Anime allo specchio/Questa è la verità
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QUESTA È LA VERITÀ.
Sergio Kadar, chiamato in tutto l’albergo «l’ungherese», perchè vestiva qualche volta il suo costume nazionale e perchè si portava in giro pel mondo, oltre allo chauffeur ed al cameriere, quattro tzigani autentici incaricati di blandire le sue malinconie di gran signore volontariamente esiliato, passeggiava nervosamente su e giù per la vasta terrazza in faccia al mare ed il suo sguardo irrequieto pareva spiare l’arrivo di qualcuno atteso con impazienza.
I quattro suonatori, stretti nel loro vivace costume zingaresco, tacevano rispettosamente coi loro strumenti sulle ginocchia, raggruppati in un angolo e non attendevano che un cenno del loro signore per ricominciare la loro musica o per andarsene in silenzio. Ma egli sembrava averli dimenticati e solo la sua faccia magra e bruna dai tratti accentuati e dalle labbra sottili, si rischiarò d’improvvisa gioia quando una figurina bianca ed un ombrellino rosso apparvero tra i palmizi del viale e l’ombrello vermiglio, simile a un grande fiore, si agitò verso di lui in un gesto di gaio saluto.
Sergio Kadar protese tutte e due le braccia dalla balaustrata, quasi per afferrare la donna e sollevarla in un attimo fino a sè e poichè ella s’avviava alla gradinata egli le corse incontro e congedò con un cenno gli tzigani taciturni.
Bianca Olinti, chiusa in una giacca mascolina e in una corta gonna di panno avorio, con un grande fiore rosso all’occhiello e un enorme paradiso nero sul piccolo cappello calzato fino alle sopracciglia, appoggiò il dorso alla balaustrata con le mani a mezzo affondate nelle tasche della giacchetta e prima di parlare lasciò che Sergio la baciasse con religione e poi deponesse con cura l’ombrellino rosso; ma quando parlò ella disse una cosa grave: — Mio marito giunge domani.
Sergio Kadar si piantò dinanzi a lei con un volto così tenebroso ch’ella ne sorrise scuotendo il capo con una specie di pietosa ironia.
— Che aria tragica, povero Sergio! Evidentemente questo annunzio non vi procura uno straordinario piacere, — ella disse ridendo con leggera malizia; — eppure, — continuò — non v’è proprio alcun rimedio; egli verrà domani e per portarmi via. Ecco il suo telegramma.
Trasse un foglietto dalla tasca della sua giacca e lo porse piegato a Sergio. Ma questi non lo prese e continuò a fissarla con i suoi occhi infossati nei quali pareva passare il bagliore d’una minaccia.
— Egli non vi porterà via, — proruppe finalmente con una voce bassa ma alterata dall’ira e dall’angoscia. — Da dieci giorni voi mi appartenete ed io sono pronto a tutto, mi capite? a tutto, pur di non cedervi a quell’uomo che odio.
— Ma quell’uomo è mio marito, riflettete, Sergio, — pregò Bianca con dolcezza, — quell’uomo ha dei diritti che voi non avete ed è il padre del mio bambino; io posso averlo per un momento ingannato, ma abbandonarlo no, mai.
— Ah voi l’amate, dunque? — sogghignò Sergio con le braccia conserte sul petto. — Eppure l’avete tradito con me, con lo straniero di passaggio e forse soltanto per il piacere dell’avventura. Ma io vi amo, io non vi voglio perdere, io mi sono attaccato a voi con tutta la mia volontà selvaggia e non vi lascerò.
Bianca Olinti era giunta un mese e mezzo innanzi in quella città di mare, convalescente di una grave malattia, e poche settimane dopo vi capitava l’ungherese coi suoi servi, coi suoi zingari, con quel suo apparato tra barbaro e scenografico che gli attirava l’attenzione di tutti, e con meraviglia ella lo aveva visto occuparsi a poco a poco di lei con una insistenza sempre più palese, avvolgerla in lunghi sguardi imploranti, seguirla durante le passeggiate, mandarle in camera bellissimi fiori, senza rivelarsi. Finchè un giorno ch’ella aveva prolungato troppo la sua ora di passeggio e sedeva un po’ pallida e molto stanca sopra un muricciuolo in aperta campagna, si vide raggiunta dall’automobile dell’ungherese, il quale le rimproverò dolcemente la sua imprudenza e la pregò di accettare la sua vettura per tornare all’albergo.
Da quel giorno, un po’ per curiosità un po’ per noia, ella non aveva respinta la corte fervidissima di quell’uomo a cui nessuna affinità di spirito o di razza l’avvicinava e, senza amore, si era lasciata trascinare grado grado dalla veemenza di quel desiderio a tutte le concessioni. Ora, il pensiero che il marito tornasse a riprenderla, a scioglierla da quel passeggiero e pur già grave legame le sollevava il cuore da un peso forse di rimorso e forse di sazietà, le dava quasi un senso benefico di liberazione. Le proteste di amore eterno e di fatale passione di Sergio Kadar le erano sembrate sempre esagerazioni leggermente teatrali, gesti decorativi fatti per colpire la sua immaginazione o forse per incuterle un certo oscuro timore di drammatici scioglimenti. Ma se ciò le era parso dapprima quasi divertente, ora incominciava ad inquietarla e le risolute parole con le quali egli si dichiarava pronto a lottare con qualunque mezzo pur di non perderla, le mettevano nelle vene un piccolo brivido di paura.
Egli si stringeva da qualche minuto il capo fra le mani come per costringere il suo pensiero ad uno sforzo penoso di ricerca mentre la donna seduta sull’orlo d’uno sgabello col ginocchio fra le dita intrecciate batteva rapidamente a terra un piede nervoso sogguardandolo dal basso in alto, quasi in attesa di una conclusione.
— Ascoltatemi, Bianca; ascoltatemi, cara bambina, e comprendete, vi prego, il mio dolore; — egli mormorò sedendole accanto con una voce così tremante e supplichevole che ella senza mutare il suo atteggiamento di rassegnata impazienza gli lanciò uno sguardo indagatore. — Io sento che senza di voi la mia vita è spezzata; io non sarò più che un infelice costretto a portare pel mondo la sua oscura disperazione. Non dite di no, vi supplico, Bianca; lasciatemi parlare con tutto il mio cuore. Voi mi avete pur dato una prova grande d’amore e non dovete allontanarmi così, sfuggirmi all’improvviso, cacciarmi dalla vostra vita come un intruso, come un nemico. Pregate vostro marito che vi lasci ancora qui, ditegli che la vostra salute lo esige, procuratevi la complicità di un medico, fingetevi ammalata se occorre, ma per carità, non andatevene, non partite, restatemi ancora un poco, restatemi per sempre.
Bianca Olinti sospirò, chiuse gli occhi e sollevò le sopracciglia come per chiedergli mentalmente perdono dell’inganno e disse alzandosi: — Sì, non dubitate, Sergio; farò come voi volete, fingerò, mentirò ma non è detto che tutto ciò riesca a convincere ed a commuovere mio marito. Ed ora lasciatemi andare, debbo vestirmi pel pranzo.
Egli le baciò tutte e due le mani e l’accompagnò per un tratto senza parola, poi tornò indietro, chiamò i quattro tzigani e sotto gli archi agili dei violini, in faccia al mare violaceo, irruppero ed empirono la molle aria vespertina i singhiozzi prolungati d’una canzone magiara.
Il domani quand’egli scese a colazione e trovò seduto in faccia a Bianca un signore giovane, elegante, dall’aria gioviale, che le parlava con animazione e la faceva ridere spesso, non bevette che due bicchieri d’acqua ghiacciata fumando innumerevoli sigarette senza distogliere da lei il suo sguardo torvo.
— Chi è quella specie di zingaro che ci divora con gli occhi come se avesse deciso di far colazione con le nostre teste? — domandò Rinaldo Olinti alla moglie, la quale gettò a Sergio uno sguardo distratto e rispose gaiamente: — Ah! Quello è l’ungherese, un curioso tipo ricco sfondato ed altrettanto pazzo. Te lo presento, se vuoi.
— Per carità, — protestò Rinaldo quasi scansandosi da quel pericolo con un gesto vivace, e soggiunse: — Ma tu lo conosci a quanto pare; anzi, sembra che la mia presenza non lo riempia precisamente di gioia.
— Che vuoi; è un esaltato, piuttosto pericoloso per certe sue strane fissazioni. Egli non parla che delle sue conquiste, s’immagina d’essere enormemente interessante e crede che tutte le donne lo amino alla follia, quindi è geloso per sistema di tutti gli uomini. Pare che con questi principii abbia già combinato parecchi guai.
Bianca Olinti pronunziò queste parole di preventiva difesa col volto più sereno e la voce più indifferente, sbucciando una banana per offrirla al marito con un amabile sorriso.
In quel momento Sergio Kadar s’alzò e poco dopo s’udirono vibrare sui palmizi alte e lontane le prime battute d’una marcia guerriera.
— È Kadar che s’inebria di musica, — spiegò Bianca nell’uscire in giardino, ed aprendo l’ombrellino rosso, mentre suo marito infilava il braccio nel suo e s’avviava con lei alla marina, ella si volse un attimo e lo vide dritto e nero sull’alta terrazza, intento a seguirla, col suo sguardo corrucciato.
Egli la spiò per tutta la giornata ed a sera, dopo pranzo, poichè Rinaldo parlava d’affari con un collega di banca incontrato per caso all’albergo ed ella sfogliava poco lontano una rivista d’arte, riuscì a sorprenderla un momento sola.
— Quando riparte vostro marito? — le domandò rude chinandosi sulla sua spalla come per osservare le illustrazioni del fascicolo che ella leggeva.
— Domani sera, — ella rispose e senza scomporsi aggiunse: — ed io con lui.
Ella sentì i denti di Sergio scricchiolare di collera contenuta e vide la sua faccia illividire:
— Costringerò vostro marito a partire senza di voi, — egli mormorò quasi senza muovere le labbra tuttora chino ad esaminare la tricromia che danzava sotto i suoi occhi.
Ella rise sommessamente voltando la pagina, sebbene il cuore le fosse balzato in gola.
— Mi ucciderete? — domandò con soavità.
— No, farò di peggio, — egli rispose, — lo obbligherò a scacciarvi, ed allora dovrete per forza....
Non terminò la frase poichè Rinaldo sopraggiungeva e la salutò profondamente, ritirandosi.
— L’ungherese ti fa la corte? — domandò il marito ridendo.
— È naturale, — ella rispose con disinvoltura e subito aggiunse preoccupata: — Sai, ho riflettuto che sarebbe meglio partire domattina. Non mi piace viaggiare di notte; accadono così di frequente disastri ferroviari! Hai osservato? Tutti i giorni uno.
— Sì, cara, — consentì il marito sorridendo teneramente di quelle improvvise paure; — tu hai mille ragioni, ma io ho fissato per domattina un appuntamento di affari e non potrò mancare. Partiremo con un treno del pomeriggio e speriamo di sfuggire per questa volta alle catastrofi.
— Speriamolo! — ella ripetè con un profondo sospiro pensando a ben altro che a disastri ferroviari. E non cessò di vigilare suo marito per tutta la sera, lo vide il mattino dopo andarsene tranquillo al suo convegno d’affari, lo attese nell’atrio dell’albergo per evitargli cattivi incontri. A colazione Sergio Kadar non discese. Si udivano i suoi quattro violini gemere disperatamente tra i sospiri della brezza meridiana e il palpito ritmico del mare.
— Finchè i violini suonano io sono tranquilla; egli è lassù e non si muove, — pensava Bianca Olinti sorridendo senza comprendere alle facezie spiritose di suo marito. Cosicchè non si allarmò quando una vecchia signora, recente conoscenza d’albergo, venne a salutarla dopo colazione e Rinaldo uscì a fumare in giardino.
I violini suonavano sempre, ma Sergio Kadar discendeva per la scala esterna della sua terrazza e si dirigeva per un piccolo viale ombroso incontro a Rinaldo Olinti. Quando gli fu vicino s’inchinò e gli disse con voce ferma: — Permettetemi di presentarmi: io sono Sergio Kadar....
— Ungherese — completò Rinaldo osservandolo con curiosità. Egli aveva indossato il suo costume nazionale ad alamari ed a cintura con alti stivali e speroni d’argento. Ma non ostante la fierezza del suo volto, su quello sfondo di mare azzurro e di cielo calmo in quel giardino di palmizi e di rose, pareva un personaggio d’operetta.
— Signore, io vi debbo parlare di una cosa gravissima, — egli annunziò con un tono melodrammatico che fece sorridere Olinti e soggiunse: — ma non qui all’aperto, naturalmente. Compiacetevi di seguirmi.
Infilò un vialetto laterale ed entrò in un piccolo chiosco di finta roccia dov’erano alcuni sedili ed un tavolino di marmo. Rinaldo che lo aveva docilmente seguito e trovandosi in un’ottima disposizione di spirito, si divertiva di quella scena a finale incerto, sedette sul tavolino, appoggiò un piede a terra e l’altro sopra uno sgabello e continuò a fumare aspettando.
L’altro in piedi dinanzi a lui lo fissò un momento coi suoi occhi infossati nell’orbita, poi allargò le braccia e dichiarò cupo:
— Signore, da dieci giorni io sono l’amante di vostra moglie. Questa è la verità.
Seguì una pausa durante la quale Rinaldo Olinti ebbe un primo pensiero: quello di sferrargli un pugno nel petto e mandarlo a ruzzolare nella ghiaia del viale; e poi subito un altro: ch’egli si trovava dinanzi ad un allucinato, ad un maniaco, degno non di collera ma di pietà. — Probabilmente costui fa la corte a Bianca da dieci giorni, — riflettè — e nella mistica esaltazione della sua anima semi-barbara mi annunzia forse a scopo di espiazione che ne è l’amante. Bisogna placarlo e sopratutto non prenderlo sul serio.
E mentre l’altro s’aspettava lo scoppio della gelosia formidabile, propria del bollente sangue italiano, lo vide sorridere con bonomia maliziosa e battergli sulla spalla piccoli colpi benevoli come si fa per blandire un cavallo ombroso od un visionario inquietante.
— Caro signore, io comprendo che voi dovete essere un uomo straordinariamente fortunato con le donne. Ne avete tutte le qualità, — gli disse con un ostentato sospiro d’invidia.
— Signore, vi ripeto che vostra moglie ha con me una colpevole relazione. Questa è la verità, — ribattè con forza Sergio Kadar, sottraendosi con sdegno ai gesti concilianti del suo rivale.
Ma questi non si scompose, nè mutò il tono leggermente canzonatorio della sua voce.
— Nei nostri paesi, carissimo signor Kadar, — gli spiegò con calma offrendogli una sigaretta che l’altro rifiutò con disprezzo, — l’amante non ha l’abitudine di raccontare queste cose al marito tradito. Se ne incarica per lo più un amico intimo, una lettera anonima, il caso. Il colpevole no; a meno che non sia un imbecille od un farabutto.
— Signore, io non sono nè un imbecille nè un farabutto! — protestò l’ungherese stravolto, picchiando al suolo il suo piede speronato.
— Non ne dubito affatto, — affermò Olinti — ed è perciò che vi faccio l’onore di non dare importanza alle vostre parole. Ed ora addio, caro signore, — soggiunse osservando il suo orologio, — io parto fra mezz’ora e mia moglie mi aspetta.
S’allontanò pel viale ed incontrò subito Bianca che lo cercava dovunque, dominando a stento una terribile ansia. Ma il sorriso tranquillo di suo marito la rassicurò.
— L’ungherese ha voluto salutarmi. È un pazzo curiosissimo.
— Davvero? — sorrise Bianca mordendosi le labbra e s’appese al braccio di suo marito perchè le gambe le si piegavano.
In quel momento Sergio Kadar saliva lentamente la scala marmorea tutto scintillante e pittoresco nel suo costume magiaro e s’accasciava a terra col volto fra le palme in mezzo ai suoi quattro tzigani. Allora i violini attaccarono solennemente una marcia funebre.