritta, pure ho memoria che sono il padrone di casa mia. Se nulla vi occorre, tanto meglio ; ma se vi bisogna denaro per il viaggio, e per pagare qualche debituccio, o comunque, ditelo all'orecchio al padre e amico vostro. Se niente vo- lete, scrivetemi come se io non vi avessi scritto di ciò, perchè le vostre lettere si leggono in famiglia; se poi volete, ditemi liberamente quanto, e dirigete la lettera al signor Giorgio Felini, Recanati. Mi avete inteso. >"' ' Vedi Ejjistolario, voi. II, pag. 17G. ^ Lettera scritte a G. Leopardi dai suoi parenti, pag. 202, 203. [p. 284 modifica]284 CAPITOLO XIV. — SEMPEE A BOLOGNA. Questa lettera fa onore al cuore di Monaldo. Pover uomo ! Per compiere un' opera buona, anzi do- verosa di padre, doveva ricorrere a dei sotterfugi, come un figlio di famiglia scapestrato e interdetto, che vuole pagare un debito di giuoco o i favori di una ballerina. Giacomo rispose non facendo parola della profferta di denaro, e Monaldo capì che non aveva bisogno di niente. Prima di partire, il poeta dovè naturalmente fare le sue dipartenze con la Malvezzi, le quali dobbiamo credere che fossero affettuose e cortesi. La loro rela- zione durava oramai da cinque o sei mesi ; e non c'è ragione di dubitare che si fosse in questo tempo rallentata, o raffreddata. Non sappiamo se nelle con- versazioni ultime seguitassero, come nelle prime, a confidarsi tutti i loro segreti, a riprendersi, ad avvi- sarsi dei loro difetti ; se la contessa piangesse quando il poeta le leggeva gli scritti suoi, se il poeta fosse largo di lodi agli scritti di lei, che allora gli dove- vano piacere. Ad ogni modo non mancò certo materia di discorso a quelle loro eterne conversazioni; e se la contessa ne provò talora un po' di stanchezza, non pare no desse segno. Chi sa quanto cose in quei lunghi colloqui usci- rono dalla l)0cca del Leopardi, che avrebbero vivo interesse per noi! Peccato che la traduttrice di Cicerone non avesse la felice idea di tenerne ricordo. Quei ri- cordi avrebbero raccomandato il nome di lei alla po- sterità meglio di tutto lo altro suo opere. Congedandosi dalla gentile amica, Giacomo portò con so la promessa ch'ella gli avrebbe scritto non poche lettere; ma le lettere, vedremo, si fecero inu- tilmente Aspettare.