Comedia di Iacob e Ioseph/Atto sesto

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Atto sesto

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ATTO SESTO

Nel quale si tratta come Ioseph si diede a conoscere a li soi fratelli, e mandò per il suo padre Iacob e tutta la sua famiglia che venessino abitare in Egitto.

SCENA I

Ioseph con Nabuch servo.

     Va’ via presto, Nabuch, e qui rimena

subito quelli ebrei che son partiti,
che fumo qui con noi iersera a cena.
     Guarda per altra via non sian fuggiti,
e acciò che ’l mio pensier venga ad effetto
mena fanti con te gagliardi e arditi.
     Cerca ben le lor some, e il seno e il petto
con diligenza a tutti suttilmente,
per saper qual di loro sia in difetto.
     Non voglio questa iniuria per niente:
la coppa d’oro, con qual bever soglio,
credo l’abbin furata ascosamente.
     Del sdegno che del danno piú mi doglio,
avendo da me avuto benefízio,
ond’io noi debbo comportar né voglio.
     S’io trovo quale ha fatto il malefízio,
a quel darò, si come ragion vòle,
e iustamente, il debito supplizio.

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Nabuch.   Signor, qui non bisognan piú parole,

bisognan fatti, ché per negligenza
spesso l’occasion perder si sòie.
     Andrò, e se faranno resistenza,
per forza i condurrò, ma prima tutti
li cercherò con summa diligenza.
Ioseph.   Donde viene che spesso si mal frutti
si coglien da una larga cortesia,
da che i bon doveriano esser produtti?
     E par che la natura umana sia
in questo si maligna e si perversa,
che rari son che tenghino altra via.
     Credo proceda in prima, perché è persa
la ragion vera, e il debito discorso
de l’intelletto è vólto a la roversa;
     ché la natura pur ci dá rimorso
di non essere ingrati al benefizio,
e nondimen si segue il vulgar corso.
     L’altra ragion mi par di questo vizio,
che l’essere obbligato ciascun schiva
e però lassa il debito suo offizio;
     cosí il benefattor suo spesso priva
di grazia e di mercé, che doveria
sempre tenerla in la memoria viva.
     Son stati undici ebrei qui in casa mia,
tutti fratelli, et io con loro ho usato
ogn’opra di larghezza pronta e pia.
     Quel gran gli ho fatto dar c’han dimandato,
et hogli il prezzo ancor restituito,
et è stato ciascun da me onorato
     d’albergo, d’accoglienza e di convito;
né giá mi dòle, anzi ne son contento,
ché di bon’opre mai non fui pentito.
     Non li voglio incolpar di fallimento,
se di certo noi so, ma 1* è accaduto
che la mia coppa d’òr manca in l’argento,

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     et ora a mia notizia è pervenuto;

non so s’alcun di loro fusse accolto
d’esser stato a furarla cosí astuto.
     Se questo fusse, doleriami molto,
ch’opra stata seria d’ingratitudine,
ma noi dico perché non son risolto.
     Piú presto penso che da l’altitudine
di sopra dato sia qualche mistero,
però di ciò non piglio amaritudine;
     ché caper non mi pò pur nel pensiero
ch’abbin peccato, perché lor presenza
dimostra in tutti un abito sincero.
     Non voglio fin qui ancor darne sentenza,
ma veder voglio quel che Dio dimostra,
e far de la lor fede esperienza.
     Ecco che vengon qua tutti a la mostra.

SCENA II

Nabuch con li soi fanti, e Ruben con li fratelli.

Nabuch.   State li fermi, ebrei, non camminate!

Fermatevi li, dico, e non movete
né man né piedi, né cosa che abbiate.
     Ditemi a la reai se voi avete
tolto la coppa d’oro del signore:
se voi noi dite, ve ne pentirete.
Ruben.   Fratei, non creder mai che tal errore
fusse da noi commesso, che seria
contra la nostra fede e il nostro onore.
     Abbiamo avuto grazia e cortesia
dal signor vostro, or come cosí ingrati
saremmo in far a quel tal robbaria?
Nabuch.   Altri che voi per certo non son stati
che l’abbin tolta, ché forestiero alcuno
gli è stato se non voi; se ’l confessati,

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     rimedio troverassi pur qualcuno,

ma se sarete in questo pertinaci,
n’arete danno, et aiuto veruno.
     lllDA. Noi per natura non siamo mendaci,
niuno di noi l’ha tolta, non siam stati
quelli: tu ’l vederai che siam veraci.
     Anzi, acciò che non fussimo imputati,
li dinar che spendemmo a l’altra volta,
che nei sacchi trovammo, abbiam portati:
     perché la coppa avressimo noi tolta?
Dánne la pena debita, se mai
questa tal coppa in noi si trova accolta.
     A quel che l’ha di noi morte darai,
a li altri servitú, ché ’l meritiamo
quando sia il vero, e cerca pur se sai.
Nabuch.   Orsú, compagni, i panni gli cerchiamo,
dappoi le some, e per vederlo bene,
li sacchi ancora del grano votiamo.
Ruben.   Ecco che ognun di noi pronto ne viene,
perché sappiamo certo in conscienza
che alcun di noi tal coppa non ritiene.
Nabuch.   Non so che cosa sia la conscienza.
Lassa pur far l’officio nostro a noi,
e tu ridenti la tua conscienza.
Ruben.   Fate pur tutto quel che piace a voi.
Nissun vel vieta e a noi fia bene accetto,
che in fine in fin ci laudarete poi.
Azor.   O Nabuch, o Nabuch, al lor dispetto
che si fan cosí boni, io l’ho trovata
in mezzo al sacco a questo garzonetto.
Nabuch.   Oh gente senza fede e scelerata!
Ecco la coppa qui: mo che direte?
forsi, che non l’avete ben negata?
     Di’ su, garzon, questa coppa che avete,
nel sacco tuo chi l’ha posta? per certo,
se noi dici, la pena portarete.
     P. Collenuccio, Opere - ir. 17

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Beniamino.   Io noi so, signor mio, ne sono certo.

Poi che ’i frumento nel sacco fu messo,
ti dico il vero, io non l’ho mai piú aperto.
     Non sapria mai pensare un tal eccesso,
né per voglia il faria né per errore:
in veritade io non l’ho giá commesso.
Nabuch.   Ancor tu sai negar senza rossore,
che ’l furto nel tuo sacco è ritrovato?
E ancora ha’ ardir tornar pure al signore?
     Arete quel che avete meritato!
Tornate pur, si come vi dimostro,
dal mio signor, che cosí ha comandato.
     Quale iniquo pensiero è stato il vostro
di render mal per bene e un portamento
di cotal sorte inverso al signor nostro?
     Veduto avete il vostro mancamento
con li occhi vostri propri, il vostro errore,
ma voi n’arete il iusto pagamento.
     Prima il negaste e fèste grande errore,
dappoi, trovato il furto, voi tacesti:
non basta dimostrarne ino dolore.
Ruben.   Né al confessare né al negar siam presti
l’un non sapemo e l’altro non possiamo,
né vediam ch’altro a noi che morte resti.
     Misericordia solo a Dio preghiamo;
Lui sia quel che ci aiuti e questo basti:
altro al prefetto ancor non dimandiamo.
Nabuch.   Signor, andai lá dove mi mandasti,
e ritrovai costoro andare in fretta
col denar e col gran che gli donasti.
     Con lor mi dolsi de la loro incetta,
ch’essendo stati lor tanto onorati,
la tua coppa t’avessino intercetta.,
     Negorno arditamente et ammirati;
si come spaventati, mi dicevano
che non credessi che lor fussin stati:

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     attento che i dinar portato avevano,

quai nei sacchi trovorno a l’altra volta,
per mostrar che del nostro non tenevano.
     E se tanta moneta insieme accolta
avean di Canaano riportata,
come arian poi la coppa cosí tolta?
     E lor medesmi la sentenza han data,
che morir debba chi la coppa ha avuta,
la libertade a li altri sia negata.
     Udendo lor risposta cosí arguta,
quasi il credetti, e pur deliberai
vederne il certo e far l’opra compiuta:
     onde a ciascuno i sacchi lor cercai.
L’ultimo fu’ a cercar questo garzone;
la coppa nel suo sacco ritrovai.
     Inteso hai tutto, or quel che vói dispone:
ecco la coppa e lor son qui condutti.
Di quel c’han fatto rendi a lor ragione,
     si che non vadin de la pena asciutti.

SCENA III

Ioseph, Iuda e li altri fratelli.

Ioseph.   Per qual cagion vi siete voi ridutti

a far tal mancamento? non sapete
che al divinar son dotto sopra tutti?
     Con questa coppa estinguo la mia sete,
con questa, quando voglio indivinare,
prendo l’augurio, e voi tolta l’avete!
     IUDA. Noi non avem, signor, con che escusare
possiamo il nostro fallo, ché ’l rispondere
ne è tolto, non possendo dinegare.
     Cosi ha voluto il grande Iddio confondere
la nostra iniquitá si manifesta,
che in modo alcuno non si pò nascondere.

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     Onde no’ insieme e quel che ha tolto questa

toi servi e schiavi semo: il tuo parere
fa’ mo di noi, ché dire altro non resta.
Ioseph.   Questo non voglio far, non è dovere.
Quel che ha furato, servo resti qua,
voi altri non vogl’io giá ritenere.
Ruben.   Ora vediamo chiaro quel che fa
l’aver peccato, e come Dio di sopra
vendicarlo e punirlo ancora sa!
     La iustizia di Dio, che a tempo adopra
la sua vendetta, a questo n’ha condutto:
questo ne avviene per nostra mal’opra.
     Io lo diceva ben, quando quel putto
gittammo in la cisterna e po’ il vendemmo:
— Guardiamoci da Dio che vede il tutto! —
     Allora noi quel che sapete feramo
contra il semplice putto et innocente,
e al nostro padre tanta pena demmo.
     Ora Beniamino, per niente
e senza aver fallito, è condannato
e porta lui la pena iniustamente.
     Ma noi soli dovremmo del peccato
portar la pena e non Beniamino,
pover fanciullo, che non l’ha mertato:
     noi soli, dico ancor, non quel meschino
vecchio del padre nostro, che condutto
l’abbiamo a morte: oh giudizio divino!
Ioseph.   Non parlate tra voi qui senza frutto,
ch’altro da quel che ho detto non sera.
Andate mo, ch’avete inteso il tutto.
     Costui mio servo solo rimarrá:
voi altri tornerete al padre vostro.
La pena il peccator sol porterá.
     lllDA. Ascolta umanamente, o signor nostro,
il mio parlare, e il iusto tuo disegno
non mova del tuo petto il sacro chiostro.

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So ben che ognun di noi per certo è indegno

di tua audienza, ma per tua bontade,
signor, intendi placido e benegno.
Tu hai sopra di noi la potestade
qual Faraone, e poi che tu ci pòi
dar vita e morte, ascolta per pietade.
Quando prima in Egitto fummo noi
toi servi, dimandasti suttilmente
del nostro padre se ’l viveva, e poi
saper volesti ancor distintamente
se piú fratelli erámo, e rispondemmo
quel ch’era a tua dimanda veramente:
che ’l vivea nostro padre, e ti dicemmo
che rimasto era seco un fanciulletto,
nostro fratello, e intender ti facemmo
ch’era del nostro padre sol diletto,
perché un fratei materno, quale aveva,
morto era prima, e per questo rispetto
teneramente caro se ’l teneva.
Allor rispose a noi la tua Eccellenza
che di vederlo al tutto ella intendeva,
ancor ch’avesse a averne dispiacenza
il padre nostro, e non facendo questo,
mai vederemmo piú la tua presenza.
Tornammo a casa e con bel modo e onesto
dicemmo al padre nostro il tuo volere;
rispose il pover vecchio tutto mesto:
— Non piú che dui figliol potetti avere
da mia moglie Rachele. Uno, il migliore,
mi fèste con gran doglia mia sapere
che una pessima fiera con furore
divorato l’aveva, et or volete
che ancor vi dia quest’altro, che è minore!
Se alcun sinistro quando il condurrete
gl’ intraverrá, per certo mia vecchiezza
con dolor sotto terra mandarete. —

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     Infili l’abbiam condutto a la tua Altezza,

la qual, quanto pel ver mio dir comprende,
del padre nostro intende la tristezza;
     ché la sua vita sol da costui pende,
e certo con dolore e con supplizio
il meschin morirá, se non glie ’l rende.
Ioseph.   Un ch’abbia a iudicar con ver iudizio,
quando ha a punire alcuno malfattore,
non deve aver rispetto a preiudizio
     ch’altrui ne senta alcun uman dolore;
ma dee. le leggi e quel che vói iustizia
sempre servar col debito rigore.
     Costui stará in prigion per la nequizia,
quale ha commesso, questo vói ragione:
s’io facessi altro, giá faria iniustizia.
     IUDA. Io sono il peccatore, e me in prigione
metti, signor: io son quel c’ha promesso
al padre rimenar questo garzone.
     Debitor del peccato c’ho commesso
serò sempre a mio padre, che a la fede
mia sola il giovinetto n’ha concesso.
     Contra me solo, contra me procede,
e lui co’ soi fratelli a casa torni,
ch’io non voglio tornar, se noi concede!
     Se caso avvien che senza lui ritorni,
a la calamitá serò presente
del padre mio, che finirá soi giorni.
Ioseph.   Non seria iusto, né conveniente
lassar quel c’ha peccato in libertade,
e dar pena o prigione a l’innocente!
     IUDA. Prego, signor, la tua benignitade,
in la qual sola sta nostra speranza,
commesso avendo tanta iniquitade,
     che non vogli guardar nostra ignoranza,
né vogli a’ nostri merti aver rispetto,
ma a la tua nobiltá, che ’l tutto avanza.

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     Guarda al tuo cor magnanimo e perfetto,

e fa’ ’l per te medesmo, e non per noi:
tua virtú mira, e non nostro difetto.
     Tua gloria è il perdonar, quando tu pòi;
e se in piú lievi colpe usar clemenza
dá sempre onore e fama a li par toi,
     quanto sera maggior la tua eccellenza,
se comportando il nostro grave errato,
ci donerai la solita indulgenza!
     Quando n’arai tal fallo perdonato,
giá la prima salute non será
che tua gentil natura n’ará dato,
     ma la prima salute amplierá,
qual fu quando del grano in abundanza
tu ci donasti: e questa piú será.
     Tu con darne pel viver la sustanza,
il vitto allor ci désti, ora mantiene
la vita che ne die’ la tua prestanza!
     Far le iuste vendette e dar le pene,
molti il san fare et opra è di mortale,
ma il perdonare solo a Dio conviene.
     Imita in questo il grande Iddio immortale,
con l’altre divin’opre, che tu fai,
ché la clemenza a Dio fa Forno eguale.
     Questa è vera occasion (ben so che ’l sai)
data dal cielo per mostrar tua gloria:
non la perder adunque poi che l’hai!
     Te stesso vinci, et è vera vittoria
vincere il sdegno e l’ira, e perdonare,
che immortai fa de li omin la memoria.
     Ti preghiamo ch’ancor vogli guardare
al meschin padre nostro, vecchio, afflitto,
che pena non de’ lui per noi portare;
     ché morendo costui, noi ancor d’Egitto
non usciremo e il padre meschinello
andrá sotterra dal dolor trafitto.

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     Che se la morte de l’altro fratello,

che Isepe si chiamò, ventitré anni
in pianti l’ha tenuto il poverello,
     quanti dolori, lacrime et affanni
credi ch’ara di questo suo diletto,
col pensar di noi diece ancora i danni?
     Lui è bon padre e pien di bono affetto,
iusto, modesto e pio: deh! non volere
che ’l sia punito, e nostro sia il difetto.
     A questo nome ’padre 3 vogli avere
alcun rispetto, che sei padre ancora,
e l’amor dei figlioli pòi sapere.
     Ancora tu i paterni affetti onora,
e dal tuo dolce cor l’altrui misura:
la tua virtude questo da te implora.
     Prego che ancora a questo ponghi cura:
che ’l far morir costui la vita toglie
al padre nostro e a noi, per morte oscura;
     e se lui salvi, tutti noi raccoglie
la sua salute. Or qual miglior pensiero
debia esser, prego che discorrer voglie:
     o perder tutti con l’esser severo,
o salvar tutti con l’esser clemente;
iudical tu, col tuo iudizio intero.
     Ti prego ancor, signor, che ponghi mente
a l’etá sua che è tenera e ancor fresca,
che quel che è bene o male ancor non sente.
     Del meschin giovinetto ora t’incresca,
abbi pietá de la sua fanciullezza,
che a miglior anni e a maggior cose cresca.
     Vedil prostrato in terra a la tua Altezza,
che con silenzio e lacrime dimanda
che vogli mitigar la tua durezza.
     Questo in summa ciascun di noi dimanda,
che se morir lo fai, fanne ancor noi
tutti morire: questo ognun dimanda.

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     Se vivo il vói per li servizi toi,

tien’ me per servo, c’ho piú esperienza,
e lui rimanda a casa con li soi.
     Se vói pur lui per servo a pazienza,
tutti con te per servi ancor staremo:
tornare a casa non vogliamo senza.
     Se a lui perdoni, et io con me il rimeno,
come promessi al padre, tu serai
sempre a noi, servi toi, signor terreno.
     Nostri preghi, signor, inteso or hai,
qual prostrati porgiamo a tua clemenza
con lacrime e dolor: quel che farai,
     tutto lassamo in la tua sapienza.


Ioseph.   Oh Dio, non posso il pianto piú tenere!
Laudata sempre sia tua provvidenza,
     laudato sia ’l tuo nome e il tuo potere!
Andate tutti fòr de l’audienza,
cortesani e famigli, e nissun stia,
     salvo che questi ebrei a mia presenza.
Oh Dio, la tua bontá per ogni via
sempre dimostri! Oh quanta tenerezza,
     quanta letizia tien l’anima mia!
Levate, o mei fratelli, ogni tristezza
del vostro petto: io son Ioseph, io sono
     quel fratei che vendeste in giovinezza.
Io son Ioseph, et è il mio padre bono
ancora vivo! A te grazie infinite,
     eterno Padre, rendo di tal dono!
Fratei, non dubitate, or qua venite,
accostatevi a me senza paura:
     cari fratelli, il mio parlare udite.
Non paia a alcun di voi giá cosa dura
che in queste region voi mi vendeste;
     però che Dio, che d’ogni cosa ha cura,

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     questo permise acciò che non aveste

per questa carestia alcun mancamento,
e la sua grazia meglio conosceste.
     Dui anni è stata senza alcun frumento
la terra e ancor cinqu’anni eli’ha a durare,
senza mietere e arar, senza alimento.
     Però in Egitto vòlse Dio mandare
me per vostra salute a provvedere
per la mia man, ch’aveste da mangiare.
     Non fu vostr’opra no, ma fu volere
del grande Iddio, che mi die’ Faraone
quasi per padre: e démmi il gran potere,
     qual voi vedete, in questa nazione,
facendomi di casa sua signore
e presidente a la sua regione.
     Non state piú trafitti dal dolore,
alzate il capo vostro e a me guardate,
levate ogni sospetto e ogni timore.
     Io son Ioseph, or non raffigurate
l’effigie mia, fratei? Levate su,
tutte l’offese vi son perdonate.
     Tu, caro fratei letto, or non sei tu
il mio Beniamino e’l mio diletto?
Io non posso, fratei, tenermi piú.
     Lassa ch’io veda il tuo gentile aspetto,
ch’io abbracci e basi tua gentil persona:
fratei mio dolce, or ch’io ti tengo stretto,
     l’amato nome nel cor mi risona
di nostra madre, di qual nati semo,
la dolce sua memoria santa e bona.
     Santo, immortale, eterno Dio supremo,
tante grazie ti rendo, quante io posso,
ché dodeci fratei qui ne vedemo.
     Fratelli, ognun di voi vedo commosso
di vergogna e dolore e di paura:
sia tal pensier da voi, prego, rimosso.

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     Parlate con me, prego, a la sicura,

abbracciamoci insieme con letizia,
con la mente sincera, aperta e pura.
Iuda.   La conscienza di nostra nequizia,
patron, fratello, padre e signor nostro,
ci terrá sempre in doglia et in mestizia!
Ioseph.   Non tenete per questo il parlar vostro,
cancelliamo il passato ormai dal core
e fate tutto quel ch’ora vi mostro.
     Tornate presto senza far errore,
queste parole dite al padre mio,
le qual vi dico con perfetto amore:
     — Il tuo figliol Ioseph, o padre mio,
ti fa assaper che è principe d’Egitto:
per sua grazia e bontá l’ha fatto Iddio.
     Ormai non ti bisogna star piú afflitto,
ma presto vieni a lui senza tardare,
con tutta la famiglia insieme a dritto.
     In terra di Iessén ti fará stare,
coi figlioli e nepoti e gregge e armenti,
ché alcuna cosa non t’ará a mancare.
     Vien presto, acciò non abbi detrimenti:
ché cinque anni ha a durar la carestia.
Né tu né i toi non siate al venir lenti. —
     Questo direte a lui per parte mia,
ma prima dolcemente il salutati,
pregandol che ’l si metta presto in via.
     Ma in casa a rinfrescarvi prima intrati,
ché quel ch’arete a far vi farò intendere,
dappoi ve n’andarete consolati.
     Vien qua, Nabuch, fa’ a costoro attendere:
in questo mezzo al re me n’anderò
per fargli onore. E non guardare al spendere,
     ché presto presto anch’io ritornerò.

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SCENA IV

Ruben, Iuda e li altri fratelli.

Ruben.   Io non ho ardire a riguardare il cielo!

Quando io ricordo il nostro fallo antico,
piú freddo ho drento al cor che neve o gelo.
     lllDA. Anch’io, Rubén, il simile ti dico.
Non ho vena, nè polso che si senta:
quanto piú vo’ parlar, la lingua intrico.
Dan.   Sai tu, Iuda, quel ch’ora mi rammenta?
Ti ricordi li insomni ch’el faceva,
quali a pensarli adesso mi spaventa:
     quando in sua puerizia lui diceva
che insomniava che le nostre cove
la sua onorava? e quando si metteva,
     e che ’l diceva ancor, che non so dove
undici stelle e il sole con la luna
se gl’inchinavano? E però mi move
     a creder, ripensando ben ciascuna
di queste cose, che verificati
son quegli insomni e questa sua fortuna:
     ché a lui ci siamo spesso noi inchinati,
e l’abbiamo adorato per signore.
Secondo i somni, cosí semo andati.
Ruben.   Io mi ricordo che ne féi rumore,
(ché in odio l’avevate allora a torto)
cercando mitigar vostro furore.
     Ché questo intender deve ogni omo accorto,
che s’era vero il somnio, mai schivare
noi potevate, se ben fusse morto.
     Cosi Dio l’ha voluto dimostrare,
e in nostro bene infin l’ha rivoltato,
ma noi non ne potrem però escusare.

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     È vero in summa e l’abbiam confessato,

non stimando da lui essere intesi,
quando in la nostra lingua avem parlato;
     ma lui tutti i parlar nostri ha compresi,
e a noi parlava in lingua egiziana,
tal che da noi medesmi ci siam presi.
     Ma come è stata nostra mente vana,
a non averlo mai riconosciuto!
Per certo eli’ è pur stata cosa strana.
     L’etá mutata e l’abito che ha avuto,
cagion son stati, ma s’or non parlava
in lingua ebrea, io non l’aria creduto.
Simeone.   Ma lui quanta constanza con no’ usava,
quanta prudenza, e come ha governato
quel che far verso noi ben ordinava!
     Sia d’ogni cosa il grande Iddio laudato!
Sollicitiamo pur nostro partire,
ché ’l nostro padre presto sia avvisato.
     Inferiamo in casa e non stiamo a dormire.

SCENA V

Abed servo, solo.

     Vero è per certo quell’antico detto,

che per proverbio s’usa fra la gente,
che l’amor si dimostra per l’effetto;
     ché quando uno ama alcun perfettamente,
ad ogni occasion sta pronto e presto
per dimostrar che l’ama veramente.
     Et è nel vero amore ancora questo,
ch’el ama ogni persona che appartiene
a l’altro amico, se l’amore è onesto.
     Avendo inteso il re da le persone
di corte che i fratelli eran venuti
del suo prefetto, e lor condizione,

[p. 270 modifica]
     con viso allegro e modi dolci e arguti,

non altramente un gaudio immenso prese,
che se tanti figlioli avesse avuti.
     Poi col prefetto in gratular si estese
con non finta letizia e uman parlare,
deliberando d’essergli cortese.
     Disse al prefetto che fèsse portare
due veste per ciascuno, ma al minore
Beniamino cinque ne fe’ dare,
     cinque veste piú belle e le migliore,
con trecento dinar, tutti d’argento,
mostrando a quel materno piú favore.
     Al padre ha ancor mandati altri trecento,
con altre cinque veste, et ordinò
diece asini con pane e con frumento
     da viver pel cammino, e comandò
che diece asine carche se gli désse
d’ogni ricchezza che in Egitto è mo.
     Un’altra cosa grande ancor commesse,
che ’l fusse ditto al padre del prefetto
che subito in Egitto ne venesse,
     ché gli dará in Egitto un loco eletto,
dove in pace posando goderla
ciò che in Egitto è bon, ciò ch’è perfetto.
     Ha comandato che ne venga via
con tutta la famiglia e sua sustanza,
e bestie e servi et ogni massaria.
     Et acciò che non abbia a fare stanza,
e che donne e famigli lá non lassi,
carri e carrette ha dato in abundanza.
     Si son partiti allegri e di bon passi,
e nel partire il mio patron gli disse:
— Nissun da l’ira superchiar si lassi.—
     Son tanti giorni che al cammin si misse
la compagnia, che io mi meraviglio
che qualche nunzio ancor non apparisse.

[p. 271 modifica]
     Ma dal tardare un argumento piglio,

che come savio uom, vecchio e saputo,
tutto dee fare con matur consiglio.
     A me mi par mill’anni sia venuto,
pel gaudio e pel contento del signore:
allor son certo che sera compiuto
     il desiderio tutto del suo core.

SCENA VI

Iacob dice a li figlioli:

     Fate prima inviar tutti li armenti,

poi carri e some con le balle e casse,
poi vittuaria e li altri fornimenti;
     appresso questo le carrette basse
con le donne e fanciulli, e l’altra gente
da lor non si discosti né li lasse.
     Andate pur però suavemente
e non in fretta, quasi in aspettare
fin ch’io non dica: — Andate prestamente. —
     A voi qui non incresca dimorare,
ché al pozzo voglio andar del giuramento:
qui vi starete infin ’al mio tornare.
     O Dio de’ padri mei, che mal contento
da te partir non lassi chi in te spera,
prego dii lume al mio proponimento.
     Tutto il mondo è menzogna et è sol vera
la tua parola, ond’io m’inclino e vólto
a la tua maiestá pura e sincera.
     Mostra sopra di me tuo sacro volto,
si come pare a la tua sapienza,
tal che rimanga il mio pensier risolto.
     Il mio diletto Isep, la cui assenza
tant’anni ho pianto, e morto l’ho tenuto,
or mi chiama in Egitto a sua presenza.

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     Miraculoso caso mi è paruto,

e quel che m’han narrato i figli mei,
e i don di Faraone, quali ho avuto.
     Senza tua voluntá movere i piéi
giá non intendo: tu, Signor, consiglia,
che vita e veritade e che via sei.
     Dimandami con tutta mia famiglia,
con la sustanza e servi, armenti e greggi:
ma senza te partito non si piglia.
     Tu, grande Iddio, che ’l tutto vedi e reggi,
ti prego mi dimostri il tuo volere.
Tu il mio deliberar movi e correggi,
     mostrandomi il cammin qual ho a tenere.

SCENA VII

L’Angelo dice a Iacob:

     O Iacob, o Iacob, sono il fortissimo

Dio del tuo padre.   Non aver paura:
ma va’ in Egitto, e l’andar sia prestissimo.
     Una gran gente, e grande oltra misura
li farò che di te discenderá,
et io con te verrò ad averne cura.
     E quando il tempo debito será,
secondo c’ha prefisso il mio concetto,
io serò quello che ti redurrá.
     Ioseph, il tuo figliolo benedetto,
sopra de li occhi toi porrá sua mano.
Va’ via contento, senza alcun sospetto,
     ché ogni altro tuo pensier seria poi vano.

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SCENA Vili

Iacob solo ringrazia Iddio:

     O Dio che i servi toi non abbandone,

ringrazio te con tutto il mio vigore,
de la tua santa e chiara visione.
     Or pongo mo’ da parte ogni timore,
ogni dolor depongo, ogni tristezza,
e tutto mi rimetto in te, Signore. —
     Su, servi mei fideli, con prestezza
pigliam tutti la via verso l’Egitto,
con festa, con piacere et allegrezza.
     La brigata inviate al cammin dritto
senza dimora e senza altro fermarsi,
né fate alcuna indugia a quel che è ditto.
     Iuda, espedito inanti, abbia ad avviarsi,
de la venuta nostra abbia a avvisare;
et io qui, ché nissun possa intricarsi,
     in su la mia carretta andrò a montare.

SCENA IX

Iuda, Ioseph, Iacob e Ruben con li fratelli.

     lllDA. Bona nova ti porto ora, signore.

Nostro padre Iacob, al mio partire,
era per via con tutto il suo valore,
     e credo non stará troppo a venire,
ch’io son venuto lento e lui si affretta
con piú celeritá ch’io non so dire.
     Piú l’andar che il posare gli diletta,
per desiderio immenso di vederti,
che ’l primo passo l’altro non aspetta.

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Ioseph.   Ho gran piacer di quello che m’accerti:

non mi potevi dir cosa migliore.
Arai la nunciatura, ché la mèrti!
     Voi, cavalier, vi prego per mio amore,
che insieme tutti andiamo ad incontrarlo,
ché di vederlo mi si strugge il core.
     Quando sforzato fui d’abbandonarlo,
per certi casi avversi ch’io non dico,
non potetti al partir pur salutarlo.
     Era un fanciullo e lui giá fatto antico,
né possemmo l’un l’altro rivedere,
tanto quel tempo allor fu a noi nimico.
     Anzi fu lui sforzato di tenere
ch’io fussi morto, e giá ventitré anni
m’ha pianto senza mai di me sapere.
     Et io per lui portato ho tanti affanni,
pel suo dolor, che nel mio cor vedeva
e ch’io tenea nascosto in questi panni,
     che mai letizia piena non aveva,
in tanto stato in quanto mi vedeti,
per la gran passion che in me teneva.
     Or vederò i mei giorni sempre lieti;
vedendo il padre mio, lui me vedendo,
i nostri cor seranno al tutto quieti.
     Andiamo adunque ormai, perché comprendo
che non sia da lontano, e giá mi pare
vederlo in qua venir, se ben attendo:
     non mi posso tener di lacrimare!

SCENA X

Iacob e Ioseph, e tutti li altri fratelli.

Iacob.   Semo pur in Egitto e ancor noi credo,

dappoi tante giornate e tal cammino,
perché quel che desidro ancor non vedo.

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     E’ non è loco al mondo si vicino,

che non paia lontano ad un che ’l brami:
ma fatto sempre sia il voler divino!
Ruben.   O padre, ecco colui che tu tanto ami!
Ecco il signor Ioseph, ecco che ’l viene
incontra a te il figliol che tanto chiami!
Iacob.   O dolce figliol mio, dolce mio bene!
O caro Isepe, o tenero figliolo,
figliol dolce, che in mano il mio cor tiene!
     Tant’anni senza te son stato solo,
tant’anni senza te, te ho lacrimato,
tanti per te ho avuto pena e duolo!
     Io ti tengo, figliol, cosí abbracciato:
non so se ancor sei vivo o sei pur ombra,
si da doglia e letizia ho il cor piagato!
Ioseph.   Superchio gaudio e pianto si m’ingombra,
padre mio dolce, che parlar non posso:
ma tu d’affanno ormai tuo petto sgombra.
     Io sono il tuo Ioseph: or sia rimosso
tristizia e pianto, e de’ passati danni
non parliam piú, che troppo ci han commosso;
     e col voler di Dio tutti quest’anni,
che restan di tua vita, godiamo
con festa e con piacere e senza affanni.
     Ma prima ch’altra cosa noi parliamo,
al nostro re supremo Faraone,
a fargli riverenza, tutti andiamo.
Iacob.   Andiam, figliolo, ché mi par ragione;
ma due parole sole io ti dirò
con caritade e senza finzione.
     Tu dispensa mia vita, io obedirò,
perché quel che dimostra Dio nel sonno
al fin pur viene e fuggir non si pò.
     I decreti di Dio si stabil sonno,
che per potere o industria o sapienza
Fumane genti mai schivar no’ i ponno.

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     Al re mo andiamo a fargli riverenza,

ma prima entriamo in casa, se ’l ti pare
che noi facciamo alquanta diligenza
     in rassettarci; e poi potremo andare.

SCENA XI

Abed, Azor servi.

Abed.   La piú bella famiglia mai vid’io,

né credo sia piú bella compagnia
di questa di Iacob, al parer mio.
     Son tutti in casa adesso, e par che sia
un popul fatto di fiorita gente,
che a tutta questa casa il lume dia.
     Son dodeci figlioli imprimamente,
qual noi sapemo, e poi quei che son nati
di lor, che a rimirar move ogni mente.
     Tra fratelli e figlioli, io n’ho contati
settanta in tutto e maschi, in fòr due femine,
che di Iacob qui sono ingenerati.
     Pare che quel paese i figliol germine:
felice vecchio, che si vede intorno
tanti omin, tutti nati del suo semine!
     Bel fu a vedere quando in casa introrno,
e tutti a l’ordin suo con reverenza,
abbracciando il signor, il salutorno.
     E lui con quanta grazia e qual clemenza,
lacrimando i basava ad un per uno!
Mai vidi la piú tenera accoglienza:
- ché a pianto si seria mosso ciascuno,
per la dolcezza de l’atto pietoso,
che a Luna parte e a l’altra era communo.
Quanti anni a Faraone è stato ascoso
ch’abbia fratelli e padre il suo prefetto,
or di gran lunga gli è piú grazioso.

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Azor.   Ben sai che mostrerá meglio suo effetto,

dando al padre e fratelli condizione,
per dimostrargli quanto n’ha diletto.
     Ma el vien per presentarsi a Faraone:
andiam, che ne troviamo a la presenza.
Ho gran piacer veder quel bon vecchione;
     e del gran re vedremo la sapienza.

SCENA XII

Iacob rende saluto al re Faraone. Ioseph con tutti li fratelli.

Iacob.   Salvo e sano sii sempre, o Faraone,

e Dio del ciel, fattor de la natura,
vera felicitá, signor, ti done.
     L’è parso a tua clemenza pigliar cura
di me, tuo servo e de la mia vecchiezza,
con farci benefizi oltra misura.
     Non è, signore, in noi tanta grossezza,
se ben semo pastor, che non sappiamo
che tutto ciò procede da tua altezza;
     perché da’ nostri inerti non l’abbiamo,
ma da tua grazia, il ben del mio figliolo,
e il nostro ancor da te riconosciamo.
     Dio prima sia laudato, e poi tu solo:
ecco il tuo servo in la tua potestade,
semplice servo senza fraude e dolo.
     Mei figlioli e nepoti e facultade,
tutti son qui: quel che tu vói dispone,
fa’ quanto piace a tua benignitade.
Faraone.   L’ottima e santa tua condizione
e del figliolo tuo, mio presidente,
nota pel mondo a tutte le persone,
     fan ch’io rivolto in te tutta mia mente,
si come in le sue man posto ho il mio stato
per la sua fede chiara et eccellente.

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     Tutto quel che ti fia piacere e grato,

o caro Iacob mio, sia quel che voglia,
dimanda pur, ché mai ti fia negato.
     Acciò che tal promessa meglio accoglia,
dammi la destra mano, et amicizia
tra noi ligamo, che mai piú si scioglia;
     et in segno d’amore e di letizia
questo baso ti dò, né dubitare
che in Egitto ti manchi mai divizia.
Iacob.   Ringrazieria, signor, se ’l lacrimare
il permettesse; ma tu piglia il core,
quel dica e parli, ch’io noi posso fare!
Faraone.   Siedi qui, il mio Iacob, di’ per mio amore,
quant’anni hai tu? ché vecchio pur essendo,
conosco c’hai ancor possa e vigore.
Iacob.   Se bene a la memoria il tempo rendo,
cento trent’anni in terra ho conversato,
pochi e non boni, e poco piú n’attendo.
     Né a li anni de’ mei padri so’ arrivato,
pur di tal sorte vi vero contento,
poi che il mio car figliolo ho ritrovato.
Faraone.   Odi, prefetto, poi che pastor sento
che son tuo padre e i toi, vo’ gli consegni
la terra di Iessén per nutrimento.
     In la terra del Sol tra li omin degni
stará tuo padre, e se fra’ toi fratelli
è alcun che in la sua industria ben s’ingegni,
     fa’ che tra’ mei pastor sian posti anch’elli,
ma primi e soprastanti, perché io vedo
che sono instrutti, e non pastor novelli.
Iacob.   Ti ringrazio, signore, e da te chiedo
ormai licenza. Che tu sii benedetto!
Questo ch’io posso, questo ti concedo.

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L’Angelo.

     A la virtú sempre ebbe Dio rispetto,

né mai fu 1* innocenza abbandonata,
né mai la fedeltade ebbe difetto.
     E se ben la fortuna alcuna fiata,
o l’umana malizia alcun contrista,
perché par la persona infortunata,
     se volta nondimeno al ciel la vista
e in Colui spera, che di tutto è autore,
infin la vita e gloria e robba acquista.
     Se da Quel spera, che pò dar favore,
che solo è Dio, e sta forte e constante,
la grazia acquista e facultade e onore.
     Un grande esemplo ve vedeste inante,
di quel ch’io dico, se mirato avete
con diligenza queste cose sante.
     A casa adunque in pace n’andarete,
laudando sempre Dio e sua possanza,
per certo avendo che con Lui sarete,
     se firmerete in Quel vostra speranza.

Finis.