Azioni egregie operate in guerra/1642

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1642.

I
L nuovo Generale Svezzese Leonardo Tosterdon giunse alla testa del proprio Esercito con un accrescimento di parecchi reggimenti nazionali, estratti dal proprio regno, ed avvezzi a vivere sotto clima più aspro di quello d’Alemagna; perciò vigorosi, e forti a campeggiare [p. 89 modifica]anche nella vernata in paese di freddo men crudo. Accrebbe il loro coraggio la nuova d’una vittoria riportata da’ Vaimaresi loro Collegati contra le genti Austriache, comandate dal General Lambri. Per questa perdita i Comandanti Imperiali dovettero ritirare le loro truppe di qua dall’Albi, ed acquartierarle in paesi comodi, quali erano la Boemia, e il Circolo della Sala. Anche i Bavari passarono nel Palatinato superiore. Tenne loro dietro nel verno il Tosterdon Generale, risoluto, ed animoso. Traversò la Sassonia, s’introdusse nella Silesia. Superò a viva forza Glosgau, dove trovò raccolta quantità grandissima di vettovaglia. Piantò di poi l’assedio a Sveinitz, sotto di cui avendo inteso, come il Duca di Sassenlavemberg con parecchie migliaja d’Austriaci s’avvicinava per soccorrerlo, pose in imboscata grossa truppa di Moschettieri, indi colle scaramuccie della Cavalleria tirò nell’aguato il Duca, che vi rimase disfatto, prigione, e ferito da più colpi, per i quali di là a pochi giorni, benchè medicato con ogni diligenza, terminò di vivere. Con principij cotanto prosperi cominciò il Tosterdon la Carriera delle sue imprese; sbigottito dalle quali l’Elettore di Brandeburg, lasciato il partito di Cesare, si dichiarò neutrale. Non trovando opposizione, il Generale Svedese penetrò nella Moravia; e seminato da per tutto lo spavento, fece l’acquisto d’Olmitz, Piazza di somma rilevanza, perchè domina a buona parte di quel Marchesato, ed è passo, che somministra l’ingresso nell’Austria. I Cittadini, mal provisti di presidio, dopo sei giorni gliela consegnarono nelle mani. Il Tosterdon conoscendo i vantaggj sommi,che gli partoriva quella presa, vi accrebbe le fortificazioni, e le provvide d’abbondantissime difese. Diede poi addietro, riportando grossi bottini. Scossa da tante disgrazie la Corte di Vienna, s’apparecchiò alla resistenza. L’Arciduca Leopoldo, radunato l’Esercito, uscì in campagna. Servivano sotto di lui in primo luogo D. Ottavio Piccolomini, e sopra la Cavalleria D. Annibale Gonzaga, e Generale subalterno D. Camillo Gonzaga, e il Mercì.

L’Arciduca finse di portarsi alla ricupera d’Olmitz; ma tutto all’improvviso si portò sotto Tropau, per racchiudervi dentro il Generale Slang Svezzese con un corpo di Cavalli, e costringerlo per mancanza di viveri a rendersi. Premise il Conte Raimondo Montecuccoli, che cominciò a circondare la Piazza. Ma lo Slang giudicò di uscirne, per non provare i rigori della fame1. Il Montecuccoli gli tenne dietro, e affrontatolo in poca distanza, tagliò a pezzi quasi tutta la di lui gente, salvatosi Egli appena con la velocità del Cavallo. Questa sconfitta, come accrebbe l’estimazione, e la gloria del Montecuccoli, così aggiunse animo all’Arciduca per avvicinarsi a Brieg, sotto di cui il Tosterdon aveva raddoppiate le offese maggiori di batterie, bombe, e mine. Gli assediati intesa la prossimità dell’Esercito amico, sortirono fuori, e ricuperarono un fortino. Presto poi rimasero consolati dall’Arciduca che sopraggiunse. Il Presidio affati[p. 90 modifica]cato fu distribuito in altre Piazze. Il Tosterdon, ritiratosi dall’assedio, attese a raccogliere le truppe Svezzesi, ripartite in varj luoghi, per campeggiare di nuovo. Ritirò parte de’ Presidj della Pomerania, ed accolse nuove milizie, venute da più parti. A rendersi più possente chiamò il Chinismarc, altro Generale Svezzese, e gl’incaricò di portarsi all’assedio di Lipsia, contra di cui s’incamminò Egli medesimo. Era quella Città una delle principali, dominate dall’Elettor Sassone, e fra tutte piena di gran ricchezze cagionate dalle fiere, che ivi si fanno. Gli Svezzesi formarono subito, ove attaccarla; ma quando intesero, che i Cesarei s’approssimavano, all’ora lasciarono l’impresa, e si discostarono di colà, per non esser colti in mezzo dal presidio, e dalle forze nemiche. L’Elettore aveva instato caldamente all’Arciduca, che s’avanzasse; ed egli all’alba del primo Novembre s’incamminò per sostentarlo. Trovando ritirati gli Svezzesi, alcuni Generali Cesarei si lusingarono, che il dar addietro fosse stato argomento di timore, per cui volessero i nemici sfuggire la battaglia. Ma s’ingannarono; poichè fu cautela, ed attenzione di scegliere un posto vantaggioso tra’ boschi, che assicurava loro i fianchi, e la vittoria. D. Ottavio Piccolomini consigliò l’Arciduca, ad arrestarsi in sito comodo, per non esser costretto al cimento, se non quando lo giudicasse opportuno. In tanto si esibì di portarsi avanti, per indagare la situazione degli avversarj, la loro ordinanza, e le forze che tenevano. Voleva prendere queste notizie, prima di deliberare, se conveniva il fatto d’armi. Andò Egli ad esplorare tutto, e con attenzione. Nel mentre esaminava con diligenza lo stato, ed altre circostanze del Campo Svezzese, i Generali Alemanni rappresentarono all’Arciduca, che l’irresoluzione del Piccolomini procedeva da soverchia cautela, e timidità, difetto proprio degl’Italiani, onde non doveva farne conto. Perlochè contra il concertato in avanti, persuasero quel Principe, a schierare l’armata, e ad avanzarla per la battaglia. Nel ritorno il Piccolomini si dolse amaramente, che fosse preterito il di lui consiglio. Ma molto più si afflisse, perchè vide le truppe collocate in maniera diversa da quella, che disegnava. Sapeva, che i Sassoni ne’ passati conflitti avevano più fiate miseramente rivolte le spalle; e pure le vide schierate in sito, ove non era a proposito che fossero. Avrebbe voluto mutar l’ordinanza; ma il tempo mancava; poichè gli Svezzesi nel far del giorno s’inoltrarono gagliardamente dal colle, su cui erano attendati, per attaccar i Cesarei. E qui conviene avvertire, come a riportare vittoria non basta la bravura, nè il combattere con coraggio, e con ardore. Fa d’uopo procedere con gran prudenza, e cautela: esaminare prima con accertato giudizio, se vi sono argomenti ben fondati di conseguirla: bilanciar ben bene le proprie forze, e metterle al confronto delle nemiche, per assicurarla. Con una disfatta si perdono sovente le Provincie, ed i Regni; anzi la ruina si rende spesso irremediabile. Ne’ diciotto anni della guerra presente tra Cesare [p. 91 modifica]da una parte, e gli Svezzesi co’ loro Alleati dall’altra, hanno gl’Imperiali perdute dieci battaglie, che urtarono la Casa d’Austria d’Alemagna sul margine del precipizio; e solo Iddio v’ha posta la mano contra ogni speranza umana, perchè non v’abbissasse dentro. E’ celebre appresso saggj Istorici la fama, che Ferdinando Imperatore, orando a piedi di divoto Crocifisso, per implorare assistenza nelle angustie d’allora, udisse dalla bocca del Salvatore quell’amorosa promessa. Ferdinande non te deseram. Ferdinando non t’abbandonerò. Tante disfatte potevano evitarsi, se si fosse proceduto con minor impeto guerriero: se si fossero attesi i rinforzi, che s’avvicinavano: se non si fossero esposti di soverchio i Generali supremi, il di cui uffizio non è solo menar le mani; ma accorrere, ove sovrastano i pericoli, dar ordini opportuni per rimedio a’ sconcerti, e maneggiar più la mente, che il braccio.

I gran fatti, da’quali possono originarsi conseguenze funestissime, devono maturarsi con buone riflessioni, prima d’appigliarsi ad essi. I Generali Italiani per lo più hanno costumato, di studiare altri mezzi, per abbattere i nemici piuttosto che colle battaglie; E quando le hanno intraprese, si sono prevalsi di stratagemmi, d’insidie, d’improvvisate, e di altri artifizj, che sono opera più dell’ingegno, che della mano. Chi vorrà prendersi la soddisfazione d’indagare il modo, con cui tante vittorie sono state riportate da’ Conquistatori di Reami, e di Monarchie, troverà, che quasi sempre furono parto della sagacità, o dell’astuzia loro. D. Ottavio Piccolomini disconsigliò la battaglia per le ragioni, antivedute da lui, per le quali si perdette. Ma poi niuno più di lui si diportò con migliore regolamento, intrepidezza, costanza, e bravura. Fu l’ultimo a ritirarsi, quando erano fuggiti gli altri, ed egli rimasto addietro con pochi Italiani suo Camerati. Se si osserveranno le Istorie de’ due secoli trascorsi si ritroverà, che più Generali di nostra nazione sono stati contrarj a’ conflitti Campali, non per timidità, ma per buon senso, e pesantissime ragioni. Decretata poi la pugna, si sono esposti al pari di qualunque altro Uffiziale.

In questa giornata i Cesarei erano inferiori nella Cavalleria2. Quella degli Ungheri non si conta in simile occorrenza, come si è notato altrove. Potevano trattenersi in sito predominante, e sicuro; finchè giungesse il Baron d’Echenfort, che lontano solo poche leghe conduceva altri sei mila Soldati. Con questo rinforzo ingrossavano di numero, di cui avevano ben bisogno; giacchè la Cavalleria Svezzese gli sopravanzava nella qualità di ottima disciplina, urto terribile, prontezza a nuove cariche, e altre qualità, che la rendevano quasi insuperabile. Così apparve in questo fatto, ed in più che seguirono di poi, ne’ quali diedero il tracollo ad altre perdite degli Imperiali. Assistevano al Piccolomini Nobili Italiani in copia, fra’ quali D. Annibale Gonzaga, che dirigeva tutta la Cavalleria, e D. Camillo Gonzaga, che soprastava nel corno destro. Da questo [p. 92 modifica]il Piccolomini cominciò l’attacco. Ruppe la sinistra degli Svezzesi3; guadagnò alcuni pezzi di Cannoni, molti stendardi, e bandiere. Tutto all’opposto nella sinistra Cesarea. Parecchi reggimenti a Cavallo, mal composti, e non per anco totalmente messi in ordine, avendo incontrate salve gagliarde, chi scrive dell’artiglieria Svezzese, e chi de’ pedoni frammischiati fra loro squadroni, si abbandonarono a vituperosa fuga, senza ne meno sparare. Accorse l’Arciduca, per fermarli, e rimettergli alla pugna. La presenza di Principe sì grande doveva rimettere ne’ loro petti il coraggio. Anche il Piccolomini, ed il Gonzaga, avvisati del disordine, volarono animosi a quel fianco. Procurarono coll’esortazioni, co’ rimproveri, e colle minaccie d’arrestar li fuggiaschi. Il Piccolomini, dato di piglio prima alle pistole, poi alla spada, le avvento contro i Capi di que’ fuggitivi, per fargli ritornare a’ loro posti. Nulla giovò: poichè il terrore, e la confusione gli avevano talmente acciecati, che ad altro non pensavano, che a correre altrove. Era rimasto fermo colà il Colonnello Niccolao Lorenese con due, o tre squadroni a cavallo, e quantunque assalito più volte dal nemico, l’aveva sempre ributtato. Il Piccolomini spinse a sostenerlo altri squadroni della riserva. Ma questi senza aspettare d’essere urtati, presero anch’essi la fuga. Impotente il Niccolao, a contrastare ulteriormente, fu ucciso. Allora i Soldati, vedendo estinto il Capo, cercarono la salvezza col voltar la schena. In tal modo rimase scoperto il corno sinistro della Fanteria Cattolica, che sin allora aveva date prove mirabili di valore:

e più volte aveva ributato l’uro della nemica, ora collo spingere costantemente le picche, ora coll’avventare un nembo di fuoco da’ fucili. Il Piccolomini distaccò la Compagnia di guardia dell’Arciduca, e la sua propria sotto il Cavalier Templi, che fecero pruove eccelse di bravura, e caricarono sino a dodici volte. Ma avanzando altri Squadroni Svezzesi precipitarono colla fuga tutta la Cavalleria Imperiale. Solo le due Compagnie sopradette con cinque battaglioni di fanti furono mantenuti saldi con somma intrepidezza da D. Camillo Gonzaga; finchè sperò d’esser soccorso dall’Arciduca, che andava rimettendo le genti sbandate. Altra Fanteria si ricoverò in un bosco; d’onde cacciata a forza di Cannonate sulla pianura, fu poi disfatta da’ nemici. Lo spavento che aveva invaso i Cesarei, era tale, che quasi fosse fatalità, nè per rispetto del Principe, nè per vergogna i fuggitivi non risolsero mai a voltar testa. Allora il Piccolomini, e gli altri Capi supplicarono a caldissime voci l’Arciduca, perchè si ritirasse verso Dresda. Essi si esibirono a coprire la di lui andata col rimanere gli ultimi. Il Piccolomini, postosi alla testa de’ rimastigli fedeli, ora retrocedendo con ordine ristretto, ora tornando a qualche carica, dava tempo a molti di ricoverarsi in salvo. In ultimo, rimasto con sette soli, si trovò pressato da grossa truppa nemica, che l’invitava ad arrendersi. Stava a’ di lui fianchi il Con[p. 93 modifica]te Lodovico Ghislieri Bolognese, il quale rivolto il Cavallo, spintosi arditamente addosso due de’ più avanzati nemici, uno ne uccise con pistola, ferì l’altro colla sciabla, con che diede tempo al Piccolomini d’avanzare strada. Egli oppresso dalla moltitudine, si diede prigione. Richiesto, chi fosse, rispose in maniera che fu creduto il Generale. Poco dopo da altra partita Austriaca sopravvenuta fu ricuperato, e messo in libertà. Il Ghislieri in ricompensa dell’azione magnanima fu decorato da Cesare colla dignità, ed onore di Colonnello. La battaglia durò tre ore, e fu sanguinosissima. Ella seguì nel Campo medesimo, in cui il Re Gustavo riportò la prima Vittoria. I vinti vi lasciarono la metà de’ suoi fra morti, e prigioni. Tutti i Generali si diportarono con valore; ma gl’Italiani si distinsero singolarmente, e sopra ogn’altro il Piccolomini, il quale fece conoscere, che non timidità, nè imprudente pusillanimità, ma saggio consiglio lo aveva tenuto sospeso dall’accordare la battaglia. Condotta simile hanno praticato in più occasioni Generali Italiani. Vantar minor animo, per non istimolare a’ conflitti incerti, e pericolosi, ma poi, impegnati in essi, operare con animo sommo sempre presente, e sempre imperterrito.

Il Piccolomini, niente smarrito di cuore per i pericoli incorsi, si ridusse in Lipsia. Ivi lasciò un buon presidio con istruzione al Comandante, di protraere a lungo la difesa, per dar tempo da rimetter l’esercito. Di là passato celeremente a Zuiccau, si diè fretta a raccogliere le genti sbandate. Lo stesso praticava l’Arciduca. Con tali diligenze si radunarono da cinque mila Cavalli, assistito da’ quali D. Ottavio si portò ad Egra, per far animo al Governatore di Lipsia, di sostenersi bravamente, come fece contra l’oppugnazione, tirata innanzi dagli Svezzesi a dispetto de ghiaccj, che incrudelivano. Solo a’ sei di Decembre la Città si rendette, e ne uscì con patti giusti la Guarnigione. Il Tosterdon, assuefatto a trattare l’armi sotto Clima più rigoroso, proseguì a campeggiare non ostante le nevi, che ricoprivano il terreno. Dopo acquisti minori strinse la Piazza di Fraiberg, e v’aperse sotto due attacchi con quattro batterie, guernite da buon numero di Cannoni, che fulminavano il recinto. Versava un gran nembo di fuoco sopra le case de’ Cittadini colle bombe, ed altri artificiati. L’Elettor Sassone, a cui appartiene, l’aveva munita. Dalla continuazione di sì bella difesa s’approfittò il General Piccolomini, per mettersi in forze da darle poderoso soccorso. Andato a Vienna l’Arciduca, assunse l’incombenza di porre in piedi un nuovo esercito. Ritirò dalle piazze le genti veterane, v’introdusse le raccolte di fresco. Provvide d’armi quelli, che le avevano gettate via. Rimontò i Cavalieri rimasti a piedi: S’affaccendò senza riposo per ben disciplinarli tutti. Ottenne dall’Imperatore ampia facoltà di muoversi contra il parere de’ Consiglieri che gli avevano mandata ristretta. Egli, tutto cuore per gl’interessi di Casa d’Austria, amava, che si confermasse costante il Sassone nella [p. 94 modifica]Colleganza: si mantenesse il dominio della Campagna: si ricuperasse il credito perduto, e si distruggesse il concetto sparso per l’Europa, che più non vi fossero forze bastanti a difendersi. Per tanto sulla fine del Febbrajo attraversò le montagne cariche di nevi, si mosse, chi vuole con soli sette mila Cavalli, e chi con l’aggiunta di sei mila a piedi. Avvicinatosi a Fraiberg diede segni agli assediati, che con la viva forza gli avrebbe liberati. Non istimò il Tosterdon nè d’aspettarlo, nè d’incontrarlo. Improvvisamente levò il Campo di notte, e si ritirò più addietro. Glorioso il Piccolomini, per avere senza danno fatti ritirare gli Svezzesi, si licenziò dall’Imperatore per entrare al servigio del Re di Spagna, da cui era chiamato, come suo Vassallo per il Feudo d’Amalfi conferitogli. b

  1. Co. Gualdo: parte terza dell’Istoria: pag. 117.
  2. Istoria del Co. Gualdo dall’anno 1640 pag. 147 lin. 35.
  3. Co. Gualdo Istoria suddetta terza parte pag. 146, 147.