Anime allo specchio/Un piccolo segreto
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | La serena ignoranza | L'immagine e il ricordo | ► |
UN PICCOLO SEGRETO.
La giovine vedova salì lentamente i centoquindici scalini che portavano allo studio di Franco Devalle e prima di premere il bottone elettrico che sovrastava alla lucida placca d’ottone infissa nel muro accanto alla porta, sostò un momento col cuore palpitante ed il respiro affannoso. Sempre, giungendo dinanzi a quella porta, ella indugiava qualche minuto per riprendere forza dopo la lunga salita e per ricomporsi un viso sorridente da offrire al primo sguardo dell’amico. Quindi allungava la sua mano inguantata di nero e un leggero trillo vibrava all’interno mentre s’apriva istantaneamente il battente e la testa bruno-chiomata di Franco ne usciva insieme al suo braccio il quale afferrava la donna alla vita e la trascinava dentro di colpo, col gesto violento e sicuro con cui si ghermisce una preda.
Ma Nina Fares, la giovine vedova, premette ripetutamente il bottoncino elettrico e vibrarono all’interno prolungati trilli senza che Franco Devalle apparisse. Lo studio si apriva sopra un corridoio fiancheggiato da alcune altre porte ed ella s’appoggiò al muro inquieta e nervosa, domandandosi per quale ragione egli mancasse al consueto convegno. Trasse dalla borsetta una sua lettera del giorno innanzi e la rilesse con attenzione. Non s’era ingannata; egli le fissava l’appuntamento per le quattro del domani e le quattro erano ormai passate da venti minuti. Non le rimaneva che tornare sui suoi passi, tristemente, con la delusione di quella porta rimasta chiusa ai suoi richiami, con un senso d’oscura ostilità per chi la deludeva e già s’avviava lentamente con una ruga di corruccio fra le sopracciglia e il volto angustiato nell’ombra del fitto velo nero, quando un passo affrettato risuonò lungo la scala e quasi d’improvviso Franco le fu d’innanzi e l’accolse fra le sue braccia mentr’ella già poneva piede sul primo gradino.
— Perdonami, amore, perdonami se mi son fatto attendere tanto. La colpa non è mia. La direttrice vuole iniziare un corso di lezioni d’arte e mi ha trattenuto per parlarmene. Immagina come fremevo d’impazienza sapendoti qui ad aspettarmi. Mi perdoni?
Egli la trascinava parlando verso la porta dello studio ed appena l’ebbe rinchiusa alle loro spalle la costrinse a sedere, le tolse il velo, il cappello, i guanti e s’inginocchiò ai suoi piedi cingendole con le braccia la vita sottile che un morbido raso nero avvolgeva e secondava mollemente.
Franco Devalle impartiva alcune lezioni settimanali di pittura in un istituto privato e contava fra le sue allieve una piccola nipote di Nina Fares. Per mezzo di questa era nata fra di essi dapprima una viva amicizia e poi un amore che durava da parecchi mesi senza che nulla o ben poco della loro precedente esistenza e della loro vita familiare fosse l’un l’altra noto. Franco sapeva che Nina era vedova da due anni e che abitava con la madre in una villetta suburbana circondata da un giardino. Nina conosceva di Franco il vasto studio e la piccola camera attigua dov’egli dormiva talvolta intere settimane senza rientrare in casa, sapeva quante ore egli dedicava all’insegnamento dell’arte sua e null’altro. Credeva ch’egli l’amasse perchè la luce del suo volto quando la contemplava e la dolcezza delle sue parole non potevano, non dovevano ingannare, e da molti mesi ella accorreva ogni tre giorni lassù, in quella silenziosa e fresca oasi della sua vita deserta, per illudersi o per sperare o per convincersi d’essere amata.
Ora, non ostante le spiegazioni dell’amico, ella non riusciva a ritrovare il fiducioso abbandono dei giorni innanzi e le perdurava nel cuore e nei nervi l’agitazione di quell’attesa che le metteva sulle labbra un po’ pallide un sorriso incerto e quasi forzato.
— Se tu sapessi che cosa ho pensato in quel quarto d’ora! — ella disse piano a Franco, chinandosi a carezzargli con la sua guancia i capelli.
— Cose orribili, mi figuro, — egli rise senza sollevare il volto, canzonandola teneramente.
— Abbominevoli, — ella proseguì tra seria e scherzosa; — che tu fossi partito all’improvviso senza nemmeno salutarmi; che tu non mi amassi più e cercassi di sfuggirmi; che tu ti fossi rinchiuso qui dentro con un’altra donna.
— Nientemeno! — esclamò Franco scuotendo il capo in atto scandalizzato; — e tutto ciò per colpa delle senili velleità artistiche risvegliatesi oggi nella signora direttrice. Ma io non voglio che si destino un’altra volta in te così ingiuriosi sospetti, e ti svelerò a tale scopo un piccolo segreto che saremo noi due soli a conoscere. Vieni con me.
Egli s’alzò e cingendole col braccio le spalle la condusse passo passo fino ad un angolo semi-oscuro del grande studio, dissimulato da un largo paravento giapponese.
— Vedi, — spiegò Franco accendendo un fiammifero — lì dietro esiste una porta, una porticina segreta come al tempo degli incantesimi, che s’apre precisamente in fondo al corridoio.
— A me pare una porta come tutte le altre, senza segreti e senza incantesimi, — osservò incuriosita Nina esaminando la porticina misteriosa.
— Ebbene no, cara signora, questa porta non è come tutte le altre, — ribattè Franco, fingendosi indispettito; — ed ora lo vedrà.
La ricondusse in mezzo allo studio, uscì con lei nel corridoio, si fermò nel fondo in faccia a due battenti chiusi e coperti di polvere. Franco lasciò il braccio di Nina, sollevò alquanto con la mano uno dei battenti, vi spinse incontro il ginocchio e la porta cedette, s’aperse dietro il paravento giapponese, di colpo, quasi per incanto.
— Ma come? — esclamò Nina Fares stupita e ridente, — si può dunque entrare con tanta facilità in casa tua? Se i ladri lo sapessero, che festa!
— No, no, — mormorò con un gaio sospiro Franco richiudendo con cura la porta dissimulata, — i ladri non vanno a far visita ai pittori e non rubano, purtroppo, i quadri moderni. Da questo lato sono tranquillo. La porticina segreta serve soltanto a me quando dimentico a casa la chiave dello studio, ciò che la mia artistica smemoratezza fa succedere abbastanza spesso. Ed ora servirà anche a te quando t’accadrà di giungere qui e di non trovarmi. Invece di arzigogolare sulle mie partenze furtive o sui miei tenebrosi tradimenti, spingerai la porticina ed entrerai in casa mia ad assicurarti che ne sei tu sola signora e padrona.
★
Trascorsero parecchi altri mesi senza che alla giovine donna occorresse valersi del piccolo segreto per entrare in quel loro silenzioso rifugio d’amore. Ella vi saliva puntualmente ogni tre giorni ed ogni volta la testa bruna ed il braccio di Franco apparivano fra i battenti al primo trillo di campanello per accoglierla e trascinarla dentro con un gesto predace.
Ormai la passione tumultuosa dei primi tempi s’era trasformata a poco a poco in una tenerezza ancora fervida ma non più folle, quasi in una amicizia amorosa che riempiva di fiduciosa tranquillità il cuore di Nina Fares. Solo le doleva di non poter frequentare maggiormente l’amico, rimanergli vicino più spesso e più a lungo, assisterlo durante il suo lavoro. Essi abitavano ai lati opposti della città e la madre di Nina, vecchia e malaticcia, non le permetteva di lasciarla di frequente sola in quella loro villetta alquanto isolata, dove raramente qualche amico di lunga data o qualche provata amica veniva a trovarla. Ma negli ultimi tempi un pensiero audace turbinava nel cervello della giovine vedova e già una volta ella ne aveva fatto cenno a Franco senza tuttavia scoprirgli tutti i suoi misteriosi propositi.
Ella occupava con sua madre il piano terreno e il primo piano della casa, le camere per gli ospiti e quelle per la servitù si trovavano al secondo ed abitava al terzo una famigliuola raccomandata a loro da certi lontani congiunti di suo marito, la quale occupava tre stanzette ed una vasta terrazza a mezzo coperta che sovrastava a tutta la villa. Riusciva facilissimo ricoprirla interamente con una grande invetriata e farne un bellissimo studio per Franco Devalle. Solamente occorreva che la famigliuola se ne andasse, e questa invece pareva risoluta a non muoversi.
— Ti piacerebbe dipingere in una veranda chiara, in mezzo ad un giardino tutto verde, con la vista delle montagne tutte azzurre ed avermi vicina sempre e potermi vedere quando ti piace? — ella chiedeva a Franco di tanto in tanto, senza chiaramente esporgli le sue speranze, ed egli sorrideva come si sorride al racconto di una fiaba, divertito ed incredulo, senza dare importanza a quelle blande fantasie. In realtà egli amava quel suo vecchio studio affacciato sui tetti delle case vetuste, alto e silenzioso sulla città piena di fragori, tutto echeggiante a quando a quando dello squillo lento e profondo d’una vicina campana ondeggiante al sommo d’un campanile fraterno.
Ma un giorno la piccola famiglia del terzo piano ereditò all’improvviso da un parente dimenticato alcuni beni immobili ed accingendosi a prendere possesso della sua proprietà avvertì immediatamente la signora Fares che lasciava libero il suo alloggetto. La vecchia, malaticcia ed abitudinaria, ne fu desolata, ma una indicibile gioia riempì il cuore della giovine vedova e subito ella risolvette di correre da Franco per parlargli di questa inattesa fortuna.
Ella v’era stata il giorno innanzi e l’amico non l’attendeva, ma tuttavia ella non esitò a porre in opera il suo proposito tanto viva era l’impazienza e tanto grande la felicità che l’animava. Trovò per sua madre un pretesto qualsiasi e salita in una vettura di piazza si fece portare senza indugio allo studio di Franco. Non le era occorso mai in un anno d’amore di salire così rapidamente e senza fatica quei centoquindici scalini e di giungere così ansante e così gioiosa presso quella porta.
Toccò leggermente il campanello e un trillo discreto risuonò all’interno, ma l’uscio rimase chiuso.
— Dio mio, egli non c’è, — sospirò la donna gettando uno sguardo al suo piccolo orologio. E notò che esso segnava le quattro e mezzo e che a quell’ora le lezioni di Franco erano finite da un pezzo. Premette una seconda volta e un poco più a lungo il campanello, col cuore che già le doleva di tristezza e di delusione, ma la porta rimase immobile dinanzi al suo sguardo afflitto.
— Bisognerà che io me ne vada e che ritorni domani, — riflettè volgendosi per andarsene a malincuore, ed in quell’atto le venne sottocchio la porticina in fondo al corridoio, la porticina segreta, la porta degli incantesimi. Immediatamente il suo volto si rischiarò. Come mai non le era balzato subito nella memoria il piccolo segreto che Franco le aveva un giorno rivelato? Bastava sollevare alquanto il battente, sospingerlo col ginocchio, forzare leggermente, ed ecco, l’uscio s’apriva dietro il paravento giapponese ed ella entrava nello studio, attendeva pazientemente l’amico e si assicurava una volta di più d’essere ella sola là dentro signora e padrona.
Ora le parole stesse di Franco le tornavano al pensiero e finivano di disperdere nel suo cuore l’inquietudine malinconica di poc’anzi. Tutta lieta s’accinse a tentare l’esperimento, sorridendo tra sè di quel gioco curioso che aveva un leggero sapore d’avventura ladresca. Depose in terra la borsetta e il grande manicotto e col cuore che le batteva come se compiesse un’azione disonesta, s’avvicinò alla porta, ne sollevò il battente e lo forzò con le ginocchia finchè lo sentì cedere sotto il suo peso, scricchiolare sui cardini, aprirsi di colpo.
Involontariamente gettò un piccolo grido, ma la voce le rimase strozzata in gola e d’istinto ella indietreggiò, pallida come una morta: Franco Devalle le stava ritto dinanzi.
Franco la guardava con un volto corrucciato irato irriconoscibile. Egli aveva i capelli in disordine, la blusa da lavoro male abbottonata, i colori disseccati sulla tavolozza che teneva in mano e la sua voce tremava.
— Tu qui? Ma lo sai che oggi non t’aspettavo? E perchè entrare a quel modo?
La sua voce tremava mentre egli le ripeteva queste domande sommessamente, parlandole sul volto come per non essere udito da altri. Ma ella, appoggiata al muro con la bocca suggellata dallo stupore e le sopracciglia congiunte sugli occhi spalancati nell’ombra del velo nero, non rispondeva.
— Ho ricevuto in questo momento la visita d’una signora che vuole un ritratto, — egli proseguiva con voce sempre sommessa ma più rinfrancata, — e guai se ti avesse veduta entrare a quel modo! Tu ti saresti compromessa senza rimedio, ed anch’io. Comprendi?
Allora Nina Fares fu scossa da una lunga stridula sarcastica risata e quel riso parve esalare tutto il veleno che da alcuni momenti s’accumulava nel suo cuore.
— Dovevano enormemente assorbirti quel ritratto e quella visita, poichè io suonai più volte alla tua porta senza che essa si aprisse, — ella osservò fissandolo bene in viso.
— Ti giuro che non ho udito, — protestò Franco; — certamente il campanello non funziona.
— Sì, — assicurò la donna con ironica lentezza, — il campanello funziona benissimo. È piuttosto il tuo spirito che oggi non funziona. Ti sei lasciato cogliere in trappola con una inesperienza, con una incoscienza che sarebbero semplicemente ridicole se non fossero orribilmente dolorose ed offensive.
E mentre ella pronunziava queste parole l’espressione del suo volto mutò; le linee stirate del ghigno beffardo si radunarono, quasi si rimpicciolirono sotto la stretta di una indicibile angoscia.
— Ritorna domani, ti spiegherò meglio, — susurrò ancora Franco rientrando ed accostando i battenti.
— Non ritornerò più, — ella dichiarò brevemente con la voce strozzata e si chinò per raccogliere la sua borsetta e il grande manicotto rimasti a terra. Quindi s’avviò con le gambe che male la reggevano, col cuore che le pesava come piombo, verso la porta. E adagio, appoggiandosi alla ringhiera, discese i centoquindici gradini e sopra ognuno di essi le parve di calpestare coi suoi stanchi piedi una delle illusioni che vi aveva lasciato salendo. Ma giunta in basso ebbe un attimo d’esitazione. E se veramente Franco non le avesse mentito? Se quella visita fosse innocente come egli affermava? Poteva forse assicurarsene aspettando la donna, spiandola quando usciva, cercandole in volto le traccie del tempo passato lassù. Si scosse, scacciò queste ingenue supposizioni, comprese quanta stolta speranza e quanto tenace amore esse tradissero ancora, si vergognò di sè medesima, si compianse amaramente.
Ed uscì in fretta come se temesse di ricadere nell’errore, salì in una carrozza, diede senza esitare l’indirizzo di casa sua.