Dal Trentino al Carso/La conquista di Gorizia/Il San Michele espugnato

Da Wikisource.
Il San Michele espugnato

../A Gorizia ../Nella “Trincea del Sogno„ IncludiIntestazione 14 dicembre 2017 100% Da definire

La conquista di Gorizia - A Gorizia La conquista di Gorizia - Nella “Trincea del Sogno„
[p. 173 modifica]
IL SAN MICHELE ESPUGNATO.

11 agosto.

Mentre Gorizia era presa e le nostre truppe, fin dall’alba di mercoledì, avanzavano all’attacco delle alture ad oriente della città, il Carso resisteva. Avevamo valicato di balzo le vette del San Michele, ma la truce montagna, che ai nostri occhi ha assunto qualche cosa di vivente, di feroce e di bestiale, come un mostro accovacciato bevitore di sangue, la montagna furente che porta le tracce di trentadue assalti, difendeva ancora tenacemente i suoi declivi. Ieri ha ceduto.

Pareva che gli austriaci volessero fare della punta estrema dell’altipiano carsico un perno della resistenza, che volessero tenere ad oltranza quel pilone irriducibile, farne un argine alla irruzione italiana. Il combattimento, che si era andato estinguendo sui quindici chilometri della fronte spezzata, imperversava nei giorni scorsi sul San Michele, nella Sella di [p. 174 modifica]San Martino, sul Monte Sei Busi, e intorno a Monfalcone. Il Carso era sempre pieno di nubi. La sua mole rossastra e rocciosa, dalle vette spelate, scorticate e come sanguinanti, era costellata di nubi e rombante di esplosioni. Attacchi e contrattacchi si seguivano incessanti.

Pareva che lassù il nemico non si fosse accorto che l’Isonzo era varcato, che la pianura era invasa, che Gorizia era sorpassata dalla battaglia, e che le nostre forze gravavano ora sul suo fianco destro.

Domenica, mentre si espugnava il Sabotino e il Calvario, espugnammo d’impeto le quattro vette del San Michele, che sembrano quattro vertebre di una schiena. Un contrattacco ce ne ritolse due. Tornammo all’assalto, riconquistammo le cime, ci consolidammo. Ma eravamo fermati da immensi labirinti di fortificazioni. Lunedì gli austriaci tentarono di ributtarci indietro. Non riuscirono. Martedì rinnovammo la spinta in avanti. Non riuscimmo. Mercoledì nella mattina, quando la nostra cavalleria irradiava i suoi tentacoli galoppanti oltre il ponte di Lucinico, il nemico risalì al contrattacco del San Michele con forze fresche. Fu respinto. Alla sera riprendemmo noi l’azione con energia disperata. Volevamo passare, dovevamo passare.

La lotta sul Carso pareva indecisa. Ma era troppo lunga, troppo continua, troppo tenace, [p. 175 modifica]richiedeva uno sforzo che doveva finire per fiaccare il più debole. Era come quelle colluttazioni rabbiose pelle quali gli atleti mettono tutte le loro energie e tremano e fremono immobili, i muscoli gonfi, i tendini tesi, senza che nessuno dei due campioni pieghi, fino a che, subitamente, spesa l’ultima forza, uno dei due si accascia di colpo. Ieri mattina l’austriaco è caduto.

Portati dalla nostra spinta, siamo discesi, siamo precipitati in avanti. Dal San Michele su Cotici, da Cotici nel Vallone. Alla destra, al piede delle alture, lungo l’Isonzo l’attacco passava fulmineamente da Peteano a Boschini, si infiltrava nelle pinete che impellicciano il declivio, girava ad oriente, seguiva il Vippacco, passava Rubbia, arrivava allo sbocco del Vallone. Dalla Sella di San Martino piombava giù su Devetaki. Dal Monte Sei Busi arrivava come un torrente a Doberdò. Dalle posizioni di Selz balzava sul Monte Cosich. È stata un’avanzata fulminea di tre, di quattro, di cinque chilometri, secondo i punti.


Solo ad oriente di Monfalcone la linea austriaca ha resistito. L’onda del nostro assalto è passata e ripassata sulla fatale Quota 121 senza potervisi fermare. Questa altura tondeggiante e sinistra, regolare e fulva come una duna del deserto tanto la battaglia l’ha [p. 176 modifica]denudata, spazzata dalle artiglierie di Duino e di Medeazza, è stata il fulcro sul quale si è operata la conversione austriaca. Non resisterà a lungo ma è ancora un punto fisso, un perno della estrema sinistra del nemico.

È lì che gli austriaci fanno lo sforzo più, lungo e tenace. Perchè quelle posizioni si ergono a guardia della via di Trieste. Dobbiamo aspettarci una opposizione furibonda in quel varco verso la bella Città adriatica, che è ogni giorno più nostra. Tutte le risorse disponibili, l’estrema sua ricchezza di uomini e di armi, l’Austria le spenderà per contenderci il passaggio verso Trieste. È così ossessionata dalla paura di perderla, la città prigioniera, che presentendo una nostra grande offensiva l’Austria non ha esitato a concentrare nel settore di Monfalcone il nucleo principale delle sue forze. Aspettandosi un colpo decisivo ha portato tutta la sua preparazione sulla via di Trieste.

La nostra azione dimostrativa nella zona di Monfalcone, iniziata il giorno 4, l’ha confermata nel suo sospetto. Ed è caduta nel tranello. Anche dopo la presa del Sabotino e del Calvario, dopo che la testa di ponte di Gorizia si era sfasciata, nella sera di domenica delle truppe austriache continuavano ad affluire contro Monfalcone. Questo spiega la solidità di quell’ala nemica.

Stamani, una gran quiete gravava su [p. 177 modifica]Monfalcone e sulle sue colline devastate. Non una fucilata, non un colpo di cannone. Tutto sembrava dormire sotto il cielo nuvoloso. La città diroccata e le posizioni sconvolte parevano affrante, dopo i cruenti combattimenti di ieri. Il torrione della Rocca, sbocconcellato dalle granate, si ergeva fra le boscaglie sfrondate a sorvegliare un paesaggio di silenzio. Il Cosich, appena conquistato, arrotondava sullo sfondo della conca di Doberdò la sua groppa irta di mozziconi d’albero, e pareva deserto. I nostri soldati si erano già insinuati nei camminamenti’ austriaci entro la gola fra il Cosich e il Debeli, ma nulla si scorgeva. L’attacco del Debeli poteva essere imminente: niente lo annunziava nella calma profonda e grigia. Doberdò era invece in tumulto.

L’artiglieria austriaca batteva rabbiosamente Doberdò, le cui case bianche, sventrate e senza tetto, sembravano fluttuare pallide in una caligine agitata. Tutto il vallone, che si apriva brumoso e diafano, era costellato di nubi di esplosioni. La linea della battaglia, indicata dagli scoppi, saliva già le pendici a oriente del Vallone, incerte nella foschia di un’alba piovosa, e sulle quali un folto di vegetazioni metteva come una coltre oscura, vaporosa, azzurrastra.

Il combattimento pareva avesse sorpassato Oppacchiasella. [p. 178 modifica]

Contorniamo il Carso. È il primo giorno oggi che un’automobile può percorrere i piedi delle funeree alture, coperte da immensi rabeschi di trincee, senza sentirsi cercata dal cannone nemico. Seguiamo la strada di Sagrado, la strada delle rovine e dei cimiteri. Arriviamo sul campo della battaglia di ieri, a Peteano e a Boschini. Da ogni parte caverne, trincee, camminamenti, alberi stroncati, macigni franati dai declivi, reticolati, «cavalli di Frisia», buche di proiettili.

Rimbombano scoppi vicini, qualche proiettile passa alto con un fruscio rombante da aeroplano, di tanto in tanto uno stormire violento sulle cime degli alberi. Siamo al limitare della battaglia, sul Vippacco, tortuoso e limpido, che scorre senza rumore, fra candori di ghiaie sulle quali un affollamento selvaggio di cespugli reclina le sue frondi.

Centurie di territoriali hanno lavorato tutta la notte e lavorano ancora a riaprire il passaggio, e demoliscono, colmano, trascinano via ostacoli di ogni sorta. Bisogna spesso aspettare che la strada rinasca, pezzo per pezzo, per andare avanti, e la vita torna a invaderla a poco a poco. Un flusso di carriaggi, di salmerie, di cavalli la inonda, la riempie di frastuono e di voci.

Dei feriti leggeri passano in fila sul margine [p. 179 modifica]erboso, col loro cartellino bianco sul petto, le braccia e la testa fasciati. Dove si combatte? Alla Quota 112! È all’imboccatura del Vallone. Ma non si vede ancora, la boscaglia serra la strada. Ad un tratto la piana di Gorizia si spalanca. La città appare nitida, con i suoi grandi caseggiati che sembrano sparpagliati in disordine, fra gli alberi, dominati dal Castello, quadrato, massiccio e candido sulla cima della sua verde collina. Alte colonne di fumo irrompono sul caseggiato. Gli austriaci bombardano. Tirano ancora sui ponti e sul Castello.

Si sfioccano grappoli di shrapnells sulle alture di San Marco, a oriente di Gorizia, tutte costellate di ville. Più al nord, lontano, il Monte San Gabriele, regolare e boscoso, che è più grande del Sabotino, ha delle masse di fumo denso sul suo fianco oscuro. La fucileria scoppietta lungo il torrente Vertojbica che scorre ai piedi delle alture di San Marco e s’indovina per un infoltirsi di verdure alle sue rive. E un santuario, San Grado, che solleva in cima ad una collinetta isolata, non lontana dalla imboccatura del Vallone, la sua chiesa bianca fiancheggiata da due campanili simmetrici come due corni, scompare di tanto in tanto in un vortice di fumo. Tutta la piana rimbomba. La nostra azione oltre Gorizia, cominciata mercoledì con scaramucce di avanguardie e attacchi di cavalleria, sta prendendo ampiezza, densità, vigore. [p. 180 modifica]

Non è possibile vederne i limiti. Sembra che le nostre punte, formate forse da compagnie cicliste, abbiano sorpassato Merna, presso la confluenza del Vertojbica col Vippacco. Ma il fuoco, sopra tutto sulle alture di San Marco e sul San Gabriele, montagna dall’aspetto formidabile, indica che noi fronteggiamo una linea di resistenza organizzata.

Gli austriaci, probabilmente, non hanno potuto costruire anche lì di quei loro terribili sistemi di fortificazioni a groviglio che costringono alla guerra di assedio, ma certo vi hanno fatto lavori, da tempo, e gli austriaci del resto sono rapidi preparatori di posizioni. Filo di ferro e mitragliatrici costituiscono la base della loro difesa. Trattengono e falciano. In terreno non familiare, difficile, coperto di coltivazioni, i nostri soldati si trovano fermati da reticolati profondi, sotto un fuoco intenso del quale non è sempre possibile riconoscere subito la provenienza. Le trincee nemiche sono mascherate da filari di vigna, dai recinti, dalle siepi. Bisogna identificarle urtandovi contro, e bisogna che l’artiglieria avanzi, che la lenta forza demolitrice abbia il tempo di arrivare, che tutta l’organizzazione dell’offensiva si sposti. Per un tempo, sia pur breve, la lotta si immobilizzerà su questa linea, la cui vera forza di resistenza deve ancora rivelarsi. [p. 181 modifica]

Il Vippacco taglia la battaglia in due. Due campi diversi, due aspetti diversi. Si potrebbero dire due battaglie: quella di Gorizia e quella del Vallone. Una s’inarca oltre il bordo della pianura goriziana, da Salcano a Merna. L’altra s’ingolfa in una valle angusta, tortuosa, dalla quale risale per un caos di costoni e di groppe. Per contemplare il Vallone bisogna salire il San Michele. Quale spettacolo lassù!

Vi è nelle tracce della lotta finita ieri una così formidabile violenza, la terra stessa ha nei suoi squarci e nei suoi sconvolgimenti un tale aspetto di furore, Vi è tanta agitazione nella immobilità delle cose, che pare che tutto abbia combattuto. È stata una tempesta favolosa di macigni, di uomini, di alberi. Non vi è una pietra che sia rimasta al suo posto. La montagna ha sepolto quello che aveva sopra, e ha scagliato a blocchi intorno la roccia delle sue viscere.

Ogni campo di battaglia abbandonato è spaventoso, perchè solo l’orrore vi resta. Vi resta quello che è morto, lacerato, spezzato, calpestato. La guerra lascia sul campo il suo passivo. L’eroismo, il vigore, l’entusiasmo, la speranza, la vita, si sono allontanati in tumulto. Finchè vi sono loro, il resto sfugge; essi urlano, penetrano, travolgono. Ma nessun campo di battaglia ha mai raggiunto la tremenda e angosciosa grandiosità di quello del Carso. [p. 182 modifica]

I camminamenti e le trincee, che coprono per ogni verso il monte, complicati come le venature di una foglia, scavati nella pietra, fiancheggiati, da cumuli immani di sassi, blindati con travi di ferro e sacelli pieni di quella terra rossa che pare impastata di sangue, rafforzati da corazze di acciaio, difesi da selve di reticolati rugginosi, sono stati disfatti qua e là dagli esplosivi. La guerra attuale ha fatto nascere esplosivi nuovi, nitrati e picrati di potenza favolosa. In certi punti le nostre bombarde hanno cancellato ogni vestigia di trincea nemica. Le hanno ridotte in fiumane di schegge, in petraie vaste come letti di torrenti. Non vi è palmo di terra che le granate non abbiano scavato. E in questa convulsione di rocce spezzate, sono sparpagliati fucili rotti, strumenti da lavoro contorti, avanzi umani.

Vi sono cadaveri di battaglie ormai lontane, mummificati entro uniformi terrose, cadaveri di ieri. Ecco dei soldati nostri caduti in fila ieri mattina, all’ultimo assalto, falciati da una mitragliatrice: alcuni di loro tengono ancora nella mano cerea il fucile colla baionetta inastata. Sono morti nel momento della vittoria, a pochi metri dalla trincea nemica, e sembra che si inerpichino ancora tanto il loro gesto eterno ridice l’impeto.

Migliaia di bombe a mano sono sparse per terra, bombe a pigna, a palla, a lente, [p. 183 modifica]cilindriche, proiettili strani, e tubi esplosivi, indumenti, oggetti irriconoscibili, elmi, maschere austriache, che sporgono il filtro a forma di pomo da innaffiatoio, maschere italiane che fanno un muso da cane, occhiali contro i gas lagrimogeni, pompe per i liquidi infiammabili, mazze ferrate, tubature per l’acqua, cavi telefonici, pacchi di cartucce, tutto questo frammisto, disseminato, aggrovigliato intorno ai morti.

Nelle doline, il cui centro è sempre un cimitero, si aprono i rifugi. Si scende in quelli austriaci per lunghe scale. Sono caverne vaste e profonde come catacombe, rivestite di legno, percorse da enormi tubi nei quali i ventilatori soffiavano l’aria pura. Vi sono caverne austriache piene di macchinari, caverne-officina, con le loro fucine e i torni, caverne-magazzino piene di viveri.

In un rifugio sotterraneo del nemico stavano montando un magnifico motore Diesel ad olio pesante e delle dinamo. I grandi macchinari rilucono fantasticamente al breve chiarore dei nostri fiammiferi.

Nelle tenebre delle caverne abbandonate avviene spesso di udire dei rumori misteriosi, in fondo in fondo, uno scalpiccio soffice, l’agitarsi di una vita incomprensibile, e ci si ferma ascoltando, presi da un’ansia vaga di superstizione. «Chi è?»: nessuno risponde. E lo scalpiccio vellutato continua nel buio. Un [p. 184 modifica]fiammifero acceso in fretta fa scorgere a terra delle forme nere che guizzano, enormi topi da trincea.


Entrati nel dedalo immenso dei trinceramenti si perde la strada. Quando si vuol riuscire non ci si orizzonta più facilmente. Si è prigionieri di quella favolosa devastazione macabra, che pare si allarghi, che non possa aver fine, e la solitudine pesa. Di tanto in tanto delle granate nemiche arrivano rombando, dirette forse su San Martino e che cadono invece sul San Michele quasi per abitudine. Tira da così lontano il nemico ora!

Ad un rialzo del terreno ci si ritrova. Si riconosce la Sella, e il villaggio di San Martino un poco più oltre; un cumulo di sassi grigi con dei piccoli mozziconi di muro anneriti dalle fiamme. E più lontano, a levante, il profilo del Monte Pecinka, al di là del Vallone, dove l’attacco nostro adesso si sviluppa.

Il Pecinka non conosce la guerra, e porta intatti i suoi boschi e i suoi prati, l’abito di pace. Per combattere i monti si spogliano come gli atleti. Speriamo bene che il Pecinka non ne abbia il tempo. Si vede verso la cima un villaggio oscuro fra gli alberi: Lokvica. Un altro a mezza costa, più grande: Oppacchiasella. Delle grosse granate vi scoppiano. Il villaggio s’incendia. Continua al sud il [p. 185 modifica]bombardamento di Doberdò. Sotto Oppacchiasella si scorge la nostra fanteria.

Opera con un ordine stupendo. Manovra come in piazza d’armi. Combattere sull’erba, fra le piante, in movimento, deve sembrare un giuoco agli espugnatori del Carso. I plotoni si spostano di corsa, uno alla volta. Escono dall’ombra di una siepe, di un muricciuolo, di un ciuffo d’alberi, sfilano per uno, attraversano una radura, un campicello, lino spiazzo erboso, spariscono. Non è il brulichìo dell’assalto. È una preparazione. Ad intervalli, una collana d’uomini passa nella luce. Per qualche minuto la montagna sembra deserta, poi gli ometti grigi riappaiono, mentre arriva un martellare sonoro di mitragliatrici. Dio vi protegga, fratelli!

Lo spostamento della battaglia ha fatto avanzare tutti i quartieri generali. Presso un cascinale, avanti al quale passiamo qualche ora dopo, sulla via del ritorno, alcuni carabinieri in sentinella e delle automobili in attesa indicano la presenza di un comando.

Lì presso, seduto sui gradini di una rustica scaletta di pietra, stanco e assorto, è un elegante ufficiale austriaco. È stato portato poco prima per essere interrogato. Lo hanno catturato da qualche ora soltanto, insieme ai suoi soldati. Ci fermiamo ad osservarlo. Vedendosi guardato, egli porta due dita al berretto, saluta, in italiano: — Buon giorno! — e scatta in piedi. [p. 186 modifica]

È uno slavo, alto, pallido, bruno. Parla la nostra lingua, risponde pacatamente alle domande. Racconta così le impressioni dell’altra parte:

«L’offensiva italiana? Sì, era aspettata! Il generale Boroevic aveva emanato un ordine del giorno ai comandi avvertendo che gli italiani si disponevano ad una grande offensiva sulla fronte dell’Isonzo, aggiungendo come si ritenesse sicuro che le truppe, le quali avevano così valorosamente difeso quelle posizioni per più di un anno, avrebbero resistito ad ogni tentativo del nemico. L’ordine fu ricevuto proprio domenica a mattina. Cominciava il bombardamento. Terribile! A Gorizia vi era molta confusione. Staffette, ufficiali, generali, andavano e venivano. Molto preoccupati. Alle sei tutti dicevano: Gorizia è perduta! Le comunicazioni con le posizioni erano interrotte».

E dopo qualche istante, col gesto di chi non trova la soluzione di un problema:

«Lo straordinario è che le posizioni erano molto imprendibili!».