Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Lezioni/XVI. Don Abbondio - Don Rodrigo - Padre Cristoforo

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XVI. Don Abbondio - Don Rodrigo - Padre Cristoforo

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XVI. Don Abbondio - Don Rodrigo - Padre Cristoforo
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Lezione XVI

[DON ABBONDIO - DON RODRIGO -
PADRE CRISTOFORO]

Avete visto finora don Abbondio in analisi: e che cosa v’è rimasto di lui? Se lo vedete a frammenti, se non lo vedete intero innanzi a’ vostri occhi, in questo caso quell’analisi è sbagliata, e la nostra è stata un’analisi pedantesca. Ma se lo aveste al contrario tutto nel suo insieme innanzi a voi? Se vedeste in quelle forme particolari tutta intera la forma? ed in ognuna di esse sempre il tutto? In questo caso voi l’avete indovinata.

Ora avendolo voi guardato da tutti i lati ed in ognuno di essi, sempre lui, e sempre intero, diamo un’occhiata per guardarlo sinteticamente; perché se l’analisi buona è quella che nelle parti vi fa intravedere il tutto, la sintesi è il tutto; e la sintesi buona è quella che nel tutto vi fa intravedere le parti.

Ormai sapete che comico rappresenti don Abbondio: esso non è il «comico della intelligenza», ma è il «comico della volontà», epperò don Abbondio non è «sciocco»; ond’è che quando sembra mostrar difetto d’intelligenza, quel difetto non viene dalla intelligenza, ma dalla volontà: don Abbondio è sciocco per paura. Vi ricordate per esempio quando il Borromeo gli disse di andare con l’Innominato a prender Lucia, e poi soggiunse: — «Se il signor curato di qui non torna prima ch’io vada alla chiesa, io prego voi che gli vogliate dire che trovi un baroccio o una cavalcatura, e spedisca un uomo di giudizio a cercar della madre di quella poveretta» — . — «E se andassi [p. 301 modifica]io?» — disse don Abbondio, come se non capisse che la sua presenza era più utile altrove; ma egli faceva lo sciocco per la paura di andare su nel castello dell’Innominato.

Ma il dir che don Abbondio rappresenta il comico della volontà è dir niente; domandiamo che punto rappresenta egli nella gradazione della storia del comico. Giacché tutte le forme comiche, come le cosmiche, hanno la loro storia attraverso le età, nelle quali si vede la loro lenta formazione estetica insino a che dalle forme semplici si giunge alle forme complicate. Ed è questa una storia da farsi, è un legato che il secolo XIX lascia alle giovani generazioni. E son parecchie le forme artistiche, di cui manca la storia; per esempio la storia della donna, come il genio artistico l’ha formata; ed è così della storia del comico, che esiste solo in qualche lampo di lavori letterarii.

Il comico di don Abbondio ha fatto pure la sua strada: ed al primo sorgere è stato comico grossolano, che a poco a poco s’ingrandisce e riceve in sé l’antagonismo, le scissure; e procedendo oltre in quella scala, si trova il comico che consuma se stesso e passa nel tragico.

Pigliate ad esempio una intelligenza che abbia una volontà indecisa; ebbene quando quella si trova in azione, voi avete il comico che deriva dall’antagonismo tra l’intelligenza e la volontà: ed è questo un comico che è passato nella più profonda tragedia umana, quest’antagonismo tra la volontà e l’intelligenza che ha fatto l’Amleto dello Shakespeare ed altrettali.

Don Abbondio dunque sta all’infimo gradino della gradazione storica come concezione; esso è concezione iniziale e però è semplice, è spontanea, è sincera come tutte le forme primitive. È semplice, perché in lui non v’ha antagonismo; ci trovate scia dominante la paura, che è la chiave che spiega tutte le situazioni di quel personaggio. È spontaneo, tutto apparisce sul suo volto con tale subitaneità, ch’egli non ha la forza di assoggettare la sua paura, anche quando il calcolo e la sua intelligenza vogliono il contrario, come quando voleva ingannare Renzo, e riuscí al contrario. Vi cito un piccolo tratto per farvi vedere come Manzoni lo segue nella sua spontaneità. Quando il [p. 302 modifica]Borromeo dice a don Abbondio di andare sul castello dell’Innominato insieme a costui, e si accorge della paura del povero curato e vuol fargli intendere che l’Innominato non era più quello di prima, don Abbondio sta mogio mogio e non si persuade, e l’autore sorprende nella sua faccia la manifestazione di due sentimenti che si suscitarono in lui e ch’egli non può celare: appena sentì il comando del cardinale, la noja, l’affanno, e l’amaritudine che provava per tale proposta gli salirono al volto, dove si dipingeva contemporaneamente la paura di mostrar la sua paura al Borromeo. Questi due sentimenti cozzanti fra di loro si appalesano sulla sua faccia con una smorfia, con un versaccio, che don Abbondio nascose, chinando profondamente la testa in segno di ubbidienza. Questo versaccio è l’espressione de’ due sentimenti, ch’egli non può contenere, perché spontaneo.

È sincero, e la sincerità è la prima qualità del personaggio poetico. Don Abbondio infatti non ha vergogna della sua paura, perché egli la sua non la definisce paura, ma prudenza, modo di sapersi ben condurre per non avere brutti incontri, vivere da galantuomo ecc.; ed è così persuaso di questo, che quando gli capita il destro, non manca di far lezioni sul modo di condursi nella vita, e ne fa a Renzo, ad Agnese, e non contento di questo applica la sua filosofia a personaggi più grandi come il Borromeo e l’Innominato. È semplice, e quando pure egli vede che la sua è paura, non ammette che ciò sia difetto; e voi vi ricordate che nel dialogo fra lui ed il Borromeo egli voleva dire che ciò che aveva era una cosa necessaria, quando diceva che «il coraggio uno non se lo può dare».

Don Abbondio, o signori, non ha bisogno d’esser dipinto, egli si dipinge da se stesso, è il proprio artista, ed in lui l’artista è superiore all’uomo. Come uomo è spregevole, è comico, ma non è un Pulcinella: egli si presenta con la sua zimarra e col suo bastone, con modi composti; è un uomo che ragiona, e poiché in terra coecorum beato chi ha un occhio, egli è dottore nel villaggio, ed ha intelligenza abbastanza per non essere dichiarato sciocco, e ragiona delle volte con molto buon senso, [p. 303 modifica]sicché a sentirlo parlare voi ve ne formate una idea migliore di quella che vi formereste a vederlo in azione, quando è un dappoco. Sicché la forma nella quale don Abbondio dipinge se stesso è superiore alla realtà del suo carattere.

— Dunque, mi direte, allora comprendiamo perché don Abbondio è iventato popolare; egli ch’è personaggio di un carattere così superficiale, in una forma superiore ha dovuto incontrare nella parte colta e nella plebe — . E difatti io ho esaminato che noi non abbiamo altro comico che sia in armonia cosí meravigliosa col pensiero moderno. Abbiamo un comico com’è ne’ principii dell’arte, e da Calandrino a Monsignor Perrelli tutto il comico è grossolano, ed è sempre la medesima parodia, la parodia della paura. Quel che v’ha di progresso nel don Abbondio è la forma scelta che sta di rincontro alla forma volgare come è rappresentato ordinariamente il comico. E ncndimeno, quantunque nell’essenza quel comico non è cangiato fuorché nella forma, voi sentite in esso il secolo XIX: c’è qualche cosa per cui voi lo vedete in una regione molto più elevata e che non è il comico che è uscito dalla immaginazione del poeta; e questa qualche cosa è fuori di esso ed è nel Manzoni, il quale se lo mette innanzi e lo critica col suo risolino e lo eleva così alla temperatura del secolo. Sicché il progresso moderno del don Abbondio non è in lui come creazione, ma è nel processo della sua formazione.

Manzoni adunque fissa i movimenti estetici de’ personaggi, e scavando in quella forma semplice, trova il rapporto di quello che sta al di dentro con quello che sta al di fuori, ve ne mostra gli effetti, sicché avete spiegati tutti que’ movimenti spontanei che erompono al di fuori, ed avete così un personaggio formato allo spirito moderno; e quantunque il carattere sia anteriore, pure il processo di formazione è tutto moderno.

Don Abbondio è il beniamino di Manzoni, è il solo personaggio che comparisce sempre; gli altri, eccetto Renzo e Lucia, scompariscono presto.

Questa predilezione non è predilezione del creatore verso la sua creatura più corrispondente al suo genio, ma è [p. 304 modifica]corrispondenza verso quella classe di persone che domina nel romanzo. L’autore sceglie questi caratteri spontanei, poco complicati; e quel che gli piace è di analizzare e di trovare in tutti un mondo interiore, in quelle basse classi dove le impressioni sono subitanee, — basso mondo dispregiato dal nobile volgo. Per Manzoni al contrario sono i suoi prediletti gli uomini di quella classe; sono parti principali del romanzo, e lo vedete far la storia di villani come Agnese, Lucia e Renzo, e far di costui un personaggio nuovo popolare; e giunge così ad una rappresentazione che si può chiamare nuova, la rappresentazione del popolo come popolo, ossia come essere collettivo. In tutta la nostra letteratura c’è qualche lampo di questo; ma voi vi ricordate nell’insurrezione di Milano tutto quel popolo che ha per centro Renzo: ebbene, in quella scena v’è appunto la rappresentazione della moltitudine.

Fuori di questo gruppo ve n’ha altri due che sono gruppi ideali, e che rappresentano un mondo ideale come era concepito dal Manzoni. Essi stanno a fronte: l’uno nega, e l’altro con la stessa risolutezza afferma quell’ideale negato dal primo. Alla testa del primo gruppo sta don Rodrigo da una parte, e dall’altra il padre Cristoforo: è questa, signori, la prima opposizione, don Rodrigo e il padre Cristoforo.

Don Rodrigo non è solo: egli fa parte di una classe, nella quale c’è una scala; per esempio, accanto a don Rodrigo, nobile tirannello di un piccolo paese, voi vedete Attilio che è il nobile di una gran città, uomo corrotto, uso alla vita rumorosa, e che quando va a visitare il cugino, lo guarda con un’aria di protezione; uomo che ha di caratteristico nella fisonomia la beffa. Più innanzi trovate il Conte zio, ch’è il nobile in mezzo agli affari, che conosce gli uomini, e vede le cose non da un punto di vista provinciale, ma politico. Egli è scolpito nella scena col padre Provinciale de’ Cappuccini, quando lo indusse ad allontanare il padre Cristoforo da Pescarenico: e lì in quel dialogo, tutto quello che è avvenuto tra don Rodrigo e Lucia, nel cervello di que’ superiori, altro non è che un pettegolezzo, e sapete che il padre Provinciale cede per certe tali concessioni da [p. 305 modifica]farsi ai padri. Sono questi scalini superiori a don Rodrigo, piccolo nobile di un piccolo paese; e poiché a Manzoni piace intrattenersi su’ caratteri spontanei, sono persone schizzate appena ma fissate, perché Manzoni è l’artista che noi conosciamo.

Il personaggio più importante di quella classe è don Rodrigo, e notate anche questa predilezione del Manzoni a preferenza del nobile di città. Egli è personaggio ignorante, superbo, impetuoso, che partecipa della corruzione della nobile plebe rimasta in città; egli è il nobile di villaggio, là nato, là educato, là cresciuto. Pigliate uno scrittore del secolo XVIII: egli farebbe di don Rodrigo un Nerone, vedendolo da un punto di vista soltanto, dal lato delle sue ribalderie; al contrario don Rodrigo del Manzoni offre una contraddizione. Se guardate quello che fa, voi direste: — È un mostro, che per mezzo di sicarii fa violenza al curato, e che cerca di far rapire Lucia, e che giunge con le sue trame ad attentare a quella fanciulla sin nel monastero di Monza, quando non avendo più mezzi sufficienti, ricorre ad uno più brigante e potente di lui — . Or se si dovesse stare a queste azioni, dovrebbe dirsi don Rodrigo più briccone di quello che non è, perché è sempre vero il proverbio che gli effetti sono più tristi della causa, e gli uomini sono migliori delle azioni cattive che possono commettere.

In don Rodrigo c’è del fatale. Egli nasce ricco e nobile, e fin dalla tenera età gli hanno fatto capire ch’egli è potente, superiore al volgo degli uomini, e che gli uomini del popolo erano gente da prendersi a calci. Egli può tutto quello che vuole; e nel contempo gli manca un uso serio di questa forza, dimorando in un piccolo villaggio. Una volta che lo avete messo lì in mezzo a quella gente, egli che non sente paura, che è superiore al volgo, inchinato da tutti, che non sa cosa fare del suo tempo, diviene naturalmente frivolo; come al presente tanti ricchi tirannelli ne’ piccoli paesi, che senza una sfera d’azione, senza degno scopo della vita, non sono che giocatori od altro, menando una vita frivola: e vita frivola vuol dire vita senza scopo prefisso, vuota e senza azione. Don Rodrigo passa i suoi giorni infatti in mezzo a’ giuochi, alle donne; egli mangia, beve [p. 306 modifica]e va a spasso, come si dice, facendo l’arte di Michelasso. Or che cosa è che dà una certa continuità a’ suoi atti?

Se don Rodrigo fosse stato un uomo del volgo, si sarebbe goduto in pace le sue ricchezze, pensando a darsi buon tempo, senza brigarsi d’altro, a fare in pace il galantuomo, come diceva don Abbondio. Ma egli è nobile, ed ha per punto di partenza delle sue azioni quello che si dice «onore», «punto di onore», che sventuratamente vive ancora al presente, e consiste nel vincere un puntiglio, entrare in un impegno e spuntarlo, e sentirsi svergognato d’aver ricevuto uno smacco. E questo vi dipinge la parte caratteristica della nostra borghesia, perché anche oggi si sente a dire: — Quel tale è un uomo d’impegno assai — , per dire un uomo di molta importanza; e si dice, per attribuirla a sé: — Mi trovo impegnato — . Don Rodrigo perciò, cresciuto in quella vita frivola, ha per guida il punto di onore.

Egli dunque ha incontrato un giorno una bella ragazza, e gli ha detto un motto galante. Tutto sarebbe rimasto lì, e l’avrebbe forse dimenticata; ma c’era Attilio che rideva beffardo, e don Rodrigo si lasciò dire: — «Scommettiamo» — . La scommessa dunque è il punto di partenza di tutto quello che avvenne poi; e voi vi ricordate che anche Tarquinio fece una scommessa nel campo; anche lì ci fu un puntiglio, che soddisfatto, cagionò la morte di Lucrezia. Alla scommessa segue immediatamente la minaccia fatta fare da’ bravi a don Abbondio; poscia va il padre Cristoforo al palazzotto di don Rodrigo per dissuaderlo dal suo infame proposito, ed allora quella scommessa diventa puntiglio... — Farmi vincere da un frate! — pensò don Rodrigo.

Egli dunque non ha passione alcuna per Lucia; è il solo puntiglio che lo spinge fino al punto di spedire de’ bravi per farla rapire. Egli non riesce nel suo intento, e confidando in seguito il tutto al conte Attilio, questi per mezzo del Conte zio, membro del Consiglio Segreto, fa allontanare il padre Cristoforo dal convento di Pescarenico. E dopo che Lucia s’è rifugiata a Monza, egli va a chiedere il potente ajuto dell’Innominato. In tutto questo voi vedete dunque il puntiglio che muove la condotta frivola di don Rodrigo. [p. 307 modifica]
Or l’ideale di don Rodrigo è vero; Manzoni ha dipinto il nobile còlto nella decadenza del Medio Evo: esso non è il barone feudale alla testa di servi della gleba; don Rodrigo non ha importanza nella vita. Ma è anche questo aver voluto rimpicciolire i motivi interni di don Rodrigo, che produce lo scopo di renderlo sopportabile; perché al contrario darebbe spettacolo ributtante. Il Manzoni gli dà così un passaporto nell’animo vostro, rappresentandolo com’è veramente. Ma come creazione artistica il don Rodrigo è poco, perché è poco analizzato; egli è tutto al di fuori, appena c’è un momento in cui parla solo; non c’è quello sguardo scrutatore del Manzoni che scende nel fondo delle cose. Ma perché il Manzoni si arresta innanzi a questo personaggio?

Si arresta per uno scopo artistico: Manzoni ha capito che se volesse guardar troppo addentro al frivolo, caverebbe il riso dimostrando gli effetti odiosi provenienti dal frivolo di questa esistenza così terribile al di fuori. Manzoni se ne indegna, l’odia, non lo esamina: don Rodrigo rimane così inesaminato, un personaggio superficiale, e mentre gli altri operano, egli sta come il fato occulto, e tutta la sua opera si riduce ad un discorso avuto col padre Cristoforo nel suo palazzotto, e fuori di questo non ha altra affermazione. Egli diviene interessante nel momento dell’espiazione, quando l’uomo nuovo gli suscita sentimenti nuovi; quando don Rodrigo è attaccato dalla peste, allora solo diviene interessante.

Di rimpetto a don Rodrigo ci è Ludovico, che voi conoscete sotto il nome di padre Cristoforo. Don Rodrigo è nobile nato, Ludovico è un parvenu, come dicono i Francesi, nobile per pervenienza, il cui padre ha fatto molti quattrini e lo ha educato in quel modo. Il padre Cristoforo è un don Rodrigo in miniatura, egli fa quello che fa l’altro, e la differenza è questa, che la nobiltà in don Rodrigo è tradizionale, è lunga serie di nomi di famiglia; quindi i difetti in lui sono nati. Al contrario la nobiltà in Ludovico è mezza pretensione; egli ha avuta una buona educazione nelle lettere e negli esercizi cavallereschi, ha avuto buoni principii, ma col padre che la vuol fare da [p. 308 modifica]nobile, volendo far concorrenza, strofinando qualche abito, sciupa il suo patrimonio, procurandosi nimicizie a contanti.

Quando avete questo giovine in cui la vita non è seria, ma il cui cuore è puro, ed usa di quella pretensione in benefizio degli oppressi quando commette un assassinio e ne vede gli effetti gravi, vede ai suoi piedi il sangue sparso, que’ due funesti compagni, l’uomo morto da lui, e l’uomo morto per lui, allora corre al monastero, una grande rivoluzione si opera in lui, il suo animo ha una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti, l’uomo fittizio sparisce e rimane l’uomo della natura e della buona educazione, credente, virtuoso, pieno di carità, di sentimento, che allontana lo spettro dell’omicidio, cambiando la spada pel sacco. Ora egli è il padre Cristoforo.

Sono essi dunque due don Rodrighi, uno che cammina per la stessa via fino alla espiazione, e l’altro che in un certo momento della sua vita s’arresta da sé ed un mondo nuovo gli si apre dinnanzi, il mondo della morale.

Quale sarà la parte che rappresenterà il padre Cristoforo? Egli rappresenterà la vittoria del mondo nuovo, schietto, sincero, sul mondo artificiale, meccanico, tradizionale, venuto dall’avolo e dal padre, e non discusso. Qui si scopre il disegno dell’autore. Questo trionfo lo vedete fin dalla prima scena. Ludovico diviene dunque frate, deve lasciare il suo paese per fare il noviziato altrove, e pria di partire, egli chiede di ristorare la famiglia offesa dell’affronto, chiedendo perdono al fratello dell’ucciso. Secondo tutte le apparenze, il mondo artificiale resta vittorioso. Il fratello dell’ucciso infatti pensò di prendersi una soddisfazione solenne e clamorosa, onde invitava tutta la nobile parentela a ricevere una soddisfazione comune. Vi rammentate come l’autore vi descrive il doppio volgo, la plebe e la nobiltà, nel «rimescolarsi di gran cappe, di alte piume, di durlindane pendenti», nel «muoversi librato di gorgiere inamidate e crespe», nel formicolio de’ brevi, de’ paggi e dei servi. Il fratello dell’ucciso, «circondato da parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo abbassato, e il mento in aria, impugnando con la sinistra mano il pomo [p. 309 modifica]della spada e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto». Tutto questo è trionfo del mondo artificiale. Ma qui muta la scena; comparisce il frate senza smarrirsi, senza guardare, e col contegno che diceva di non essersi fatto frate per timore umano, e tutto ciò gli concilia l’animo degli spettatori. Egli come vide il fratello dell’ucciso, affrettò il passo e gli si pose a’ piedi in ginocchioni, e voi vi rammentate le parole commoventi che egli dice.

Qui dunque la scena si cambia; colui che pensava di assaporare in quel giorno la triste gioia dell’orgoglio, dovette quel giorno esser ripieno della gioia serena del perdono e della benevolenza. Ogni qualvolta, o signori, il mondo vero e vivente si trova di rincontro al mondo artificiale, lo turba e lo sconvolge; ed il fratello dell’ucciso infatti dopo le parole del padre Cristoforo, invece di fare l’apologiá dell’ucciso, cerca scusarlo al cospetto del frate, dicendo con parole che gli escono smozzicate: — «Mio fratello... non lo posso negare... era un cavaliere... (e notate che poi corregge) era un uomo... un po’ precipitoso... un po’ vivo ecc.» — . Quella frase corretta, quel parlare a frasi rotte, quel volere scusare l’ucciso v’indica che il trionfo è del padre Cristoforo.

Ed andando più innanzi, voi trovate lo stesso quadro, ma in più grandi dimensioni, voi vi trovate in presenza de’ due don Rodrighi, in quella scena che avviene nel palazzotto del vero don Rodrigo. Secondo le apparenze chi ha vinto, chi ha perduto? Vedendo il padre Cristoforo sotto le insolenze abbassare la testa e rimanere immobile e ricevere la gragnuola che gli manda il suo avversario, apostrofandolo di villano temerario, e di poltrone incappucciato; il vinto, direte voi, è stato il padre Cristoforo? No, o signori. Guardate l’uomo che è rimasto solo dopo che il frate se n’è andato, egli è agitato e misura a grandi passi la sala; egli per rinfrancarsi ha bisogno di guardare i ritratti de’ suoi maggiori, e cercare in quelle truci fisonomie alimento di nuovo calore per continuare l’azione. Da quel dialogo don Rodrigo ha ricevuto una grande impressione, che non dimenticherá mai. [p. 310 modifica]
Ve lo richiamo, quando il padre Cristoforo, che fin allora s’era frenato a stento, alla proposta di don Rodrigo, «dando indietro due passi, appoggiandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, levando la sinistra coll’indice teso verso di lui, e piantandogli in faccia due occhi infiammati», gl’intonò quella profezia: — «Verrà un giorno...» — . Quelle parole, l’aspetto del frate hanno fatto impressione sull’animo di don Rodrigo, impressione rincantucciata poco dopo, perché le cose gli vanno a seconda; ma attendete quando verrà il momento dell’espiazione, quando egli sentirà paura della morte, quando il padre Cristoforo gli si ripresenterà in sogno, ed allora vedrete chi ha vinto.

Dopo queste due scene fra il padre Cristoforo ed il fratello dell’ucciso, e fra il padre Cristoforo e don Rodrigo, nelle quali il frate lascia la sua impronta, l’autore non è ancora contento; egli vuol dipingere il trionfo di questo mondo morale in un quadro piú grandioso; egli cerca una terza scena in cui quel mondo sia rappresentato in più larghe dimensioni, e con personaggi più grandi, ed ecco sbucciargli nella fantasia rincontro dell’Innominato con Federigo Borromeo. Lì l’autore si sente soddisfatto; lí raccoglie le sue forze, e produce quel capolavoro, che sarà l’oggetto della ventura lezione.

        [Ne L’Era Novella, 12, 14-15 giugno 1872].