Dal Trentino al Carso/Sul Carso/La Battaglia di Ottobre/Dove è passata la battaglia

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Dove è passata la battaglia

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DOVE È PASSATA LA BATTAGLIA.

16 ottobre.

Ad uno svolto, ecco fra gli alberi sfrondati un biancheggiare di rovine. Sono angoli di muraglie intonacate, lembi di pareti, ruderi informi rimasti eretti fra cumuli di macerie: [p. 270 modifica] Oppacchiasella. La strada che vi sale, bucata, slabbrata, ingombra qua e là di grosse pietre sparpagliate dalle esplosioni, si è fatta deserta. Una corvée che avanzava lentamente portando fasci di razzi illuminanti e sacchi di cartucce, è sparita. Ad un certo punto i soldati infilano camminamenti misteriosi; deviano per solchi che si perdono; si sprofondano e svaniscono. La strada, sempre più tormentata, ingombra di rami d’albero e di rottami, cancellata quasi dal rovinìo dei muricciuoli, si vuota di ogni vita.

Da questo punto, nulla più si muove alla vista. Entrando nel terreno della lotta, inoltrandosi sul campo di battaglia, avvicinando le masse combattenti, si entra in una spaventosa solitudine. Tutto quello che si vede è morto. Morte le strade, morte le case, morte le piante, morta la terra stessa, tutta ferita, dilaniata, sconvolta come se una vanga gigantesca fosse penetrata in ogni palmo di suolo.

Ovunque è un grigiore di pietre spaccate e un oscuro sovvolgimento di zolle fresche. E nella fantastica e immane devastazione, è la vita che si seppellisce. La morte sola rimane all’aperto. Sembra che nessuno possa più resistere in questo paese d’incubo. Si ha l’impressione di luoghi maledetti. Par di respirare nell'aria un orrore soprannaturale. Passa a tratti un angoscioso e greve alitare di tomba. Ad un certo punto i camminamenti non si [p. 271 modifica] intravvedono e non si indovinano più, e chi va sulla strada ha il senso subitaneo di un isolamento disperato, l'isolamento di un naufrago.

La visione del terreno della battaglia, nei suoi particolari, comincia al di là di Oppacchiasella. Si gira un angolo del piccolo cimitero del paese. Il bombardamento austriaco, per raggiungere le vie che scendono al Vallone, infierisce anche sulle tombe, e qualche vecchia croce è stata lanciata dagli scoppi fuori del recinto sacro, oltre al muro scoronato e aperto in breccia. Si attraversa l’abitato. Le case sono crollate sulla strada; si passa su frane di rottami. Una piazzetta da villaggio, che doveva essere stata pittoresca con i suoi grandi alberi intorno al pozzo, ha aspetti di rovina che mutano stranamente, perchè le granate nemiche sembra che la cerchino; in qualunque ora uno vi passi vede qualche cosa che più tardi non vedrà più: una porta, una scritta, un balconcino al quale si arrampicano dei convolvoli agonizzanti. Nel tetro deserto, Oppacchiasella finisce di dissolversi fragorosamente fra immense nubi di fumo e di calcinaccio.

Si è guidati da iscrizioni militari austriache, da tabelle indicatrici che dicono direzioni e distanze: «Kostanjevica, km. 5,1». Più oltre si ergono delle curiose, piccole torrette nere, sono prese d’acqua, fontane militari erette dal [p. 272 modifica] nemico e mascherate con legname e bitume per celarle all’osservazione; tutto il Carso, è percorso da un gigantesco sistema di condutture d’acqua impiantato dagli austriaci per la guerra. Ma noi avanzando ritroviamo l’antica siccità, dobbiamo portare ai soldati l’acqua nelle ghirbe come nelle guerre del deserto, mentre da tutte le parti, sulle fontane inaridite, si legge la parola: «Wasser, Wasser, Wasser....» — «Acqua, acqua, acqua......»

Le posizioni da cui è partito l’assalto sono vicine. Muricciuoli, e fosse, e buche, uno sparpagliamento di sacchi a terra, un disordine di cose abbandonate, quella dispersione di roba che lascia la battaglia. Dalla truppa che si slancia cadono sacchetti, elmetti, coperte, pacchi di cartucce, bombe a mano, guaine di baionette, gamelle, teli da tenda, come se la massa di uomini in corsa veemente sotto al fuoco fosse rimescolata e squassata dalla furia di un ciclone, da una forza che lacera e che strappa. Sfuggono oggetti da chi incespica, da chi cade, da chi si urta. I soldati debbono salire, scendere, scavalcare, saltare, balzare su mille ostacoli, attraverso il terreno spezzato, fra rocce, murelli, cespugli, alberi abbattuti, intrecci di filo di ferro, crateri di esplosioni, e le ondate dell’assalto, come le ondate di una tempesta sulla spiaggia battuta, abbandonano infiniti e informi avanzi. [p. 273 modifica]Si ha l’impressione di una bufera, si ha il senso di un cataclisma. Nella immobilità e nella solitudine tutto ha un’espressione d’impeto, descrive il tumulto, è pieno di indicibile violenza. Qualunque cosa si guardi, sassi, zolle, indumenti, armi spezzate, rami di piante, sacchi a terra, cadaveri, tutto nella sua fissità rivela la cosa scagliata.

Le tane da cui la truppa è sbucata per assalire, si allineano su certi rovesci, a ranghi serrati e sovrapposti, anguste, nere, dai bordi crollanti, simili ad una strana nidificazione di bestie scavatrici. Le più forti posizioni conquistate ergono a destra il loro profilo truce, seguono il costone scosceso delle alture di Nova Villa, una specie di terrazza rocciosa che dei boschi coprivano. Non si poteva avanzare frontalmente da Oppacchiasella senza essere sopraffatti dal fuoco di questo massiccio formidabile, che sovrastava il nostro fianco. Al centro gli austriaci non opponevano difese irriducibili.

Per dare un’idea esatta di questa fronte bisogna ricercare delle analogie nel passato. Il Veliki Hriback, alla nostra sinistra, corrisponde un po’ a quello che era il San Michele sulle prime pendici del Carso. Il massiccio di Nova Villa ha avuto la funzione che aveva il [p. 274 modifica] Monte Sei Busi. Ma, mentre le vette del vecchio Carso erano isolate e formavano una barriera unica, la cui perdita ha costretto il nemico ad indietreggiare fin oltre al Vallone per ritrovare una linea di resistenza, le vette laterali della nuova fronte hanno una continuità di catena, sono seguite da altre vette, sempre più alte. Il nemico non ha bisogno di fare un grande balzo indietro quando è sloggiato da una altura. Si attacca alla successiva, che è invariabilmente vicina e più forte. Può resistere a palmo a palmo. Battuto, ricacciato, si sposta parzialmente su posizioni sempre dominanti.

Osservando il campo di battaglia dalle trincee a oriente di Oppacchiasella, si manifesta tutta la fisionomia singolare di questa azione. Il terreno sale ad anfiteatro; sale con violenza a sinistra, con meno rudezza a destra e di fronte. Ci battiamo in una conca selvaggia, grigiastra, tutta bozze, tutta gradini, con dei bordi cupi di foreste, vigilata e dominata dalle alture come il cavo d’un’onda è dominata dalle creste spumose. La lotta più violenta, più aspra, più dura, è sui bordi. Essa è riuscita a cacciare il nemico a destra dalla terrazza di Nova Villa fino oltre il Nad Bregom. È qui che l’assalto ha lasciato le tracce profonde che incontra chi sale da Oppacchiasella.

I nostri soldati vedevano le posizioni [p. 275 modifica] austriache del costone come chi dal fossato d’una fortezza vede gli spalti. Uno sperone roccioso che sporge verso Oppacchiasella, solcato da un labirinto di trincee, di camminamenti, di cunicoli, nascosto dalla boscaglia, costituiva uno dei capisaldi della resistenza. I nostri lo chiamavano «il Forte». Tutti i suoi fianchi dirupati erano coperti di reticolati. L’assalto è riuscito a sorpassare di colpo «il Forte», bombardato e sconvolto; la difesa è stata travolta, dall’attacco, al primo balzo. Cinque contrattacchi hanno tentato di riprendervi piede. Ora quello sperone sembra una gigantesca cava di pietrame. È una immobile tempesta di macigni divelti. Non un albero, non più un filo d’erba. Dei cunicoli sono crollati, delle trincee si sono colmate, enormi crateri di esplosioni aprono per tutto la loro cavità affumicata. Centinaia di scudi di acciaio, strappati ai parapetti come fogli di carta, sono disseminati fra le pietre, che le vampe hanno tinto di giallo. Ad ogni passo, proiettili inesplosi, bombe a mano, fucili spezzati.

Il vento agita lembi di stoffa sui cadaveri nemici, che giacciono a gruppi, qua e là, levando terree mani, e viene fatto di volgersi con una vaga ansia ad ogni fremito. Laggiù, quel sottufficiale ungherese, dai baffi di stoppa, che mostra i denti in un ghigno macabro, non si è mosso forse? Per lunghi secondi lo [p. 276 modifica] sguardo non osa distrarsi; si rimane fermi a sorvegliare un morto. Passano ronzii musicali, qualche cosa scrocchia sui sassi e sul ferrame dei «cavalli di Frisia», che vibra sonoro: pallottole sperdute. E non si vede nessuno.

La strada per Nova Villa, in qualche punto cancellata, divorata dalla guerra, tagliata da antichi camminamenti austriaci, interrotta da parapetti e da baraccamenti, sale da Oppacchiasella attraverso il tragico disordine delle posizioni espugnate. Ovunque, intorno, a perdita di vista, pare che la terra si sia mossa, che abbia avuto una sua burrasca, che si sia agitata e sconnessa in onde favolose. Un mese fa, questa spianata nuda, sulla quale non è una pietra che non sia precipitata da lontano, ci appariva ancora ammantata di boscaglie, quando la guardavamo dal Crni Hrib. Nova Villa si affacciava sulle chiome degli alberi. Le case si sovrastavano, come per guardare curiosamente l’una al di sopra dell’altra, e la chiesa, fiancheggiata dal campanile bianco, le dominava tutte. Il campanile era un osservatorio austriaco, e le trincee nemiche cingevano il paese, tutto scavato da rifugi. Il cannone sfrondò, stroncò, abbattè, demolì, bruciò.

Gli alberi sparivano, giorno per giorno, come se il bosco fuggisse. Le opere austriache si rivelavano a poco a poco sull’altura spogliata. Nova Villa, bombardata, diminuiva, si [p. 277 modifica] sfaldava, crollava. Adesso non c’è più niente. Lembi di muro, qualche solitaria parete di casupola fra ammonticchiamenti di macerie nerastre, dei passaggi austriaci scavati fra rudero e rudero. Nell’aria vaga un odore d’incendio e di putridume. Non un soldato fra le rovine. Nessuno, nessuno! Il traffico delle trincee si interra in solchi introvabili. La zona è battuta dalle artiglierie nemiche.

Da nessun campo di battaglia emana tanto orrore. Anche nella pace questa regione era desolata e selvaggia. Aveva qualche cosa di lugubre e di feroce. Appariva strana, misteriosa, subdola e formidabile. Nella guerra ha portato una malvagità sua, una ostilità sua. Al furore della battaglia umana si aggiungono gli agguati della terra sinistra, le truci insidie della montagna nemica. Essa è piena di tenebrosi misteri. Bisogna andare a frugare in fondo a certe sue foibe per intravvederne i segreti. Si arriva alla soglia del favoloso.

In molti settori della fronte carsica è avvenuto questo: un bombardamento intensissimo ha sconvolto profondamente la zona fortificata, ogni metro quadrato ha ricevuto il suo colpo, la fanteria si è slanciata all’assalto, i difensori superstiti si sono arresi, la resistenza era annientata; si avanzava, ed ecco sorgere su masse nemiche dalla distruzione, dal rovinìo, dal caos. [p. 278 modifica] Dove nulla era rimasto eretto, nulla era rimasto intatto, nulla era rimasto vivo, come per un incantesimo si rivelavano battaglioni freschi, armati di innumerevoli mitragliatrici. Pareva l’esercito fantasma. Dei contrattacchi impetuosi scaturivano da uno sgretolìo di rocce infrante, dalle solitudini tremende fatte dal cannone. E pure le nostre pattuglie esploratrici erano passate di lì e non avevano trovato un essere vivente. Alle volte anche il grosso era passato, aveva portato lontano la sua linea di attacco, quando una forza nemica compariva alle sue spalle o al suo fianco. Vi era del soprannaturale. Quale mago interveniva contro di noi? Il Carso.

Tutti i camminamenti austriaci corrono alle foibe. Qualunque passaggio si segua, si è sicuri di giungere ad una di queste singolari cavità rotonde che a centinaia butterano il Carso, simili ai crateri di un paesaggio lunare. Gli austriaci sanno che ogni foiba corrisponde ad una caverna. La cavità indica un centro di infiltrazione, e l’infiltrazione scava antri nel sottosuolo. Sono poche le doline che il piccone e la perforatrice del nemico non abbia saggiato. Si vedono strani pozzi iniziati nel fondo d’ogni conca. Non sempre la grotta sotterranea è ampia; spesso ha sviluppi fantastici, spalanca dedali di immani gallerie, comunica con caverne vicine, permette di aprire due o tre [p. 279 modifica] ingressi, offre ricovero a interi battaglioni. Quando l’assalto arriva, i battaglioni escono dalle viscere della terra. Sono intanati abbastanza indietro dalla linea delle trincee per avere il tempo di emergere. Formano la vera massa di resistenza. Il margine della dolina è preparato a parapetto. Dei «cavalli di Frisia» sono gettati fuori, le mitragliatrici si appostano, ogni dolina diventa una ridotta. Sorge così dal niente un sistema di fortificazioni inattese, inesplicabili, che disorientano l’attacco, che resistono quando tutto pareva caduto.

Dall’esterno, al primo momento, nulla si vede. La foiba è piena di ammassi di pietre e di sacchi a terra, i sacchi giallastri degli austriaci; l’inferno delle esplosioni è arrivato anche là dentro, ha sterrato, scheggiato, bucato; delle casse sfasciate, delle armi, dei cenci, indicano che la dolina era un centro di riunione, ma pare tutto lì.

Nei pressi di Nova Villa, deviando dalla strada, si arriva al bordo franato di doline abbandonate, intorno alle quali la battaglia ha lasciato orme sanguinose. Scendendo in esse si passa di sorpresa in sorpresa, si vive una pagina di romanzo d’avventure. A ridosso di una parete meno esposta ai colpi, si scorge, mezzo nascosta da barricamenti, una specie di bocca di pozzo. E sormontata ancora dalle [p. 280 modifica] travi di sostegno che reggevano la carrucola per tirar su il materiale scavato. Una solida scala di legno si sprofonda nell’ombra, fra pareti di roccia. Essa conduce in una cavità buia, umida, tepida, che odora di sudiciume umano, di folla e di miseria. Pare di sentire il soffio di una moltitudine silenziosa. Si posano i piedi sopra un terreno molliccio. Lo sguardo stenta a penetrare le tenebre. Una quantità di cose indefinibili sono intorno, al suolo o addossate alle pareti. Bisogna accendere le lampade.

La cavità si allarga, si amplia, devia a sinistra, sembra senza fine. Le cose indefinibili sono dei lanciabombe, dei serbatoi di gas asfissiante, fatti come le bombole dell’idrogeno dei parchi aerostatici, casse di cartucce, casse di granate a mano, casse di razzi illuminanti, picconi, badili. Il piede incespica in ammassi di indumenti austriaci, cappotti, coperte, cenci. La caverna diventa sempre più grande, e a destra e a sinistra sono costruite delle lettiere per la truppa, a doppio ripiano, come le cuccette degli emigranti a bordo dei transatlantici, rudi ingabbiature di legno. Si va avanti, si va avanti, in un ingombro di casse. Dei fucili sono abbandonati sui tavolacci. La grotta scende lievemente, e si prolunga. Ad un punto la vôlta si abbassa, bianca, scintillante, ed è tutta una frangia cristallina di sottili stallatiti, un meraviglioso ricamo, leggero e pendulo. E [p. 281 modifica] seguitano i ranghi delle cuccette sotto al bizzarro velario di pietra.

Improvvisamente la caverna si restringe e finisce. Ma a destra si apre un passaggio, un corridoio dalle pareti lucide che sbocca in un altra galleria tortuosa, lunghissima. Arriva soffocato e lontano il lungo muggito delle granate, ma il loro scoppio rimbomba cupo e sonoro. Il monte percosso brontola in echi sotterranei. Fra un colpo e l’altro, nel silenzio profondo, assoluto, terribile, si ode un regolare cadere di gocce. Ad uno svolto si rivede il chiarore del giorno: il pozzo, la scala. È finito il fantastico viaggio. Si risale alla superficie, e si è sorpresi di non riconoscere più i luoghi. È un’altra uscita.

Centinaia di austriaci hanno vissuto là dentro, con quella certezza della incolumità che riposa la truppa.

Per tutto, il Carso ha preparato di queste tenebrose caserme per i nostri nemici. Visitata una grotta, si spiegano i pozzi di ricerca che gli austriaci hanno lasciato qua e là. La guerra assume quassù degli aspetti inverosimili e tenebrosi. Le tattiche bizzarre ed efficaci della difesa non possono non influenzare le tattiche dell’attacco. Bisogna pensare a quello che avviene sulla terra e a quello che avviene sotto la terra. Antri immani e profondi conservano le forze nemiche, ma tali rifugi da guerre [p. 282 modifica] trogloditichehanno debolezze insanabili. Possono creare delle buone riserve di prigionieri, se l’azione li studia, li prevede, li domina a tempo. Ma essi portano elementi da leggenda, stravaganze favolose, nella lotta. Il Carso ha caverne così vaste, che dei reggimenti potrebbero manovrarvi. Se ne conoscono alcune, delle quali la vôlta, lontana, come un cielo nuvoloso pietrificato, non è visibile se non al balenìo di razzi. Quante se ne ignorano?

Risalendo dal silenzio dei rifugi di Nova Villa, al primo momento il frastuono delle granate ha una violenza lacerante. Il nemico cannoneggia assiduamente il deserto e la rovina. Bombarda i ruderi. Oppacchiasella è in eruzione. La strada è battuta. Ad ogni minuto bisogna rannicchiarsi sotto al miagolio formidabile delle schegge, che pare non finiscano mai di cadere. Rimane a lungo nell’aria un frullìo sonoro di pesanti spolette. E non c’è nessuno. È un’ossessione, un incubo, pare di essere a distanze insuperabili dal mondo. Tutto è morto. Anche la strada è morta. Il ricordo delle caverne visitate ha un non so che di angoscioso e di funebre come il ricordo di tombe smisurate. Si indovinano cadaveri nemici su ogni ripiego del terreno. Si cerca un uomo, una forma vivente, con una specie di ossessione.

Oh, delle voci! Finalmente! Ecco degli [p. 283 modifica] elmetti che si muovono in basso, fra le pietre, a livello del suolo. Dei soldati in un camminamento. Portano un ferito. «Dove sono le trincee?» — «Qua sotto!» La vita circola in fenditure profonde e tortuose. Si rientra nell’umanità. Si arriva alle estreme linee, dove la fucileria scoppietta, rasserenati.

«Come va, figliuoli? Che fa il nemico?» Le vedette interpellate si volgono. «Lavora!» — rispondono. — «Guardate laggiù dalla feritoia». Laggiù, verso la strada di Hudi Log, sul suolo sconnesso e tormentato si vedono venir su palate di terra. Niente altro. Castagnavizza vicina è tutta sfondata dalle cannonate e la sua chiesa, che non ha più facciata, spalanca fra gli alberi una nera cavità.