Adelchi (1881)/Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto

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ATTO QUARTO





SCENA PRIMA.


Giardino nel monastero di San Salvatore in Brescia.


ERMENGARDA, sostenuta da due DONZELLE, ANSBERGA.


                      ermengarda.
         Qui sotto il tiglio, qui.
                 (s’adagia sur un sedile)
                                 Come è soave
Questo raggio d’april! come si posa
Sulle frondi nascenti! Intendo or come
Tanto ricerchi il sol colui, che, d’anni
Carco, fuggir sente la vita!
                      (alle DONZELLE)
                                    A voi
Grazie, a voi, che, reggendo il fianco infermo,
Pago feste l’amor ch’oggi mi prese
Di circondarmi ancor di queste aperte
Aure, ch’io prime respirai, del Mella;
Sotto il mio cielo di sedermi, e tutto
Vederlo ancor, fin dove il guardo arriva.
- Dolce sorella, a Dio sacrata madre,
Pietosa Ansberga!
(le porge la mano: le DONZELLE si ritirano: ANSBERGA siede.)
                         - Di tue cure il fine
S’appressa, e di mie pene. Oh! con misura
Le dispensa il Signor. Sento una pace
Stanca, foriera della tomba: incontro
L’ora di Dio più non combatte questa
Mia giovinezza doma; e dolcemente,
Più che sperato non avrei, dal laccio
L’anima, antica nel dolor, si solve.
L’ultima grazia ora ti chiedo: accogli
Le solenni parole, i voti ascolta
Della morente, in cor li serba, e puri
Rendili un giorno a quei ch’io lascio in terra.
- Non turbarti, o diletta: oh! non guardarmi

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Accorata così. Di Dio, nol vedi?,
Questa è pietà. Vuoi che mi lasci in terra
Pel dì che Brescia assaliran? per quando
Un tal nemico appresserà? che a questo
Ineffabile strazio Ei qui mi tenga?

                       ansberga.
Cara infelice, non temer: lontane
Da noi son l’armi ancor: contra Verona,
Contra Pavia, de’ re, dei fidi asilo,
Tutte le forze sue quell’empio adopra;
E, spero in Dio, non basteranno. Il nostro
Nobil cugin, l’ardito Baudo, il santo
Vescovo Ansvaldo, a queste mura intorno
Del Benaco i guerrieri e delle valli
Han radunati; e immoti stanno, accinti
A difesa mortal. Quando Verona
Cada e Pavia (Dio, nol consenti!) un novo
Lungo conflitto...

                       ermengarda.
                           Io nol vedrò: disciolta
Già d’ogni tema e d’ogni amor terreno,
Dal rio sperar, lunge io sarò; pel padre
Io pregherò, per quell’amato Adelchi,
Per te, per quei che soffrono, per quelli
Che fan soffrir, per tutti. - Or tu raccogli
La mia mente suprema. Al padre, Ansberga,
Ed al fratel, quando li veda - oh questa
Gioia negata non vi sia! - dirai
Che, all’orlo estremo della vita, al punto
In cui tutto s’obblia, grata e soave
Serbai memoria di quel dì, dell’atto
Cortese, allor che a me tremante, incerta
Steser le braccia risolute e pie,
Nè una reietta vergognar; dirai
Che al trono del Signor, caldo, incessante,
Per la vittoria lor stette il mio prego;
E s’Ei non l’ode, alto consiglio è certo
Di pietà più profonda; e ch’io morendo
Gli ho benedetti. - Indi, sorella.... oh! questo
Non mi negar.... trova un Fedel che possa,
Quando che sia, dovunque, a quel feroce
Di mia gente nemico approssimarsi....

                       ansberga.
Carlo!

                       ermengarda.
               Tu l’hai nomato: e sì gli dica:
Senza rancor passa Ermengarda: oggetto

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D’odio in terra non lascia, e di quel tanto
Ch’ella sofferse, Iddio scongiura, e spera
Ch’Egli a nessun conto ne chieda, poi
Che dalle mani sue tutto ella prese.
Questo gli dica, e.... se all’orecchio altero
Troppo acerba non giunge esta parola....
Ch’io gli perdono. - Lo farai?

                       ansberga.
                                         L’estreme
Parole mie riceva il ciel, siccome
Queste tue mi son sacre.

                       ermengarda.
                                 Amata! e d’una
Cosa ti prego ancor: della mia spoglia,
Cui mentre un soffio l’animò, sì larga
Fosti di cure, non ti sia ribrezzo
Prender l’estrema; e la componi in pace.
Questo anel che tu vedi alla mia manca,
Scenda seco nell’urna: ei mi fu dato
Presso all’altar, dinanzi a Dio. Modesta
Sia l’urna mia: - tutti siam polve: ed io
Di che mi posso gloriar? - ma porti
Di regina le insegne: un sacro nodo
Mi fe’ regina: il don di Dio, nessuno
Rapir lo puote, il sai: come la vita,
Dee la morte attestarlo.

                       ansberga.
                               Oh! da te lunge
Queste memorie dolorose! - Adempi
Il sagrifizio; odi: di questo asilo,
Ove ti addusse pellegrina Iddio,
Cittadina divieni; e sia la casa
Del tuo riposo tua. La sacra spoglia
Vesti, e lo spirto seco, e d’ogni umana
Cosa l’obblio.

                       ermengarda.
                       Che mi proponi, Ansberga?
Ch’io mentisca al Signor! Pensa ch’io vado
Sposa dinanzi a Lui; sposa illibata,
Ma d’un mortal. - Felici voi! felice
Qualunque, sgombro di memorie il core
Al Re de’ regi offerse, e il santo velo
Sovra gli occhi posò, pria di fissarli
In fronte all’uom! Ma - d’altri io sono.

                       ansberga.
                                               Oh mai
Stata nol fossi!

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                       ermengarda.
                       Oh mai! ma quella via,
Su cui ci pose il ciel, correrla intera
Convien, qual ch’ella sia, fino all’estremo.
- E, se all’annunzio di mia morte, un novo
Pensier di pentimento e di pietade
Assalisse quel cor? Se, per ammenda
Tarda, ma dolce ancor, la fredda spoglia
Ei richiedesse come sua, dovuta
Alla tomba real? - Gli estinti, Ansberga,
Talor de’ vivi son più forti assai.

                       ansberga.
Oh! nol farà.

                       ermengarda.
                      Tu pia, tu poni un freno
Ingiurioso alla bontà di Lui,
Che tocca i cor, che gode, in sua mercede,
Far che ripari, chi lo fece, il torto?

                       ansberga.
No, sventurata, ei nol farà. - Nol puote.

                       ermengarda.
Come? perchè nol puote?

                       ansberga.
                                  O mia diletta,
Non chieder oltre; obblia.

                       ermengarda.
                                 Parla! alla tomba
Con questo dubbio non mandarmi.

                       ansberga.
                                         Oh! l’empio
il suo delitto consumò.

                       ermengarda.
                                Prosegui!

                       ansberga.
Scaccialo al tutto dal tuo cor. Di nuove
Inique nozze ei si fe’ reo: sugli occhi
Degli uomini e di Dio, l’inverecondo,
Come in trionfo, nel suo campo ei tragge
Quella Ildegarde sua...
                   (ERMANGARDA sviene)
                               Tu impallidisci!
Ermengarda! non m’odi? Oh ciel! sorelle,
Accorrete! oh che feci!
     (entrano le due DONZELLE e varie SUORE)

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                               Oh! chi soccorso
Le dà? Vedete: il suo dolor l’uccide.

                       prima suora.
Fa core; ella respira.

                      seconda suora.
                            O sventurata!
A questa età, nata in tal loco, e tanto
Soffrir!

                      una donzella.
              Dolce mia donna!

                      prima suora.
                                Ecco le luci
Apre.

                       ansberga.
             Oh che sguardo! Ciel! che fia?

                       ermengarda.
                        (in delirio)
                                              Scacciate
Quella donna, o scudieri! Oh! non vedete
Come s’avanza ardimentosa, e tenta
Prender la mano al re?

                       ansberga.
                               Svegliati: oh Dio!
Non dir così; ritorna in te; respingi
Questi fantasmi; il nome santo invoca.

                       ermengarda.
                        (in delirio)
Carlo! non lo soffrir: lancia a costei
Quel tuo sguardo severo. Oh! tosto in fuga
Andranne: io stessa, io sposa tua, non rea
Pur d’un pensiero, intraveder nol posso
Senza tutta turbarmi. - Oh ciel! che vedo?
Tu le sorridi? Ah no! cessa il crudele
Scherzo; ei mi strazia, io nol sostengo. - O Carlo,
Farmi morire di dolor, tu il puoi;
Ma che gloria ti fia? Tu stesso un giorno
Dolor ne avresti. - Amor tremendo è il mio.
Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora
Non tel mostrai; tu eri mio: secura
Nel mio gaudio io tacea; nè tutta mai
Questo labbro pudico osato avria
Dirti l’ebbrezza del mio cor segreto.
- Scacciala, per pietà! Vedi; io la temo,
Come una serpe: il guardo suo m’uccide.
- Sola e debol son io: non sei tu il mio

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Unico amico? Se fui tua, se alcuna
Di me dolcezza avesti... oh! non forzarmi
A supplicar così dinanzi a questa
Turba che mi deride.... Oh cielo! ei fugge!
Nelle sue braccia!.... io muoio!....

                       ansberga.
                                         Oh! mi farai
Teco morir!

                       ermengarda.
                        (in delirio)
                    Dov’è Bertrada? io voglio
Quella soave, quella pia Bertrada!
Dimmi, il sai tu? tu, che la prima io vidi,
Che prima amai di questa casa, il sai?
Parla a questa infelice: odio la voce
D’ogni mortal; ma al tuo pietoso aspetto,
Ma nelle braccia tue sento una vita,
Un gaudio amaro che all’amor somiglia.
- Lascia ch’io ti rimiri, e ch’io mi segga
Qui presso a te; son così stanca! Io voglio
Star presso a te; voglio occultar nel tuo
Grembo la faccia, e piangere: con teco
Piangere io posso! Ah non partir! prometti
Di non fuggir da me, fin ch’io mi levi
Inebbriata dal mio pianto. Oh! molto
Da tollerarmi non ti resta: e tanto
Mi amasti! Oh quanti abbiam trascorsi insieme
Giorni ridenti! Ti sovvien? varcammo
Monti, fiumi e foreste; e ad ogni aurora
Crescea la gioia del destarsi. Oh giorni!
No, non parlarne per pietà! Sa il cielo
S’io mi credea che in cor mortal giammai
Tanta gioia capisse e tanto affanno!
Tu piangi meco! Oh consolar mi vuoi?
Chiamami figlia: a questo nome io sento
Una pienezza di martir, che il core
M’inonda, e il getta nell’obblio.
                         (ricade)

                       ansberga.
                                           Tranquilla
Ella moria!

                       ermengarda.
                        (in delirio)
                    Se fosse un sogno! e l’alba
Lo risolvesse in nebbia! e mi destassi
Molle di pianto ed affannosa; e Carlo
La cagion ne chiedesse, e, sorridendo,
Di poca fè mi rampognasse!
                       (ricade nel letargo)

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                       ansberga.
                                         O Donna
Del ciel, soccorri a questa afflitta!

                     prima suora.
                                             Oh! vedi:
Torna la pace su quel volto; il core
Sotto la man più non trabalza.

                       ansberga.
                                           O suora!
Ermengarda! Ermengarda!

                       ermengarda.
                        (riavendosi)
                                   Oh! Chi mi chiama?

                       ansberga.
Guardami; io sono Ansberga: a te d’intorno
Stan le donzelle tue, le suore pie,
Che per la pace tua pregano.

                       ermengarda.
                                   Il cielo
Vi benedica. - Ah! sì: questi son volti
Di pace e d’amistà. - Da un tristo sogno
Io mi risveglio.

                       ansberga.
                      Misera! travaglio
Più che ristoro ti recò sì torba
Quiete.

                       ermengarda.
                È ver: tutta la lena è spenta.
Reggimi, o cara; e voi, cortesi, al fido
Mio letticciol traetemi: l’estrema
Fatica è questa che vi do; ma tutte
Son contate lassù. - Moriamo in pace.
Parlatemi di Dio: sento ch’Ei giunge.

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                      CORO.

   Sparsa le trecce morbide
Sull’affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo cercando il ciel.

   Cessa il compianto: unanime
S’innalza una preghiera:
Calata in su la gelida
Fronte, una man leggiera
Sulla pupilla cerula
Stende l’estremo vel.

   Sgombra, o gentil, dall’ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all’Eterno un candido
Pensier d’offerta, e muori:
Fuor della vita è il termine
Del lungo tuo martir.

   Tal della mesta, immobile
Era quaggiuso il fato:
Sempre un obblio di chiedere
Che le saria negato;
E al Dio de’ santi ascendere
Santa del suo patir.

   Ahi! nelle insonni tenebre,
Pei claustri solitari,
Tra il canto delle vergini,
Ai supplicati altari,
Sempre al pensier tornavano
Gl’irrevocati dì;

   Quando ancor cara, improvida
D’un avvenir mal fido,
Ebbra spirò le vivide
Aure del Franco lido,
E tra le nuore Saliche
Invidiata uscì:

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   Quando da un poggio aereo,
Il biondo crin gemmata,
Vedea nel pian discorrere
La caccia affaccendata,
E sulle sciolte redini
Chino il chiomato sir;

   E dietro a lui la furia
De’ corridor fumanti;
E lo sbandarsi, e il rapido
Redir de’ veltri ansanti;
E dai tentati triboli
L’irto cinghiale uscir;

   E la battuta polvere
Riga di sangue, colto
Dal regio stral: la tenera
Alle donzelle il volto
Volgea repente, pallida
D’amabile terror.

   Oh Mosa errante! oh tepidi
Lavacri d’Aquisgrano!
Ove, deposta l’orrida
Maglia, il guerrier sovrano
Scendea del campo a tergere
Il nobile sudor!

   Come rugiada al cespite
Dell’erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;

   Tale al pensier, cui l’empia
Virtù d’amor fatica,
Discende il refrigerio
D’una parola amica,
E il cor diverte ai placidi
Gaudii d’un altro amor.

   Ma come il sol che reduce
L’erta infocata ascende,
E con la vampa assidua
L’immobil aura incende,
Risorti appena i gracili
Steli riarde al suol;

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   Ratto così dal tenue
Obblio torna immortale
L’amor sopito, e l’anima
Impaurita assale,
E le sviate immagini
Richiama al noto duol.

   Sgombra, o gentil, dall’ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all’Eterno un candido
Pensier d’offerta, e muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,

   Altre infelici dormono,
Che il duol consunse; orbate
Spose dal brando, e vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.

   Te, dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l’offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,

   Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.

   Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com’era allor che improvida
D’un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea. Così

   Dalle squarciate nuvole
Si svolge il sol cadente,
E, dietro il monte, imporpora
Il trepido occidente;
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.

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SCENA II.


Notte. Interno d’un battifredo sulle mura di Pavia.

Un’armatura nel mezzo.


GUNTIGI, AMRI.


                       guntigi.
Amri, sovvienti di Spoleti?

                        amri.
                                  E posso
Obbliarlo, signor?

                       guntigi.
                       D’allor che, morto
Il tuo signor, solo, dai nostri cinto,
Senza difesa rimanesti? Alzata
Sul tuo capo la scure, un furibondo
Già la calava; io lo ritenni: ai piedi
Tu mi cadesti, e ti gridasti mio.
Che mi giuravi?

                        amri.
                     Ubbidienza e fede
Fino alla morte. - O mio signor, falsato
Ho il giuro mai?

                       guntigi.
                       No; ma l’istante è giunto
Che tu lo illustri con la prova.

                        amri.
                                        Imponi.

                       guntigi.
Tocca quest’armi consacrate, e giura
Che il mio comando eseguirai; che mai,
Nè per timor nè per lusinghe, fia,
Mai, dal tuo labbro rivelato.

                        amri.
                (ponendo le mani sull’armi)
                                     Il giuro:
E se quandunque mentirò, mendico
Andarne io possa, non portar più scudo,
Divenir servo d’un Romano.

                       guntigi.
                                      Ascolta.
A me commessa delle mura, il sai,
È la custodia; io qui comando, e a nullo
Ubbidisco che al re. Su questo spalto

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Io ti pongo a vedetta, e quindi ogn’altro
Guerriero allontanai. Tendi l’orecchio,
E osserva al lume della luna; al mezzo
Quando la notte fia, cheto vedrai
Alle mura un armato avvicinarsi:
Svarto ei sarà.... Perchè così mi guardi
Attonito? egli è Svarto, un che tra noi
Era da men di te; che ora tra i Franchi
In alto sta, sol perchè seppe accorto
E segreto servir. Ti basti intanto,
Che amico viene al tuo signor costui.
Col pomo della spada in sullo scudo
Sommessamente ei picchierà: tre volte
Gli renderai lo stesso segno. Al muro
Una scala ei porrà: quando fia posta,
Ripeti il segno; ei saliravvi: a questo
Battifredo lo scorgi, e a guardia ponti
Qui fuor: se un passo, se un respiro ascolti,
Entra ed avvisa.

                        amri.
                     Come imponi, io tutto
Farò.

                       guntigi.
           Tu servi a gran disegno, e grande
Fia il premio.
                      (AMRI parte)



SCENA III.


                       guntigi.
                   Fedeltà? - Che il tristo amico
Di caduto signor, quei che, ostinato
Nella speranza, o irresoluto, stette
Con lui fino all’estremo, e con lui cadde,
Fedeltà! fedeltà! gridi, e con essa
Si consoli, sta ben. Ciò che consola,
Creder si vuol senza esitar. - Ma quando
Tutto perder si puote, e tutto ancora
Si può salvar; quando il felice, il sire
Per cui Dio si dichiara, il consacrato
Carlo un messo m’invia, mi vuole amico,
M’invita a non perir, vuol dalla causa
Della sventura separar la mia....
A che, sempre respinta, ad assalirmi
Questa parola fedeltà ritorna,
Simile all’importuno? e sempre in mezzo

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De’ miei pensier si getta, e la consulta
Ne turba? - Fedeltà! Bello è con essa
Ogni destin, bello il morir. - Chi ’l dice?
Quello per cui si muor. - Ma l’universo
Seco il ripete ad una voce, e grida
Che, anco mendico e derelitto, il fido
Degno è d’onor, più che il fellon tra gli agi
E gli amici. - Davver? Ma, s’egli è degno,
Perché è mendico e derelitto? E voi
Che l’ammirate, chi vi tien che in folla
Non accorriate a consolarlo, a fargli
Onor, l’ingiurie della sorte iniqua
A ristorar? Levatevi dal fianco
Di que’ felici che spregiate, e dove
Sta questo onor fate vedervi: allora
Vi crederò. Certo, se a voi consiglio
Chieder dovessi, dir m’udrei: rigetta
L’offerte indegne; de’ tuoi re dividi,
Qual ch’ella sia, la sorte. - E perchè tanto
A cor questo vi sta? Perchè, s’io cado,
Io vi farò pietà; ma se, tra mezzo
Alle rovine altrui, ritto io rimango,
Se cavalcar voi mi vedrete al fianco
Del vincitor che mi sorrida, allora
Forse invidia farovvi; e più v’aggrada
Sentir pietà che invidia. Ah! non è puro
Questo vostro consiglio. - Oh! Carlo anch’egli
In cor ti spregerà. - Chi ve l’ha detto?
Spregia egli Svarto, un uom di guerra oscuro,
Che ai primi gradi alzò? Quando sul volto
Quel potente m’onori, il core a voi
Chi ’l rivela? E che importa? Ah! voi volete
Sparger di fiele il nappo a cui non puote
Giungere il vostro labbro. A voi diletta
Veder grandi cadute, ombre d’estinta
Fortuna, e favellarne, e nella vostra
Oscurità racconsolarvi: è questo
Di vostre mire il segno: un più ridente
Splende alla mia; nè di toccarlo il vostro
Vano clamor mi riterrà. Se basta
I vostri plausi ad ottener, lo starsi
Fermo alle prese col periglio, ebbene,
Un tremendo io ne affronto; e un dì saprete
Che a questo posto più mestier coraggio
Mi fu, che un giorno di battaglia in campo.
Perchè, se il rege, come suol talvolta,
Visitando le mura, or or qui meco
Svarto trovasse a parlamento, Svarto,
Un di color, ch’ei traditori, e Carlo

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Noma Fedeli.... oh! di guardarsi indietro
Non è più tempo: egli è destin, che pera
Un di noi due; far deggio in modo, o Veglio,
Ch’io quel non sia.


SCENA IV.


GUNTIGI, SVARTO, AMRI.


                       svarto.
                         Guntigi!

                       guntigi.
                                       Svarto!
                        (ad AMRI)
                                              Alcuno
Non incontrasti?

                        amri.
                      Alcun.

                       guntigi.
                               Qui intorno veglia.
                     (AMRI parte.)

SCENA V.


GUNTIGI, SVARTO.


                       svarto.
Guntigi, io vengo, e il capo mio commetto
Alla tua fede.

                       guntigi.
                    E tu n’hai pegno; entrambi
Un periglio corriamo.

                       svarto.
                          E un premio immenso
Trarne, sta in te. Vuoi tu fermar la sorte
D’un popolo e la tua?

                      guntigi.
                          Quando quel Franco
Prigion condotto entro Pavia, mi chiese
Di segreto parlar, messo di Carlo
Mi si scoverse, e in nome suo mi disse
Che l’ira di nemico a volger pronto

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In real grazia egli era, e in me speranza
Molta ponea; che ogni mio danno avria
Riparato da re; che tu verresti
A trattar meco; io condiscesi: un pegno
Chiese da me; tosto de’ Franchi al campo
Nascosamente il mio figliuol mandai
Messo insieme ed ostaggio: e certo ancora
Del mio voler non sei? Fermo è del pari
Carlo nel suo?

                       svarto.
                     Dubbiar ne puoi?

                       guntigi.
                                          Ch’io sappia
Ciò ch’ei desia, ciò ch’ei promette. Ei prese
La mia cittade, e ne fe’ dono altrui;
Nè resta a me che un titol vano.

                       svarto.
                                            E giova
Che dispogliato altri ti creda, e quindi
Implacabile a Carlo. Or sappi; il grado
Che già tenesti, tu non l’hai lasciato
Che per salir. Carlo a’ tuoi pari dona
E non promette: Ivrea perdesti; il Conte,
Prendi,
                   (gli porge un diploma)
       sei di Pavia.

                       guntigi.
                           Da questo istante
Io l’ufizio ne assumo; e fiane accorto
Dall’opre il signor mio. Gli ordini suoi
Nunziami, o Svarto.

                       svarto.
                          Ei vuol Pavia; captivo
Vuole in sua mano il re: l’impresa allora
Precipita al suo fin. Verona a stento
Chiusa ancor tiensi; tranne pochi, ognuno
Brama d’uscirne, e dirsi vinto: Adelchi
Sol li ritien; ma quando Carlo arrivi,
Vincitor di Pavia, di resistenza
Chi parlerà? L’altre città che sparse
Tengonsi, e speran nell’indugio ancora,
Cadon tutte in un dì, membra disciolte
D’avulso capo: i re caduti, è tolto
Ogni pretesto di vergogna: al duro

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Ostinato ubbidir manca il comando:
Ei regna, e guerra più non v’è.

                       guntigi.
                                       Sì, certo
Pavia gli è d’uopo; ed ei l’avrà: domani,
Non più tardi, l’avrà. Verso la porta
Occidental con qualche schiera ei venga:
Finga quivi un assalto; io questa opposta
Terrò sguernita, e vi porrò sol pochi
Miei fidi: accesa ivi la mischia, a questa
Ei corra; aperta gli sarà. - Ch’io, preso
Il re consegni al suo nemico, questo
Carlo da me non chieda; io fui vassallo
Di Desiderio, in dì felici, e il mio
Nome d’inutil macchia io coprirei.
Cinto di qua, di là, lo sventurato
Sfuggir non può.

                       svarto.
                      Felice me, che a Carlo
Tal nunzio apporterò! Te più felice,
Che puoi tanto per lui! - Ma dimmi ancora:
Che si pensa in Pavia? Quei che il crollante
Soglio reggere han fermo, o insieme seco
Precipitar, son molti ancora? o all’astro
Trionfator di Carlo i guardi alfine
Volgonsi e i voti? e agevol fia, siccome
L’altra già fu, questa vittoria estrema?

                       guntigi.
Stanchi e sfidati i più, sotto il vessillo
Stanno sol per costume: a lor consiglia
Ogni pensier di abbandonar cui Dio
Già da gran tempo abbandonò; ma in capo
D’ogni pensier s’affaccia una parola
Che gli spaventa: tradimento. Un’altra
Più saggia a questi udir farò: salvezza
Del regno; e nostri diverran: già il sono.
Altri, inconcussi in loro amor, da Carlo
Ormai nulla sperando....

                       svarto.
                                 Ebben, prometti:
Tutti guadagna.

                       guntigi.
                     Inutil rischio ei fia.
Lascia perir chi vuol perir: senz’essi
Tutto compir si può.

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                       svarto.
                         Guntigi, ascolta.
Fedel del Re de’ Franchi io qui favello
A un suo Fedel; ma Longobardo pure
A un Longobardo. I patti suoi, lo credo,
Carlo terrà; ma non è forse il meglio
Esser cinti d’amici? in una folla
Di salvati da noi?

                       guntigi.
                         Fiducia, o Svarto,
Per fiducia ti rendo. Il dì che Carlo
Senza sospetto regnerà, che un brando
Non resterà che non gli sia devoto....
Guardiamci da quel dì! Ma se gli sfugge
Un nemico, e respira, e questo novo
Regno minaccia, non temer che sia
Posto in non cal chi glielo diede in mano.

                       svarto.
Saggio tu parli e schietto. - Odi: per noi
Sola via di salute era pur quella
Su cui corriamo; ma d’inciampi è sparsa
E d’insidie: il vedrai. Tristo a chi solo
Farla vorrà. - Poi che la sorte in questa
Ora solenne qui ci unì, ci elesse
All’opera compagni ed al periglio
Di questa notte, che obbliata mai
Da noi non fia, stringiamo un patto, ad ambo
Patto di vita: Sulla tua fortuna
Io di vegliar prometto; i tuoi nemici
Saranno i miei.

                       guntigi.
                      La tua parola, o Svarto,
Prendo, e la mia ti fermo.

                       svarto.
                                In vita e in morte.

                       guntigi.
Pegno la destra.
      (gli porge la destra: Svarto la stringe)
                      Al re de’ Franchi, amico,
Reca l’omaggio mio.

                       svarto.
                         Doman!

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                       guntigi.
                                     Domani.
Amri!
                       (entra AMRI.)
       È sgombro lo spalto?

                        amri.
                                     È sgombro; e tutto
Tace d’intorno.

                       guntigi.
            (ad AMRI, accennando SVARTO)
                      Il riconduci.

                       svarto.
                                      Addio.



fine dell’atto quarto.