Commedia (Buti)/Paradiso/Canto XVII

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Paradiso
Canto diciassettesimo

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Paradiso - Canto XVI Paradiso - Canto XVIII
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C A N T O     XVII.





1Qual venne a Climene, per accertarsi
     Di quel ch’avea contra sè udito,1
     Quel ch’anco fa li padri ai filli scarsi;2
4Tale era io, e tale era sentito
     Da Beatrice, e dalla santa lampa,3
     Che pria per me avea mutato sito.
7Per che mia donna: Manda fuor la vampa
     Del tuo disio, mi disse, sì chell’esca
     Segnata bene de l’eterna stampa:
10Non per che nostra cognoscenzia cresca
     Per tuo parlare; ma perchè t’ausi
     A dir la sete, sicchè l’om ti mesca.
13O cara pietra mia, che sì t’insusi,
     Che, come veggion le terrene menti
     Non capere in triangol due ottusi;4
16Così vedi le cose contingenti
     Anzi che siano in sè, mirando ’l punto.
     A cui tutti li tempi son presenti,
19Mentre ch’io era a Virgilio coniunto
     Su per lo monte che l’anime cura,
     E descendendo nel mondo defunto,

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22Ditte mi fuor di mia vita futura
     Parole gravi, avvegna ch’io mi senta
     Ben tetragono ai colpi di ventura.
25Per che la vollia mia seria contenta5
     D‘intender qual fortuna mi s’appressa:
     Chè saetta previsa vien più lenta.6
28Così diss’io a quella luce stessa,
     Che pria m’avea parlato; e, come volle
     Beatrice, fu la mia vollia confessa.7
31Non per ambage, in che la gente folle
     Già s’invescava, pria che fusse anciso
     L’Agnel d’Iddio che le peccata tolle;
34Ma con chiare parole, e con preciso8
     Latin rispuose quello amor paterno,
     Chiuso e parvente nel suo chiaro riso:9
37La contingenzia, che fuor del quaderno
     De la vostra materia non si stende,
     Tutta è dipinta nel cospetto eterno.
40Necessità però quinde non prende,
     Se non come dal viso in che si specchia
     Nave, che per torrente giù discende.10
43Da indi, siccome viene ad orecchia11
     Dolce armonia d’organo, mi viene
     A vista ’l tempo che ti s’apparecchia.
40Qual si partì Ipolito d’Atene
     Per la spietata e perfida noverca;
     Tal di Firenze partir ti convene.

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49Questo si vuole, e questo già si cerca,
     E tosto verrà fatto a chi ciò pensa
     Laddove Cristo tutto si commerca.12
52La colpa seguirà la parte offensa
     In grido, come suol; ma la vendetta
     Fi’ testimonio al ver, che ella dispensa.13
55Tu lascerai ogni cosa diletta
     Più caramente; e questo è quello strale,
     Che l’arco de l’esilio pria saetta.
58Tu proverai siccome sa di sale
     Lo pane altrui, e com’è duro calle
     Lo scender e salir per l’altrui scale.14
61E quel, che più ti graverà le spalle,
     Serà la compagnia malvagia e scempia,
     Co la qual caderai in questa valle,15
64Che tutta ingrata, tutta matta et empia
     Si farà contra te; ma poco appresso
     Ella, non tu, n’ avrà rossa la tempia.16
67Di sua bestialità il suo processo
     Farà la prova, sicch’a te fi’ bello
     Averti fatto parte per te stesso.
70Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
     Serà la cortesia del gran Lombardo,
     Che in su la Scala porta il santo uccello.
73ch’avrà in te sì benigno riguardo,
     Che del fare e del chieder tra voi due
     Pria sarà quel, che tra li altri è più tardo.17

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76Con lui vedrai colui, che impresso fue
     Nascendo sì di questa stella forte,18
     Che notabili fien l’opere sue.19
79Non se ne son ancor le genti accorte
     Per la novella età: chè pur nove anni
     Son queste stelle intorno di lui torte.20
82Ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
     Parran faville de la sua virtute
     In non curar d’argento, nè d’affanni.
85Le sue magnificenzie cognosciute
     Saranno ancora sì, che i suoi nimici
     Non ne potran tener le lingue mute.
88A lui t’ aspetta et ai suoi benefici:
     Per lui fi’ trasmutata molta gente,
     Cambiando condizion ricchi e mendici.
91E porteraine scritto ne la mente
     Di lui, e nol dirai; e disse cose
     Incredibili a quei che fi’ presente.
94Poi iunse: Fillio, queste son le chiose
     Di quel che ti fu detto: ecco le insidie,
     Che dentro a pochi giri sono ascose.21
97Non vo’ però ch’ai tuoi vicini invidie,22
     Possa che s’infutura la tua vita
     Via più là, che ’l punir di lor perfidie.
100Poi che tacendo si mostrò espedita
     L’ anima santa di metter la trama
     In quella tela, ch’io li porsi ordita,
103Incominciai come colui che brama,
     Dubbiando, aver consillio da persona,23
     Che vede e vuol, dirittamente et ama:

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106Ben veggio, padre mio, siccome sprona
     Lo tempo verso me, per colpo darmi
     Tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;
109Però di providenzia è buon ch’io m’armi,24
     Sì che, se ’l loco m’è tolto più caro,
     Io non perdesse li altri per mie carmi.
112Giù per lo mondo senza fine amaro,
     E per lo monte, del cui bel cacume
     Li occhi de la mia donna mi levaro,
115E possa per lo Ciel di lume in lume
     Ò io appreso quel che, s’io ridico,
     A molti fi’ sapor di forte agrume.
118E s’io al vero sono intimo amico,25
     Temo di perder viver tra coloro,
     Che questo tempo chiameranno antico.
121La luce, in che ridea lo mio tesoro,
     Ch’io trovai lì, si fe prima corusca,
     Quale a raggio del Sol lo specchio d’oro;26
124Indi rispuose: Coscienzia fusca
     O de la propria o de l’altrui vergogna,
     Pur sentirà la tua parola brusca.
127Ma non di men, rimossa ogni menzogna,
     Tutta tua vision fa manifesta,
     E lassa pur grattar dov’è la rogna:
130Chè se la voce tua sarà molesta
     Nel primo gusto, vital notrimento
     Lasserà poi, quando sarà digesta.
133Questo tuo grido farà come ’l vento,27
     Che ’n più alte torri più percuote;28
     E ciò non fa d’onor poco argomento.

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136Però ti son mostrate in queste ruote,
     Nel monte e nella valle dolorosa
     Pur l’anime che son di fama note:
139Che l’animo di quel, ch’ode, non posa,
     Nè ferma fede per esemplo, ch’àia
     La sua radice incognita et ascosa,
142Nè per altro argomento che non paia.



  1. v. 2. C. A. Di ciò che aveva incontro a sè
  2. v. 3. C. A. Quei, che ancor fa
  3. v. 5. C. A. E da Beatrice, e
  4. v. 15. C. A. in trianguli
  5. v. 25. C. A. la voglia mia saria
  6. v. 27. C. A. provisa
  7. v. 30. Confessa; confessata, come mostro, torno per mostrato, tornato. E.
  8. v. 34. C. A. Ma per chiare
  9. v. 36. C. A. suo proprio riso:
  10. v. 42. C. A. per corrente
  11. v. 43. C. A. Da indi sì, come
  12. v. 54. C. A. tutto dì si merca.
  13. v. 54. C. A. che la
  14. v. 60. C. A. Lo scendere e il salir
  15. v. 63. C. A. tu cadrai in
  16. v. 66. C. A. avrà rotta
  17. v. 75. C. A. Fia prima quel,
  18. v. C.A. da questa
  19. v. 78. C. A. Che mirabili
  20. v. 81. C. A. queste rote
  21. v.96 C. A. dietro a
  22. v. 97. C. A. che tuoi
  23. v. 104. C.A. Dubitando consiglio
  24. v. 109 C. A. Perchè di
  25. v. 118. C. A. son timido
  26. v. 123. C. A. di Sole specchio
  27. v. 133. C. A. come vento,
  28. v. 134. Che le più alte cime

C O M M E N T O


Qual venne a Climene, per accertarsi ec. Questo è lo canto xvii, nel quale finge lo nostro autore ch’elli, confortato da Beatrice, dimandasse messer Cacciaguida che lo dichiarasse dell’ annunzio che li fece messer Farinata delli Uberti di quel che in brieve tempo li dovea avvenire d’avversità, siccome appare nel x canto de la prima cantica, u’ elli dice: Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna, che qui regge, Che tu saprai quanto quel l’arte pesa. Ancora nel’xi canto de la seconda cantica, parlando con Odorizi, disse: Più non dirò, e scuro so ch’io parlo; Ma poco tempo andrà, che i tuo’ vicini Faranno si che tu potrai chiosarlo; e come lo detto spirito, di ciò dimandato, lo dichiara di ciò, et intorno a ciò molte altre cose che si vedranno nel testo. E dividesi questo canto principalmente in due parti, perchè prima finge come, mosso da Beatrice, dimanda del detto dubbio ch’elli aveva del detto anunzio che li fu fatto, e come messer Cacciaguida liel dichiara; ne la seconda parte finge come lo detto spirito li predice l’aiuto che li fia dato ne la sua avversità e da cui, e come lo conforta ch’elli stia forte contra la fortuna, e come elli li muove un altro dubbio sopra questa sua comedia, e com’elli dal detto dubbio lo rimuove coi suoi conforti, et incominciasi quine: Lo primo tuo refugio ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide in cinque parti: imperò che fa una similitudine d’una fizione poetica 1, come Beatrice lo conforta ch’elli dimandi; nella seconda finge come, confortato da Beatrice, dimandò della sua fortuna a messer Cacciaguida, et incominciasi quine: O cara pietra mia ec.; nella terza parte finge come lo detto spirito, incominciando a rispondere, li dichiara certe belle cose de la prescenzia 2 divina, et incominciasi quine : Non per ambage ec.: ne la quarta [p. 506 modifica]parte finge come lo detto spirito risponde al dubbio proposto, manifestandoli che serà cacciato di Fiorenza, et incominciasi quine: Qual si partì ec.: ne la quinta parte finge come lo detto spirito li dichiara qual fia lo maggiore dispiacere ch’arà nella sua avversità et incominciasi quine: Tu proverai siccome sa di sale ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizione allegoriche e morali che correranno. Dice prima cosi: Qual venne ec.

C. XVII — v. 1-12. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come elli fu mosso da Beatrice a manifestare lo suo desiderio al detto spirito col quale aveva parlato di sopra, arreca una similitudine poetica, et appresso finge come Beatrice lo conforta a dire lo suo desiderio, dicendo così: Qual venne a Climene; cioè a la madre sua, ch’era chiamata Climene, per accertarsi; cioè per farsi certo di quello che dubitava, cioè, Di quel ch’avea contra sè udito; dittoli da Epaso figliuolo di Iove, cioè ch’elli non era figliuolo del Sole, e che la madre lo ingannava, Quel; cioè colui che fu chiamato Eridano prima e poi Feton, che fu figliuolo del Sole e di Climene, del quale fu detto di sopra nella prima cantica, nel xvii canto, ch’anco; cioè che anco, fa li padri ai filli scarsi; cioè a promettere, pigliando esemplo da questo che, perchè lo Sole li promisse di darli ciò che dimandasse, dimandò di reggere lo carro suo; per la qual cosa moritte, e per questo li padri sono fatti più temperati a promettere ai figliuoli, Tale era io; cioè Dante al mio terzo avo, quale fu Eridano, o vero Feton, a Climene sua madre, quando andò a lei per dichiararsi s’elli era figliuolo del Sole, che li era stato detto da Epaso che no: imperò che io stava col desiderio di dimandarlo del mio dubbio, e tale era sentito Da Beatrice; cioè io Dante era tale sentito da Beatrice, quale venne Feton a Climene sua madre, per farsi certo s’elli era figliuolo del Sole, cioè con quello desiderio era io sentito da la mia guida essere allora, e dalla santa lampa; cioè da quello beato spirito che risplendeva come una lampana, cioè di messer Cacciaguida lo quale vedeva lo mio desiderio che io avea dentro, Che; cioè lo quale spirito, pria; cioè prima, per me; cioè per me Dante, per parlare meco, avea mutato sito; cioè avea mutato luogo ne la croce che era nel pianeto Marte, che, come fu detto di sopra, si partì del corno e venne giuso al gambo: imperò che io mi voleva dichiarare di quello che aveva udito contra me, come Feton di quello che aveva udito contra sè. Per che; cioè per la qual cosa, mia donna; cioè Beatrice, mi disse; cioè disse a me Dante: Manda fuor3; cioè del tuo amore, la vampa; cioè l’ardore, Del tuo disio; cioè del tuo desiderio, sì ch’ell’esca; cioè per sì fatto modo che esso [p. 507 modifica]ardore esca de la tua niente, Segnata bene de l’eterna stampa; cioè de la carità del lo Spirito Santo, che è eterno et è forma che dà essere ad ogni perfetta carità; sì come la stampa dà essere a la 4 figura ch’ella fa. E tollie via uno dubbio che potrebbe nascere ne la mente del lettore, cioè: Tu ài detto di sopra che li beati veggiano ogni nostro desiderio 5, come dice Beatrice che elli dica, che non dè essere bisogno? Et a tollier questo dubbio, dice: Non; dico che tu, Dante, dichi, dice Beatrice, per che nostra cognoscenzia cresca Per tuo parlare: imperò ch’ella non cresce in noi, che quello cognosciamo noi beati, poi ch’ài parlato, del tuo concetto che prima, ma perchè t’ausi; cioè ma io tel dico, perchè t’avezzi, A dir la sete; cioè a dire lo desiderio tuo, sicchè l’om ti mesca; cioè ti sazi l’appetito e lo desiderio, come sazia la sete colui che mesce lo bere a chi à sete. Et è qui da notare questa moralità che, benchè Iddio vegga lo nostro desiderio buono, non sempre l’adempie: imperò che vuole che noi l’esprimiamo co la bocca, acciò che noi creature nell’addimandare ci cognosciamo subiette al creatore, siccome dice l’Evangelio: Petite, et accipietis; e però finge l’autore che Beatrice dica a Dante le parole dette di sopra; e che lo terzo avo suo, benchè vedesse lo suo desiderio, nollo dichiarava perchè voleva che mostrasse umilità nell’addimandare. Ma Beatrice non aspetta che Dante dimandi a lei, perch’ella significa la grazia d’Iddio preveniente, la quale viene senza essere dimandata: imperò che Iddio la dà per sua bontà e cortesia.

C. XVII — v. 13-30 in questi sei ternari lo nostro autore finge com’elli, confortato da Beatrice, parlò a messer Cacciaguida dimandando d’esser certificato del dubbio, che aveva di quello che aveva udito dire contra sè, che fu detto nel principio di questo canto, dicendo così. O cara pietra mia; ritiene lo parlare di sopra, quando disse: Ben supplico io a te, vivo topazio, Che questa gioia preziosa ingemmi, dove è lo colore che si chiama permutazione e così usa qui ancora, chiamando lo detto spirito pietra: imperò che come pietra preziosa ne la corona, o nella cintola, è posta per adornamento; così era posto lo detto spirito ne la croce di Marte, che sì; cioè lo quale per sì fatto modo, t’insusi; cioè t’inalzi in su in verso Iddio: questo è verbo 6 preponiale fatto dall’autore iusta lo vulgarc, Che, come veggion le terrene menti; cioè le menti umane, che sono in terra, Non capere in triangol due ottusi; triangulo è una figura in [p. 508 modifica]Geometria, che àe tre anguli e li anguli sono di tre maniere, secondo che pone la detta scienzia: imperò che o è angolo retto, o acuto o ottuso. Angulo retto è che si fa di due linee diritte, l’una levata in su e l’altra ad iacere. Acuto è che si fa di due linee, che caggiono dentro dalle dette due diritte 7. Ottuso è che si fa di due linee, che eaggiono fuora da le dette due diritte, sicchè l’angulo diritto è in mezzo tra l’ottuso e l’acuto. E secondo questa divisione delli anguli e demostrazione nessuno triangulo si può stare che abbia due anguli ottusi: uno ne può bene avere. Può bene avere lo triangulo tutti e tre anguli acuti; e può avere uno angulo diritto e due acuti; ma due ottusi, nè tre, non mai: uno ottuso bene può avere e due acuti. E però adducendo per similitudine la proposizione geometrica demostrata, dice l’autore come vedeno li omini quello che detto è, Così vedi; cioè tu beato spirito, le cose contingenti: tulle le cose, che sono future, o elle sono necessarie, o elle sono contingenti: le necessarie ànno le sue cagioni determinate, e però si possano sapere inanti. le contingenti, benchè abbiano le sue cagioni, ànnole non determinate e non possibili a sapere a noi, e però non si possono sapere, inanzi che vengano, da li omini terreni; ma da’ beati, che vedeno in Dio ogni cosa, ben si possano sapere; e però ben dice l’autore a quello spirito che le vede, Anzi che siano in sè; cioè inanti che vegnino ad essere: io posso ben sapere che io morrò, perchè è necessario: ma quando non posso sapere, perchè è contingente, che può essere tosto o tardo, mirando ’l punto: cioè Iddio, che è figurato da l’autore siccome uno punto sopra ogni cosa nel cielo empireo, A cui; cioè al qual punto, tutti li tempi son presenti; perchè Iddio è eterno, tulle le cose a lui sono presenti: imperò che eternità è tutta insieme e perfetta possessione di vita che non à termine; e per tanto sa le cose che debbono venire quanto a noi, e lo suo sapere nulla necessità a le cose future adiunge o impone, siccome lo nostro vedere umano nulla necessità impone a la nave che vegliamo andare prontariamente per lo mare 8. E però che in Dio riluce ogni cosa, siccome in uno specchio, però li beati ragguardano 9 in lui, vedono tutte le cose com’elle sono; e però ben dimanda l’autore, secondo la sua fizione, messer Cacciaguida della sua ventura, dicendo: Mentre ch’io era; cioè io Dante, a Virgilio; che fu mia guida per lo purgatorio, infine ch’elli finse di salire nel paradiso delitiarum, e per tutto lo inferno, coniunto; e questo s’intende allegoricamente; mentre che io era guidato da la ragione superiore e teorica, e similmente da la [p. 509 modifica]pratica et inferiore, Su per lo monte; cioè del purgatorio, che l’anime; cioè umane, cura; cioè purga dei suoi peccati, che ànno fatti nel inondo, E descendendo nel mondo defunto; cioè e dcscendendo per lo inferno, lo quale chiama mondo defunto, perchè quello è luogo dei dannati che sono defunti e privati della grazia d’Iddio; e descendere e considerare come la penitenzia ce la fa racquistare è ascendere, e lo scendere e partirsi da la grazia è morire, e lo montare e tornarvi è vita, Ditte mi fuor di mia vita futura Parole gravi; cioè a me Dante fu detto di quel che mi doveva avvenire nell’uno luogo e nell’altro, mentre che io aveva a vivere, parole che mi furno gravi pensandole: ad ogni uno è grave l’avversità, benchè alquanti siano forti a 10 poterla, et alquanti no. E le parole, che li furno dette da messer Farinata delli Uberti, furno quelle che io dissi nel principio del canto presente, cioè: Ma non cinquanta volte fia raccesa La faccia della donna, che qui regge, Che tu saprai quanto quell’arte pesa. Come appare nel detto luogo, l’autore venendo a parole col detto messer Farinata, parlando de le cacciate e tornate dei guelfi e de’ ghibellini in Firenze, avendo detto Dante a lui: Se fur cacciati; cioè li guelfi, ei tornar d’ogni parte, l’una e l’altra fiata; Ma i vostri; cioè li ghibellini, non appreser ben quell’arte; cioè del tornare: imperò che non ritornorno mai poi, allora messer Farinata, secondo la poesi dell’autore, li disse le dette parole, cioè che non passerebbono cinquanta mesi ch’elli saprebbe quanto è grave l’essere cacciato di casa sua; e così fu: imperò che inanti 1304 furno cacciati li bianchi di Fiorenza, tra’quali fu Dante, partendosi de la città per sua vollia, vedendo lo malo stato de la città, benchè poi fu fatto che non vi potesse tornare. E nel purgatorio finge che li dicesse Odorizi, come detto ene: Più non dirò, e scuro so ch’io parlo; Ma poco tempo andrà che i tuo’ vicini Faranno, sì che tu potrai chiosarlo; cioè questo mio detto tu potrai esponere: chiosare è esponere: imperò che fi’ venuto quel che io predico inanti: allora si chiosano e spognansi le cose preditte, quando sono addivenute: imperò che l’uomo dice: Questo significavano le tali parole, avvegna ch’io; cioè che io Dante, mi senta; cioè senta me, Ben tetragono; cioè quadrangulo, cioè forte come lo quadrangulo: tetragono si dice da tetra 11, che significa quattro et agono che significa canto, e però tetragono, di quattro canti, ai colpi di ventura; cioè a l’avversità che dà la ventura; cioè, benchè le cose dittemi siano gravi, io mi sento ben forte a sostenerle. Et adiunge lo suo desiderio: Per che; cioè per la qual cosa, la vollia mia seria contenta; cioè la voluntà di me Dante si contentrebbe, D’intender qual fortuna mi s’appressa; cioè a me [p. 510 modifica]Dante che è quello che io debbo sostenere. Che saetta previsa; cioè imperò che la saetta che è preveduta, se non si può cessare, vien più lenta; che non verrebbe se non fusse preveduta, e così da minor colpo, e però lo vorrei sapere. Così diss’io; cioè io Dante dissi così a messer Cacciaguida, come io òne detto, a quella luce stessa; cioè a messer Cacciaguida, Che; cioè lo quale, pria m’avea parlato; cioè aveva parlato a me Dante, acciò che non s’intenda ch’elli non avesse parlato ad altro spirito, dice le predette parole. e, come volle Beatrice; cioè come mi comandò Beatrice, che è in questa cantica terza la mia guida, fu la mia vollia; cioè la voluntà di me Dante, confessa; cioè confessata e manifestata a messer Cacciaguida mio terzo avo, del quale è stato detto assai di sopra. Seguita.

C. XVII — v. 31-45. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come lo spirito beato, detto di sopra, rispuose a la sua dimanda, dicendo così: Non per ambage; questo va al verbo rispuose, intendendo et acconciando così le parole: quello amor paterno; cioè messer Cacciaguida, Chiuso; cioè nel suo splendore, e parvente; cioè risplendente et apparente, nel suo chiaro riso; cioè ne la sua chiara e risplendente letizia che si dimostrava, come la letizia dell’uomo, in 12 del riso, rispuose; cioè a la dimanda, Non per ambage; cioè non per circuizione et involuzione di parole, in che; cioè nelle quali circuizioni, la gente folle; cioè matta e stolta, Già; cioè nel tempo antico, s’invescava; cioè si pilliava come l’uccello al vesco, come appare alli oracoli d’Appolline et a le risposte di Sibilla, pria; cioè prima, che fusse anciso; cioè che fusse morto, L’Agnel d’Iddio; cioè Iesu Cristo, del quale si dice: Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis, e però dice: che le peccata tolle; cioè tollè: imperò che li dimoni davano risposta ne l’iduli e ne le statue 13, inanti che lo figliuolo di Dio prendesse carne umana, oscure et implicite che non si potevano bene intendere, e tutte avevano contrari intendimenti, acciò che se non veniva l’uno venisse l’altro, et ellino paresseno avere detto vero, e così ingannavano la gente; ma poi che venne Cristo, cessorno tali risposte, e disfernosi l’iduli. Ma con chiare parole: cioè rispuose quello beato spirito, sicché ben si poterno intendere, e con preciso Latin; cioè e con latino 14 distinto, che in una significazione tanto e non in più si poteva bene intendere. Et ecco quello che rispuose: La contingenzia; cioè l’evenimento de le cose non necessitato da cagioni naturali, che; cioè la qual contingenzia, non si stende fuor del quaderno De la vostra materia; cioè che non è se none nelle cose materiali: imperò che nelle formali non è contingenzia; ma necessità: l’anima, mentre che è nel corpo, è occupata [p. 511 modifica]ne le cose contingenti: imperò che à li atti liberi, che vegnano secondo la libertà d’arbitrio; ma, poi che è separata dal corpo, àne li atti necessari, Tutta; cioè la contingenzia, cioè tutti li atti che procedeno da la libertà d’arbitrio che sono contingenti, li altri sono necessari, è dipinta nel cospetto eterno; cioè tutti li atti nostri, che vegnano da libertà d’arbitrio, sono rappresentati nella visione divina, come si rappresentano li atti ne la dipintura. Et ora solve lo dubbio che quince nasce, cioè: Se le cose contingenti si vedeno in Dio, dunqua non possano venire altrementi ch’elle siano vedute in Dio, dunqua diventano necessarie, e però solve questo dubbio, dicendo che no: imperò che, benchè Iddio vegga le cose contingenti, elli le vede presenzialmente benchè siano future, sicchè lo suo vedere non dà necessità a quelle, se non come lo nostro vedere non dà necessità a le cose presenti che procedono da libero arbitrio e sono contingenti; e però dice: Necessità però; cioè benchè sia veduta da Dio la contingenzia, quinde; cioè da la visione divina, non prende; ciò non pillia la contingenzia, Se non; ecco che arreca la similitudine, come dal viso; cioè d’alcuno uomo, in che si specchia; cioè nel quale viso umano si rappresenta siccome in specchio, Nave; cioè alcuna, che; cioè la quale, per torrente; cioè per fiume, giù discende; cioè vada discendendo: ella pur va secondo che volliano li naviganti che la governano, benchè l’occhio umano la vegga. Da indi; cioè da la visione divina, siccome; ecco che fa una similitudine, viene ad orecchia Dolce 15 armonia d’organo: cioè come viene a l’orecchio la dolce sonorità dell’organo o d’altro istrumento musico, che viene rappresentato per l’aire, mezzo nel quale tale suono si crea, così mi viene; cioè a me Cacciaguida. A vista ’l tempo; cioè al mio vedere lo tempo, che ti s’apparecchia; cioè lo quale s’apparecchia a te Dante: imperò che io lo veggo presente in Dio quello, che a te è futuro.

C. XVII — v. 46-57. In questi quattro ternari finge lo nostro autore che, poi che messer Cacciaguida ebbe fatto lo suo esordio, venne a la narrazione, dicendo per una similitudine come per onestà Dante converrà partirsi di Fiorenza, come convenne partirsi Ipolito d’Atene per la sua matrigna Fedra che lo richiese di disonesto amore, come è stato detto di sopra ne la cantica prima nel canto xii. Teseo figliuolo del re Egeo d’Atene. poi che ebbe sconfitto lo Minotauro in Creta e menatone le due figliuole del re Minos di Creta, che l’una; cioè Adriana o vero Adrangne che fusse chiamata, [p. 512 modifica]lassò ne l’isula, e l’altra; cioè Fedra, prese per donna; morta la reina Ipolita delle Amazoni che era sua donna, de la quale ebbe uno figliuolo che si chiamò Ipolito che fu onestissimo, e per servare castità non abitava se non ne le selve cacciando et affaticandosi per cessarsi dalla lussuria, del quale la reina Fedra sua matrigna s’innamorò. Et, essendo ito Teseo con Piritoo re de’ Lapiti a lo ’nferno per togliere Proserpina a Plutone. Fedra mandò per Ipolito e manifestogli la intenzione sua, come dice Seneca ne la sua tragedia, et abracciollo; et elli come onesto l’afferrò per li capelli, e rimosso lo volto di Fedra dal suo, la minacciò, sguainata la spada, d’uccidere et ella afferrò la spada Fedra; et elli la lasciò, non volendo cosa che fusse toccata dalle sue mani impudiche e fuggi della 16 cambera. Et ella allora scapilliata incominciò per consillio de la nutrice a gridare et a dire che Ipolito l’aveva voluto sforzare; et elli, lassata la spada nuda in camera co la quale s’era difeso da lei, si fuggitte fuora della città e tornò alle selve; unde ogni uno credette che fusse stato vero, benchè elli fusse innocente e come nocente fu biasimato da Teseo poi che tornò, lamentandosi Fedra d’Ipolito; unde fu distratto da’ cavalli che 17 mostravano lo suo carro e menavano ombrati per lo mostro marino, che mandò Egeo pregato dal figliuolo. E morto Ipolito così innocentemente, poi Fedra sua matrigna si uccise per dolore, e però finge l’autore che messer Cacciaguida dica a lui: Così converrà partirsi a lui de la sua città, per non volere consentire a le inique cose, che volevano fare li neri in Fiorenza contra la parte bianca. Dante arebbe voluto che tutti li cittadini di Fiorenza fussono stati in amore et in pace ne la città, e li neri volevano tiranneggiare e signoreggiare la città; e perchè Dante non volse consentire a ciò, se ne uscitte fuora insieme co la parte bianca e sì diventorno poi rei li bianchi contra la città, che anco Dante si partì da loro e rimasesi solo fuora di Fiorenza, avendo in dispregio per li loro vizi li neri che erano d’entro, e li bianchi che erano di fuora; è però dice così: Qual si parti Ipolito; che fu figliuolo di Teseo duca d’Atene e de la reina Ipolita delle Amazoni, d’Atene; cioè de la città sua, quando la matrigna; cioè Fedra, lo richiese di disonesto amore, e però dice: Per la spietata: imperò che non ebbe la pietade che dovea avere inverso lo figliastro, cioè lo virtuoso amore, e perfida noverca; cioè per la matrigna sua Fedra, che non servò fede al suo marito Teseo, avendo disonesto amore al figliastro: noverca è vocabulo grammaticale, e viene a dire matrigna, che lo dovea amare come figliuolo e richiedere a le cose oneste, Tal; cioè [p. 513 modifica]sì fatto, come Ipolito che si partì non cacciato; ma abbominando la sua cità ne la quale trovò tanta disonestà, così si partirà Dante di Fiorenza; e però dice: di Firenze; cioè de la tua città, partir ti convene; cioè a te Dante. Questo si vuole; cioè che tu ti parta di Fiorenza da’ tuoi avversari, e questo già si cerca; cioè da li tuoi avversari, E tosto verrà fatto; cioè quello che detto è, a chi ciò pensa; cioè a colui che pensa di cacciare la parte bianca di Fiorenza e li cittadini, che volevano che reggesseno la città li comuni cittadini e non li partefici 18, dei quali era l’autore; che, perchè li bianchi mostravano di volere lo bene comune s’era accostato con loro; ma li neri, per tiranneggiare la città, ordinavano già infine nel 1300 di cacciarne li bianchi, et infine in corte di Roma insieme col papa; cioè con papa Bonifazio, con messer Corso Donati che seguia allora la corte, si cercava, essendovi ancora messer Geri Spini, che questo ordinava; e però dice: Laddove Cristo tutto si commerca; cioè in quello luogo, nel quale Cristo si vende e di lui si fa baratto, come de le mercanzie; cioè ne la corte di Roma: però che quine s’ordinò lo trattato di cacciare li bianchi di Fiorenza. La colpa seguirà la parie offensa: imperò che sarà posta la colpa a coloro che saranno cacciati, In grido; cioè in fama, come suol; cioè come è usanza: sempre quelli che sono cacciati de le cittadi, sono diffamati che sono colpevili, ma la vendetta; cioè che Iddio farà de’ Fiorentini, Fi’ testimonio al ver; cioè a la verità sarà testimone essa vendetta, che; cioè lo quale vero, ella; cioè la vendetta d’Iddio, dispensa: cioè ordinando e dispensando produce. E per questo dà ad intendere che la parte nera, che cacciò la parte bianca, benchè la colpa fusse data a la parte bianca, ebbe lo torto; e questo si mostrò per la vendetta, che Iddio poi ne mostrò: imperò che nel 1304 cadde il ponte a la Carraia e moritrevi molta gente, e grande discordia fu tra li cittadini e grandi uccisioni furno fatte, e fuoco fu messo che arse tutti li cari luoghi de la città di Fiorenza, e furno rubbati da la gente dell’arme che v’era, e molti per la detta cagione, che erano ricchissimi cittadini, diventorno poveri. Tu; cioè Dante, lascerai ogni cosa diletta; cioè la patria, la famiglia, le possessioni, li amici, Più caramente; cioè quelle cose, che tu amerai più care, e questo è quello strale; cioè questo è quella puntura, Che; cioè la quale, l’ arco de l’esilio; cioè l’arco dello sbandeggiamento, pria saetta; cioè prima gitta addosso a colui, che è sbandito di sua terra, cioè che li viene abbandonare tutte le cose che più ama. Seguita.

C. XVII— v. 58-69. in questi quattro ternari lo nostro autore finge corno messer Cacciaguida continua lo suo parlare, manifestandoli l’avversità che li debbono avvenire oltra quello che detto è, [p. 514 modifica]dicendo: Tu; cioè Danto, proverai; poi che sarai fuora della tua terra, siccome sa di sale; cioè come è amaro, Lo pane altrui; cioè con quanta fatica si mangia lo pane altrui e con quanta amaritudine sta chi sta a le spese altrui, e com’è duro calle; cioè quanta è dura via, Lo scender e salir per l’altrui scale; cioè lo stare, l’abitare e l’andare per casa altrui durissima cosa è: imperò che spesso sente de’rimbrotti che li dispiaceno. E quel, che più ti graverà le spalle; cioè quello, che fia più grave a te Dante, Serà la compagnia; cioè co la quale ti troverai fuora di Fiorenza, cioè li tuoi cittadini, la parte, cioè quella de’bianchi, malvagia; cioè ria, e scempia; cioè e divisa: imperò che in essa saranno mescolati guelfi e ghibellini, che non aranno concordia insieme, Co la qual; cioè compagnia, caderai; cioè tu, Dante, in questa valle; cioè in questa bassezza et in questa avversità, Che; cioè la quale compagnia, tutta ingrata; cioè de la tua virtù, tutta matta; cioè stolta, et empia; cioè ria e non 19 amevile di te, Si farà contra te; cioè contra te Dante: imperò che li usciti di Fiorenza t’inimicheranno, ma poco appresso; cioè ma non indugiando molto, Ella; cioè la compagnia detta di sopra, non tu; cioè Dante, n’avrà rossa la tempia; cioè n’arai 20 vergogna e confusione de le sue male opere. Di sua bestialità; cioè de la compagnia tua, il suo processo; cioè ch’ella farà: imperò che li bianchi, cacciati di Fiorenza, poi più volte feceno guerra a la loro citta; ma Dante mai non volse essere con loro, Farà la prova; cioè della sua stoltia, sicch’a te; cioè che a te Dante, fi’ bello Averti fatto parte 21 per te stesso; cioè bella cosa fu che Dante si partì da loro e non volse con loro essere contra la sua cità 22. Et inanti si partì Dante de la città che la parte sua; cioè li bianchi dei quali elli era, ne fussono cacciati: imperò che non volse stare, siccome diritto cittadino amatore del bene comune, a guastare la città co le sette e co le divisioni; ma erano li suoi impacciati coi bianchi; e però, per fuggire furore, si partì e non s’impacciò poi più dei fatti de la città, vedendo che l’una parte e l’altra guastava la città e guerreggiava insieme per tiranneggiare ciascuna. E qui finisce la prima lezione del canto xvii, et incominciasi la seconda.

Lo primo tuo refugio ec. Questa è la seconda lezione del canto xvii, ne la quale l’autore finge che messer Cacciaguida, poi che gli à detto le suoi 23 avversitadi che li debbono venire, li dicesse li [p. 515 modifica]sussidi che dovea avere e dichiarassi altro dubbio che li mosse. E dividesi questa lezione tutta in parti cinque: imperò che prima finge che li dicesse li sussidi e refugi, che dovea avere dopo l’avversità; ne la seconda finge che elli lo confortasse e conchiudesse lo suo parlare, et incominciasi la seconda quine: Poi iunse ec.; ne la terza finge come elli mosse un altro dubbio al detto beato spirito sopra questa sua comedia, et incominciasi quine: Ben veggio, padre ec.; ne la quarta parte finge come lo beato spirito rispuose a la sua dubitazione, et incominciasi quine: La luce in che ec.: ne la quinta et ultima finge come soiunse lo detto spirito a commendazione di questa opera, et incominciasi quine: Questo tuo grido ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co le esposizioni letterali, allegoriche e morali. Dice prima così: Lo primo tuo refugio, ec.

C. XVII — v. 70-93. In questi otto ternari lo nostro autore finge come messer Cacciaguida, poi che gli ebbe manifestato l’avversitadi, che dovea avere innanti che passasseno cinquanta mesi da questo tempo, nel quale finge avere avuto questa visione, li narra li sussidi e rifugi che dovea avere ne le sue avversitadi, dicendo così: Lo primo tuo refugio; cioè quello, al quale tu prima rifugerai dopo la tua partita di Fiorenza, e ’l primo ostello; cioè lo primo albergo, che tu prenderai per stallo fare, Serà la cortesia del gran Lombardo; questi sarà messer Bartolomeo della Scala da Verona, lo quale ricevette Dante in sua corte quando uscitte di Fiorenza, Che; cioè lo quale, in su la Scala 24 porta il santo uccello; cioè fa l’arme sua una scala bianca nel campo vermillio, et in su la scala una aquila nera, la quale chiama santo uccello, perchè è l’arma dello ’mperio, Ch’avrà; cioè la quale avrà, in te; cioè Dante, sì benigno riguardo; cioè sì benigno aspetto e sì benigna considerazione a la tua virtù, Che del fare e del chieder tra voi due; cioè tra lo detto messer Bartolomeo e te Dante, Pria sarà quel, che tra li altri; cioè uomini, è più tardo; cioè lo dare serà prima, che ’l chiedere: imperò che prima darà che tu dimandi, che li altri uomini, benchè siano signori, non fanno così; ma lassano addimandare assai volle innanzi che diano. Con lui; cioè con messer Bartolomeo, vedrai colui; cioè messer Cane fratello del detto messer Bartolomeo, che impresso fue; cioè lo quale ebbe impressione, Nascendo; cioè ne la sua natività, sì di questa stella forte; cioè de la influenzia del pianeto Marte, Che notabili fien l’opere sue; cioè del detto messer Cane. Non se ne son ancor le genti accorte; dice messer Cacciaguida a Dante, secondo che l’autore finge, che della virtù di messer Cane predetto nel 1300 anco non se n’erano accorte le genti, perchè era ancora garzone: però dice: Per la novella età; cioè del detto messer [p. 516 modifica]Cane, chè pur nove anni; cioè imperò che pure nove volte aveva lo Sole fatto lo corso suo intorno di lui: nove anni sono nove corsi solari, Son queste stelle; qui dimostra messer Cacciaguida la costellazione di Marte e tutte le altre dei pianeti e del cielo ottavo, intorno di lui; cioè intorno al detto messer Cane, torte; cioè ànno girato intorno al detto messer Cane nove anni;-non dice che abbiano compiuto loro corso: imperò che quale l’àe compiuto, e quale no in questi 9 anni; ma pur tutte ànno girato qual poco e quale assai in questi 9 anni. Ma pria che ’l Guasco; cioè innanzi che papa Chimento v che fu di Guascogna, et allora che questi eletto fu papa passò la corte in Provenza, perchè mandò per li cardinali et a Leone sopra Rodano fue confermato, e tenere incominciò la corte di là, l’alto Arrigo inganni; cioè inganni lo ’mperadore Arrigo di Lusimborgo, che fu d’alto animo che venne in Italia nel 1310 anni, e fu coronato in Roma per li legati del papa sopra detto, che furno lo cardinale da Prato vescovo d’Ostia, e Luca dal Fiesco, e messer Arnaldo di Guascogna cardinali, il di’ primo d’agosto che è la festa di san Piero a vinculi in San Ioanni Laterano nel 1312 anni. E poi tornato inverso Fiorenza puosevi l’oste, e ritornato poi a Pisa diede ordine d’andare in Puglia a disfare lo re Roberto; e partitosi di Pisa languido, a Buonconvento nel contado di Siena moritte, secondo che alquanti diceno, avvelenato nel corpo di Cristo che li fu dato da uno frate predicatore. De la qual cosa avvedendosi lo detto imperadore, disse: Signor mio Iesu Cristo, poi che tu ài sofferto d’essere avvelenato, io non ti debbo rifiutare: come tu se’, ti vollio pigliare; et allora morì, e fu lo corpo suo recato a Pisa, e sepulto a grande onore ne la cappella maggiore del duomo di Pisa dirieto a l’altare maggiore in uno bellissimo sepulcro, come anco appare 25. E questo fu nel 1313 a di’ 24 d’agosto lo di’ della festa di san Bartolomeo. E perchè si dice che ’l detto papa lo fece avvelenare, però dice l’autore parlando onesto, fingendo che’l predica messer Cacciaguida, le parole sopradette. Parran faville; cioè appariranno demostramenti de la virtù di messer Cane predetto, come le faville sono demostramento del fuoco, de la sua virtute; cioè della virtù del detto messer Cane: imperò ch’elli fu col detto imperadore, e molte terre in Lombardia ricoverò che li Fiorentini facevano ribellare dal detto imperadore, In non curar d'argento: imperocchè non fu avaro, nè d’affanni: imperocchè fu sollicito et affaticante singnore. Le sue magnificenzie; cioè del detto messer Cane, che fu magnifico siugnore, cognosciute Saranno ancora; ecco come l’autore finge che messer Cacciaguida predica le virtù del detto messer Cane, sì; cioè per sì fatto modo, che i suoi nimici; cioè del detto [p. 517 modifica]messer Cane. Non ne potran tener le lingue mute; cioè chete: imperò che converrà che ne parlino li nimici, non che li amici, delle sue magnificenzie. A lui; cioè al detto messer Cane, t’aspetta; cioè tu, Dante, et ai suoi benefici: imperocchè benefico in verso te come in verso li altri. Per lui fi’ trasmutata molta gente; cioè per lo detto messer Cane saranno mutate molte genti di sua condizione, però dice: Cambiando condizion ricchi e mendici 26: imperò che li ricchi farà poveri, e li poveri ricchi. E porteraine; cioè tu, Dante, scritto ne la mente; cioè tua. Di lui; cioè del detto messer Cane, e nol dirai; cioè tu, Dante; ecco che finge che messer Cacciaguida li vieti che nol debbia dire, cioè scrivere in questa sua cantica. e disse cose Incredibili a quei che fi’ presente; cioè a colui che le vedrà, non che a me, allora che me le prediceva messer Cacciaguida. E qui si debbe notare una bella moralità intorno a la poesi de’ Poeti, come già òne detto nelle parti passate. Solliano li Poeti mostrare di dire le cose che debbono venire, et ellino diceno le cose passate; e così fa lo nostro autore: finge che avesse questa visione nel 1300, e che allora li fussono predette le cose che furno poi infine al 1313 anni: imperò che in quel tempo non aveva anco scritto questa comedia; e però poteva fingere che le cose, che furno infine al detto tempo, li fussono predette, perchè l’avea vedute; ma di quelle, che furno poi che elli ebbe compiuta la comedia, non dice che liene fusse predetta veruna: imperocchè non aveva luogo da potervele mettere. E pertanto finge che messer Cacciaguida li predìca le cose fatte da messer Cane infine a la morte dello imperadore Arrigo: imperò che tutte l’aveva vedute innanti che compiesse la sua comedia. E poteane fare menzione dell’altre che furno, poi che le vidde, perchè non aveva fatto menzione di quelle ne la sua comedia, nè v’era luogo da poterle fare, però finge che messer Cacciaguida liele predica; ma l’imponga che noi debbia dire. E queste furno le grandi cose che fece messer Cane della Scala, poi che morì lo imperadore Arrigo, tra le quali fu che nel 1314 anni, essendo iti li Padovani con tutto loro sforzo a di’ 17 di settembre a Vicenzia, e presi li borghi, messer Cane della Scala v’andò con sua gente e sconfisse li Padovani. E poi nel 1317 a di’ 20 di settembre lo detto messer Cane co la parte ghibellina assediò Cremona, et ebbela quasi che recato ad arrendersi, se non che furno soccorsi li Cremonesi da’ Bolognesi, e per lo rio tempo convenne partirsi dall’assedio. Nel detto anno, del mese di novembre, lo detto messer Cane andò ad oste sopra li Padovani et arrecolli a tanto, preso Monselice et Esti e molte altre loro castella ch’ellino nel [p. 518 modifica]ferraio seguente feceno pace con lui, non potendoli resistere, feceno pace con lui come a lui piacque, e promisserli di rimettere li ghibellini dentro che n’erano cacciati. E nel 1318 poi messer Cane colla parte ghibellina di Lombardia ebbe Cremona per una porta che fu loro data; e poi nel 1319, perchè li Padovani non attennono li patti fatti di rimettere li ghibellini, venne ad oste a Padova e prese li borghi, et altre cose assai fece messer Cane della Scala poi, per le quali l’autore à fatto la detta fizione, come che messer Caceiaguida liele predìca e che li comandi che nol dica: imperocchè era compiuta la sua comedia quando le vidde, e non era luogo da mettervele; et innanti che la compiesse, non erano fatte, sicchè non le potea sapere. Seguita.

C. XVII — v. 94-105. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come messer Cacciaguida finitte la risposta al suo dubbio; e come elli mosse poi un altro dubbio, dicendo così: Poi; cioè che ebbe detto messer Cacciaguida le cose dette di sopra, iunse; cioè al suo dire. Fillio; ecco che l’autore finge che chiamasse lui figliuolo, queste son le chiose; cioè queste sono l’esposizioni, come le chiose sono esposizioni delli autori, Di quel che ti fu detto; cioè da messer Farinata nello inferno, e da Odorisi nel purgatorio, ecco le insidie; cioè li agguati della fortuna, che ti debbono uscire addosso, Che; cioè li quali, dentro a pochi giri; cioè dentro da pochi anni, in che girano li cieli, sono ascose; cioè sono appiattate. Potrebbe dire lo testo: dietro a pochi giri: imperocchè di rieto a pochi giri usciranno fuora questi agguati. Non vo’ però; dice messer Cacciaguida a Dante, ch’ai tuoi vicini invidie; cioè non vollio che tu porti odio però a tuoi vicini, poi che debbono essere cagione del tuo partimento di Fiorenza e poi de l’esilio seguitato, Possa che s’infutura; cioè dèsi estendere nel futuro e crescere, la tua vita Via più là, che’l punir di lor perfidie; cioè più là, che non s’indugerà lo punire della loro malvagità; quasi dica: Non portare loro odio che, inanti che tu muoi, vedrai vendetta de la loro perfidia. Poi che tacendo si mostrò espedita; cioè poi che si mostrò spacciata col tacere, L’anima santa; cioè di messer Cacciaguida, di metter la trama; usa permutazione, chiamando trama l’esposizione: trama è la tessitura de la tela, che si tesse nell’orditura e compie la tela, e così l’esposizione detta di sopra è stata compimento al dubbio di Dante, In quella tela; cioè in quello dubbio, che fu come tela, ch’io; cioè la quale io Daute, li porsi ordita; cioè porsi a lui ordinato. Incominciai; cioè io Dante, come colui che brama; cioè come colui che desidera, Dubbiando, aver consillio da persona; cioè quando dubita essere consilliato da persona, Che; cioè la quale, vede; cioè sa consiliare, e vuol; cioè consiliare, dirittamente et ama; cioè et ama [p. 519 modifica]dirittamente l’addimandatore. E qui è moralità che lo consilio si dè dimandare da chi sa e vuole 27 consiliare, et ama dirittamente l’addimandatore.

C. XVII — v. 106-120. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come elli mosse un altro dubbio al suo terzo avo, che nacque della dichiaragione che li fece, predicendoli l’avversità che li dè venire, dicendo così: Io veggo ora l’avversità, che m’è per venire addosso e che io debbo perdere la mia cità per falso accagionamento, et io faccio questo mio libro dove io dico de’ vizi delle persone del mondo grandi et alte, e li uomini ànno per male che sia detto male di loro: io non vorrei che per questo mi fusse vietato l’andare per lo mondo. E qui usa l’autore bella fizione: imperò che elli stesso muove a sè quella obiezione che molti muoveno; cioè che l’autore fece male a diffamare li signori e le persone antiche, che elli poteva bene trattare la materia sua senza nominare persona. A che elli finge che risponda messer Cacciaguida per lo modo, che dirà di sotto. Dice lo testo cosi: Ben veggio; cioè io Dante, padre mio; dice a messer Cacciaguida: imperò che usanza e convenienzia è de’ minori di chiamare li maggiori padri, e li maggiori chiamare li minori filliuoli, siccome sprona Lo tempo verso me; cioè come lo tempo s’affretta di venire inverso a me Dante, per colpo darmi; cioè per darmi lo colpo dell’avversità ch’elli adduce, Tal; cioè sì fatto colpo, ch’è più grave; cioè che più grave è, a chi più s’abbandona; cioè a colui, lo quale più s’abbandona e non si provede, che a colui che si provede e rimediasi. Però; ecco che di quinde conchiude, di providenzia è buon ch’io; cioè che io Dante, m’armi; cioè armi me di providenzia, acciò che io mi provegga e non m’abbandoni, Sì, cioè per sì fatto modo, che, se ’l loco m’è tolto più caro; cioè lo luogo della mia città: imperò che, ben che se ne uscisse per lo male stato della terra, elli poi falsamente fu incolpato d’essere di quelli che guastavano la città; cioè co li bianchi che si mosseno con buono principio, benchè, poi che furno fuori, si mutasseno; ma l’autore non fu con loro, fu fatto sbandito e come ribello della città condennato. Io; cioè Dante, non perdesse li altri; cioè luoghi del mondo, per mie’ carmi; cioè per mie’ versi e per mia poesi. Giù per lo mondo senza fine amaro; cioè per lo inferno dove sarà amaritudine perpetua, E per lo monte; cioè del purgatorio, del cui bel cacume 28; cioè della bella altezza del quale monte, cioè del paradiso delitiarum, che l’autore finse essere in su la sommità del detto monte. [p. 520 modifica]Li occhi de la mia donna; cioè di Beatrice: che s’intenda per li occhi e per Beatrice è stato sposto in molti luoghi in questa comedia ne le parti passate, mi levaro; cioè levorno me Dante, E possa per lo Ciel; cioè per lo qual ora io Dante sallio, di lume in lume; cioè di pianeto in pianeto, che sono tutti luminosi, Ò io; cioè òne io Dante, appreso; co lo intelletto, quel; cioè de le persone del mondo, che, s’io; cioè lo quale, se io Dante, ridico; cioè scrivo nella mia opera, A molti fi’ sapor di forte agrume; cioè a molti dispiacerà, come dispiace lo sapore molto agro. E s’io; cioè e se io Dante, al vero; cioè a la verità, sono intimo amico; cioè amico perfetto d’entro da me, cioè se io òne lo vero d’entro da me, come dice colui ch’è perfetto amico de la verità e non la manifesta di fuora, Temo di perder viver; cioè temo di perder la fama, ne la quale si vive, poi che l’omo virtuoso è morto, tra coloro Che questo tempo chiameranno antico; cioè tra li discendenti che aranno sì vizioso seculo, che questo seculo chiamaranno antiquo; cioè puro, per respetto del loro seculo; e così dice: Se io sto cheto per paura, io non acquisterò fama.

C. XVII — v. 121-132. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come messer Cacciaguida rispuose al suo dubbio, confortandolo ch’elli debbia seguitare lo suo proposito, dicendo: La luce; cioè lo beato spirito, che era rappresentato ne la luce e nello splendore, in che; cioè ne la quale luce, ridea; cioè mostrava allegrezza, lo mio tesoro; cioè lo mio terzo avo, ch’era lo mio tesoro, Ch’io; cioè ch’io Dante, trovai lì; cioè nel corpo di Marte, si fe prima corusca; cioè prima gittò splendore. Quale; cioè si fa, a raggio del Sol lo specchio d’oro; cioè come diventa splendido lo specchio dell’oro a raggio del Sole. Indi; cioè di poi, rispuose; cioè a la mia dimanda, Coscienzia fusca; cioè meschiata 29, O de la propria; cioè della sua propria vergogna, che descenda da la sua colpa, o de l’altrui vergogna, cioè di quella, che viene da’ parenti, Pur sentirà la tua parola brusca; cioè lo tuo parlare o di sè o del parente, che li fia dispiacevile. Ma non di men, rimossa ogni menzogna; cioè ogni bugia cacciata via, Tutta tua vision fa manifesta; cioè fa manifesto tutto ciò, che ài veduto o bene o male che si sia; cioè ciò che ài pensato che fia da mettere, secondo lo tuo iudicio, in questa tua comedia, E lassa pur grattar dov’è la rogna; cioè lascia pur dolere chi s’à a dolere. Che; cioè imperocchè, se la voce tua sarà molesta Nel primo gusto; cioè nel primo apprendere, come 30 lo cibo medicinale si sente al primo gusto amaro, vital notrimento Lasserà poi; cioè nell’ [p. 521 modifica]animo. che fi’ come uno freno et uno ritegno da guardarsi da’ mali. quando sarà digesta; cioè quando sarà smaltita, cioè quando sarà bene intesa la voce tua: imperocchè se ne prenderà ammaestramento di guardarsi da’ mali, e di seguitare li beni.

C. XVII — v. 133-142. In questi tre ternari et uno versetto lo nostro autore finge come messer Cacciaguida compie la sua risposta, commendando che è buono avere dato esemplo de le persone famose e del suo tempo, e non pur dei tempi estrani, dicendo così: Questo tuo grido; cioè questo tuo libro, che sarà come uno grido, farà come ’l vento, Che ’n più alte torri più percuote; cioè come lo vento percuote le torri alte più che le basse; così questa tua comedia dirà più delle persone d’alto stato che di basso stato, E ciò; cioè e questo, non fa d’onor poco argomento; cioè non fa poco argomento d’onore; ma pur grande a coloro, de’quali tu farai menzione: imperocchè mosterrai che siano uomini di grande fama. E chi fia d’alcuno intelletto non terrà però chi tu poni ne lo ’nferno vi sia, e così nelli altri luoghi, che ogni uno sa che tu fingi, secondo che la fama è; e la fama può essere falsa, c l’uomo innanti a la sua fine si può pentire, sicchè lo tuo ponere, quanto a la verità, non è se non loda a coloro che sono nominati: imperocchè tu mostri che siano stati uomini d’alto stato, e questo è loro loda: imperò che la fama non parla, se non delli omini eccellenti, et anco a te questo non fia se non loda: imperò che tanto è da più tenuto l’autore, quanto à più lo cognoscimento de le persone di grande et alto stato, e quanto per dire la verità à mostrato di non temere persona. Però ti son mostrate in queste ruote; cioè in questi pianeti del cielo 31, Nel monte; cioè del purgatorio, e nella valle dolorosa; cioè nello ’nferno, Pur l’anime che son di fama; che son famose, note; cioè e che siano note alli omini presenti. Chè l’animo; cioè imperò che l’animo umano, di quel, ch’ode, non posa; cioè di quello, che ode, non sta contento, Nè ferma fede; cioè non vi dà ferma credenzia, per esemplo, ch’àia 32; cioè per esemplo che abbia, La sua radice incognita; cioè non cognosciuta; e per questo volse ponere persone note di suo tempo, et ascosa; cioè appiattata: e per questo volse ponere le persone di fama per esemplo: imperò che non si possono appiattare, Nè per altro argomento; cioè per esemplo, che non paia; cioè lo quale non appaia: imperò che non si può insegnare la cosa non saputa per la non saputa. E qui finisce lo canto xvii, et incominciasi lo xviii canto.

Note

  1. C. M. poetica, per dimostrare come
  2. C. M. presenzia divina,
  3. C. M. fuor; dal suo cuore, la vampa;
  4. C. M. ad ogni figura
  5. C. M. desiderio, come dice Beatrice che gli dica che dè essere bisogno imperò che lo spirito beato vede lo suo desiderio? Et a tollere
  6. C. M. verbo prepoliare finto dall’autore secondo lo vulgare — ; Nel Codice Laurenziano n. 16 sta preposizionale, e così appunto qui è da leggere. E.
  7. Qui si tralasciano poche figure geometriche le quali sono nel Riccardiano e Magliabechiano, perchè non utili per la intelligenza. E.
  8. C. M. la nave andare per mare vediamo lo cammino che essa fa, e nessuna necessità impegnano a lei che così vada. E però
  9. C. M. ragguardando
  10. C. M. a portarla,
  11. Tetragono; avente quattro angoli; da τετράς quattro, e γωνία angolo. E.
  12. In del; dentro, dall’intus de’ Latini. E.
  13. C. M. statue oscure, inanti
  14. Latino; linguaggio, imitando i Trovadori. E.
  15. Pietro Giordani nel suo Discorso, - Dante e la Musica - si esprime così «Dante ti dice che la percezione de’ suoni è delle più nette e insieme più all’animo gradite. E quindi Cacciaguida afferma ch’egli chiaramente vede in Dio quello che avvenir dee al suo pronipote Dante, come l’uomo riceve per l’orecchia nell’animo una grata consonanza di voci di strumenti». E.
  16. C. M. cambera e della città, e tornò a le selve. Et allora Fedra scapigliata
  17. C. M. che menavano lo suo carro allato al mare, ombrati per lo mostro marino che mandò
  18. Part efici; partecipi. E.
  19. C. M. amorevole -II nostro Codice ne reca amevile, modificazione del verbale amabile. E.
  20. C. M. arà
  21. Nel Rinnovamento Civile del Gioberti troviamo che Dante, composti e temperati i placiti dei guelfi con quelli de’ ghibellini, e facendosi parte per sè stesso, non appartenne propriamente a veruna delle due fazioni. E.
  22. Cità rinviensi non di rado nelle scritture del secolo xiii e xiv. E.
  23. Suoi, dal singolare soo e soa intramessovi un u; e terminato in i anche nel feminino, come arme, armi; fine, fini ec. E.
  24. C. M. Scala; cioè nello scudo, dove è la scala, porta
  25. Oggi il detto sepolcro ammirasi nel famoso Camposanto della città di Pisa. E.
  26. Mendici e mendichi, dal singolare mendico. E.
  27. C. M. consilliare dirittamente, et ama l’addimandatore: e l’avverbio dirittamente si può riferire così bene a l’ama, come "al vuole o meglio. Seguita l’altra, parte.
  28. Cacume, dal cacumen latino; altezza, cima. E.
  29. C. M. cioè macchiata, O de la propria;
  30. C. M. come la pozione medicinale, al primo assaggiamento si sente amara, vital
  31. C. M. del cielo che continuamente rotano Nel monte;
  32. C. M. Aia, oggi meglio abbia da aiere. E.
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