Anime allo specchio/Il sottile inganno
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IL SOTTILE INGANNO.
Quando morì la contessa Sampieri, Gigi De-Fer scrisse a sua figlia Matilde una lettera commossa ove alle frasi consuete della condoglianza ufficiale si univano taluni ricordi affettuosi della morta, la quale era stata un’amabile creatura piena d’intelligente bontà e di illuminata indulgenza.
Anni innanzi, durante una vicinanza di villeggiatura, egli aveva ammirato con entusiasmo la nobile dama tutta bianca di volto e di capelli che parlava e s’atteggiava con un’arguta eleganza settecentesca, mentre la sua figliuola Matilde, una bionda dagli occhi chiari, taciturna ed enigmatica, seduta al piano in una posa di rigida tranquillità, interpretava con meccanica esattezza i grandi maestri del suono, talora accompagnata da sua cugina Marta, che aveva sedici anni, gli occhiali a stanghetta ed una gran treccia castana su le spalle aguzze da collegiale.
Fra quelle due scialbe giovinezze la grazia matura della contessa s’illuminava maggiormente ed era allora fra Gigi De-Fer e Giuliano Lanzi, l’amico intimo che l’ospitava, una gara vivace di motti e di paradossi, la quale ingannava piacevolmente le lunghe serate della villeggiatura autunnale.
Come mai due anni dopo Giuliano Lanzi, lo spirito raffinato, il sognatore avido di bellezza e di gioia, aveva sposato la signorina Matilde, quella figuretta incolore che parlava poco, sorrideva a fior di labbro e si vestiva con la più ingenua goffaggine? Gigi non l’aveva mai compreso e vivendo ora lontano dall’amico, senza che le circostanze della loro esistenza li avvicinassero se non per brevi incontri, troppo fuggevoli per consentire qualche abbandono di confidenza, egli si domandava talvolta se l’apparenza serenamente calma e gravemente soddisfatta di Giuliano fosse la manifestazione sincera della sua intima vita o nascondesse abilmente uno stato d’animo ancora tormentato come quello della sua prima giovinezza o forse una infelicità anche più profonda.
Matilde Sampieri, com’egli l’aveva conosciuta a vent’anni, non poteva essere una compagna adatta per Giuliano. Egli rammentava d’aver sogghignato molte volte con l’amico sorprendendo gli sbadigli male dissimulati coi quali ella assisteva a qualche loro discussione letteraria, o i romanzi rimasti intonsi sul suo scrittoio settimane intere o tagliati solo all’ultima pagina per scoprire la commovente fine della protagonista. E rammentava le divertenti ironie di Giuliano su quelle sue acconciature da istitutrice inglese, sui solini inamidati, le cinture di cuoio e le scarpe larghe a tacco basso. Egli che adorava i lunghi colli nudi e sinuosi emergenti dalle tuniche sciolte, egli che aveva scritto una collana di sonetti sulla figura di Dante Gabriele Rossetti e vedeva nella donna il serpe che insidia e allaccia ed avvelena, sorrideva motteggiando di quel fenomeno asessuale che doveva due anni più tardi diventare sua moglie.
Ma certo durante quegli anni la mano delicata e sapiente del poeta aveva tratto da quella piccola crisalide ancora oscura ed incerta la farfalla compiutamente bella che doveva essere la sua compagna e di questo meraviglioso mutamento si convinse Gigi De-Fer quando Matilde Lanzi gli scrisse rispondendo alle sue parole di condoglianza per la morte della contessa Sampieri.
La lettera di Matilde, ampiamente listata a lutto, recava sulla soprascritta e nell’interno una scritturina minuta e comune che non gli disse nulla, ma fin dalle prime frasi, le quali rievocavano con un triste eppure vivace rilievo la figura della madre, parve a Gigi di riconoscere una creatura nuova, vibrante di una sensibilità fantasiosa e malinconica insieme. La lettera accennava fuggevolmente al tempo ormai lontano di quella villeggiatura in cui la presenza di suo marito e dell’amico aveva portata nella loro villa grave di solitudine tanta festosa giovinezza e quanto se ne fosse rallegrato il cuore della povera morta. Finiva pregandolo, anche per parte di Giuliano, di dar loro con qualche assiduità notizie della sua vita presente, tenendo desta fra di essi quella buona fiamma dell’antica amicizia la quale è così confortevole agli spiriti fraterni che il destino separa.
Gigi De-Fer viveva in provincia, dove dirigeva un grande stabilimento industriale, del quale era in parte proprietario e poichè vi si trovavano scarsissime quelle risorse intellettuali delle quali si era pure dilettato in passato, accettò con gioia l’offerta di una corrispondenza amichevolmente cordiale con una donna non ignota, ma diversamente conosciuta, che apriva al suo spirito un orizzonte di vita già familiare eppure nuovo, come un ritorno di giovinezza ammorbidito di nostalgia e forse velato di rimpianto.
Rispose dopo alcuni giorni non nascondendo la sua meraviglia per quel ricordo rimasto così vivo nonostante il tempo e le vicende contrarie e parlò di sè, di Giuliano, della defunta, con una tenerezza quasi riconoscente per lei che gli permetteva di rivivere quel passato con un senso di felicità un po’ stupita, ma tuttavia dolce.
La risposta non si fece attendere molto e gli parve più della prima delicatamente espansiva e soffusa qua e là di grazie letterarie d’un raffinato buon gusto, le quali lo incitarono a replicare dopo qualche tempo su lo stesso tono elegante di disinvolta confessione e gli permisero di deplorare spiritosamente la solitudine intima a cui lo costringeva il borgo selvaggio nel quale gli toccava per ora di vivere.
Matilde Lanzi gli scrisse allora parlandogli di sua cugina Marta, la quale non portava più gli occhiali a stanghetta che in collegio le avevano imposto, ma incorniciava di due ondulate bande di capelli castani la sua faccia un po’ stupita di graziosa miope. Abitava anch’ella in campagna nella villa che possedevano in comune con una vecchia parente che faceva da governante.
Egli sorrise di quelle vaghe allusioni che intendevano propiziare una possibile unione di parentele, ma non vi ammise molta importanza. Ormai era tutto preso dalla gioia di quella corrispondenza con una donna veramente rara di intelligenza e di cultura, la quale lo comprendeva come nessun’altra lo aveva mai compreso e con cui tutte le sue facoltà superiori si trovavano perfettamente a loro agio e si accordavano con una meravigliosa armonia. E senza avvedersene, grado grado, scherzando amabilmente in varie lettere sull’offerta di unire i suoi destini con quelli di Marta egli alludeva, pur senza un esplicito diniego, ad un ostacolo immateriale sì, ma forse perciò più insormontabile, il quale gli impediva di pensare per ora ad altra creatura femminile che non fosse quella del suo sogno. La risposta di Matilde Lanzi che tardò alquanto, aveva un leggiero sapore di canzonatura e cercava di ricondurlo serenamente sopra un terreno più fido insistendo nell’elogio di Marta, ed annunziandogli che fra un paio di settimane l’avrebbe raggiunta con Giuliano in villa per trascorrere con lei qualche tempo; lo invitava a voler essere loro ospite nella casa stessa ch’egli già conosceva e ancora ricordava.
Quella lettera lo esasperò. La corrispondenza durava ormai da parecchi mesi, durante i quali la figura della giovine donna idealizzata dalla lontananza, abbellita da tutto il fascino di una intellettualità squisita, aveva signoreggiato il suo spirito come una immagine non più reale e non ancora fantastica, lo aveva dolcemente dominato e ostinatamente tormentato con l’insistenza morbosa d’una fissazione.
Ella rappresentava per lui il mistero femminile più straordinario ch’egli avesse incontrato nella vita e nell’arte, quello d’un mutamento così profondo da renderla irriconoscibile. Si domandava se anche nel suo fisico la stessa evoluzione si fosse compiuta e avesse fatto della goffa personcina rigida e inconcludente d’un tempo la creatura di grazia e di sensibilità che traspariva dalle sue lettere. Le rilesse tutte, ad una ad una, soffermandosi con trepido rapimento sopra talune frasi più affettuose, scrutandone l’intimo significato, cercandovi un oscuro senso di tenerezza, e tentando d’illudersi ch’esse lo avevano, forse inconsapevolmente, sospinto verso una meno fraterna amicizia ed autorizzato a manifestarla.
Certo il marito non seguiva ormai più tale assiduo carteggio e non esercitava alcuna sorveglianza sopra una donna troppo intelligente ed orgogliosa per tollerarla, quindi non tardò a convincere sè stesso che conveniva scriverle un’ultima lettera, fra addolorata ed offesa, nella quale la complicazione sentimentale che lo conturbava apparisse inasprita d’una specie di pietà beffarda per sè stesso e di amara invidia per la serena indifferenza della donna. Non avventurò incaute dichiarazioni d’amore, ma il represso fremito che correva tutta la lettera rivelava senza confessare, esprimeva senza dire, era come un commento musicale destinato ad accompagnare parole non dicibili e ad imprimerle profondamente nel cuore preparato ad accoglierle.
Dopo attese per molti giorni in una calma torbida che riusciva ad imporsi mediante uno sforzo di volontà crudele e vedeva succedersi l’oggi all’ieri ed il domani all’oggi senza che nulla mutasse, senza che la risposta disperatamente invocata giungesse. Trascorse una settimana, ne trascorsero due, e poichè la lettera non veniva, Gigi De-Fer, martoriato dalla più febbrile inquietudine, si risolse a prendere una estrema decisione.
Lo assillava il dubbio d’averla offesa ed irritata ed insieme la speranza ch’ella non si arrischiasse a scrivergli per timore di compromettersi; anche lo incoraggiava il pensiero ch’ella stessa lo aveva invitato alla sua villa, in apparenza per favorire le illusioni della cugina, ma forse in realtà per una più egoistica ragione. Matilde doveva appunto trovarvisi in quei giorni e poichè l’incertezza gli riusciva ormai intollerabile, egli mandò un laconico telegramma a villa Campieri annunziando il suo arrivo pel domani.
Partì nervosissimo chiedendosi cento volte se non commetteva una sciocchezza od una sconvenienza e trovò alla stazione il vecchio giardiniere della contessa il quale lo riconobbe e coi suoi discorsi bonarii, coi suoi sospirosi rimpianti del passato gli diede un poco di serenità.
— La contessina Matilde giungerà solo domani, ma c’è la signorina Marta — avvertì il vecchio portandogli le valigie lungo il viale coperto di vite americana che gocciolava tutto della pioggia recente.
E Marta apparve sul peristilio di granito grezzo stretta in un golf di grossa lana bianca con le mani in tasca e gli occhi un po’ socchiusi come per distinguere l’ospite nell’ombra verde del viale e dargli il ben venuto col suo sorriso accogliente.
Le spalle aguzze della collegiale s’ammorbidivano ora in una linea fragile ma graziosa e la densa treccia circondava la testina appiattendosi sulle onde molli dei capelli che ricoprivano le orecchie e velavano gli occhi, grandi e grigi ma un po’ vuoti e fissi, come gli occhi dei miopi.
— I miei cugini mi avevano annunziato la sua visita, ma non la speravo, — ella disse porgendogli le mani sottili e calde e traendolo nella sala ove la tavola apparecchiata per due attendeva.
E Gigi De-Fer, rincuorato dall’amabilità ospitale della fanciulla e dalla certezza di poter svelare fra breve il mistero d’amore che lo turbava, incominciò a ritrovare sè stesso e al caffè, fra le sigarette e i liquori, in quella grande sala ove la povera contessa Sampieri passava e s’atteggiava con la sua grazia settecentesca, affluirono al suo ricordo le immagini del passato, lo indussero a rievocarle con una delicata malinconia che la sua segreta agitazione sentimentale rendeva dolcemente elegiaca.
— Solo le cose sono fedeli al passato e non mutano, — egli diceva sospirando, — ma questa virtù o, se vogliamo, questo difetto non è degli uomini.
— Nè delle donne, — sorrise Marta avvicinandosi al vasto specchio della parete per gettarvi uno sguardo.
E Gigi che lo raccolse sorrise a sua volta:
— Nè delle donne in particolare. Ella s’è mutata in pochi anni in un modo sorprendente, come del resto dev’essersi meravigliosamente cambiata sua cugina Matilde.
Marta che gli volgeva le spalle appuntandosi i capelli dinanzi alla grande specchiera si volse di scatto a considerarlo, e il sorriso indefinibile che tremava sulle sue labbra era interrogativo ed ironico ad un tempo.
— Ha veduto recentemente Matilde? — ella domandò con una dissimulata meraviglia, e poichè Gigi, perplesso, tardava a rispondere ella aggiunse con semplicità: — Se esiste creatura al mondo assolutamente incapace del minimo sforzo verso un qualunque mutamento sia intellettuale che materiale, quella è mia cugina e inutilmente per anni Giuliano ha tentato di trasformarla secondo i suoi gusti di raffinato intelligente. Ella è rimasta e senza sua colpa quella che era a vent’anni: tranquilla e mediocre, fredda e docile come una bambola meccanica.
Gigi De-Fer ascoltava fra incredulo e sbalordito, attaccandosi all’ultimo sospetto che quella ragazza, intuendo la sua appassionata ammirazione per la cugina tentasse di abbassarla per una comprensibile gelosia dinanzi ai suoi occhi.
Ma l’altra gli si era seduta in faccia e sfogliando una rosa col capo chino ad osservarla continuava con voce tranquilla:
— Io le voglio molto, molto bene, povera Matilde e Giuliano stesso è un modello di marito, ma essi sono diversi come il giorno e la notte, come l’acqua e il fuoco; c’è fra di essi una incompatibilità inconciliabile, sebbene vivano in apparenza nel più completo accordo.
Gigi meditò un momento, pensò a quelle lettere riboccanti di sensibilità, scintillanti di spirito, squisite di oscure tristezze e credette di poter sciogliere per sè e per Marta l’enigma di quella vita di donna.
— Sua cugina deve possedere una intensa vitalità interiore che non può rivelarsi al marito, che non può esprimersi con le parole consuete ma che in talune circostanze favorevoli e ad uno spirito affine che la sappia intendere si deve manifestare con una sincerità strana e inaspettata.
— Per esempio? — domandò Marta con un piccolo sorriso fra curioso e scettico.
— Per esempio, io so che sua cugina ebbe con un amico mio una lunga corrispondenza epistolare, assolutamente fraterna ed innocente, nella quale ella appare come uno spirito di donna superiore, intelligente, colta e sensibile fino alla raffinatezza.
Marta s’alzò lentamente, andò alla vetrata, sollevò la tenda e guardò il cielo poi ritornò in silenzio, sedette, appoggiò i gomiti alla tavola e guardò intensamente i suoi anelli avvicinandoli agli occhi come se li vedesse per la prima volta. Quindi si decise a parlare.
— S’io conoscessi quel suo amico, — disse con sarcastica fermezza, — sarei costretta a distruggere in lui questa illusione prima che essa gli facesse qualche male e gli rivelerei un piccolo segreto che non ha d’altra parte alcuna importanza se non quella di servire all’orgoglio eccessivo di un uomo ed alla sciocca docilità di una donna.
— Che cosa intende dire? — domandò Gigi fingendosi indifferente, mentre il suo piede picchiava il suolo col ritmo accelerato della sua impazienza nervosa.
— Intendo dire che Giuliano Lanzi, sentendosi umiliato di una moglie così inferiore a sè stesso, le fa scrivere sotto dettatura tutte le sue lettere. Ed ecco perchè quel suo amico ha potuto ingannarsi sul conto di mia cugina. Ella non fu che un’intermediaria; chi corrispondeva con lui era suo marito.
Successe a quelle parole un lungo silenzio durante il quale il pendolo loquace che sovrastava all’ampio camino parve scandire con compiacenza lo stupore profondo e iracondo dell’ospite. Egli lanciava incontro al soffitto affrescato, a ondate rapide e violente il fumo della sigaretta, come se vi scagliasse con sdegnata collera le vane e grottesche illusioni d’amore nate da quell’inganno sottile.
Ora egli comprendeva le grazie letterarie di quello stile epistolare che lo avevano affascinato, la malinconia nostalgica di quelle rievocazioni e il silenzio opposto alla sua ultima lettera. Era la giovinezza di Giuliano e la sua che s’erano ritrovate in quella corrispondenza, che s’erano confidate l’una all’altra, che s’erano amate attraverso alla fredda inconsapevolezza di quella piccola donna mediocre.
Nell’agitazione tumultuosa della scoperta singolare Gigi De-Fer sentì il bisogno di essere solo con sè stesso per indagarsi e per calmarsi.
— Io vado a fare qualche passo in giardino com’è mia abitudine prima di ritirarmi, — disse a Marta con un sorriso grave. E si diresse verso la gradinata che scendeva al cortile.
Ella comprese quella necessità di meditazione e non lo seguì, ma come egli fu sulla soglia ella lo richiamò con voce esitante, mormorò perplessa:
— Resterà con noi alcuni giorni? Giuliano ne sarebbe tanto felice, ed anch’io.
Egli ritornò indietro, venne a stringerle la mano, rispose quasi con tenerezza fissando quei grandi occhi grigi ed incerti:
— Sì, resterò; per Giuliano e per lei.
E sentì che la stolta illusione sentimentale creata dal sottile inganno incominciava forse già per opera sua a dileguare.