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Avarchide/Canto XVI

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Canto XVI

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Canto XV Canto XVII
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CANTO XVI

ARGOMENTO

      Salda armatura più che d’adamante,
Su la qual scende ogni aspro colpo invano,
Indossa il rege Arturo; e Maligante
Grave ferita ha nella manca mano.
Contro il Britanno re trascorsi innante
Tanto son Palamede e Segurano,
Che se non v’han Tristano e il fier Boorte
Tratto ci venia dai loro brandi a morte.

i
Dell’oscura stagion la bianca aurora
Con le rosate man squarciava il velo,
Quando il gran re Britanno uscito fuora
Fa di trombe al romor tremare il cielo:
Ond’ogni cavaliero all’istess’ora,
Ogni ardito guerrier con chiaro zelo
Truova l’arme e ’l destriero, ogni buon duce
All’ordine primiero i suoi conduce;
ii
     E tal del suo furor l’alma ripiena
Il sanguinoso Marte ha di ciascuno,
Ch’ogni fosco pensier si rasserena,
Nè che tema il morir si vede alcuno.
Speran tutti in dolzor volger la pena
E ’n bel candido giorno il tempo bruno:
Chi a vendetta, chi a gloria e chi a guadagno
Sè medesmo conforta e ’l suo compagno.
iii
     Senz’ordine ciascun di vino e d’esca
Empie le voglie sue restando in piede
Perchè ’l vigor rinforze e ’l desio cresca,
Ch’al soverchio digiun sovente cede.
Or il troppo aspettar par che rincresca
A chi già il sol nell’oriente vede:
E ben mostrava il ciel com’egli adopra
Quando un suo disegnar vuol porre in opra.
iv
     Già per l’arme vestir domanda Arturo
Il suo sommo scudier, ch’era Agraveno,
Che col fabbro eccellente Caliburo
Quanto facea mestiero apporta a pieno.
Le solerette pria del più sicuro
Acciar che porti il Norico terreno
Gli arma di sotto i piedi, indi lo sprone
Ricco di gemme e d’or sopra gli pone.
v
     Il pesante schinier, che tutto abbraccia
Quanto l’osso primiero in alto ascende,
Di ben sicuri chiodi intorno allaccia,
Congiunto al ferro che ’l ginocchio prende,
Ritondo, curvo e tal che non impaccia
Quando indietro l’accoglie o innanzi stende,
Ch’anco piglia il coscial, che sopra stringe
E con serici nodi alto si cinge.
vi
     Poscia alla regia gola ha in guardia messo
Il saldo acciar, che non le noccia offesa;
L’uno e l’altro braccial gli loca appresso
Ove pria di lunette avea difesa,
Conserto sì, ch’ei non si senta oppresso
Se la lancia o la spada ha in guerra presa,
Ma che quelle crollar possa e lo scudo
Qual di tela coperto o tutto ignudo.
vii
     La possente corazza e fida al petto,
Che pare unque non ebbe, asiede intorno:
In cui scolpio l’artefice perfetto
D’argentato colore e scuro adorno
Tre lune tai quali al fraterno aspetto
Nel quarto del cammin fesser ritorno,
Intricate tra loro e cinte insieme
Sì che mostrin di fuor le corna estreme.
viii
     Di questa arme onorata gli feo dono
L’indovina Morgana sua sorella,
A cui fu mostro dal celeste trono
Come all’antica etade e la novella
Sopra quante altre insegne furo e sono
Tutto il favor devevan d’ogni stella
L’alme tre lune aver dal sommo Giove,
E nel gallo terren vie più ch’altrove.

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ix
     Stavan queste nel mezzo, e ’n giro poi
Nell’estremo di tutto facean fregio
Gli archi stessi, gli strali e i dardi suoi,
Ch’alla vaga Diana erano in pregio:
Nè le reti selvaggie nè i lacciuoi
Il oblio pose il dotto fabbro egregio,
Ch’ivi tutte apparian con sì bell’arte
Ch’a Natura togliean la miglior parte.
x
     E nel giorno medesmo che gli diede
L’alta fata reale il ricco arnese,
Gli dicea che con quello avesse fede
Di largo soggiogare ogni paese;
Del qual doppo lunghi anni essere erede
Uno Enrico devea ch’ad ali stese
Manderia ’l nome suo dall’Era al Gange
E per quanto ocean tra i poli frange.
xi
     Gli spallacci sovrani al loco pone,
Che ’n tra quella e ’l braccial l’omero accoglie;
Cingeli il brando poi che Pandragone
Fè più volte carcar di opime spoglie
Del popolo inimico Anglo, Sassone
Che del suo bel terren varcò le soglie;
E gli diè sovra ogni altro cavaliero
Del marziale onor lo scettro altero.
xii
     Questo, morendo al fine, in man ripose
Il valoroso re del figlio Arturo
Dicendo: L’opre sue sempre famose
Fecer che ’l regno a voi lascio sicuro.
Aggiate lui sovra l’umane cose
In riverenza somma, e al tempo duro
Che vi apparecchie mai l’aspra fortuna
Questa spada cingete sola ed una.
xiii
     I quai detti ubbidìo, ch’a i gran perigli
Non si mise unque poi senza aver lei,
Con la qual sempre mai rendeo vermigli
Di sangue i campi tra i nemici rei;
Nè d’altro brando i micidiali artigli
Di morte furo a gli infernali dei
Larghi de’ suoi trofei quanto di questo,
Che feo più d’un figliuol del padre mesto.
xiv
     Di preziose gemme chiare e dure
Era il fodero intorno rilucente,
Ch’avanzavan del sol le luci pure
Quando più bel si mostra all’oriente:
Conteste in oro tal, che stan sicure
Al percuoter di colpo aspro e possente.
Simil le guardie ha in alto, e ’l pone in cima,
Che di prezzo infinito il mondo stima.
xv
     Con questo, e del medesimo lavoro,
La cintura ricchissima pendea,
Ch’alla parte minore apparia l’oro,
Che di vaghi color l’altro splendea
D’adamanti e rubin posti fra loro
Di rose in guisa care a Citerea,
E di vaghi zaffir, non già smeraldi
Che dell’arme al ferir non restan saldi.
xvi
     Poi per più sicurtà greve piastrone
Il suo caro Agraven di sopra mette,
Sì ch’aggia di temer nulla cagione
D’aste colpir, di spade o di saette,
Qual già nella sua patria regione
Al furor de i giganti in prova stette.
La buffa locò solo al destro lata,
Perchè sia dallo scudo il manco armato.
xvii
     Sovra l’arme lucenti ultima cinge
La ricca imperatoria sopravesta,
Che con gemmato nodo alta si stringe
All’omer manco, ove non sia molesta,
E sotto al destro braccio alato spinge
Il lembo adorno, che scherzando resta:
Ove in campo celeste seminate
Son le corone sue reali aurate.
xviii
     Il feroce corsiero indi gli adduce
Ch’ei suol sempre menar nell’alte imprese,
Sopra cui, qual l’aurora, rendea luce
Il tutto di fin or fregiato arnese.
Il frontale argentato in alto luce,
In cima al qual leggiadramente stese
Sottilissime piume bianche e nere
All’aure ventilar si pon vedere.
xix
     Il crin come la fronte era coperto
Del più sicuro ferro e del men greve,
Nè in tra l’arme nemiche giva aperto
Quel che i colpi maggior primo riceve:
Che ove al falcato collo viene inserto
Cinto il bel petto avea spazioso e leve
Di doppie pelli, che indurate al foco
Piaga d’asta o di stral curavan poco;
xx
     Ma per averlo al gir più snello molto
E perch’ivi il ferir non vien mortale,
Vuol ch’all’ampie sue groppe sia disciolto,
Contra il comune usar, di peso tale.
Ora al primo arrivar, dall’arme avvolto
Senza la staffa oprar sopra vi sale:
Il manco lato allor, restato nudo,
Il famoso Agraven gli armò di scudo,
xxi
     Lo qual cinge sicuro, e l’ha commesso
Con ben ferrati nodi al collo intorno.
Ha del cielo il colore, e in mezzo d’esso
Sta il capo di Gorgon di serpi adorno,
Ch’ha nel guardo crudel lo sdegno impresso
E d’uccider desio, che innalza il corno,
E da ciascun de i lati spira intento
Il Timore, il Sospetto e lo Spavento.
xxii
     Sono intorno di lor di saldo acciaro
Dieci cerchi fortissimi ravvolti
Che del porfiro duro stanno al paro,
E di chiodi profondi al legno accolti.
Di ferro dentro e fuor d’argento chiaro
Color vanno ombreggiando i tristi volti:
Venti sono in ciascuno, e posti tale,
Che di svellergli quindi arte non vale.

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xxiii
     Di color negro a i primi si comprende
Altr’ordine a fortezza ed ornamento.
Il sostegno onde al collo si sospende
Di falde fabbricato era d’argento,
Ove un fosco dragon s’avvolge e stende
Nè d’una fronte sola appar contento,
Ma con tre fere teste e d’ira pieno
Par minaccie a ciascun foco e veleno.
xxiv
     Del più gran re che d’Argo e di Micene
E d’altre alme città lo scettro tenne
Fu questo scudo, allor che d’armi piene
Con mille altere navi a Troia venne
Per darle al suo furar dovute pene;
E di dieci anni al termine pervenne
Col lungo assedio, e poi di chiara frode
Trionfante partìo, se ’l ver se n’ode.
xxv
     Ivi mentre era inteso al grande acquisto,
Che più volte cangiò fortuna e volto,
Ovunque il ciel gli fosse o lieto o tristo
Sempre si ritrovò di questo avvolto.
Ma nel rio letto dal crudele Egisto
E dalla sposa sua di vita sciolto,
Fu tra molti tesor da i servi suoi
Al fratel Menelao condotto poi;
xxvi
     Ch’allor divoto nell’antica Sparte,
Come il merto chiedea, con vero amore
Di Minerva al gran tempio in degna parte
Fece appender in alto: al cui valore
Che fu poi steso in sì divine carte,
Non volle il pio german far altro onore.
Scrisse sol d’Agamennone, il qual nome
Seco avea d’ogni lode eterne some.
xxvii
     Quando poi fu squarciato il fosco velo
Al veder nostro misero mortale
E l’alta grazia ne portò dal cielo
Il gran figliuol del Padre universale,
E dell’uom si converse il vero zelo
A quell’alto Fattor dal sen mortale
Che negli antichi templi intorno tutte
Fur le fallaci immagini distrutte,
xxviii
     Nel famoso Bisanzo a Costantino
Fu lo scudo possente allor mandato,
Ove il tenne in onor quasi divino
Col chiaro ricordar del tempo andato.
Poscia di prole in prole al gran Iustino,
Allora imperador, fu riservato,
Il qual, come di lui più d’altrui degno,
Ad Arturo il donò d’amore in segno.
xxix
     Questo adunque era quel ch’al collo intorno
Del suo gran re sovran pende Agraveno,
Nè in altra guisa il volle fare adorno
Che della riverenza ond’egli è pieno.
Solo in azzurro aurate d’ogni intorno
Di tredici corone ha colmo il seno,
Ch’ei non si possa dir ch’ascosa tegna
L’antica e famosissima sua insegna.
xxx
     Il grand’elmo alla fin, che doppia tiene
Del real viso in guardia la baviera,
Ove l’alto cimier montando viene
Che ’nseno ave del ciel l’ultima spera
Che sol le luci stabili contiene
E sempre dal mattin gira alla sera
Senza mai traviare e l’altre cinge,
Che dietro al corso suo di gir costringe;
xxxi
     Così questo Agraven d’intorno allaccia
Ove più la corazza monte in alto
Verso la gola, e sì che non l’impaccia
Al rivolger il volto ad ogni assalto,
Nè col soverchio peso assiso giaccia
Sopra la fronte l’incantato smalto:
E dir si potea tal, che di tempra era
Non men che l’adamante invitta e vera.
xxxii
     Poi di piastra d’acciar fino e sovrano,
Sol che ben rivoltare e stringer vaglia,
Difesa aggiunge all’una e l’altra mano
Non men dolce a piegar che lenta maglia,
E larga ove il braccial vien prossimano,
Ch’al nodo estremo suo sovr’esso saglia;
E poi che dritto è in sella e fermo ha il piede
La lancia impugna, ch’Agraven gli diede.
xxxiii
     Indi con bel drappel di cavalieri
Che già intorno gli son s’addrizza al vallo,
Ove schiere infinite di guerrieri
Truova attender pedestri ed a cavallo,
E i maggior duci lor, servando interi
Gli ordini, ch’al dever non faccian fallo;
Poi, che stan comandando su le porte,
Vede il franco Tristano e ’l pio Boorte,
xxxiv
     E de i levi destrier prime le torme
Da i lor capi condotte han tratte fuori;
Doppo questi gli arcieri stampan l’orme,
Con gli altri più spediti e frombatori:
Vengon poi quei che di più altere forme
Veston l’arme pesanti e le migliori.
Così tutti passati, ogni uomo attende
Quel che di comandargli Arturo intende;
xxxv
     Il qual tra i maggior duci e i primi eroi
Consigliando il futuro, avea varcato
Dopp’essi il fosso, e va scorrendo poi
Col buon re Lago e con Gaveno a lato,
Che nessun altro vuol di tutti i suoi
Per non mostrar di re l’altero stato:
E l’armate sue schiere guarda intorno,
Che più che forse mai fur belle il giorno;
xxxvi
     E chiamando di molti il proprio nome,
Che di parte maggior non gli era ascoso,
Dicea: Cari figliuoi, dimostriam come
Non è il nostro valor da tema roso,
E che per poco incarco non son dome
Le forze invitte al popol glorioso
Che della gran Brettagna ha sparso il grido
Sotto ambe i poli, e dell’aurora al nido.

[p. cxxxvi modifica]

xxxvii
     Indi, ove i Franchi son, rivolge il passo,
E dice: Alti signor di chiaro onore,
Non si spoglie oggi in voi contr’a Clodasso
Del famoso operar l’invitto amore
Che non giacque ancor mai vinto nè lasso
Da sorte avversa o marziale orrore;
E vi sovvegna che gli aurati gigli
In guardia avete, e i quattro regii figli.
xxxviii
     Vien poscia ove attendea Florio il Toscano,
Che i più fidi Tirreni avea d’intorno,
E dice: Amici miei, la vostra mano
Largo oggi appaghi l’ostrogoto scorno,
E gli mostrate ben che del romano
Sangue scendeste d’ogni gloria adorno,
E che di Florio in core ampia si chiude
Della sua prisca Etruria la virtude;
xxxix
     E che di libertà dolce desio
Con gli ardenti suoi rai vi scalda il seno:
Perchè spegnendo or noi quel seme rio,
Con voi ne vengo di speranza pieno
Ch’al fiorito terren vostro natio
Col favor di lassù sciogliamo il freno,
E facciam che dal Tebro il nobl Arno
Non fia dolce fretel chiamato indarno.
xl
     Segue oltra, ove Tristano ordine dona
All’armoriche sue famose squadre,
E dice: A tai guerrier non sia persona
Che giunga spron nell’opere leggiadre,
Nè rammente il romor ch’al mondo suona
De’ fatti illustri dell’altero padre:
Perch’ei medesmo a sè ricorda ognora
Che sol l’alma gentil la gloria onora.
xli
     Indi scorge Boorte e Maligante,
Il chiaro Lionello e Pelinoro,
Questi ch’erano appresso e quelli avante,
Addrizzando ciascun le genti loro,
E parla: Or oggi alle vittorie tante
Largo s’aggiugnerà novello alloro:
Tal promette di voi la lieta vista,
Che ’ntrepida speranza a i vostri acquista.
xlii
     Or col voler di Dio movete innanzi,
E noi vi seguirem con fermo passo,
Sì che d’ardir non mostri che n’avanzi
L’effeminato popol di Clodasso;
E vedrà il mondo, s’io non m’inganno, anzi
Che scenda il sol dell’oceàno in basso,
Che s’ebbe sopra noi vittoria alcuna
Fu per torto favor della Fortuna.
xliii
     Nè d’altra parte il nobil Segurano,
Che già il tutto sentia, dimora in pace,
Ma con parlare alteramente umano
Sveglia il valore ove indormito giace,
E dice: Ora il Britanno e ’l Gallicano,
Allo spuntar del dì l’aurata face,
Oppresso è di timor, però ch’e’ suole
Sempre perder con noi lucendo il sole;
xliv
     Perchè in guisa d’augei notturni e vili
Tralle tenebre sol si fanno arditi,
E quai timidi lupi, che gli ovili
Dall’ombre ricoperti hanno assaliti,
Ch’al giorno poscia in valli le più umìli
Ascosi stan tra gli spinosi liti;
O s’ei si mostran pur, qual Lucifuga
Ad ogni altrui gridar prendon la fuga.
xlv
     E de’ nostri desir fortuna amica
Oltr’ogni mio sperar, ve li conduce
Fuor del lor nido, che ’l fossato intrica
E gli fa non temer del dì la luce,
A fin che men periglio e men fatica
Aggia del vostro campo ogni buon duce,
E che ’l loro sperar non venga in fallo,
Contendendone al gir l’argine e ’l vallo.
xlvi
     Moviam dunque, signor, con lieto core
Il passo, io non vo’ dirvi alla battaglia,
Ma per mieter sicuro e largo onore
Da chi di cera frale ha piastra e maglia,
E di cui corse invan l’alto romore
Contr’all’abbietto stuol di Cornovaglia
Fra gl’incantati scudi e spade e lance
Di favolose prove e d’altre ciance;
xlvii
     Che i fanciulleschi cor temon talora,
Non quei simili a voi di sommo ardire,
Che per prova intendeste, e innanzi ch’ora,
Quanto sia dall’oprar lontano il dire,
E che dall’apparir già dell’aurora,
Fin che Febo si scorse a notte gire
Fèste de i corpi lor sì fatto strazio
Ier, che ’l nemico Avarco ne fu sazio.
xlviii
     Mentre parla così, già sopraggiunto
Era co’ suoi l’ardito Palamede,
Ch’ha ’l core invitto di desir compunto
D’aspra vendetta delle gote prede;
E Brunoro e Clodin vien seco aggiunto,
Nè Dinadano a lor lontan si vede
Nè Rossano il selvaggio o Brunadasso
Nè alcun duce onorato di Clodasso.
xlix
     E poi ch’han ragionato e fermo insieme,
Muovon co i lor primi ordini le schiere
Verso ove Maligante a destra preme
E Boorte a sinistra il fianco fere:
Con quel romor che ’l mar quando più freme,
Mandando in fino al ciel le spume altere
Che dal nebuloso Austro spinte a terra
Fanno a’ liti pietrosi orrida guerra.
l
     Ma il fero Segurano a questo intoppo,
Lassando indietro i suoi, muove il destriero,
Ch’oltra stendendo il marzial galoppo
Molti Britanni già versa al sentiero.
Quel caval resta morto e questo zoppo,
Ch’agramente oppressato ha il cavaliero,
L’altro si scerne andar nel campo errando,
Chè del miser rettor si trova in bando.

[p. cxxxvii modifica]

li
     Or aperto apparisce il grande Iberno,
Or tra i molti guerrier si vede ascoso,
Qual la luna talor nel freddo verno
Quando il ciel levemente è nubiloso:
Ch’or si mostra, or si copre a danno e scherno
Del lasso viator, ch’ebbe il riposo
Più tardo al disegnare e più lontano,
E la pigrizia sua condanna in vano.
lii
     Tal egli or tra gli estremi, or tra i primieri
Doppo alquanto guardar surto riesce
Quai rapaci delfin vaghi e leggieri
Caccian sott’acqua e sopra il minor pesce.
Ma il saggio Maligante a i suoi guerrieri
Le minaccie e i conforti andando mesce:
Ricordatevi pur che ’l fuggir nostro
Ier di noi insanguinò dell’Euro il chiostro;
liii
     Ma se vorrete ancor, come altre volte,
Oggi, fermando il piede, oprar la mano,
Vedrete di timor le menti avvolte
Al rio popol d’Avarco e Segurano;
E le lor glorie vane in danno volte
E ricercar le mura a mano a mano:
E se in noi fien d’onor le voglie accese
Poco spazio del dì saran difese.
liv
     Or seguitemi dunque, e non v’inganni
Lo sperar di fuggir, ch’oggi è fallace,
Ma ben di ricovrar gli avuti danni
E riportar da i buon lode verace:
Non siam cervi però di giovin anni,
E non è Seguran tigra rapace.
Noi siamo uomini pure, ed egli è uomo,
Dall’arme e dal sudor tal volta domo.
lv
     Con tai detti il buon duce innanzi sprona
In drappel de’ miglior ristretto in uno,
E vien dove il gridar più in alto suona
Dell’urtare e ferir del crudo Bruno;
All’apparir del quale ogni persona
Ben che vil si fa audace, onde ciascuno
Seguendo Maligante addrizza il corso
Inverso Seguran quai cani all’orso:
lvi
     Che de i buon cacciator mossi a i conforti,
Posto in bando il timor, gli vanno intorno,
E cercando cammini ascosi e storti
Cingon latrando il chiuso suo soggiorno;
Ma poi che molti n’ha impiagati e morti
Rifuggon gli altri con dannoso scorno,
E tal di lui gli assal nuova temenza
Ch’all’altrui più invitar non dan credenza.
lvii
     Simil fanno i guerrier di quel di Gorre
Che rivolser la fronte a Segurano,
Che da poi che più d’un per terra porre
Videro, e ’l lor poter contr’esso vano,
Alcun non è che più si voglia opporre
Con sì gran rischio alla feroce mano:
E come l’arme lor fosser di vetro
Spaventati di lui fuggono indietro.
lviii
     Et egli in voce allora alta e superba
Diceva: Or dove son quei cavalieri
Ch’al tenebroso ciel di così acerba
Voglia si dimostraro e così feri
In riversar vilmente sopra l’erba
Il sangue addormentato de i guerrieri?
Or contro a gli svegliati e al chiaro sole
Temon, non che l’oprar, l’altrui parole.
lix
     E con questo parlare uccide Alfeo,
Che volea per fuggir volger le spalle;
Ma troppo tardi per suo scampo il feo,
Che soverchio ha con lui ristretto il calle:
Tal ch’ove è la memoria il colpo reo
Disceso, il pose all’arenosa valle,
E l’esser nato in Vetta non gli valse,
Nè il sì largo imperar quell’onde salse.
lx
     Indi uccise Girfolco a lui vicino
E nel loco medesmo con lui nato,
Ma di sangue minor, che ’l padre Antino
Fu in Vetta rapacissimo pirato:
E i furati tesor d’altrui confino
Non poter del figliuol cangiare il fato.
Chè tra ’l primo del collo e ’l second’osso
Fu dal brando crudel di capo scosso.
lxi
     Truova oltra andando Astaraco ed Echio
Che del re Maligante eran parenti,
Figliuoi d’Ivante, e l’uno e l’altro gìo
Di quei compagno che la morte ha spenti:
Perch’al primier la testa dipartìo
Infin nel cerchio che contiene i denti;
Passa all’altro la milza d’una punta,
Ove al dorso allegata è più congiunta.
lxii
     Il buon duce di Gorre, che ciò vede,
E che ’l suo confortar niente vale,
A vergogna si tien volgere il piede
E lo innanzi seguir sente mortale;
Manda a Boorte, e con prestezza chiede
Saldo rimedio al disperato male.
Corre Abondano, e ’l truova al destro lato
Tra i nemici guerrier forte intricato;
lxiii
     Che co’ levi cavai di Palamoro,
Che temea di Boorte, era venuto
Con più gravi corsieri il re Brunoro,
Il qual fu per allor soverchio aiuto:
Però che in sì grand’urto entra fra loro
Che ’l numero miglior resta abbattuto,
E chi dimorò in piè l’istesso pave,
Fuor solamente il buon guerrier di Gave;
lxiv
     Il qual l’altrui spavento risostiene,
E che non fugga alcun minaccia e prega.
Indi contr’a Brunoro ardito viene
Ove i compagni suoi più batte e piega.
Il leon truova ch’al suo scudo tiene,
Che in argentata sede ardito spiega
La divorante bocca e ’l crudo artiglio,
Vestito di color fosco e vermiglio;

[p. cxxxviii modifica]

lxv
     E di lui fa cader la maggior parte,
E gli fa grave duol nel destro braccio,
Chè ’l ferro che ’l copria tutto diparte
Come se fosse stato vetro o ghiaccio:
Tal che di breve sangue stille ha sparte,
Che al peso sostener dan tanto impaccio,
Oltra la gente ch’ivi arriva stretta,
Che gli chiude il cammin della vendetta.
lxvi
     Pur non resta però, che con la spada,
Che già in alto tenea no ’l fera in fronte;
Ma con poco vigor convien che vada,
Chè male accompagnò le voglie pronte:
E ’l destrier paventando cangia strada
Nè vuol più col nemico esser a fronte,
E di fuggir fra’ suoi dietro lo sforza,
Ch’a chi governa il fren manca la forza.
lxvii
     Così fu trasportato il gran Germano
Fuor, con suo grave duol della battaglia;
E ’l gran Boorte con l’invitta mano
Vie più d’una lorica rompe e smaglia.
In questa a gran furor giunge Abondano
E ’l prega umilemente che gli caglia
D’aiutar Maligante al manco corno,
A cui fa Seguran dannaggio e scorno,
lxviii
     Et ei mosso a pietà, vedendo ancora
Lassare a’ suoi guerrier securo stato,
Nestor di Gave appella ch’a d’ognora
Col suo cugin Baven si trova a lato
E dice ad ambedue: Bene in brev’ora
Da Maligante a voi sarò tornato.
Prendete in questo mezzo cura tale
Che non venga tra voi piaga mortale.
lxix
     Poi, quanto può spronando, in fuga truova
Senza fren ritener quasi ogni gente,
Che ’l dir di Maligante a nessun giova,
Che ’l fero Seguran presso si sente:
Al qual corre Boorte, e mette in pruova,
Com’altra volta, il braccio suo possente;
Ma vien la spada alla sinistra spalla,
Ch’alla fronte addrizzato il colpo falla.
lxx
     Pur fu cotal che se men duro alquanto
Il suo fosco dragon lo scudo avea,
Fora di Seguran quel giorno il vanto
Forse in pregio minor che non solea.
Salvollo adunque, ma squarciosse quanto
Ne prese il brando, onde sua sorte rea
Biasmando disse: O re famoso Iberno,
Troppo avete in favore il Regno eterno;
lxxi
     E lui più solo e ’l troppo duro scudo
Devete ringraziar, non l’opra vostra,
Che son cagion ch’io m’affatico e sudo
Indarno, e nulla val la forza nostra.
Ma l’aspro Segurano irato e crudo
Risponde: Se fia ver che la man mostra,
E non la lingua, il gran valore altrui,
Tosto il farò veder, Boorte, a vui.
lxxii
     E ’n tai parole con più forza il fere
Che facesse pastor già mai mastino
Che ’l vaso pien di latte feo cadere
Quando mungea le gregge nel mattino:
Ma nello scudo sol venne a cadere,
Che della testa allor cuopre il confino,
E non men di dolerse ebber cagione
I candidi ermellini che ’l dragone.
lxxiii
     Era aspra la quistion, se in quell’or anco,
Come fra lor più volte era avvenuto,
Non la sturbava d’uno e d’altro fianco
Il popol già vicin sopravenuto.
Spartonsi dunque, e dove rotto o stanco
Più vede il corno suo, lì porge aiuto
Ciascun de i cavalier, nel core acceso,
Che gli par dal nemico esser offeso.
lxxiv
     Truova Boorte il caro Maligante
In micidial battaglia con Rossano,
L’uno e l’altro di lor guerriero errante,
D’ardir, di forza e di valor sovrano.
L’uno e l’altro di lor d’aspro e pesante
Colpo ha impiagata la sinistra mano,
Ch’ambo han rotti gli scudi e stesi a terra,
Ma con le destre sol fanno aspra guerra.
lxxv
     Ebbe di ciò veder soverchia doglia,
Nè sa ben che si fare in tale stato.
Di vendicar l’amico avria gran voglia,
Poi gli par di guerrier grave peccato
Se d’un ferito e sol cercasse spoglia
Di due spade concordi accompagnato;
Onde grida lontan sì che quel solo
Fuggendo ritrovò l’amico stuolo.
lxxvi
     Guarda Boorte allora, e lasso vede
Punto d’alto dolore il re di Gorre,
E che ’l sangue stillando infino al piede
Dall’impiagata man sì largo corre
Che ’l mancante vogor fugace cede:
Tal che convenne al fin dietro a lui porre
Megete il suo scudier, che ’l sostenesse
In fin che ’l padiglion trovato avesse;
lxxvii
     E fu ben perigliosa, che venìa
La piaga ove la man la palma stende
Tra ’l terzo osso e ’l secondo che s’invia
Ove il dito più grosso il valor prende,
E che spesso al perire apre la via,
Contraendosi i nervi ch’ivi offende;
Ma il subito rimedio e la pia sorte
E l’arte di Serbino il tolse a morte.
lxxviii
     Or Rossano il Selvaggio, che riposto
Tra’ suoi nel loco istesso era ferito,
Grida altamente ch’a Boorte opposto
Sia qualche buon guerrier non meno ardito:
Se non che Palamor si vedrà tosto
Con gli Aquitani suoi sgombrare il lito.
Come ciò sente il forte Palamede
Saglie a caval, chè si trovava a piede,

[p. cxxxix modifica]

lxxix
     E lassa il valoroso Bustarino
Ch’ivi in vece di lui meni le schiere
E segua Seguran, ch’era vicino
Tra’ suoi tornato, e già sospinge e fere
Contra il prode Tristan ch’al suo cammino
Quanto può dritto andar si può vedere.
Or giunto il re dell’Ebridi, Boorte
Truova che spinge gli Aquitani a morte;
lxxx
     Ma perchè ha in man la lancia, e ’l pungev’onta
Sopra tal cavaliero usar vantaggio,
Del popolo infelice abbatte e smonta
Quanti altri incontra col nodoso faggio.
Sopra il nono è fiaccato, e si raffronta
Allor col brando al nobile paraggio,
E chiamamdo altamente il re di Gave
Il vede a lui venir, chè nulla pave;
lxxxi
     E chi sia gliel discuopre il nero e bianco
Scudo ch’ei porta, e le gemelle spade
Che sol d’ogni guerrier si cinge al fianco
Mostrando ch’a più d’un guerra gli aggrade
E vergogna gli fora il venir manco
A qual coppia miglior che ’ncontra vade.
Fassi lieto Boorte, e ’n cor si gode
Di provar cavalier di tanta lode.
lxxxii
     Quanto può questo e quel contra sì sprona
Quasi un veloce stral che l’altro assaglia:
Nè ’l caldo Mongibel sì forte tuona
Come il percuoter loro alla battaglia.
Sotto, sopra, da i lati e ’ntorno suona
Ogni scudo in un tempo et ogni maglia,
E chi i colpi ch’ei fan contar volesse
Potrebbe anco contar le stelle istesse.
lxxxiii
     Perch’assai meno spessa dal ciel cade
Neve al gelato dì, grandin l’estate,
Che si scernon di lor le gravi spade
Or in basso cadute, or rilevate:
E nessuna ivi appar che ’ndarno vade,
Tante arme intorno già sono squarciate.
E perchè l’uno e l’altro cavaliero
Fu più d’altro ancor mai snello e leggiero,
lxxxiv
     Pare ogni brando lor la lingua acuta
Di serpe annosa che sen forba al sole,
Che ’n tal prestezza la rivolge e muta
Che sembrar triforcata al guardo suole.
Tal s’ingannò di molti la veduta
All’assalto mortal, che creder vuole,
Scernendole alte e basse all’istess’ora,
Che tre spade ciascuno oprasse allora.
lxxxv
     Ma come a Segurano, a Palamede
Pur il medesmo, e per la calca, avvenne,
Ch’alla lite ciascun forzato cede
Al gran seguace stuol che sovra venne.
E così questo e quel rivolge il piede
Sopra il misero vulgo, e cammin tenne
Sì diverso in tra sè, che non poteo
Il desir disfogar che ’n core aveo.
lxxxvi
     Intanto Maligante, a cui la mano,
Raffreddata la piaga, il duolo accresce,
Fu dal pio Arturo scorto di lontano,
E per lui ritrovar della schiera esce.
E ’nteso il caso, al dotto Pellicano
Et a Serbin promesse e preghi mesce,
Raccomandando molto alla lor arte
Perchè in esso è di lui la miglior parte.
lxxxvii
     Poi pensando in suo cor che ’l destro corno
De’ suoi levi cavai sia senza duce
Perchè Boorte far devea ritorno
Ove il periglio manco il riconduce,
Gire al soccorso lor con quelli intorno
Ch’a regi e cavalier l’animo induce,
E col romor che fa l’arme di Giove
In ver la dritta parte il corso muove,
lxxxviii
     E col furor medesimo percuote
Nel loco ove lontano è Palamede.
A ciascun di timor l’alma si scuote
Quando in un punto istesso e sente e vede
L’invitta schiera, e s’empie il ciel di note
D’aspro dolor di quei cui primi fiede
Di mille gravi lance il duro intoppo,
Ch’al più profondo scoglio saria troppo.
lxxxix
     Il Britannico re, che innanzi arriva,
Ascalaso Aquitano incontra il primo
E dall’alto caval di quella riva
Trapassato nel core il pose all’imo.
Col colpo istesso della vita priva,
Che dietro a lui venìa, l’ispano Edimo;
Doppo lui ’l terzo e ’l quarto non ferito,
Ma sotto i lor cavai prostese al lito,
xc
     Che l’uno Edippo fu, l’altro Calisto,
Ambedue nati già sopra la Sorga,
Pria che ’l suo corso al Rodano commisto
Il ventoso Avignon vicino scorga.
Indi col brando in man doglioso e tristo
Fa qualunque guerrier suo destin porga
Di spronar contr’a lui, che dove stampa
Il dispietato ferro un sol non scampa.
xci
     Uccise ancora il misero Foreno,
Che nacque all’Allobrogica Lisera,
E gli mandò la testa su ’l terreno
Come grandine i fior di primavera.
Dopp’esso Cresio, del medesmo seno,
Ma in basso alquanto, ove più torre altera,
Che le tempie ambedue traverse passa;
E Palarcon con lui morto anco lassa.
xcii
     Poscia il compagno suo segue, Balerto,
Che ’n dietro quanto può ratto fuggìa,
Il qual, per gli altrui danni del suo certo,
Mal ritruova al suo scampo aperta via:
Che ’l valoroso Arturo dove inserto
Par che ’l collo co i nervi al capo stia
Con un riverso in tal maniera il coglie,
Che tosto quel da questi si discioglie.

[p. cxl modifica]

xciii
     Truova Promaco appresso, che signore
Fu grande all’Aquitanica Roccella,
Ch’avanzò di ricchezza e di splendore
Quanti allor Visigoti erano in ella,
E ’ntorno avea di sangue e di valore
Schiera di cavalier fiorita e bella
Che viene a ricercar col cor sicuro
Ove tanti uccidea l’invitto Arturo;
xciv
     E perchè innanzi a gli altri alquanto sprona,
Lui rincontra il Britanno tutto solo,
Cui sì gran colpo sopra l’elmo dona
Che ’l fa cader senza sentirne duolo.
Degli altri, ch’eran seco, l’abbandona
Tutto in un punto il fuggitivo stuolo,
E l’orme ivi ciascun più ascose segna,
Temendo che ’l medesmo a lui n’avvegna.
xcv
     Qual la misera cerva che si vede
Presso al fero leone il picciol figlio,
Che si strugge di duol, ma non provvede,
Che gliel vieta il timor del crudo artiglio,
E mentre in dubbio tien la mente e ’l piede
Il crudo predator fatto vermiglio
Scerne del sangue pio, perch’ella al fine
S’appiatta e fugge alle più ascose spine;
xcvi
     Tale avvien di costor, ma d’essi parte
Non pòn di lui schivar l’invitta spada.
Questo ucciso rovina, e quello sparte
Vede le membra sue sopra la strada:
Non val contro al gran re l’ingegno o l’arte
Nè il sentier ritrovar che cieco vada,
Che ’l feroce corsier sì ratto vola
Che la speranza e ’l tempo a tutti invola.
xcvii
     Ma non molto indugiò, che ’l gran romore
L’orecchie a Palamede ripercuote:
Che poi che di Boorte ave il furore
Quetato in parte, gìo per vie remote
Come il portò il bisogno e l’aspro core
Ove altro duce contrastar non puote;
E lì facea con nuova meraviglia
D’infiniti guerrier l’erba vermiglia.
xcviii
     Or cangiando sentier tosto s’invia
Ove sente il romor del gran Britanno,
Ed a quanti altri sien ch’ei truove in via
Dona perpetua notte o lungo affanno;
Tra’ quai Finasso il Bianco, che venìa
Facendo a’ suoi nemici estremo danno:
E gli dà colpo tal sopra la testa
Che senza senso aver qual morto resta,
xcix
     Ma, da’ suoi ricevuto, si sostiene
Sopra la sella pur tanto, che uscito
Fuor della stretta calca in luogo viene
Ove letto sicuro ha il basso lito.
Truova Agraven, che vendicar le pene
Dell’amico fedel cerca ferito,
Ma non può a sì gran forza contraddire
Ch’al destinato fin gli tocca il gire.
c
     Poi di Landone il destro e d’Uriano,
E del Brun senza gioia e di Malchino
L’intoppo incontra, che porgean la mano
Per romper l’onorato suo cammino,
Pensando in lor che poi sarebbe vano
L’aiutar il gran re da tal vicino,
E tanto più se in aspettato vegna
Mentre altrove occupato il brando tegna.
ci
     Ma il fero re dell’Ebridi, qual suole
Tigre che molti dì fame sostenne,
Che doppo un lungo andare all’ombra e al sole
Bramato armento ritrovar s’avvenne,
Che morso o piaga non l’affligge o duole
Di cane o di pastor ch’ivi convenne,
E mal grado di quei sbrama la voglia
Sopra il toro primier ch’al pasco accoglia;
cii
     Tal ei, senza curar dell’altrui brando,
Con la fronte abbassata cerca Arturo:
Il qual d’ogni timor viveva in bando,
Che gli parea da’ fianchi esser sicuro,
Allor ch’ei sente pure alto chiamando:
Eccovi, o sacro re quel giorno oscuro
Che in man di Palamede vi ripone,
Con gran lode di lui, morto o prigione.
ciii
     Rivolgesi il gran re, che questo ascolta
E gli è noto di lui l’alto valore,
Lassando di seguir la schiera folta,
Ma intrepida la mano e fermo il core;
E gli dice: Speranza frale e stolta
Avrà ciascun che risvegliar timore
In questa alma vorrà, che sola cede
A chi ritiene in ciel l’eterna sede.
civ
     E per mostrargli ben che poco il cura
Fu il primiero, e ’l ferì sopra la testa:
Ma così ferma in essa è l’arme e dura
Che in aria il colpo e senza danno resta:
Ed ei, ch’era possente oltra misura
E se mai in altra guarra or brama in questa
Spiegar quanta ha virtù, di pietà nudo
Scarca il brando mortal sopra lo scudo;
cv
     E dalle aurate tredici corone
Ond’egli è tutto intorno inghirlandato
Quattro, che ’n cima son, rotte ne pone
Lontan dall’altre all’arenoso prato.
Ma in mille parti adoppia la quistione,
Che ’l desir va crescendo in ogni lato
Di provveder per lui ratto soccorso,
Ond’ogni buon guerriero ivi era accorso.
cvi
     Tra’ primi fa al venir Florio il Toscano;
Seco avea Gargantino e Talamoro,
Il cavalier Norgallo et Abondano
Con Meliasso il bello e ’l buon Mandoro,
Il famoso Bralleno et Amillano,
Alibel, quel di Logre et Arganoro:
Ma il pio re Caradosso innanzi viene,
Che la candida insegna in alto tiene,

[p. cxli modifica]

cvii
     E con forza cotal ciascuno spinge
Il feroce corsier, che Palamede
Non può più innanzi andar, ma si ristringe
Co’ suoi, che accinti al gran bisogno vede,
Ch’ogni buon cavalier già si dipinge
La palma in cor di mille ornate prede,
Da poi che scorgon sol l’alto Britanno
Da’ suoi duci miglior che lunge stanno.
cviii
     Ivi è già il Fortunato e Bronadasso,
Safaro, Dinadano e Bustarino,
Il possente Argillone e Matanasso,
Che fu già di Durenza aspro vicino.
Or poi ch’ha con costor raggiunto il passo
Il fero re dell’Ebridi, il cammino
Riprende contra Arturo e ’l nuovo corno
Che gli ha fatta muraglia e vallo intorno;
cix
     Di toro in guisa che nel pasco erboso
D’amor sospinto col rivale è in guerra,
Che ’ndietro torna a render più spazioso
Campo allo scontro, e ’l corso poi disserra
Sì ratto e fermo, che vittorioso
Sè vede, e l’avversario essere a terra,
Che giovinetto ancora o manco saggio
Non prese al suo ferir pari il vantaggio.
cx
     Urta il forte drappel con tanta forza
Che ’l poteo sostener quell’altro a pena.
Pur la chiara virtù, che ’l corpo sforza,
Prestò in quel punto lor vigore e lena;
Ma il caval di Brallen, la pioggia e l’orza
Alternando più volte, in su l’arena
Cadde su ’l ventre al fine, e ’l suo signore
Tosto del fascio rio si mise fuore.
cxi
     Fè il medesmo Abondan, che ’l suo destriero
All’apparir di quei si leva in alto
Per oprar morso e piè, tal che leggiero
Fu a Dinadan di porlo su lo smalto.
Drizzosse anch’ei, ma più sicuro e fero
Che libico leone in quell’assalto
Fu il re, poi ch’al ferir di Palamede
Con disvantaggio tal cinto si vede.
cxii
     Ma potea mal durar, chè stretti insieme
Son lassando tutti altri a lui d’intorno,
Ripensando fra lor che ’l frutto e ’l seme
Di tutto il guerreggiare avea quel giorno
Chi d’un tal re, cui tutto il mondo teme,
Andar potea della vittoria adorno;
E Safar, Bustarino e ’l Fortunato
L’han col lor Palamede circondato.
cxiii
     Florio e Bralleno e ’l cavalier Norgallo
Stan, quai ferme colonne, alla difesa:
Quello sprona al traverso il suo cavallo,
Ove più pensa a quei far grave offesa,
Quest’altro al dritto, e nessun fere in fallo,
Che quanto venga d’alto e quanto pesa
La spada di ciascun posson sentire,
Ma disposto hanno in cor tutto soffrire.
cxiv
     Non altrimenti fan ch’affamato orso
Che ’l soave tesor dell’api trove,
Ch’indi a farlo ritrar non val soccorso
Di robusto villan che l’asta muove
Nè dell’ago di lor l’aguto morso,
Nè di crudo mastin ferite nuove:
Ma schernendo ogni offesa, e d’ogni parte,
Mentre che dura il mèle indi non parte.
cxv
     Simil fan questi quattro, ch’all’estremo
Quasi han condotto il misero Britanno,
Ch’era di spirto omai sì frale e scemo,
Che poco era lontan l’ultimo affanno.
Ma il famoso Boorte a vela e remo,
Ch’avea sentito il gran pubblico danno,
All’ultimo bisogno apparito era,
Quando il giorno miglior giungeva a sera.
cxvi
     Quale al miser nocchier, ch’a notte oscura,
Poi che rotte ha dal mar sarte e governo
E l’antenna spezzata o mal sicura
Sopr’ arbor frale al tempestoso verno,
Ch’ovunque ei guarda omai, di morte dura
Vede l’imago e del tartareo inferno,
Ch’ogni dolce in un punto gli riduce
Il pio splendor di Castore e Polluce;
cxvii
     Tal fu al misero Arturo, che si scorge
Fra tanti e tai guerrier con poca spene,
Com’ei sente il romor che in alto sorge
Del pio Boorte ch’al soccorso viene.
Ogni perduta forza in lui risorge,
E s’apparecchia a dar dovute pene
A chi ’l tratta sì male, e ’n questa sente
Già Boorte arrivar tra quella gente;
cxviii
     Che, quai levi cervier ch’aggian trovato
Da boschereccio arcier ferita dama,
Che l’han raggiunta, e l’uno all’altro lato
Il passato digiun sovr’essa sbrama,
Ch’ivi il fero leon sovra arrivato
Veggion vicin, come la voglia il chiama,
Ch’a lui lassan la preda, e si rimbosca
Ciascuno ov’è la via più ascosa e fosca;
cxix
     Così fer questi: e trova Bustarino
E ’n fronte il fere tal, che non più vale
A sostenerse in piè, che su ’l cammino
Andò volando a troncon rotto eguale.
Safaro e ’l Fortunato a lui vicino
Col medesmo furore appresso assale:
Non abbatte già quei, ma concia in modo
Ch’al famoso suo re squarciato ha il nodo.
cxx
     E ’l truova che la spada gli è caduta,
Ma sospesa la tien la sua catena:
Nel destro braccio avea breve feruta
Tra ’l gomito e la man presso alla vena
Che dal capo s’appella, al quale aiuta,
E può nuocere ancor soverchio piena.
L’elmo avea bene intero, ma la testa
Intonata de’ colpi e debil resta.

[p. cxlii modifica]

cxxi
     Ponselo al tergo, e ’ncontra s’apparecchia
Al fero Palamede che l’attende;
E gli dà un colpo alla sinistra orecchia
Sì che lunga stagion l’udire offende:
E rinovar con lui la lite vecchia
Il pensier giovinil dolcezza prende,
Ma ben poco durò, che al proprio punto
Nuovo d’altri guerrier drappello è giunto,
cxxii
     Che di molosso in guisa, che sentito
Di cani e cacciatori aggia al romore
Che scoperto è il cinghiale in qualche lito
Onde mal grado suo si trove fuore,
Che per sentier più breve e manco trito,
Non curando di spine aspro rigore
Che gli offenda l’orecchie, gli occhi e ’l dorso,
Ove ’l pensa trovare addrizza il corso,
cxxiii
     Subito appar l’altero Segurano,
Che lassando ogni impresa ivi s’avventa
A fin che di Britannia il re sovrano
Senza lui morte o carcere non senta:
Invido fatto in sè che alcuna mano
Se non la sua di farlo s’argomenta;
E giunse in tempo che lo avea Boorte
Tratto già di periglio e d’aspra sorte,
cxxiv
     Che mentre in guerra sta con Palamede,
Il cavalier Norgallo e Florio insieme
Han posto Arturo in più secura sede
Fuor della schiera avversa che gli preme,
E verso il padiglion volgono il piede:
Che già il misero re sospira e geme
Del dolor della piaga ch’ave al braccio
E ch’a difesa far gli dona impaccio.
cxxv
     Ma l’Iberno crudel come saetta
Senza sospetto lor già sovra giunge.
Molti bassi guerrieri a terra getta,
E ’l cavalier Norgallo al fianco punge:
Ma non fu il colpo suo senza vendetta;
Perchè Florio al soccorso si congiunge
Del dolce amico, e ’l capo a lui percote
Sì che tremar gli ha fatte ambe le gote.
cxxvi
     Ma di questo nè d’altro non gli cale,
Chè tien solo al gran re l’animo inteso,
E col valor ch’avea quasi immortale
Il possente suo brando ha in lui disteso:
E bene era al cader più che mortale,
Ma dal chiaro Toscan sì ben difeso
Fu col suo scudo del purpureo giglio
Che scampare il poteo d’ogni periglio.
cxxvii
     Venne intanto Alibello ed Arganoro,
Amillano e Taulasso al maggior’ uopo,
E fan nuova muraglia al re di loro:
Chi davanti, chi a i fianchi e chi gli è dopo;
E ’l fero Iberno entrato fra costoro
D’ira avea gli occhi in guisa di piropo,
E batte questo e quel, ma indarno adopra,
Che pur troppo era solo a sì grand’opra.
cxxviii
     Ma la fortuna avversa del Britanno
Conduce a Seguran novella aita,
Che ’nsieme congiurata al nuovo danno
Gli vien de’ suoi miglior gente gradita:
Con Arvino il fellon congiunti vanno
Grifon, Brumen, Farano, il forte Archita,
Il Ner Perduto, il perfido Agrogero,
Ferrandone, Esclaborre e Sinondero;
cxxix
     E qual grandine folta, ch’al pastore
Che ’ncontro a levi piogge avea di fronde
Fatto un debile albergo, che in poch’ore
Tutto il sostegno van batte e confonde;
Tale aggiunti costoro al gran furore
Ch’estremo in Segurano il cielo infonde
Quanto riparo avea nell’aspra guerra
Arturo intorno a sè, pongono a terra.
cxxx
     Il cavalier Norgallo e Florio in piede
Di quanti altri vi son restano a pena:
Gli altri han del suo destrier cangiata sede
E sotto il peso lor calcan l’arena.
Il buon re quasi alla sua sorte cede,
E di vivo restar si muor di pena:
Che ’l fero Seguran già ardito piglia
Del suo regio corsier l’aurata briglia.
cxxxi
     Ma il famoso Tristan, che in altra parte
Ha del suo re maggior la piaga intesa,
Qual leve stral da cocca si diparte
O saetta dal ciel per l’aria accesa,
Con più furor che ’l bellicoso Marte
Non feo mai de’ giganti all’alta impresa;
E giunge appunto in quel che Segurano
All’onorato fren ponea la mano.
cxxxii
     Nè battè mai sì forte in Mongibello
Ciclopo incude, quando irato è Giove
Che Tristan fè in quel punto sopra quello
Che vuole il suo signor menare altrove.
Colselo nel cimiero, e cader fello
Come piuma sottil, che l’aura muove;
E gl’intuona il cervel sì che la testa
Quasi sopra l’arcion dormendo resta.
cxxxiii
     Vassene oltra spronando, e trova Archita
Che vien del suo signore alla vendetta,
E senza fronte avere e senza vita
In due tronchi diviso a terra il getta.
Esclaborre e Grifon, che in nuova aita
Tengono ad ambe man la spada stretta,
Quel nella spalla destra e questo al fianco
Percoteva aspramente il lato manco.
cxxxiv
     Non cadder già, ma d’ogni forza privi
E senza più impedirlo dimoraro.
Il cavalier Norgallo e Florio, ch’ivi
Scorgono a i lor disegni alto riparo,
Il grande Arturo, che sanguigni rivi
Versa dal braccio con dolore amaro,
Riconducon securo al padiglione,
Ove angoscioso al letto si ripone.