Avarchide/Canto XXIII

Da Wikisource.
Canto XXIII

../Canto XXII ../Canto XXIV IncludiIntestazione 31 agosto 2009 75% Poemi

Canto XXII Canto XXIV

 
Il subito cader di sì gran duce,
ch’era d’ogni suo ben la prima speme,
ne i germanici cor tal tema induce,
che per tosto fuggir l’un l’altro preme;
ciascun con ratto piè si riconduce,
ove vedea de’ suoi più gente insieme;
e ch’apparia la strada più secura,
per gir d’Avarco alle bramate mura.

Ma in questa arriva il fero Brunadasso,
ch’avea seco i guerrieri, ove Eno e Lico
s’accompagna con l’Istro e scende in basso,
ove il Retio terren più viene aprico;
e con gran cura il fuggitivo passo
di quel popol vicino e dolce amico
d’arrestar cerca; e tutto andava in vano,
ch’ei senz’altro ascoltar giva lontano.

Né potendo altro far, rivolge il piede,
ove non lunge a lui dal destro lato
contra il re Lago il nobil Palamede
in intricata guerra avea lassato;
quinci e quindi spronò tanto, che ’l vede,
e ’n parlar basso a tutti altri celato
disse: “O gran re dell’Ebridi, noi semo
senza il vostro soccorso al punto estremo.

Morto è Farano, Estero e ’l suo Drumeno,
e ’l peggio è Dinadan poscia e Brunoro
dal crudo Lancilotto, che ’l terreno
ha bagnato pur or del sangue loro,
e già sopra i German trionfa a pieno,
qual sovra le giovenche, ch’han del toro
già smarita la guardia e del pastore,
sfoga il lupo famelico il furore.

E però se di noi punto vi cale,
del vostro Segurano e di Clodino,
venite a dar riparo all’aspro male,
ch’al mortal nostro danno è già vicino”.
Grave e noioso duol l’Ebrido assale,
l’altrui biasmando e ’l proprio suo destino,
e riman dubbio alquanto, s’egli sproni
ver Lancilotto e i suoi quivi abbandoni;

o se pur segua l’opra, ove ha speranza
danneggiare il re Lago e ’l figlio Eretto;
ma il pensier, che d’onor quel primo avanza,
scaldò più il cor nell’animoso petto,
e di poter gli reca alta baldanza
riportar la vittoria al fin perfetto,
se Lancilotto spegne; che sol’era
degli avversari lor la luce intera.

Così fremo in tra sé, Safaro il frate,
che non lunge era a lui, chiama in disparte,
e gli dice: “Or’ il tutto riguardate,
che sia ben provveduto in ogni parte,
mentre ch’io vò dove ha rotte e fugate
le nostre genti ed ha per terra sparte
le germaniche insegne Lancilotto,
e con molti Brunoro a morte indotto”.

Tremò tutto nel core il pio Germano,
quando udio del guerrier la dura impresa,
e risponde: “A me par, ch’adopre in vano,
chi sé abbandona per l’altrui difesa;
e chi più, che ’l suo stesso, ama lo strano,
caritade ha di torta fiamma accesa;
volete voi lassar per altrui scorno
senza il suo proprio duce il vostro corno?

Et or, che quasi in man certa vittoria
già degli Orcadi avete e di Gaveno,
per dubbiosa, dannosa e vana gloria
la volete lassar nell’altrui seno?
quando fia lunga e chiara la memoria
nel patrio nostro e nobile terreno,
quando saran degli Ebridi le soglie
degli Orcadi vicin carche di spoglie?

Come fia più gran suon del nostro nome,
che d’aver vinto sol di Bano il figlio?
e d’infiniti aver le forze dome,
che del sangue d’un solo esser vermiglio?
per qualli ornati avrem l’Ebridi chiome
dal britannico fior, dal Franco giglio,
abbattendo color, che ’n su la cima
tien di valore il mondo e invitti estima;

non per aver’ ucciso un guerrier solo
di furor più ripien, che di virtude,
giovine e traportato d’alto duolo,
che del morto compagno in lui si chiude;
prenda il vostro desio più altero volo;
cerchi il vostro affannar più degna incude;
e la spada famosa in ogni terra
sia posta in opra a più lodata guerra”.

Il fero Ebrido allor, che ’ntende e vede,
che ’l timor, ch’ha di lui, muove il suo dire,
risponde irato: “Or dunque a Palamede,
che di portar due spade ha solo ardire,
fallirà l’alto cor, la mano e ’l piede
dell’una e l’altra impresa oggi fornire,
d’uccider quello e d’esser presto poi
a distrugger qui Lago e tutti i suoi?

Rimanete pur voi, prendendo cura
a’ bisogni più gravi, in fin ch’io rieda
da trarre il nostro popol di paura,
che d’un sol cavaliero è fatto preda;
mostrando altrui, come a virtù matura
il giovinil furor piegando ceda,
e gran fiamma, che vien da picciol foco,
al tempestoso ciel contraste poco”.

Così detto si parte e ’l fratel lassa
pien di dubbio dolor di tale impresa;
e col suo Brunadasso oltra trapassa,
ove il figlio di Ban fa grave offesa
alla gente d’Avarco in guisa lassa,
che posta ha nel fuggire ogni difesa,
mentr’ei volgendo a questa e a quella amno
l’odiato Seguran ricerca in vano.

E mirando, vicin vede a lui farse
l’altera coppia, che spronando viene;
ch’al primo riguardar degna gli parse,
che d’esser l’un de’ duoi gli accenda spene;
e di sì gran desir nell’animo arse,
che d’alquanto aspettargli non sostiene,
ma incontra spinge il candido corsiero,
lassando a lui del fren l’arbitrio intero.

Ma poi che più s’appressa e bianco e bruno
in quadri minutissimi distinto
scorge lo scudo in alto, sa che l’uno
sia Palamede, che ne viene accinto;
e di due spade, onde mai fu nessuno,
sopra il sinistro fianco il vede cinto;
dell’altro il cancro aurato in negra sede,
che Brunadasso sia gli ha fatto fede.

In guisa di levrier resta smarrito,
che da lunge venir damma o cervetta
seco stimando, per l’erboso lito
or si fa incontra ed or nascoso aspetta;
ché sdegna in sé, del suo pensier fallito,
poi che vide, ch’ei fu correndo in fretta
un cornuto monton, che a quella strada
d’alcun lupo vicin dubbioso vada.

Tale avviene al guerrier, da poi chè certo,
che ’l ricercato Iberno ivi non sia,
e ragiona in suo core: “Or veggio aperto
quanto ho ne’ miei desir la sorte ria;
che mi face il sentier sassoso ed erto,
ch’ad altrui piano e dolce diverria,
di ritrovar colui, che in ogni loco
suol non meno apparir, ch’all’ombra il foco”.

E ’n tai duri pensier la coppia trova,
a cui parla: “Signor, le vostre insegne
conosco io ben, che mille volte in prova
quant’altre mai d’onor le vidi degne;
né con lor cercherei battaglia nuova;
ma se le voci mie non sono indegne,
di mostrarmi il cammin vi pregherrei
da ’ncontrar Seguran, ch’io sol vorrei”.

Ma il ferocissimo Ebrido, che vuole
di Lancilotto il dì la palma avere,
risponde alle cortesi sue parole:
“Lunge è molto di qui con le sue schiere,
e troppo in basso omai cadrebbe il sole
pria che ’l poteste in ozio rivedere;
ma per non trapassar quest’ora in vano,
armate in vece sua ver me la mano”.

E così detto; il brando ch’alto avea,
sopra la testa scarca a Lancilotto
sì ch’ogn’altro guerriero a morte rea
con l’infinita forza avria condotto;
ma l’intrepido cor, che ’n sen tenea
l’offeso cavalier, non resta sotto
il grave peso estinto, ma s’accende
qual fiamma al vento, ove il vigor riprende.

E dice tutto irato: “Io non pensai
da sì chiaro guerrier ricever questo;
né che ’l cortese affetto, ch’io mostrai,
a sì gran cavalier fosse molesto;
ma il ciel chiude la vista a cui dar guai
dispone e gli apparecchia aspro e funesto
fine al viver mortal; come a voi face,
poi che ’l torto adoprar meco vi piace”.

E ’n questa alto la fronte gli percuote,
ove prima esso lui nel proprio loco,
e gli fece tremare ambe le gote,
e gli occhi empieo di sfavillante foco;
fur le parti miglior di forza vòte,
e che i sensi smarrisser mancò poco;
pur dell’elmo il valore, e ’l core invitto
il piegante vigor sostenne dritto.

E più saldo che mai, di punta il fiede,
dove scudo non ha, dal destro lato,
dicendo: “Discortese Palamede
in alcuno atto suo non fu trovato,
né ascosamente a voi percossa diede,
poi che vi ritrovò su ’l campo armato,
ove adoprar convien la mano e ’l brando,
non andare altre fole raccontando”.

Tacesi Lancilotto e l’ira asconde,
che ’l parlare e ’l ferir gli ha doppia acceso;
che quanto fosse unquanco stato altronde,
si sentì il destro lato essere offeso;
ma qual leva Nettuno in alto l’onde,
che nell’aperto Egeo rabbioso peso
del soffiar d’aquilon nel verno sente,
tal di sdegno al guerrier bollia la mente.

E presta al vendicar cala la spada,
che gli venne a ferir sopra lo scudo;
di cui convien, che alcuna parte vada
volando a terra e di sé il lasse ignudo;
e passando per quel si face strada
nell’omer ch’ei copriva e ’l ferro crudo
squarcia l’altre arme appresso e tanto scende,
che i nervi ch’ivi son non poco offende.

Né smarrito è però l’Ebrido altero,
che con più grande ardir ritorna a guerra;
ma il possente Nifonte al suo corsiero
la destra orecchia con la bocca afferra,
e crollando la fronte iniquo e fero,
come rabbioso can, l’affligge e serra,
e gli dà tal dolor e ’l tien sì basso,
ch’ei non s’arrischia sol muovere il passo.

Disposto pure in sé da lui disciorse
in qual guisa men rea discerner puote,
cotale adopra al fin che si dismorse,
ma senza orecchia avere indi si scuote,
e levatosi in alto, tanto scorse
tirato dal furor, che poi percuote
riversandosi indietro su l’arena,
con grave del signor periglio e pena.

S’aggiunge or nuovo alla primiera piaga
colpo da non sprezzar sopra la testa;
né per questo anco il suo valor si smaga,
né pensa al dolor doppio che il molesta;
ma più che fosse mai tutto s’indraga,
e si rivolge in quella parte e ’n questa
tal, che come il buon animo e ’l ciel volse,
dal caduto caval tosto si sciolse.

Or già del suo destrier disceso è in terra
il chiaro Lancilotto e ’n pace attende,
mentre che dal gran fascio, che l’atterra,
si discarca il nemico e ’n dubbio pende;
ma intanto Brunadasso della guerra
dal compagno intermessa il carco prende;
e ben ch’a piede il Franco si ritrove,
il corsiero spronando in esso muove.

No ’l teme il gran guerrier, ma fermo aspetta,
in fin che sopra lui se ’l vede accorso;
nel destro lato poi leve si getta,
e con la manca man gli prende il morso;
né gli giova il volar, come saetta,
che mal grado di lui finisce il corso;
e volto è in tal furor, poi ch’e’ s’arresta,
ch’ove le groppe avea torna la testa.

Indi con l’altra mano il buon guerriero,
riposto il brando pria, di Brunadasso
stringe il braccio sinistro e del destriero
senza rimedio avere il tira in basso;
e sopra l’arenoso aspro sentiero
là, dove ei giacque abbandonato e lasso,
ritratta fuor la spada al collo il fere,
a cui lontano il capo feo cadere.

Già il fero Palamede in piè risorto
parte del breve assalto avea veduto,
ma come cavalier cortese e accorto
non sostenne al bisogno dargli aiuto;
ché più tosto il compagno così morto
volse, che l’onor suo veder perduto,
sendo due contro ad uno, oltra ch’egli ave
di tal guerra con lui disdegno grave.

E con detti umilissimi si scusa,
dicendo: “L’altrui colpa in me non vegna,
nel cui buon cor nulla viltade è chiusa,
e la cui man non fé mai cosa indegna;
se nel suo stran paese questo s’usa,
sia del fallir la penitenza degna;
ché chi assale il nemico in simil sorte
non merta punizion minor che morte”.

Lancilotto cortese gli rispose:
“Non può il fallir di lui macchiare in parte
del vostro alto valor l’opre famose,
al quale in tal favore aspira Marte”.
Qui finito il parlar, ciascun ripose
all’assalto novel la forza e l’arte;
ciscun dal collo già lo scudo ha tolto,
e ’l suo braccio sinistro in esso accolto;

e s’acconcia al ferire; e fu il primiero
l’Ebrido, che di punta in mezzo il petto
drizza all’alto avversario un colpo fero,
che se ’l ferro finissimo e perfetto
cui di tempra immortal gli spirti fero,
era men saldo allora; alto sospetto
aver potea ciascun di Lancilotto,
ch’all’estremo suo dì fosse condotto.

Ma qual crudo leon, quando si senta
dal rozzo orso impiagar più che non soglia,
che sdegnoso e rabbioso ne diventa,
e d’ira micidiale arma la voglia;
poi doppiato il furor, ratto s’avventa
di morir fermo o di portarne spoglia,
e ruggendo e fremendo fa temere
quanti il ponno ivi udire uomini e fere.

Tale il figlio onorato del re Bano
tutta d’ira infiammato a lui si getta,
gridando: “Tronchi il ciel la pigra mano,
se del nostro dolor non fa vendetta”;
e percuote il guerriero, e non in vano,
nel braccio, onde tenea la spada stretta;
che fé piega profonda, ma non tale,
che ’l danno che ne vien gli sia mortale.

Opra ben sì, che ’l brando, che non era,
come solea, di valida catena
congiunto al braccio, la percossa fera
scorra da lui lontan sopra l’arena;
ma quella alma onorata, invitta, altera,
che non cura periglio o sente pena,
impedito qual è, l’altro riprende,
che d’un’altra cintura al collo pende;

e gli viene a cader su ’l lato manco,
più alto alquanto, ove impedir non puote
quella, che vien più bassa sotto il fianco;
e dell’albergo suo ratto lo scuote;
indi senza mostrarse afflitto o stanco,
più che mai l’avversario suo percuote;
ma ’l colpo, che scendea dritto alla testa,
dallo scudo interrotto in alto resta.

E fu tale il furore, ond’egli scese,
che non ebbe a’ suoi dì simile assalto;
e quanto il taglio fulminando prese,
che fu il terzo di lui né cadde d’alto;
e Lancilotto a più spietate offese
armato ha il nobil cor di crudo smalto;
e per dar fine alla dubbiosa guerra,
vie più stretto che mai con lui si serra.

E senza altra di sé cura tenere
raddoppia i colpi e non s’arresta mai;
or sopra l’elmo, or nella spalla il fere,
or fa al braccio sentir nuovi altri guai;
non s’abbandona quel, quantunque intere
non aggia il miserel le forze omai,
perché ’l braccio ha pur frale e ’n più d’un loco
sente il sangue versarse a poco a poco.

E Lancilotto al fin di cruda punta
gli ha drizzata la spada nella gola;
ch’ove gli spirti van, vibrando spunta,
per formar tra le labbra la parola.
All’estremo confin l’anima giunta
trista e rabbiosa in altra parte vola,
libera in tutto del corporeo nodo,
che a terra scorse in miserabil modo.

Tosto che ’l vide steso Lancilotto,
del suo fero destin mosso a pietade
seco si duol d’avere a tale indotto
un de’ miglior guerrier di quella etade;
e per chiaro saver, se ’l fil gli ha rotto
la Parca ria, dall’arenose strade
aiutato da’ suoi l’innalza e scioglie
l’elmo d’intorno e dalla fronte il toglie.

Indi, che scorge pur pallido il volto,
le labbra essere esangui e gli occhi attorti,
dice quasi piangendo: “O mondo stolto,
che ’nganni ancor quei, che più sieno accorti,
oggi è di vita parimente sciolto
il fior de i cavalieri arditi e forti,
come il più vil suo servo, né gli valse
l’alta virtù, di cui sola gli calse”.

E così ragionando Elen richiama,
e gli dice: “Or si porti al padiglione
fra molti anco costui che d’alta fama
di preporsi ad ogni altro è ben ragione,
con Brunadasso”; e quel, come chi brama
d’obbedire al signor, tosto ripone
sopra gli omer di molti il doppio incarco,
che ’l portar tosto al comandato varco.

Il chiaro Lancilotto su ’l destriero,
che gli presenta appresso, rimontato,
più che fosse ancor mai gravoso e fero
a ricercar l’Iberno torna irato;
e seco si dolea dentro al pensiero
delle palme, onde allor giva onorato,
dicendo: “Or fia però questa mia mano
in ogni altro crudel, che ’n Segurano?

E ch’uccisi aggia omai cotanti amici,
e sì gran cavalier di sommo onore,
ch’io bramava vedere alti e felici,
e che cari mi fur quanto il mio core?
E questo sol per tutte le pendici,
ov’or m’avvolga il mio fallace errore,
non possa ritrovare in alcun loco,
tal prende i miei desir fortuna in gioco?”

E ’n tale immaginare il cammin prende,
ove fuggia ciascun verso le mura;
or già Clodin da Bustarino intende
dell’Ebrido rettor la morte dura,
il qual gli dice: “Or sovra noi distende,
se ’l ciel non ha di ciò più larga cura,
fortuna in tutto l’ultima ruina,
che minacciosa omai ratta s’inchina.

Morto è il gran Brunadasso e morto ancora,
ch’a gli stessi occhi miei do fede a pena,
quel che del vecchio Atlante e della aurora
ciascuna riva del suo nome ha piena;
l’altero Palamede, che ’n brev’ora
vid’io, lasso, disteso su l’arena
dal crudo Lancilotto in guisa tale,
ch’è dal fero leone aspro cinghiale.

Né molto pria Brunoro e Dinadano
con molti altri famosi cavalieri,
che contro al suo poter corsero in vano,
bagnar di sangue gli aridi sentieri;
tal che sol resta il nobil Segurano,
ch’omai non so quel che si faccia o speri,
e voi sommo signor, dal quale aspetta
salute il vivo e chi morì vendetta.

Né vi convien tardar; ché lo spietato
della fugace turba tanti atterra,
che n’è colma la valle in ogni lato
sì che ’l volto è nascoso della terra;
e chi puote scampare, infin ch’entrato
non sia nel cerchio, che la villa serra,
securo non si tiene; onde là entro
pianto è maggior, che nel tartareo centro”.

Ascoltandolo attento il giovinetto,
ch’oltra il poter’ umano ode novelle,
timor, duolo e pietà gli ingombra il petto,
e si lagna nel cor dell’aspre stelle;
pur per non dare a’ suoi certo sospetto,
che le voglie d’ardire aggia rubelle,
con voce alta risponde: “Non si puote
contrario andare alle celesti ròte.

A cui poi che ciò piace, a noi conviene
del lor volere a sofferenza armarse,
e nel presente aver l’alme ripiene
d’alto e chiaro desio di vendicarse,
e rivestire il sen di certa spene,
ch’oggi non sien le nostre forze scarse
più che fossero ier né che d’un solo
men vaglia un tanto e sì onorato stuolo.

Or moviam lieti adunque a ritrovare
quel, cui più che virtù, fortuna aita”.
E così detto; subito chiamare
fa, ch’a lui vegna, dal famoso Ortrita
Agrogero crudel; quel, che dal mare
di Nerbona ha la gente intorno unita;
al qual giunto gli dice: “Or di voi sia,
mentre io sarò lontan, la vece mia.

Ch’a me forza è di gire, ove gran danno
il crudo Lancilotto a i nostri face,
con securo sperar, che il breve affanno
tosto rivolgeremo in lunga pace”.
L’altro, ch’è de’ primier, che molti fanno
per pruova e per etade, allor non tace,
e gli dice: “Signor, lodo ogni impresa,
pur ch’al pubblico ben vegna in difesa;

ma come al mio gran re sommo e sovrano
vi dirò ancor, ch’egual l’esperienza
non avete al gran figlio del re Bano,
né di forza alla sua pare eccellenza;
ché quel, che nulla cosa adopra in vano,
giusto comparte alla mortal semenza
le virtù rare e mai per nulla etate
furo in un petto sol tutte adunate.

A voi dieder le stelle oro e terreno,
e ’n dorati capei canuto senno,
e gran forza e valor, ma certo meno,
ch’a Lancilotto e Seguran non denno;
or ciascun con la grazia, ond’egli è pieno,
segua il cammin, che gli mostrò col cenno
il cielo al suo venir; non quel ch’altrui
apertissimo è dato e chiuso a lui.

Pria ch’ora esporvi alla dubbiosa impresa,
se vi cal del fidato mio consiglio,
devreste presso aver salda difesa
di Segurano in sì mortal periglio,,
che sia possente scudo all’aspra offesa,
che far vi possa del re Bano il figlio;
che ’l valor di due tali aggiunto insieme
può il furore affrenar, che tutti preme”.

Gli risponde Clodin: “Grazie vi rendo
de i buon saggi ricordi e dell’amore,
ch’esser di me per lunga prova intendo
ora e molti anni pria nel vostro core,
e tutto in grado dolcemente prendo
il vostro ragionar, quantunque fore
del dritto sia, poi che ’n sì larga sorte
Lancilotto di me stima più forte.

E vi prometto qui, che tutto solo
lui, dovunque io ’l ritrovi, assalir voglio,
in mezzo ancor del suo Francesco stuolo,
e qual nave, che carca orrido scoglio
trove, dall’aquilon sospinta a volo,
tosto il farò tornare; e pur mi doglio
che ’l cugin suo Boorte e Lionello
non saran seco e tutto il loro ostello.

Or prendete pur qui la cura intera
di tener salda e stretta questa gente”.
Così parlando, irato e ’n vista altera
rivolge e sprona il suo corsier possente;
ma Terrigano il grande e lunga schiera
de’ maggiori e miglior che all’alma sente
del suo gir contro a tal temenza grave,
pur malgrado di lui seguito l’ave.

Vanno oltra ratti e Bustarin gli scorge
lungo il cammin d’Avarco, ove l’Orone
su la man destra il lento corso porge
di destrier morti colmo e di persone;
né molto van, che già vicin si scorge,
chi del lor’ ivi andare era cagione,
il chiaro Lancilotto, in mezzo entrato
del popolo infelice e sconsolato.

Quando il mira Clodin, che proprio appare
l’accorto mietitor, che ’l verde fieno
fa nell’april disteso riversare
con la falce mortal de’ prati in seno;
quel vedea morto e quel ferito andare
dal brando micidial sovra ’l terreno,
né i miser contrastare a morte acerba
più che faccia al villan la spiga o l’erba;

si fa nel volto pallido e smarrito,
ch’oltra ogni creder suo le prove vede;
e già dentro al pensier resta pentito
del vendicare il morto Palamede;
ma l’onore e ’l devere il rende ardito
sì, che pur verso lui muove anco il piede,
ma in sì cangiata forma, ch’appario
più freddo in parte il caldo suo desio.

Quale il giovine alan, che ’l rabido orso
scorge dagli alti colli entro la valle,
che ’n ver lui quanto può si sprona al corso
per più dritto, spedito e breve calle;
che poi che vede oprar l’artiglio e ’l morso
or nel capo, or nel petto, or nelle spalle
degli altri suoi compagni, volentieri
prenderebbe al tornar nuovi sentieri;

ma lo stormo de’ molti e l’alte grida,
e ’l voler giovinil gli porge ardire
tal, che più d’altro semplice s’affida
senza riguardo alcun quello assalire;
il qual lunge trovandol d’ogni guida,
onde possa a buon porto riuscire,
con le gravi unghie nella tempia il fere,
e latrando lontano il fa cadere.

Tale al miser Clodino allora avvenne,
poi ch’al certo periglio era condotto;
ma pur dritto il cammin correndo tenne,
ove i molti abbatteva Lancilotto;
e d’Avarco vicin tanto pervenne,
ch’alla porta e la torre era già sotto,
ove con molti il misero Clodasso
tutto scernea, che si faceva in basso.

E con amare lagrime piangea
con quanti ivi ha con lui, per la pietade
di quei ch’a morte gir, lassi, vedea
di sangue empiendo l’arenose strade;
e quasi a sé medesmo non credea,
ch’una sola apparia tra tante spade
voltarse in larghi giri e l’altre tutte
di forza e di valor morte e distrutte.

Ma infino a questo punto di lontano
non aveva ogni parte conosciuta,
se non la fuga e ’l contrastare in vano
della turba maggior, ch’era perduta;
or più vicino il figlio del re Bano
all’insegna famosa, che veduta
più volte altrove avea, discerne e trema
per l’antica memoria e nuova tema.

Or tosto ch’apparir vede non lunge
il pino aurato e persa la bandiera,
ch’aveva il suo figliuol, che ratto giunge
sotto alle mura omai con larga schiera,
tale acerbo dolor l’alma gli punge
immaginando il ver, sì come egli era,
che la barba svegliendosi dal mento
quasi muor di dolore e di spavento.

Or si vuole avventar dall’alte mura
per difender laggiù l’amato figlio,
or ratto andar per via larga e sicura
senz’arme a lui salvar col suo periglio,
or da molti impedito a’ suoi si fura,
e vuol render di sé ’l ferro vermiglio;
ma poi che questo e quel d’altrui gli è tolto,
chiama il figliuol con lagrimoso volto.

E spingendosi avanti, quanto lice
a chi ben ritenuto e stretto sia,
gridava: “Or dove vai nato infelice?
Quale spietata stella, oimé, l’invia
verso quel micidial che la felice
già bella e numerosa prole mia
ha sì bassa condotta, che tu solo
con quattro altri minor mi sei figliuolo?

E con quei pochi ancor rendevi queta
questa canuta e debile vecchiezza;
e tutto il regno mio, che ’n te s’acqueta,
pur attendeva un dì pace e dolcezza;
or non tentar, che morte acerba mieta
l’ultima nostra speme e la ricchezza;
non voler porre in rischio il nostro bene,
che sol di tutti in vita ne mantiene”.

Ma perché ha fral la voce e pur s’avvede,
ch’udire il suo parlar non può Clodino;
che tal grido e romor l’orecchie fiede,
che ’n van l’ascolteria, chi gli è vicino;
questo e quel chiama intorno, in cui più fede
aggia per lunga prova; e basso e ’nchino
umile il prega e non con regie note;
ch’ogni spirto orgoglioso il duolo scuote.

E dice: “Or gite insieme, amici rari,
là dove il mio figliuol co’ suoi s’aduna,
e gli narrate i miei dolori amari,
a cui simil non vide sole o luna;
e se i paterni preghi ebbe mai cari,
che non tenti oggi l’invida fortuna
contra il figlio di Ban, ma dentro vegna
a salvar la città con quella insegna”.

Van tutti quelli ed è di loro il duce
il suo pimo scudier, detto Amillano;
che con gli altri volando si conduce,
ove trova Clodin, ma giunse in vano,
ché già corso era alla dorata luce
dell’arme illustri, che splendea lontano,
l’ardito Lancilotto, ch’avea speme
di trovar Seguran con questi insieme.

E conosciuto al fin, ch’egli era solo
il grande erede del famoso Avarco,
qual’aquila affamata mosse il volo
d’ira in un punto e d’allegrezza carco;
ché ’l figliuol riveder gli apporta duolo
di chi ’l padre gli avea di vita scarco;
fassi lieto al trovarlo in parte, dove
possa di trarlo a fin porsi alle prove.

E come giunse a lui, senz’altro dire
in mezzo a quanti avea dona alla testa
di colpo tal, che allor potea finire
la vita in tutto, ch’a passar gli resta;
ma Bustarino il grande, ch’al ferire
di lui ben guarda e che la spada ha presta,
con quella il gran furor, che ’n basso scende,
raffrenando Clodin sicuro rende.

Non però tanto fa, ch’ei non si senta
della percossa sì che ne rimane
stordito alquanto, ma non giacque spenta
la virtù regia o le sue forze vane;
ch’ardito più che mai ver lui s’avventa,
come contro al cinghial ferito cane,
che ne’ compagni suoi ponendo speme
il crudo offenditor di nuovo preme.

E con quanto ha vigor presso al cimiero
non aspettata allor gli pòn la spada;
Bustarin, Terrigano e ’l forte Nero
fan seco a pruova, chi più innanzi vada;
quel nell’omero destro un colpo fero
gli diè da lato, mentre ad altro bada,
il secondo nel collo e ’l Ner Perduto
d’una punta nel petto l’ha feruto.

Lungo altro stuol di cavalieri è mosso,
che del suo giovin re la guardia avea,
e con ogni poter va tutto addosso
al prode Lancilotto; e tal facea,
ch’ogni altro ne saria di lena scosso,
e preda fatto omai di morte rea;
ma quella anima invitta la virtude
fa in più doppi maggior, che dentro chiude.

E quale avvien se ad espugnar le mura
al nemico castel, di orribil polve
di nitro e zolfo un’ampia fossa oscura
ben chiusa intorno il saggio duce involve,
poi dà in preda a Vulcan, ch’oltra misura
sforzando ogni ritegno, apre e dissolve
il monte altero e ’n paventoso tuono
getta i sassi lontan, che in esso sono.

Tale il fero guerrier, ch’oppresso e stretto
da tanti e tai nemici si ritrova,
d’ira infiammando l’animoso petto,
con l’istesso furor par che si muova;
gira il forte corsiero e ’n sé ristretto
spiega le braccia alla incredibil pruova,
e del sinistro l’empio Terrigano
con un roverso sol distese al piano.

Col collo di Nifonte Bustarino
insieme col caval posto ha per terra;
indi il Nero Perduto, che vicino
più l’impedisce ancor, con molti atterra;
poi con più rabbia al misero Clodino,
che soletto riman, si muove a guerra;
né mai restò con lupo a tal flagello
da cani e da pastor lassato agnello.

Ma pure il giovin re, ch’altro non vede,
fuor che ’l fuggire a quel periglio scampo,
e più tosto che ’ndietro accorre il piede,
vuol fine aver su ’l destinato campo;
si fa innanzi spronando e nulla cede,
e fa qual lume, che più ardente lampo
mostra che non solea, quando più scemo
ha il nutrimento suo giunto all’estremo.

Così fece egli e molti colpì in vano
su lo scudo, su l’omer, su la fronte
dona al figlio onorato del re Bano,
ma nuoce meno assai, ch’al Pelio monte
non fan l’arme temprate da Vulcano,
quando ha Giove al ferir l’ire men pronte;
ché gli pòn ben crollar gli arbori e i sassi,
ma il suo rigido dorso immoto stassi.

Rompe alquanto lo scudo, alquanto scorza
delle men dura maglia e del cimiero,
gravagli il capo e lentamente sforza
il braccio in basso, che più giva altero;
ma Lancilotto al fin, con quella forza,
ch’avea più intensa e più spietato e fero
che fusse forse ancor, verso esso sprona,
e ’n cotale aspro dir seco ragiona:

“Non può spietato re da me scamparte,
se non l’alto Fattor che tutto puote;
chiama invan pure il bellicoso Marte,
ch’hai tanto in pregio e le sue quinte ròte;
ché ti convien volare in quella parte,
ove udirai le dolorose note
di più d’un tuo fratel, cui la mia spada
sospinse acerbo alla tartarea strada”.

Così parlando ancor, vibra una punta
con tutto il suo valor contra lo scudo,
la qual con quel furor per esso spunta,
come un’altra faria, chi fosse nudo;
squarcia anco l’arme e tra le coste giunta
corre in mezzo del core e ’l colpo crudo
ivi non resta, ma dall’altro lato
per lo spinoso dorso ha trapassato.

Fuggesi l’alma afflitta e disdegnosa
di partir’ indi alla stagione acerba;
cade il gran busto e duramente posa
riversato tra’ suoi sovra arida erba:
né lungo tempo al vecchio padre ascosa
del figliuol l’aspra fin, lassa, si serba;
ch’ei con l’occhio medesmo scerse il tutto,
nunzio non mentitor del proprio lutto.

Ma in quello istesso punto, che ’l destriero
lasciò, morendo, il misero figliuolo,
esso i sensi smarriti, su ’l sentiero,
no ’l sostenendo alcun, cadde di duolo;
ma il chiaro vincitore ardito e fero
contra quei, ch’ivi son, addrizza il volo;
e ’l primier fu il superbo Bustarino,
che risurto il cavallo è il più vicino.

E dove pria donar pensava aita,
or del suo giovin re s’arma a vendetta,
e baldanzoso sprona e gli altri invita,
né però alcun di lor tardando aspetta;
arriva, ove la man forte et ardita
tenea contro al suo gir la spada stretta;
ma per esser colui più grande assai,
no ’l può sopra la spalla aggiunger mai.

E quello alteramente sovra lui
il può sempre ferir dritto alla testa,
nella qual raddoppiando i colpi sui
or quinci or quindi di ferir non resta;
ma il Franco invitto, ch’ha virtude, in cui
nulla forza mortal verria molesta,
basso e ristretto in sé tutto sostiene
tanto ch’al suo disegno al fin perviene.

Che allor, che ’l grave brando in basso scende
per impiagarlo ancora alza lo scudo,
e dall’aspra percossa si difende;
poi gli addrizza di punta un colpo crudo,
e sotto il destro braccio proprio il prende,
ove il loco di piastra è sempre ignudo,
solo armato di maglia, che men resse,
che tela al grandinar, ch’aragne tesse.

Che trapassa entro al cavo di quell’osso,
ove all’omero il braccio si congiunge,
e seguendo il cammin ch’ha in alto mosso,
in fin nel collo per la spalla aggiunge;
ma no ’l vedendo ancor di vita scosso,
tragge indi il brando e nuovamente punge
nelle coste più basse al lato manco,
che fan l’arco minor vicino al fianco:

e squarciò l’intestin, che primo accoglie
quel ch’avanza a nodrir la vita umana;
così dal suo gran vel l’anima scioglie,
che di crudele orgoglio era sovrana;
ma già vien Terrigan, che delle spoglie
di Lancilotto ha in sé speranza vana,
pensando: “Così stanco è questo omai,
che sarà il mio valor più saldo assai”.

Cotal dicendo in sé, ver lui s’avventa
quasi intricato ancor con Bustarino,
e con la spada d’improviso il tenta,
ove il collo alla testa è più vicino;
ma d’impiagarlo indarno s’argomenta,
ché ’l ferro al suo poter fu troppo fino;
allor di sdegno pien l’alto guerriero
verso ove il colpo vien, torna il destriero.

E gridando altamente: “O disleale,
non ti fieno anco d’utile i tuoi inganni,
né schivar ti porran l’ora fatale,
che ’n su ’l lor bel fiorir ti tronchi gli anni”;
e ’n questa viene il colpo micidiale,
ch’alla perpetua notte gli condanni
l’umana luce, che traverso il prende,
ove il collo più basso al petto scende:

e ’l troncò tutto; e la feroce testa
assai d’ivi lontana andò per terra,
di papavero in guisa a cui molesta
la verga fosse, che per gioco serra
la fanciullesca man; che sciolto resta
dal suo sostegno e pallido s’atterra
intra l’erba più vil, ma ch’al suo piede
avea presa di lui più ferma sede.

Cadde appresso il gran busto e fé la valle
risonare e tremar d’alto romore,
quando l’arena dell’armate spalle
oppressa fu dal subito furore;
or gli altri cavalier cercano il calle
per trarsi omai di tal periglio fuore,
né si trova di tutti alma secura,
fin che non sia d’Avarco entro alle mura.

Ma il Ner Perduto, che sovra il destriero
rimontato più tardo si ritrova,
l’ultimo fu di lor, che ’l braccio fero
del crudo Lancilotto miser prova;
drizzagli irato un colpo su ’l cimiero,
cui finissimo acciar niente giova;
ché col capo in due parti su le spalle
fu orrendo incarco all’arenosa valle.

Fa il chiaro vincitor, che sia portato
il gran regio figliuol, questo e quei dui,
ove morto di lor rimanga ornato
chi più d’ogni altro vivo è caro a lui:
or già di duci tali il duro stato,
e di molti altri amici e cugin sui
pervenuto alle orecchie era lontano
per più d’un nunzio certo a Segurano.

E fu in fra molti il giovin Polibone
mandato ultimo a lui dal re Vagorre,
poi che Clodasso alla real magione
condotto avea dalla famosa torre;
il qual pungendo con più aguto sprone,
che possa, il suo caval, cercando corre
del grande Iberno e l’ha trovato in breve,
ch’avea col re Tristan battaglia greve.

La quale a punto allor condotta a tale
per l’una e l’altra parte si vedea,
che poco potea gir, ch’era mortale
per chi più avversa la fortuna avea;
però che la virtù fu tanto eguale,
ch’assai poco il vantaggio si scernea;
pur di Meliadusse il franco erede
vie più pronto e leggier talor si vede.

Rompe allor Polibon l’aspra battaglia,
gridando: “O re d’Ibernia, e’ vi conviene
altrove arme squarciare e romper maglia,
ove morti i miglior son gli altri in pene;
e se del nostro onor punto vi caglia,
e di chi scettro in man d’Avarco tiene,
venite a dar soccorso a quelle mura,
in cui pur Claudiana è mal sicura.

Morto è ’l buon Dinadano, morto è Brunoro,
Palamede il gran duce e Bustarino;
ma quel ch’aggrava più, morto è fra loro
il vostro caro e misero Clodino;
e ’l gran suocero vostro il suo tesoro
vide condotto all’ultimo confino,
ché sopra all’alta torre scerse il tutto,
chiamando sempre voi con pianto e lutto.

Gridando: ’Ov’or si trova ogni mia speme,
il gran genero mio? Perché non viene
a soccorrer quel resto del mio seme,
che la fortuna ancor vivo ritiene?’
E ’n questa, chi l’assalta e preme,
poi che gli ha tratto il sangue di più vene,
ferirlo in mezzo il cor con l’empia spada,
e riversar senz’alma su la strada.

Al cui crudo cader cadde egli ancora
sopra le nostre braccia afflitto e smorto;
e ’l re Vagorre mi comanda allora,
ch’io vi cercassi per cammin più corto,
e narrassi il gran danno, ove dimora
la misera città, senza conforto,
senza sostegno omai d’alcun de’ suoi,
senza speranza aver se non di voi;

chè ’l crudo Lancilotto in tale orgoglio,
in tal rabbia e furore oggi è salito,
che di romper di Scilla il duro scoglio
col brando, ch’ei sostien, sarebbe ardito;
pien di spavento insomma e di cordoglio
tutto il campo in Avarco è rifuggito;
sol questa parte di timor si sgombra,
che del vostro valor combatte all’ombra”.

Mentre il feroce Iberno le parole
del tristo messaggier tacendo ascolta,
non fu di sì grand’ira al caldo sole
offesa dal villan mai serpe avvolta,
com’egli allora ed or nel cor si duole
del suo Clodino, or della gloria tolta,
ché mal può ricovrar, poi che lui vivo
sia d’un tanto figliuol Clodasso privo.

Né sa con quai conforti possa omai
raffrenare il dolor della consorte,
né con la vecchia Albina scusar mai
la lontananza sua da quella morte;
vergogna il punge e gli raccresce guai
pungente invidia in più gravosa sorte;
che ’l giovin Lancilotto ornato vede
di tante illustri e sì famose prede.

E da’ tristi pensier distratto il core,
ove il pensa trovar ratto s’invia,
e ’n un momento uscio di vista fuore
del buon Tristan, che presto il brameria;
pur lui perdendo, sfoga il suo furore
sovr’altra gente e spinge a morte ria
tanti quel dì, che si porrian contare
non più che l’onde dell’Icario mare.

Ma l’infiammato Iberno al fin condotto
alle sponde vicin della riviera,
come scorge da lunge Lancilotto,
gli dice in voce minacciosa e fera:
“Pria che ’l giorno ch’or luce asconda sotto
l’occaso il volto e si converta in sera,
tremante il petto e lagrimoso il viso
ti pentirai d’aver Clodino ucciso.

Né ti varrà l’avere arme incantate,
vano e folle guerrier della nutrice;
né mille più di lei sagaci fate
ti porriano scampar l’ora infelice;
e triste oggi per te saranno state
l’alte vittorie, onde ti fai felice;
ché i tuoi chiari trofei, le ricche spoglie
spiegherai di Pluton nell’atre soglie”.

All’aspro minacciar subito volto
il gran figlio di Ban; tosto che scerne,
ch’egli è pur Seguran, che ’ntorno accolto
più d’uno avea delle sue schiere iberne;
col cor ben lieto e con allegro volto
rende alte grazie alle virtù superne;
tra gli arcion si conferma e sovra il petto
lo scudo addrizza e meglio il brando ha stretto.

Indi come leon, che dal digiuno
lungamente già oppresso, ha il dì cercato
per boschi e valli, né d’armento alcuno,
né di cerva o di damma orma ha trovato;
che quando ha meno speme, all’aer bruno
se gli mostra un gran tauro al verde prato;
ch’a lui s’avventa, qual saetta soglia,
sbramando ingordo l’affamata voglia.

Così verso il corrente Segurano
il bramoso guerrier muove il destriero;
l’uno e l’altro di lor l’acerba mano
alza all’istesso punto ardito e fero;
ma l’onorato figlio del re Bano
a ferir l’avversario fu il primiero;
e l’oscuro dragon, che in oro assiede,
sovra il possente scudo altero fiede

e quantunque d’acciar la sesta scorza,
e finissima e grossa il ricingesse,
del sacro brando all’infinita forza
non come contra gli altri integro resse;
ché ’l partì fino al mezzo e tanto sforza,
che la sinistra spalla ancora oppresse,
e fé in basso piegarse il grande Iberno,
qual l’abeto aquilone al maggior verno.

Ma non senza vendetta; ch’esso irato
con la spada, ch’ei tolse a Galealto,
tosto percosse lui nel prioprio lato
cotal ch’ebbe acerbissimo l’assalto;
l’argentato suo scudo, fabbricato
d’immortal tempra di porfireo smalto,
pur con tutto il valore al duro peso
col suo nuovo signor fu molto offeso.

Qui dell’uno e dell’altro in guisa accresce
lo spietato desio di vendicarse,
ché con manco favor s’avvolge e mesce
la fiamma in Mongibel, quando più arse;
ma poi che ’l ferir primo in van riesce,
per tosto vincitore a’ suoi mostrarse,
l’uno e l’altro di lor lassa da parte
del marzial lavor la norma e l’arte

e senza aver riguardo al suo vantaggio,
come l’ira amministra i colpi vanno,
più spessi assai ch’al tempestoso maggio
grandine ch’alle spighe apporti danno;
né così ratto in giro il solar raggio
muove specchio, ch’è mosso; come fanno
le spade lor, che sembrano al sereno
notturno estivo ciel lampo e baleno.

Il popol ch’a vedere è intorno accolto
dall’una e l’altra parte e stassi in pace,
col cor tremante e con dubbioso volto
or spera or teme quel che più gli spiace,
in sen parlando: “Or n’è concesso o tolto
il fin bramato e la tranquilla pace;
perché in man di costoro è posto solo
il ben perpetuo o ’l nostro eterno duolo”.

E levando le ciglia in preghi e ’n voti
ciascun quel che desia domada alcielo;
questi con umil cor chiaman devoti
chi del ver prima ascoso squarciò il velo,
quelli i fallaci dei più bassi e noti,
Giove, Marte e ’l pastor che nacque in Delo,
ché al suo donin vittoria per mercede
dell’avuta di lor credenza e fede.

In questo tempo i nobili guerrieri
sono offesi fra lor di danno eguale;
van di pari al ferirse arditi e feri,
e di pari han partito il bene e ’l male;
son caduti per terra ambe i cimieri,
e l’incantato ferro a pena vale
degli elmi a mentener salva la testa
dalla forza crudel, che gli molesta.

E senza piaga aver riman sovente
l’uno e l’altro di lor quasi stordito,
ma il core invitto e l’animo possente
mantiene al corpo il suo vigor sì unito,
che qual gravato più talor si sente,
per vergogna, ch’ei n’ha, più torna ardito,
e tal la mano sprona al vendicarse,
che non gli tornan mai le forze scarse.

Qual nell’ampio ocean, quando l’offende
il nevoso aquilon con grave assalto;
ch’ove più l’onda spinta in basso scende,
più in minaccioso suon risurge in alto,
e ’l turbato suo corso innanzi stende,
variando il cammin di salto in salto,
sì ch’ora eccelso monte ora umil valle
si lassa indietro alle spumose spalle.

Tale avvien di costor; ch’or quello appare
quasi esser vincitore e poi si vede
questo con tal valor sopra tornare,
che di lui sol la palma esser si crede;
ma l’orgoglioso Iberno, ch’aver pare
si sdegna al mondo e che si tiene erede
di quanta gloria mai gli antichi suoi
ebbero al mondo e tutti gli altri eroi;

e ch’omai trarre a fin vuol questa guerra,
e ch’ha vergogna in sé, che tanto dura;
irato ad ambe man la spada serra
per isforzar se stesso e la natura;
drizzala in fronte, ma vaneggia ed erra;
ché ’l saggio Lancilotto, ch’ha pur cura
di quanto avvenir puote, alza lo scudo,
ché non vegna su l’elmo il colpo crudo.

E bene ad uopo fu; che in cotal guisa
rovinò in basso l’orrida tempesta,
ch’ogni pietra durissima divisa,
non pur di Lancilotto avria la testa;
ma l’incantata guardia non incisa,
né pur segnata di quel colpo resta;
fu ben cotal, che in un la mano e ’l braccio
ne sentir lungamente amaro impaccio.

Or non fu visto mai salvatico orso
sovra l’Alpi avventarse con tant’ira
verso il fero mastin che l’avea morso,
e di lui paventando il piè ritira;
ché ruggendo e gemendo il tardo corso
muove infiammato e tutto rabbia spira,
in fin che ritornato a nuova guerra
con l’artiglio mortal lo stese a terra;

come in quel punto fece Lancilotto,
spingendo il suo destrier nel percussore;
e di punta il ferio, che scorse sotto
lo scudo al petto che si mostra fuore;
trapassò il brando adentro, ma condotto
non s’è tant’oltra che trovasse il core;
ché nella quarta costa in basso il prese,
né dritto giìo, ma in alto si distese.

S’empion l’arme di sangue e non ne cale
all’animoso Iberno, che già il sente,
e con più ardore il gran nemico assale;
ma intanto il negro Eton, che men possente
fu di Nifonte, a contrastar non vale
al furioso urtar, che alteramente
d’improviso gli vien dal destro lato,
sì che sopra il sinistro è riversato.

E sopra il suo signor tutto si trova,
il qual più presto assai, che leve augello
da lui si scioglie ed a novella prova
si rappresenta minaccioso e fello;
ma il nobil Lancilotto a cui non giova
vantaggio alcuno aver, veloce e snello
salta giù dal destriero e ’n larghi passi,
onde vien l’avversario, innanzi fassi.

Dicendo: “Or non pensate, altero duce,
che l’amor ch’ho portato al chiaro amico,
e ’l desio di vendetta, che m’induce
a chiamar Segurano aspro nemico,
mi faccia oggi oscurar la pura luce
di virtù vera e del valore antico,
o ricercar di voi bramata morte
per altre che d’onor lodate scorte”.

Risponde Seguran: “Nulla mi curo
di qual per danno mio prendiate strada;
ché del mondo e di voi vivo securo
mentre in man sostener potrò la spada;
or si dia fine all’opra, anzi che oscuro
lassando il nostro mondo altrove vada
il sol cadente; che m’avanzi ancora
d’espugnare il vostr’oste larga l’ora”.

E ’n cotal ragionare un colpo dona,
che gli venne a trovar la destra spalla,
e quella inguisa e tutto l’altro intuona,
che in basso rovinar di poco falla;
pur reggendo alta e ’ntegra la persona,
con un ginocchio sol piegando avvalla
il dritto piè, ma tosto ne risorge,
e ’l brando alla vendetta altero porge.

E sopra al destro braccio per traverso,
che più scoperto aveva, irato il fere;
taglia oltra tanto, che di sangue asperso
quant’ivi ha fino acciar fece cadere;
non si sgomenta il fero o cangia verso,
poi che sente fra sé, che sostenere
può il grave brando ancor, che nervo od osso
impiagato non era o d’indi scosso.

Ma qual crudo leon, che ’l cacciatore,
o di strale o di dardo aggia ferito;
che scernendo il vermiglio atro colore,
vie più che non solea, diviene ardito,
drizza l’irsuto vello e mostra fuore
l’artiglio e ’l dente e con la coda il lito
battendo intorno a sé, di salto in salto
s’addrizza irato al micidiale assalto.

Tale il gran Seguran ratto s’avventa
verso il nemico suo pien di dispetto,
e con mille percosse in giro tenta,
e la fronte e le braccia e ’l ventre e ’l petto,
tal che ’l popol Britanno si spaventa,
ché di vederlo ucciso avea sospetto;
ma l’accorto guerrier senza paura
di difendersi sol prendeva cura.

E col divino scudo or alto or basso
ogni colpo che vien tenea lontano;
né cangiando orma o ritirando il passo
solo in guardia ponea l’arme e la mano,
fin che ’l feroce Iberno frale e lasso
omai conosce il faticar suo vano;
allor più verso lui movendo il piede
con quanto avea potere in fronte il fiede.

E ’l potea ben finir, ma torta viene
la spada e sovra l’omero discende,
e ’mpiagal sì che a pena più sostiene
lo scudo omai, che da quel lato pende;
perch’avea i nervi incisi e l’altre vene,
onde il braccio sinistro il vigor prende,
spinge una punta poi, che dritta giunge,
ove più il collo al petto si congiunge.

Ma non venne tal’alta che ritrove
il cavo, in cui mortale il colpo fora;
or dalle prime piaghe e queste nuove
tai sanguinose stille uscivan fuora,
ch’a pena il piede a pena il braccio muove
l’afflitto Iberno e pur si vede ancora
lo spirto invitto ardito dimostrarse,
e quanto oppresso è più, più altero farse.

E qual veggiam la vincitrice palma,
che ’n famoso edificio posta in opra
quanto sente aggravar maggior la salma
più d’in alto montar le forze adopra;
cotal di Seguran la nobil’alma
in qualunque fortuna a tutte sopra
mai nessun si mantien; né prende cura
della vita mortal, che poco dura.

Ma il buon figlio di Ban, che vede omai
giacer nelle sue man di lui la morte,
spoglia l’ira crudel degli altrui guai,
e pietoso divien della sua sorte,
e dice: “Alto mio re, se foste mai
per tempo alcun da più cortesi scorte
guidato a far mercede a giusti preghi,
quel, ch’io domanderò, non mi si nieghi.

Piacciavi oggi trovar l’albergo mio,
del quale e poi di me vi fò signore,
ivi al re Galealto umile e pio
domandar sol la pace e fargli onore;
e vi prometto qui, se son degn’io
d’esser da voi creduto, che ’n brevi ore
vi renderò in Avarco e non vogliate,
ch’io spenga sì gran lume a questa etate.

Ché potete veder, ch’omai m’è dato
sovra voi questo dì certa vittoria,
la qual non mia virtù, ma vostro fato
stimerò sempre e di noi par la gloria;
ma lassar senza onore in tale stato
non potrei fuor di biasmo la memoria
d’un re sì grande e sì leale amico,
ch’ogni essempio avanzò moderno e antico”.

Risponde il cavalier tutto sdegnato,
e più che altrove mai, con alto core:
“Tu dunque ardisti, folle e scelerato,
di Seguran tentar l’invitto onore?
Usa la sorte tua; ch’al duro stato
vogl’io più presto d’infernal dolore
per mille morti e mille esser condotto,
che questa vita aver da Lancilotto”.

Così parlando, col vigor che resta,
che pur poco era omai, torna a battaglia;
e quinci e quindi quanto può molesta
del franco cavaliero or piastra or maglia;
drizzagli al fine il brando su la testa
tal che la vista quasi gli abbarbaglia;
onde il figlio di Ban mosso a giust’ira
per dar fine alla guerra un colpo tira:

e drittamente il colse, ove la gola
a gli spirti e ’l cibo ha doppia strada;
l’una e l’altra squarciando, innanzi vola
tinta d’altro color l’aguta spada:
col sangue mista rapida s’invola
l’alma, cui vero onor non altro aggrada;
cadde il gran busto e l’arenosa valle
empion d’alto romor l’armate spalle.

Il chiaro vincitor tosto l’accoglie,
punto il cor di dolcissima pietate;
e con sembiante uman dall’elmo scioglie
le luci già di tenebre adombrate;
lo scudo e ’l chiaro brando indi gli toglie
aprendogli le man, che ancor serrate
così morto tenea, come anco schivo
di sì onorate spoglie ivi esser privo.

Tutto il popolo Iberno e l’altro insieme,
che quivi era vicin fugge in Avarco,
qual gregge a cui leon col morso preme
il pio pastore e ’l can di morte al varco;
ma il Britannico stuol di certa speme,
e di estrema dolcezza il petto carco,
corre a veder; né che sia crede ancora
dello spietato cor l’anima fuora;

né s’ardisce appressar, ma di lontano
il fero volto suo, che Marte spira,
il forte petto e la possente mano,
ch’ei teme ancor, con maraviglia mira;
ma doppo alquanto il figlio del re Bano
dal sovrastante vulgo indietro il tira,
e ricoperto poi d’aurati fregi
il fa seco portar fra gli altri regi.

E condotto all’albergo il fa purgare
d’ogni macchia, ch’avea di sangue o polve,
con tepide acque e dentro dispogliare
di che più tosto in putrido si solve;
poi sotto Galealto il fa locare,
ma pria di tela serica l’involve;
fa il medesmo degli altri e di Clodino,
ch’al forte Seguran fu il più vicino.