Dodici monologhi/Fra un atto e l'altro

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Fra un atto e l'altro

../Il veterano al congresso ../L'arte di farsi fotografare IncludiIntestazione 3 gennaio 2013 100% Letteratura

Il veterano al congresso L'arte di farsi fotografare


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FRA UN ATTO E L’ALTRO.


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(Esce. Viene al proscenio, con una parte in mano, trascinando una sedia).


Pardon! Credevo che qui non ci fosse nessuno: a ogni modo, c’è sempre meno gente che nel mio camerino. E poi, vedo che siamo tutti tra amici (saluta famigliarmente qua e là, con qualche: oh, ciao!) Se permettono...! se non disturbo, mi do una ripassata alla parte, perchè di là, credano, c’è tale inferno, che non ci si capisce più niente....

Prego, stiano comodi: e discorrano pure, che a me non dà nessun fastidio. Anzi facciano conto proprio ch’io non ci sia (fingendo rispondere a qualcheduno di platea). A momenti alzano il sipario? — Ma che!... non si facciano illusioni, cari signori! Il macchinista dice sempre che, nella commedia, la parte più bella è [p. 92 modifica]l’intermezzo, e cerca di farlo durare più che sia possibile. Mi diranno che l’orchestra ha già fatto il suo pezzo, ma avranno da aspettare un altro bel.... pezzo ancora. Diano retta a me, che ho una certa praticaccia di teatro! Se ce la fanno, dentro una mezz’oretta, pago io da bere a tutti, anche a lei.... (indica uno) che ha l’aria di dir di no. Ma sentite che chiasso! Stanno ancora a inchiodar le scene. Perchè, non ci confondiamo, signori miei, qui non si va avanti che.... a furia di chiodi. Il macchinista è un bravo uomo, pieno di intelligenza e di cuore; basti dire che ha preso moglie unicamente per farle delle scene, mentre... strappa le mie. Ma la difficoltà grande consiste nella confusione che regna in palcoscenico, tra un atto e l’altro, poichè la sua popolazione, già numerosa, si raddoppia, si triplica.... si moltiplica.

Appena calato il sipario, autori, critici, mecenati, amici, tutte persone garbate, simpatiche, piacevoli e invadenti si precipitano sul palcoscenico. Quanti cari intimi amici ho io! Sono tanti, che spesso me ne scordo il nome, e così [p. 93 modifica]succede che, dopo un’amicizia di dieci anni, sono costretto a chiedere a qualcuno: — Oh caro il mio.... come ti chiami? Ma tu.... chi sei?

Del resto, avere il camerino popolato di amici, è sempre stata la mia passione, tanto che mi sono abituato a truccarmi, a vestirmi e.... a spogliarmi magari davanti a quindici persone. Capisco che lo spettacolo è sempre lo stesso.... mutatis mutandi, ma non cessa d’essere interessante.

Con questo non intendo dire che tutti vengano sul palcoscenico unicamente per vedere me in costume.... e senza; anzi c’è uno o due tipi i quali.... due o tre tipi, dico, i quali mi dànno una stretta di mano.... quattro tipi.... e poi li vedo sgattaiolare tra le quinte.... cinque tipi.... a fare dei complimenti alle attrici, specialmente alla.... c’intendiamo.

Ora, naturalmente, non c’è ombra di male; ma il guaio è che quei sei o sette tipi, che saranno otto o nove, ingombrano il palcoscenico, e dànno noia agli uomini di scena, i quali non si possono muovere, e perdono una quantità di tempo a dire: — Signori! si guardino! [p. 94 modifica]con permesso! facciano il favore! si ha da stendere il tappeto!

Ma sì; gli è giusto come parlare ai sordi. Io anzi ho dato degli ordini al macchinista:

— Quando vedete che qualcuno di questi nove, o dieci, o undici tipi, non si scansa in tempo, fate una cosa, lasciategli cascare una quinta sulla testa (di dentro un forte rumore). Ah! ecco: ne hanno servito uno propriamente adesso!

Ora, io dicevo, finchè vengono in camerino mio, mi fanno proprio un piacere immenso, perchè almeno si barattano quattro parole, e poi perchè è rarissimo il caso che, come stasera, io non sappia la parte e sia costretto a ripassarla in pace.

Se permettono, anzi, mi ci do proprio una ripassatina, perchè è una parte peggiore dell’olio di ricino, con certe parole che, se ci ripenso, mi viene il male della scimmia. Ma questo autore è matto com’è vero Iddio. Figuratevi (sfogliando) che a un certo momento devo dire questo: dov’è andato?... Ah! ecco qua:

— Che vuoi: mi sento così rintontito, [p. 95 modifica]che il mio cervello par diventato una grotta: il pensiero mi si cristallizza: le idee stalagmitificanomivisi!...

Ma dite la verità! Stalagmitificanomivisi. Ieri l’ho detto al mio cane e per ventiquattro ore si è nascosto sotto un comò. Ebbene: su per giù, è una parte tutta scritta così, tutta così lardellata di vocaboli scientifici da parere un tamarindo concentrato nel vuoto dell’enciclopedia. E noi siamo costretti a mandare a mente tutta questa robaccia, e, quel che è peggio, a capirla; perchè, credete pure, se si dice una cosa che non si capisce, la non si fa capire a nessuno. Vi garantisco che, a certi momenti, a furia di studiare, non si sa più neanche dove si abbia la testa, e allora il peggio guaio che ci possa capitare è quello (a me succede sempre) di battere il naso in qualche stupidone, che mi ride in faccia e mi dice: — Guardalo lì! che bel matto! e che uomo fortunato! viaggi sempre! ti diverti, non fai mai nulla, la sera vieni a dire quelle quattro burlette, come vengono, vengono, e hai trovato la California! (facendo gesto di scapaccione) Gliela darei io la California, [p. 96 modifica]e invece lo lascio cantare, perchè, se mi provassi a dimostrargli che quelle quattro burlette mi fanno faticare almeno quattordici ore sulle ventiquattro, lo farei scoppiare dalle risa più che mai. — Tu? ma passa via! fossi ancora uno di quelli che recitano le tragedie in versi! ma tu, in sostanza, che fai? Vieni sulla scena e reciti come parli: o che ci studi a discorrere cogli amici?

Ah bravo! è qui che ti voglio! appunto questo non sa il poverino, che, cioè, lo sforzo più grande, lo studio maggiore per un artista consiste precisamente in questa cosa che pare semplicissima: recitare come si parla.

Eh, se fosse una cosa facile, ma allora tutti sarebbero artisti; mentre invece vi prego di riflettere a questo fenomeno: prendete uno che in privato parla benissimo, lo portate sulla scena, qui, davanti a questi quattro lumi della ribalta, e non gli cavate di bocca una parola neanche con le tanaglie.

Recitare come si parla! Sicuro; ma intanto prima di tutto, cominciamo da questo: che bisogna, parlar bene, e per imparare soltanto a parlar bene, occorre [p. 97 modifica]uno studio lungo, assiduo, che vale, credete, quanto un corso di università. Arrivati a questo, che è già cosa difficilissima, è anche necessario rendere cervello e nervi talmente sensibili a ogni commozione da potere, con un atto di volontà, trasformare interamente il nostro individuo fisico e morale, passare dal riso al pianto, dalla calma allo sdegno; per così dire, dal freddo glaciale al caldo vulcanico, dalle nevi all’incendio, come niente fosse. È una ginnastica terribile, è una scherma dello spirito, tutto a spese del sistema nervoso, della mente, del cuore, a spese di tutto ciò che costituisce l’esistenza ordinaria.

Perchè poi questo non è ancora che una parte del nostro lavoro. Non basta che sentiamo noi: l’essenziale è che facciamo sentire. Per cui è necessario che la forma esterna del nostro sentire parli, e ben chiaro, al sentimento di tutti coloro che ci vedono e sentono, per costringerli a provare quelle emozioni stesse che noi fingiamo di sentire. Così che, mettiamo, quando io devo ridere, io rido veramente, ma non rido mica per [p. 98 modifica]piacere mio, rido in quel tal modo che è necessario per far ridere il pubblico, così che quest’atto, così spensierato per tutti quanti, per me, invece, racchiude questi pochi pensieri, queste poche preoccupazioni (contando sulle dita):

Prima di tutto: ridere mentre non ne ho voglia.

Secondo: ridere a tempo, con l’intonazione stessa del momento in cui recito.

Terzo: ridere, non già come rido io, quando.... rido, ma ridere come deve ridere il personaggio che rappresento.

Quarto: ridere non per divertimento mio; che anzi sbadiglierei, ma per far ridere la platea.

Quinto: ridere in proporzione al motivo per cui mi è imposta la risata.

Se no, a sbagliare di un millimetro, c’è da farsi tirare, Dio liberi, le mele cotte.

E questo lo chiamano ridere? questo è un martirio. Vorrei un po’ che vi provaste anche a sorridere, con simili preoccupazioni nel cervello; eppure io devo sapere quando convenga fare, mettiamo, un sorrisetto ironico, così (eseguisce), o [p. 99 modifica]piuttosto il riso di un idiota, così (c. s.) o piuttosto un riso paterno e gioviale (c. s.) o un risolino economico di strozzino amabile, o anche una risata elegante di gran signore (c. s.) o il riso convulso di un pletorico (c. s.) e infine la risataccia sguaiata che faccia tremare i vetri del soffitto (c. s.). Credetemi, in parola, quando devo ridere, è una cosa da piangere.

In sostanza, io devo sapere piangere e ridere insieme con tutte le sfumature, con tutte le variazioni possibili; e se ci fosse un istituto di recitazione per conseguire una laurea nell’arte, l’esame, secondo me, dovrebbe consistere in questo solo esperimento: fingere un dialogo con un interlocutore invisibile, che vi faccia passare attraverso a tutte le passioni, a tutti i movimenti dell’animo umano, dalla noia all’interesse, dall’attenzione allo sdegno, dallo sdegno alla curiosità, da questa al riso, dall’ilarità alle lagrime e anche viceversa.

Figuriamoci che voi siate professori: ebbene il mio esame sarebbe questo:

(Mediante la mimica naturale e le varie espressioni del viso, finge salutare un amico [p. 100 modifica]con grande effusione, indi ascoltare un discorso, che da principio l’annoia, fino allo sbadiglio, poi lo interessa, gli fa fare un crescendo di risate, ma tosto, quasi per un lugubre incidente, lo rattrista, lo fa dare in ismanie e finalmente scoppiare in un pianto dirotto, che poi si attenua, si calma, in modo che sembra dire con filosofia: basta, non ci pensiamo più, per passare a un altro discorso, che gli strappa una risata fragorosa, seguìta da un congedo pieno di ilare comicità).

Ora, se certuni sapessero quanto ci vuole per arrivare a questi effetti, che paiono una burletta, se sapessero che martirio dell’anima è questa ginnastica di sentimenti, se sapessero a traverso a quanti pensieri, a quanti dolori di testa e di spina dorsale si può arrivare a quest’arte complicata che si chiama la semplicità, forse loro passerebbe persino dal capo l’idea innocente di diventare filodrammatici.

Senza contar poi che l’artista, come uomo, è sempre uno zingaro vagabondo, che passa sopra la terra come un commesso viaggiatore della parola, senza posa, senza nido, senza domani: [p. 101 modifica]obbligato a essere tutto, a sentire tutto, a sapere un mondo di cose....

Perchè in sostanza l’artista, il vero artista ha il dovere di sapere tutto, tutto.... (segnale del sipario).... meno la parte! (indica il manoscritto, saluta e via).