Diceria, o Bacco

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Luciano di Samosata Antichità 1862 Luigi Settembrini Indice:Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini - Tomo 3.djvu racconti Letteratura Diceria, o Bacco Intestazione 30 aprile 2023 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini


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LIII.

DICERIA,

o

BACCO.



Quando Bacco menò l’esercito in India (m’è permesso, cred’io, di contarvi anche una favola Bacchica), dicesi che gli uomini di quei paesi da prima lo disprezzavano tanto che ridevano di quella venuta, anzi avevano pietà di quell’ardire, credendo che tosto ei saria stato pesto dagli elefanti, se si fosse ordinato a battaglia. Avevano forse udito raccontar dagli esploratori strane cose di quell’esercito; che la falange e le squadre erano composte di femmine pazze e furiose, coronate di edera, vestite di pelle di cerbiatti, con in mano certe asticciuole senza ferro ed anche invogliate di edera, e certe rotellette leggiere, che davano un rimbombo come pur si toccavano (che pigliavano i timpani per scudi); e fra esse alcuni pochi villanotti nudi, che menavano un ballonchio, e avevano le code e le cornette come quelle de’ cavretti testè nati. E che il capitano di questo esercito andava sovra un cocchio tirato da due pantere, era uno sbarbatello, senza neppure le prime calugini alle gote, con le corna coronate di grappoli, con la mitra avvolta alle chiome, in veste di porpora, e calzarin dorato: e aveva due luogotenenti; uno vecchietto, basso, grassotto, panciuto, rincagnato, con orecchi lunghi e ritti, barcollante, appoggiantesi ad una ferula, spesso a cavallo ad un asino, in gamurra gialla, e questi era un molto gradito suo generale. L’altro, uno strano figuro, dal mezzo in giù simile ad un becco, con le gambe vellose, le corna in capo, una lunga barba, cruccioso e impetuoso, portante nella mano sinistra una siringa, e con la destra brandendo un bastone ricurvo, andava saltabeccando per tutto l’esercito: [p. 82 modifica]le femmine ne spiritavano, e squassando le chiome rabbuffate quand’ei s’avvicinava gridavano. Evoè; che forse così si chiamava quel loro signore. E che già quelle femmine rapivano le greggi, e squartavano gli agnelli, e se li mangiavano vivi vivi. Udendo questo racconto gl’Indiani ed il loro re si messero a ridere naturalmente, e stimarono di non uscire a scontrarle e combatterle; ma se si avvicinassero di più, mandarvi le loro femmine: che per essi pareva una vergogna vincere femmine pazze, e quel capitanessa mitrato, e quel vecchiotto ubbriaco, e quel mezzo soldato, e quei ballonzatori nudi, tutta gente da riso. Ma poi che vennero le nuove che il dio devastava il paese, bruciava le città con tutti gli abitanti, incendiava le selve, e in breve tempo aveva empiuta tutta l’India di fuoco (chè il fuoco è arme di Bacco, e l’ebbe dal fulmine paterno), allora in fretta presero le armi, e messe barde e freni agli elefanti, e caricatili delle torri, uscirono ad oste, disprezzanti anche allora, ma irritati e bramosi di mettersi sotto i piedi quell’esercito e quello sbarbatello di capitano. Come furono dappresso e a vista, gl’Indiani, schierati gli elefanti in prima fila, fecero avanzar la falange: Bacco stava egli al centro, Sileno guidava l’ala destra, e Pane la sinistra. Alle squadre ed alle bande erano assegnati i satiri; il contrassegno per tutti, l’evoè. Tosto il picchiar de’ timpani e lo strepitar dei cembali suona a battaglia, un satiro piglia un corno e manda un acutissimo squillo, l’asino di Sileno dà un bellicoso ragghio, e le Menadi ululanti si scagliano all’assalto, cinte di serpenti, e dalle punte dei tirsi sfoderando il ferro. Gl’Indiani ed i loro elefanti subito rivolgendosi, disordinatamente fuggirono, senza neppure aspettare divenire alle mani, e infine furono vinti e menati prigioni da quelli stessi che pocanzi avevano derisi, imparando col fatto che non dovevano di prima informazione disprezzare eserciti forestieri.

Ma che c’entra qui questo Bacco? dirà taluno. C’entra, perchè mi pare (e per le Grazie, non credete che io vada in visibilio, o sia briaco se mi paragono agl’iddii) che come accadde a quegl’Indiani per quelle strane novelle, così accada a molti per i miei discorsi. Udendo dire che io recito satire, frottole e frasche di commedia, credono che così sia, per non so quale [p. 83 modifica]opinione che hanno di me: ed alcuni non ci vengono affatto, perchè non vale la pena di attendere a rombazzi di baccanti, e a cavriole di satiri, scendendo dai loro elefanti; ed altri che ci vengono per udire appunto qualcosa di queste, trovando invece di edera ferro, non s’attentano di lodare, turbati dalla novità della cosa. Ma io a costoro prometto francamente, che se anche ora come già un tempo vorranno spesso vedere la festa che io fo, e quei bravi bevitori d’una volta ricorderanno del sollazzo che avemmo insieme, e non torceranno il muso pe’ satiri e pei Sileni, ma beranno a sazietà di questa tazza; faranno il baccano anch’essi, e con noi grideranno l’evoè. Costoro adunque, essendo libero l’udire, facciano ciò che loro aggrada: io, giacchè siamo in India, voglio contarvi un’altra cosa di quei paesi, la quale non è estrania a Bacco nè al nostro proposito.

Tra gl’Indiani Maclei, che su la sponda sinistra dell’Indo, se lo guardi con la corrente, pascolando si stendono sino all’oceano; nel loro paese è un bosco chiuso, non di molta estensione, ma fitto, che molta edera e viti vi fanno densa ombra. Quivi sono tre fonti di acqua bellissima e limpidissima, una detta del Satiro, un’altra di Pane, ed un’altra di Sileno. V’entrano gl’Indiani una volta l’anno, alla festa del Dio, e bevono alle fontane, non tutti a tutte, ma secondo l’età, i garzoni alla fontana del Satiro, a quella di Pane gli uomini, e a quella di Sileno quei che hanno l’età mia. Quel che avviene ai giovani poi che hanno bevuto, e l’ardire che acquistano gli uomini compresi da Pane, saria lungo a dire: ma quel che fanno i vecchi, quando bevono di quell’acqua, è il caso nostro. Come il vecchio ha bevuto ed è preso da Sileno, per molto tempo rimane muto, come imbalordito ed ubbriaco; poi a un tratto la voce gli diventa chiara, il suono acuto, lo spirito canoro, la mutezza gli si cambia in parlantina; e neppure a turargli la bocca puoi far che ei non parli, e non isciorini lunghe dicerie; male sue parole sono tutte sennate, ed ornate, ed escomio come quelle dell’oratore d’Omero, simili a neve invernale. Nè basta che li paragoni ai cigni per la loro età, ma a guisa delle cicale fanno un dire continuo e seguito fino alla sera tardi. Allora, cessata in essi l’ubriachezza, tacciono, e [p. 84 modifica]tornano come prima. Ma il più nuovo non ve l’ho detto ancora. Se il vecchio rimane a mezzo il discorso che ei faceva, perchè il tramonto del sole gl’impedisce di condurlo a fine, l’anno appresso ribeendo rappicca il discorso a quel punto dove l’anno innanzi l’ebrezza gli era mancata. Ecco qui, che io come Momo, do la baia a me stesso, e, per Giove, non ci vorrei aggiungere di più la spiegazione della favola. Voi già vedete la simiglianza della favola col fatto mio. Onde se è scappato qualche sproposito, l’ubbriachezz’a ci ha colpa; se è venuta detta qualcosa sennata, Sileno certamente era propizio.