Alcesti (Euripide - Romagnoli)/Introduzione

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Introduzione

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Euripide - Alcesti (438 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Introduzione
Alcesti (Euripide - Romagnoli) Personaggi
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L’Alcesti è del 438. Già da 17 anni Euripide era sceso nell’agone dell’arte; ma i drammi di quel primo periodo son tutti andati perduti. E di fronte all’opera dei due predecessori onusti di gloria, questo dramma si presenta primo ad affermare l’arte del giovine ardito innovatore.

S’apre in modo solenne, e un po’ raro, come il Prometeo d’Eschilo, con un dialogo fra due creature soprannaturali. Ma di fronte alla coppia Potere-Efesto (e tanto piú di fronte all’altra di Atene e Ulisse, che apre l'Aiace), questa è anche piú solenne e suggestiva. Perché qui sono di fronte due creature che simboleggiano i due poli dell’essere: Apòlline, il Dio della luce, la vita; e Tànato, che col semplice tocco della sua spada dissolve nel nulla ogni forma creata. La simultanea presenza dei due Dèmoni in un luogo non è possibile. Qui vengono al cozzo, e dopo un duello, in cui le battute di Apollo, via via serene, insinuanti, supplici, animate, sdegnose, minacciose, insomma varie e ardenti come la vita, s’infrangono contro un tono unico, monotono, freddamente dialettico, come le onde sfavillanti al sole contro una muta negra roccia del mare, Apòlline riesce vinto, e deve allontanarsi. Tànato entra dominatore nella casa di Admeto. [p. 104 modifica]

Siamo stati dunque rapiti alle piú alte sfere della finzione mitica. Ma súbito poi, con un distacco brusco, si svolgono una serie di scene di perfetta umile umanità. Tutti i cittadini di Fere si raccolgono, pieni d’angoscia, dinanzi alla reggia, a chiedere notizie della moribonda Alcesti, la regina buona, la madre di tutto il popolo. Queste scene sono varie, ma ricevono impronta d’unità dal carattere di compianto, e sono disposte e proporzionate in guisa da formare una gran progressione. Incominciano le lamentele del popolo, simboleggiato dal coro, diviso in molte parti. Compiuta questa preparazione generica, esce dalla reggia un’ancella, che imprime alla doglia una direzione precisa e piú intensa, narrando gli ultimi momenti d’Alcesti. Alla sua partenza, il dolore del popolo, confermato ed aumentato, prorompe in accenti anche piú accorati, e prepara la terza parte, l’apparizione di Alcesti moribonda con lo sposo e i figliuoletti. Qui, col delirio, e poi le esortazioni e le preghiere d’Alcesti, e i disperati gemiti e le invocazioni e le proteste di Admeto, e le risposte del coro, con un’armoniosa mirabile pluralità di voci, la progressione sale al vertice massimo, segnato dalla morte d’Alcesti e dal pianto disperato del pargoletto Eumelo. Poi, come avviene sempre nelle opere d’arte dei Greci, i quali rifuggivano, tanto nel piano generale quanto nelle singole parti, dai finali bruschi, segue un’attenuazione. Dal culmine della commozione, una battuta del coro conduce ad una conclusione d’una tristezza infinita ma serena. Posta tregua al vano pianto, il re impartisce ordini perché la memoria di Alcesti sia degnamente onorata. Poi la salma è condotta via, la visione soave e straziante dilegua, e i suoi ultimi echi si perdono nelle note, di soavità divina, del peana funebre.

Il dramma sembra giunto al suo termine, sia nell’ordine convenzionale e canonico, perché con la morte del protagonista si chiudeva ordinariamente la tragedia, sia in un ordine [p. 105 modifica]superiore estetico, perché il pathos è giunto ad un vertice non piú superabile. E invece, continua. Come già è passato dal soprannaturale mitico alla tenerezza umana, cosí, con transizione altrettanto brusca, il poeta passa all’eroico. E ad un eroismo che contrasta con la parte precedente anche per il suo carattere giocondo. Arriva Ercole. E non già l’Ercole che vediamo nelle Trachinie e nell’Ercole furente, sul quale si addensano già le cupe ombre della follia e della morte; bensí Ercole nel fiore degli anni e della gloria, che affronta le prove soprannaturali gagliardamente, spavaldamente, senza neppur sospettare che a questo o a quel confine possa trovarsi la morte in agguato.

E sulle tristi soavi armonie, che ancora empiono l’aria del peana funebre, il suo arrivo è come un sonoro giocondo squillo di búccina tirrena. Il popolo, che lo adora, quasi dimentico, un istante, del suo lutto e del suo dolore, gli si affolla d’intorno, curioso di aver notizie della sua nuova impresa. Ed egli volentieri le offre. E alle esclamazioni di stupore e di sgomento, risponde con battute semischerzose, dalle quali riesce mirabilmente scolpito il carattere dell’eroe mediterraneo, nel quale il sostanziale profondo eroismo non si scompagna da una vena umoristica, che qualche volta sembra attingere i confini della spavalderia.

Questo gioioso eroismo si mortifica e si spenge a poco a poco, nel dialogo con Admèto. Le ultime vibrazioni se ne perdono con l’ingresso dell’eroe nella reggia; e subentra il commento del coro, che con l’aerea soavità dei metri e delle immagini, si collega, al di sopra dell’episodio drammatico, con le dolci nenie, ancora echeggianti nei cuori, del peana funebre.

Ed ecco un nuovo, repentino, inatteso e duro cambiamento, nel contrasto fra Admèto e Ferète su la salma di Alcesti condotta al sepolcro. Contrasto non propriamente tragico, e tanto meno sofistico. Contrasto drammatico, che non presuppone [p. 106 modifica]interventi soprannaturali, che non sfrutta risorse retoriche, ma sgorga dalla passione, e dalla passione deriva direttamente, uno per uno, gli accenti. Nel superstite teatro dei Greci, non ne troviamo un altro cosí violento, e cosí vero. Ed è, per quanto possiamo vedere, un colore nuovo.

Come nel primo episodio patetico, cosí qui la violenza drammatica è spinta ad un culmine quasi insostenibile. Qui piú che altrove occorreva abilità per distogliere lo spirito degli spettatori verso nuove orientazioni spirituali. Il poeta raggiunge questo scopo, prima di tutto con un espediente tecnico, se non assolutamente nuovo, certo assai raro: allontana il coro dall’orchestra, facendo che segua il corteo funebre d’Alcesti1. E, scancellata cosí ogni traccia dell’odiosa vicenda, e ottenuta la solitudine scenica, vi lancia arditamente l’episodio comico del servo e di Ercole.

Comico, nella prima parte, e di una comicità che, con l’arrivo di Ercole ubriaco, e col suo predicozzo al servo, rasenta il buffonesco. Ma anche qui, con trapasso che non è piú neanche transizione, ma urto bruschissimo, muta, anche una volta, colore. Basta un piccolo urto a spezzare una grande anfora, e a sperderne il contenuto. Ad una parola del servo, che svela infine la verità, i fumi del vino si dissipano d’un tratto, ed Ercole torna eroe, eroe come non l’avevamo finora visto, né piú mai lo vedremo, nel canto dei poeti. Le sue parole hanno una risonanza quasi soprannaturale2. E alle parole seguono, fulminei, i fatti. Ercole si avventa in corsa, per affrontare il Dio della morte. [p. 107 modifica]

Nuovo trapasso. E, con finissimo intuito, Euripide non cerca nuovi colori. Egli sa che perfino l’eccesso di varietà può ingenerare fastidio; e, d’altronde, col suo profondo intuito musicale, sa qual sigillo d’unità imprimano in qualsiasi opera gli opportuni richiami, di spiriti e di forme. E, qui, col ritorno di Admeto che geme, e del popolo che risponde, quasi litaniando, alle sue querele, abbiamo una ripresa di patetico, che riecheggia, anche in parte, per materiale estensione, generatrice di simmetria (245-415 = 861-1005), il primo episodio, della morte di Alcesti.

E dopo il richiamo patetico, ecco quello eroico, col ritorno d’Ercole, che riconduce Alcesti. E non è sottilizzare osservare che il richiamo è duplice, ai due colori che abbiamo veduti nell’eroismo di Ercole. All’umorismo del dialogo col coro, al suo primo arrivo, corrispondono le scherzose tergiversazioni onde l’eroe prepara Admèto alla visione della sposa rediviva. Ma nelle battute velocissime con cui taglia corto ai reiterati inviti del re, e s’incammina verso il mortal pericolo della nuova impresa, abbiamo un’eco del purissimo eroismo che sfolgora quando, dopo la scena col servo, si lancia ad affrontare il Dio della morte.

Sono ovvii ed antichi, e si rinnovano necessariamente in ogni lettore, il disgusto e il biasimo per l’egoismo e la viltà d’Admèto.

Egoismo e viltà che sono impliciti nella sostanza del mito. Ma Euripide si compiace a svilupparli, a metterne in piena luce ogni particolare. E le disperate ed insistenti querimonie d’Admèto, e la fanfaronaggine onde ogni momento minaccia di uccidersi, e rimane sempre in vita (durante i funerali pare che abbia fatta la commedia di volersi gittar nella fossa), [p. 108 modifica]rendono, o dovrebbero rendere addirittura insopportabile la sua figura.

Eppure, non è cosí. Al saggio inappellabile del reiterato esperimento scenico, Admèto riesce tollerabile. E la scena, disgustosa tanto alla considerazione logica quanto alla lettura, nella quale padre e figlio, rinfacciandosi a vicenda il loro egoismo, gracidano come due tristi corvi sui cadavere della vittima, è tra quelle che nella esecuzione riescono piú commoventi e costantemente coronate del piú fervido consenso.

È strano. E se ne ricerco la ragione, mi pare che non possa consistere se non in ciò, che tanto la psicologia d’Admèto quanto quella del padre hanno profonde radici nel vero. Anche nella vita esistono creature dotate di spirito di sacrificio (le piú, le veramente eroiche). Ma sono una povera minoranza. Un uomo qualsiasi della gran maggioranza, posto nella condizione d’Admèto, certo non farebbe a nessuno, e tanto meno a sé stesso, le ciniche dichiarazioni di Ferète: anzi pronuncerebbe parole belle come quelle d’Admèto, forse anche piú belle: magari, spinto da queste o quelle ragioni, potrebbe rifiutare il magnanimo sacrificio della donna; ma qualora seguisse l’intimo, il vero impulso, si comporterebbe, sia pure con gran lusso di eroiche e magnanime proteste, come il vituperato sposo d’Alcesti. Mutato nomine de te fabula narratur. E forse la segreta coscienza di questa trista fraternità, radicata, e, perciò, in parte attenuata, nella tirannica potenza dell’istinto vitale, impediscono che il nostro cuore esprima uno spietato verdetto di condanna, anche se le nostre labbra pronunciano le piú indignate proteste.

Questa spietata aderenza alla realtà, che, insomma, affascina il nostro animo, s’imponeva inesorabile, come abbiamo osservato, allo spirito e all’arte d’Euripide. Da essa dipende un tocco che sembra offuscare un po’ anche l’immacolato eroismo d’Alcesti. Essa dice allo sposo: [p. 109 modifica]

Io, piú che me, te caro avendo, a prezzo
del viver mio, la vita a te serbata,
muoio; e potevo non morir per te,
ma chi volessi sposo aver dei Tèssali,
e sovrana regnar nella mia casa.

I Francesi dicono che chi rinfaccia il beneficio perde il diritto alla gratitudine. E cosí, anche i rimproveri che la morente rivolge ai genitori d’Admeto, potevano essere risparmiati. Ma in fondo, questi nèi, ricordandoci, che, insomma, Alcesti è una creatura umana, e non soprannaturale, ne fanno anche piú risaltare l’eroismo. Ma è inutile aggiungere parole per esaltare una grandezza che per essere adorata non chiede che d’essere contemplata.

Non sarà invece superflua qualche parola su Ercole. Questa figura ha parecchi lati comici, e, in qualche punto buffoneschi. È vero. Ed è bene rilevarlo. Ma solo quando avremo affermato ben alto, contro a quanti hanno preteso gabellarlo personaggio da farsa, che nella sua essenza e nel complesso, questo Ercole è superbamente, puramente eroico. Al piú puro ed immacolato eroismo sono ispirati i suoi fatti e le sue parole nei momenti tragici e solenni. Che in altri momenti si dimostri semplice uomo, e schiavo delle umane debolezze, non vuol dir nulla. Anzi. Disse Leopardi che nessuno è meno filosofo di chi pretende seria e filosofica tutta la vita. E cosí, è molto sospetto l’eroe che non dismette in veruna circostanza il sussiego e la magniloquenza. Questa vena di comicità, che, del resto, s’era infiltrata nel carattere di Ercole per una tradizione assai lunga, era preziosa e caratteristica; e distingue nettamente Ercole, eroe tipico della stirpe mediterranea. Ma finora era stata sfruttata unicamente, per quanto almeno sappiamo, dalla commedia e dal dramma satiresco. È merito di Euripide averla accolta nella tragedia, e, unendola, con [p. 110 modifica]temperanza squisita, al vero eroismo, averne foggiata una figura che è la piú puramente eroica di tutto il teatro euripideo, e forse di tutto il teatro greco; e, certamente, la piú simpatica 3.

Dunque, una materia ricca e varia, disposta in tanti quadri che si succedono con gran libertà.

Nella scelta e nella disposizione di questi quadri, una evidente mira al contrasto fra l’uno e l’altro, sí che l’animo degli spettatori sia repentinamente trasportato in sfere di sensibilità lontane, e spesso opposte.

Una rinuncia assoluta alle forze soprannaturali come fattori drammatici. Anzi dal prologo vediamo che qui gli Dei non possono nulla: contro la morte, Apollo stesso è impotente. E cosí il prologo rimane perfettamente isolato, senza influsso su lo svolgimento, che si compie solo per effetto delle passioni umane, studiate con insistente spietata precisione di notomista.

E tra le forze umane ce n’è una che alla prova si mostra superiore alle soprannaturali: l’eroismo. Dove Apollo non può, Ercole può. Sotto la buccia della favola è facile scoprire una concezione profondamente filosofica. Né la riterremo casuale in un’opera del pensatore Euripide.

Una larga introduzione di elementi comici, che conferiscono varietà e agilità alla materia tragica, e la rendono aderente alla vita, e perciò d’interesse perenne, senza punto intaccarne la serietà essenziale.

Il coro sottratto alla concezione arcaica, risoluto nei suoi [p. 111 modifica]elementi, ridotto a popolo, intercalato con fusione perfetta nell’azione drammatica. E la conseguente riduzione delle parti in funzione lirica.

E delle parti liriche che permangono, è cercata, evidentissimamente, la giustificazione logica nell’economia drammatica. Il canto che segue all’allontanamento della salma d’Alcesti, è il peana funebre, a cui il re stesso ha invitato il coro, e che sarebbe stato intonato anche nella realtà. Lo stesso, su per giú, si può ripetere per l’altro canto che il coro intona, quando, dopo il diverbio fra padre e figlio, si avvia per accompagnare all’ultima dimora la salma della regina. E questo è sano e legittimo razionalismo.

Nella scena di carattere intimo fra Ercole e il servo, viene allontanato il coro, che avrebbe assunto quel carattere di importunità che tanto spesso ci offende in quasi tutti i drammi greci.

La morte di Alcesti avviene sotto gli occhi degli spettatori. Per quanto sappiamo, sulle scene ateniesi non s’era ancor visto. (Poco dopo, si sarebbe visto nell’Ippolito).

Manca la narrazione dell’araldo, che con Sofocle era divenuta canonica, e che era uno dei motivi prediletti d’Euripide. Dal lato della concezione drammatica, la sua assenza non costituisce certo difetto.

Manca, infine, completamente, il carattere sofistico, che macchia, quasi senza eccezione, gli altri drammi d’Euripide.

Questi, nell’affermazione e nella negazione, i tratti fondamentali e caratteristici dell’Alcesti. Nessuno è nuovo, tutti, uno per uno, potremmo trovarli in questo o in quello dei drammi anteriori. Ma non cosí raccolti in un solo dramma, né cosí abilmente e coscientemente armonizzati. Qui è la novità, qui la genialità d’Euripide; nell’esser giunto, su le basi della drammaturgia corrente, mediante intensificazioni ed esclusioni, ad una concezione drammatica d’una libertà e d’una [p. 112 modifica]freschezza stupende. Si pensa a Shakespeare. Ma ad uno Shakespeare sinfonista, le cui scene siano tutte dominate, dal taglio generale, ai piú minuti particolari, del divino spirito della musica, che effonde le sue aure, come un balsamo, sopra la successione degli episodii drammatici, a raddolcirne le asprezze, a saldarne i lembi, a fonderne i varii colori, con velature sapienti, in unità armoniosa.

Come già si disse, noi non conosciamo alcuno dei drammi precedenti di Euripide: questa Alcesti ci balza incontro agile e luminosa, come un vèlite e un araldo. Qui vediamo un artista giovine e ardimentoso, a cui la vita non ha consigliato ancora nessun compromesso e nessuna prudenza, incurante e sdegnoso della tradizione, elaborare la materia dell’arte con piena libertà, come gli detta l’estro, e, anche un po’, il capriccio. Altri lavori della maturità potranno superarlo per ricchezza di contenuto, per profondità, per magistero di tecnica: nessuno avrà piú quell’ineffabile fascino di freschezza e di vita. Di fronte ai drammi euripidei di grande stile, questa Alcesti, che rinuncia a quasi tutte le risorse di una tecnica tradizionale e sicura, per affidarsi unicamente alla sensibilità, alla passione, all’impressione, appare forse un po’ scarna, un po’ sommaria. Non sarà il capolavoro d’Euripide; ma certo fra i suoi drammi è quello che parla ancora piú vivamente, piú direttamente ai cuori moderni.

Si potrà certo discutere qualche particolare; ma per ogni intelletto non sofistico, per ogni sensibilità normale, che all’opera d’arte non chieda altro se non emozioni artistiche, questa e non altra deve essere l’interpretazione e la valutazione dell’Alcesti. Il verdetto di tanti pubblici, unanime per [p. 113 modifica]oltre un decennio, suffraga, se ve ne fosse bisogno, questa verità intuitiva4.

E allora, dileguano le mille aberrazioni e fantasticherie escogitate e scritte, dall’antichità sino ai dí nostri, intorno a questo capolavoro. E gioverebbe da un lato, per esse, come per tutti gl’ibridi prodotti della teratologia filologica, non piú riferirle, per non perpetuarle di libro in libro. Ma ai tempi che corrono, tale agnosticismo potrebbe essere interpretato come timore di affrontarne la gravità. Ne tolleri dunque, il lettore paziente, un brevissimo accenno.

Esiste un dato di fatto. Il secondo argomento dell’Alcesti, conservato nel codice vaticano 909, c’informa che il dramma occupava il quarto posto d’una tetralogia, dopo Le Cretesi, l’Alcmeóne a Psòfide, e il Tèlefo: il posto dunque, riserbato, per tradizione canonica, al dramma satiresco.

Troppo naturale, allora, che nelle menti razionalistiche e consequenziarie dei filologi sorgesse imperativo il dovere di trovare nel contenuto del dramma il motivo della collocazione.

E già l’autore stesso dell’argomento osservava che la conclusione era un po’ troppo comica5. E le variazioni su questo tèma furono innumerabili. E Voltaire, per citare il nome piú illustre, nel suo dizionario filosofico (Anciens et modernes), osservava che una scena come quella tra Ercole e il servo, presso i Francesi non si sarebbe tollerata neppure alla fiera: che sarà stato vero; e dimostra di che prosuntuosa ottusaggine fosse foderato il buon gusto, sedicente classico, della Francia [p. 114 modifica]d’allora. E lo Schoell, storico, ai suoi tempi famoso, della letteratura greca, sentenziava che l’Alcesti è una delle piú fiacche opere d’Euripide. E, per venire ai nostri giorni, lo Schoene la reputa una parodia dell’Alcesti di Frinico, che del resto non sappiamo, neppure a un dipresso, che cosa fosse6. E al Patin sembra che nessun altro dramma d’Euripide si avvicini quanto questo alla commedia, e che la figura di Ferete abbia carattere satirico7.

Ma non andiamo per le lunghe: a simili giudizi si uniforma essenzialmente, nell’ultima edizione, la storia della letteratura greca del Christ8, che oggi, e per molti lati a buon diritto, ha l’autorità d’un codice. Secondo il Christ, dunque, quanto alla forma, o, se preferiamo, alla gerarchia, l’Alcesti sarebbe un tentativo di sostituire al dramma satiresco una «commedia fiaba» di tipo siciliano. Il che significa che nel complesso l’Alcesti dovrebbe avere carattere burlesco. E messo al punto di scavizzolare questo carattere, il Christ caratterizza comica la concezione della debolezza e dell’egoismo d’Admèto (eine Jammerfigur); comica la esagerazione del suo sentimento d’ospitalità9: comica, anzi addirittura burlesca la [p. 115 modifica] conclusione10. E non si lascia scappare occasione di ribattere il suo chiodo. A proposito de Le Trachinie, annovera l’Alcesti fra i drammi satireschi e le commedie siciliana ed attica. E scarta l’opinione del Bloch, che propende a vedere nell’Alcesti una vera tragedia. E come conclusione al capitolo, afferma che la concezione sentimentale dell’argomento, come la troviamo nel libretto del Calzabigi per la musica di Gluck o nell’Alcesti di Wieland (poteva degnarsi di citare anche l’Alfieri) è affatto moderna.

E sta bene. Ma rendiamoci conto, ben chiaramente, delle conseguenze implicite in queste limitazioni. Euripide avrebbe concepita l’Alcesti come lavoro essenzialmente burlesco: poi, lavorando, gli sarebbe venuto fuori questo dramma, che non può proprio passare per un quissimile del Ciclope. Insomma, bisognerebbe capovolgere il famoso motto d’Orazio, e dire: urceus coepit institui, currente rota amphora exit.

Ma un’anfora un po’ incrinata: a picchiarla con le nocche, qua e là il suono riuscirebbe fesso.

E non potrebbe essere altrimenti. In questo lavoro, i colori serii e comici si sarebbero sovrapposti un po’ a caso, e non per effetto d’una concezione che volontariamente li riunisse ed armonizzasse per adeguare sempre meglio l’opera d’arte alla vita. Sicché, mancando la volontà disciplinatrice, non poteva risultarne che un prodotto ibrido. E ibrida sarebbe l'Alcesti nel giudizio conclusivo del Christ, perché accozza bruscamente un principio serio con una chiusa burlesca. Su questo carattere burlesco vorrei proprio sentir l’opinione degli innumerevoli spettatori, che a Pompei, quando Ercole scopre il viso della rediviva Alcesti, si trovarono con gli occhi molli di lagrime. [p. 116 modifica]

Questa concezione, a cui molti tuttavia accedono, è, come si vede, diametralmente opposta a quella che io ho derivata dall’esame del lavoro, e anche dagli esperimenti scenici. Ora, poiché entrambe sono, mi pare, lucidamente contrapposte, il lettore portà facilmente, dopo la diretta lettura, decidersi per l’una o per l’altra.

Ma qui vuol essere ancora ricordato, a titolo d’onore, il giudizio di Vittorio Alfieri.

Ecco le sue parole (Vita, epoca IV, cap. 26): «Fin dal ’96, quando stava leggendo, come io dissi, le traduzioni letterali, avendo già letto Omero ed Eschilo e Sofocle e cinque tragedie d’Euripide, giunto finalmente all’Alceste, di cui non aveva mai avuta notizia nessuna, fui sí colpito e intenerito e avvampato dai tanti affetti di quel sublime soggetto, che, dopo averla ben letta, scrissi su un fogliolino, che serbo, le seguenti parole: — Firenze, 18 gennaio 1796. Se io non avessi giurato a me stesso di non piú mai comporre tragedie, la lettura di questa Alceste di Euripide mi ha talmente toccato e infiammato, che cosí su due piedi mi accingerei caldo caldo a distendere la verseggiatura d’una nuova Alceste, in cui mi prevarrei di tutto il buono del greco, accrescendolo se sapessi, e scarterei il risibile, che non è poco nel testo — . E proseguii tutte l’altre d’Euripide, di cui, non piú che le precedenti, nessuna mi destò quasi che niuno affetto».

Dunque, anche l’Alfieri rimane offeso dalle parti comiche; e non poteva essere diversamente, date le condizioni di cultura ellenica dei tempi, e la sua propria, che in quell’anno era ancora assai primordiale, e il suo temperamento, non ancora modificato dagli ulteriori accaniti studii di greco — le commedie erano di là da venire — . Ma, ad onta di tutti questi ostacoli, egli pronunciava e poi confermava e accentuava in ognuno dei suoi frequenti ritorni al dramma prediletto, un giudizio che [p. 117 modifica] alla critica allora predominante sarebbe sembrato una bestemmia: l’Alcesti è il capolavoro d’Euripide.

Mi pare che oggi convenga, sia pure con le debite limitazioni, formulare un giudizio non troppo lontano dal suo. Ma ci spianano la via a pronunciarlo innumerevoli cognizioni ed esperienze dell’antica poesia greca, delle quali Vittorio Alfieri non aveva e non poteva avere il menomo sentore. Non dimentichiamolo. E convinciamoci, anche una volta, che in problemi d’arte la verità la vedono meglio e prima di tutti gli artisti, i poeti. E non già per effetto di lunghe elucubrazioni, bensí della divina intuizione, che opera con la rapidità e la luce della folgore.

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ALCESTI

  1. Nel superstite teatro dei Greci troviamo un simile allontanamento solo nelle Eumenidi e nell’Aiace.
  2. Anche qui ha valore quasi definitivo la prova scenica. In tutte le rappresentazioni, questo brano di Ercole trascinò costantemente gli spettatori a delirante entusiasmo.
  3. Sia sempie onorata la verità. Il vecchio Hermann, in contrasto con l’opinione corrente (vedi oltre), aveva già scritto (Opusc. II, 318): «Hercule illo vix quidam divinius ab Euripide factum est.»
  4. L’Alcesti fu rappresentato, sotto la mia direzione, a Milano (1913), a Padova, a Vicenza, a Verona, a Trento, a Pompei (1927).
  5. Τὸ δὲ δρᾶμα κωμικωτέραν ἔχει τὴν καταστροφήν. Forse vuol dire semplicemente che la conclusione non era tragica. Ad ogni modo, il fatto era di poco rilievo. Anche altri drammi di Euripide (Jone, Ifigenia in Tauride), per non contare il Filottete di Sofocle, non hanno conclusione tragica.
  6. A. Schone, Ueber die Alkestis des Euripidei. 1895.
  7. Patin, Euripide. I. 220. Anzi, il Patin estende questa qualificazione anche alla pittura della madre d’Alcesti, di cui Euripide non dice una parola. Non so se a lui o a chi altri si riferisca il Méridier in una sua giusta osservazione dalla quale sembra si raccolga che qualcuno ha avuto il fegato di trovare comico il contrasto fra Admeto e Ferete (Euripide, edit. Belles Lettres, I, 50).
  8. In questa opera sono oramai confusi giudizi del Christ, dello Staehlin e dello Schmid. Necessariamente cito sempre il solo nome del Christ.
  9. E cita a riprova, senza riportarlo, il v. 715 delle Opere e i giorni d’Esiodo. Il verso dice: Μηδὲ πoλύξεινον μηδ' ἄξεινον καλέεσθαι. Tutti possono giudicare il valore di simile suffragio.
  10. Ein künstlerischer Mangel des euripideischen Stückes ist nur, dass in zwei unvermittelte Teile, einen ganz einsthaften Angang und einen burlesken Schluss auseinanderfallt.