Elettra (Euripide - Romagnoli)/Terzo episodio

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Terzo episodio

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Euripide - Elettra (413 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1930)
Terzo episodio
Secondo stasimo Terzo stasimo


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Arriva da lungi un alto frastuono.

corifea

Ehi là, ehi là!
Udiste un grido, o vana illusione
fu questa, amiche? Sotterraneo tuono
sembra di Giove. Piú distinto sorge,
ecco, il rumor. Signora, Elettra, accorri!
Elettra esce dalla casa.

elettra

Che avviene, amiche? A che punto è l’agone?

coro

So questo solo: odo di morte un ululo.

elettra

L’ho udito anch’io, sebben lontana fossi.

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coro

Certo: da lungi arriva, eppur distinto.

elettra

È d’un argivo o degli amici miei?

coro

Non so: di gridi è un’armonia confusa.

elettra

Di morir tu m’annunci. E che piú indugio?

coro

Aspetta: il tuo destin piú chiaro attendi.

elettra

No! Siamo vinti. Dove son gli araldi?

coro

Verranno: è dura impresa un re trafiggere!
Entra correndo un messaggero.

messaggero

Vittoriose di Micene vergini,
il trionfo d’Oreste a tutti annunzio

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gli amici: è spento Egisto, d’Agamènnone
l’assassino: agli Dei grazie si rendano.

elettra

Chi sei tu? Puoi provar che dici il vero?

messaggero

Non mi ravvisi? Un servo io son d’Oreste.

elettra

Non ti conobbi pel terrore. Adesso
ben ti conosco. Che m’annunzi? È spento
l’odioso uccisor del padre mio?

messaggero

È spento: se tu vuoi, posso ripeterlo.

elettra

O Numi, e tu, Giustizia onnipossente,
sei giunta alfine! Ma saper desidero
in che modo, con che trama di strage
Oreste il figlio di Tieste uccise.

messaggero

Poiché dalla tua casa il pie’ volgemmo,
via per la strada che di carri suona

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movemmo al luogo ov’era di Micene
l’inclito re. Nei suoi giardini stava
irrigui d’acque, e i ramicelli teneri
recideva d’un mirto, a farne un serto
per la sua fronte. E ci vide, e gridò:
«Salute a voi. Chi siete, forestieri?
donde venite? di che terra figli?»
Ed Oreste rispose: «Siamo Tèssali,
e per offrire un sacrificio a Giove
siam diretti all’AIfèo». Quand’ebbe udito,
rispose Egisto: «Vi conviene adesso
presso me rimanere, e commensali
essere alla mia mensa: un bove immolo
oggi alle Ninfe. Partirete all’alba,
dimani, e in tempo giungerete ancora.
Entriamo in casa — e ci prendea per mano,
mentre cosí diceva, e ci guidava —
rifiutar non potete». E quando in casa
poi fummo, disse: «Ai forestieri il bagno,
quanto prima si può, qualcuno appresti,
ché intorno all’ara star devono, presso
l’acqua lustrale». E gli rispose Oreste:
«Ci siamo or or nei vortici d’un fiume
purificati in limpidi lavacri.
Pur, se prendere parte al sacrificio
coi cittadini devono i foresti,
non rifiutiamo, siamo pronti, Egisto».
Restò cosí questo discorso a mezzo.
E i servi suoi deposero le cuspidi,
del signore difesa; e tutti all’opera
volser le mani. Ed il bacino alcuni
recarono pel sangue, altri i canestri,
accendevano il fuoco altri, e caldaie

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ponevan sulla fiamma: era la casa
tutta un frastuono. E i grani d’orzo prese
il drudo di tua madre, e li cosparse
sull’ara, e disse: «O Ninfe delle rocce,
fate ch’io spesso sacrifizi offrirvi
possa, e con me la sposa mia, di Tíndaro
la figlia: e a noi la sorte ognor propizia
volga, come ora volge, e acerba ai miei
nemici». — Oreste egli intendeva, e te.
Ma volse ai Numi il mio padrone, senza
profferire parola, il voto opposto:
di rïavere la paterna casa.
Egisto allora dal canestro prese
un coltello diritto, e della vittima
recise i crini, e con la destra sopra
la sacra fiamma li depose: quindi
il torello sgozzò, che sollevato
aveano i servi su le spalle, e disse
al tuo fratello: «Dicon che fra i Tèssali
è pregio grande, se qualcuno un toro
scuoia con maestria, doma un puledro.
Un ferro impugna, straniero, e mostra
che degni sono di tal fama i Tèssali».
E una dorica spada Oreste impugna
di salda tempra, da le spalle sfibbia
e via gitta il mantello, e sceglie Pílade
solo assistente al suo lavoro, e via
manda i famigli; e del torello il piede
stretto, distese il braccio, a nudo pose
le carni bianche, e la pelle scoiò
in men che dello stadio ambi percorre
col suo cavallo un corridore i bracci,
ed il fianco gli aperse. Egisto i visceri

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nelle man’ prese, e li osservò. Ma il fegato
era privo d’un lobo; e della bile
i canali eran pieni e le vescicole
d’escrescenze maligne. E scuro in volto
si fece allora; ed Oreste gli chiese:
«Perché t’abbatti?» — «O straniero, temo
un’insidia di fuori: un uomo vive,
il piú nemico fra i mortali, il figlio
d’Agamènnone, infesto alla mia casa».
E l’altro disse: «D’un fuggiasco temi
dunque l’insidia, tu che sei signore
della città? Ma su, ch’ora vogliamo
le frattaglie gustar. Datemi, invece
del coltello di Doria, uno di Ftia,1
che gli fenda lo sterno». Ebbe il coltello
e tagliò. Prese Egisto anche quei visceri,
e li andava osservando ad uno ad uno.
Or, mentre stava a capo giú, levandosi
sul sommo degli alúci, il tuo fratello
lo colpi nella nuca, e la colonna
vertebrale gli franse. E tutto il corpo
fu tutto un sussultare; e in mezzo al sangue,
con agonia di doglia urli levava.
A quella vista, súbito i famigli
misero mano all’armi, per combattere
in tanti, contro due. Stettero fermi
contro loro, da prodi, Oreste e Pílade,
le loro armi vibrando. E Oreste disse:
«Come nemico ad Argo e ai miei seguaci,
no ch’io non giunsi: chi mio padre uccise
a punir giunsi: Oreste io son, quel misero.
Ora non m’uccidete, o di mio padre
famigli antichi». E quelli, come udirono,

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alzarono le lame; e un vecchio servo
lo riconobbe; e a tuo fratello súbito,
con guida di vittoria e di trionfo,
ghirlandaron la fronte. Or giunge ei stesso,
e un capo reca a te, non della Gòrgone,
bensí dell’odio tuo, d’Egisto. Sangue,
di sangue usura, il morto ebbe in compenso.

coro

Lancia il piede alla danza, o diletta,
spicca un salto, con grazia, nell’ètere,
agilissima, al par di cervetta.
Tuo fratello trionfa: è piú nobile
il suo serto di quel che su l’onda
dell’Alfeo si guadagna: il tuo cantico
di vittoria ai miei balli risponda.

elettra

O luce, e raggio che dai quattro vibri
destrieri del Sole, o Terra, o Notte
che velavi il mio sguardo, e adesso libero
attorno spazia, quando Egisto è morto,
l’uccisore del padre! Or, quante gioie
chiude la casa, che le chiome adornino,
amiche, prenderò: ghirlande al capo
vô del fratel vittorioso cingerne.
Entra in casa.

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coro

Da tua man le ghirlande profuse
siano dunque al suo crin: danze intreccia
la mia schiera diletta alle Muse.
Quei che re prediletti già furono,
riavranno il poter: fu giustizia
che uccidessero gli empî. Coi flauti
or si levi clamor di letizia.
Intrecciano danze gioiose.

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Torna Elettra; e quasi nello stesso punto arrivano Oreste e Pilade, seguíti da servi che portano il cadavere di Egisto.

elettra

O vincitore, o figlio di chi vinse
nella guerra di Troia, Oreste, accetta
questa ghirlanda che i tuoi crini avvolga.
Trionfatore dell’inutil gara
dei sei stadî non giungi, anzi uccidesti
chi me, chi te privò del padre, Egisto.
E tu, compagno suo, Pílade, alunno
del piú pio fra i mortali, il serto accogli
dalla mia mano: parte ugual ti spetta
di questo agone. Oh, siate ognor felici!

oreste

Primi di tal fortuna operatori
reputa i Numi, Elettra; e dopo, loda
me, degli Dei ministro e della Sorte.
A fatti e non a ciance Egisto uccisi;
e perché possa ognun chiaro vederlo,

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il corpo stesso a te portai. Tu ponilo,
se ti piace cosí, preda alle fiere,
o, confitto in un pal, pasto agli uccelli
figli dell’aria: ch’è tuo servo adesso
colui che già chiamato era Signore.

elettra

Scrupolo mi trattiene; eppur vorrei...

oreste

Che? Parla! Sei d’ogni timore libera.

elettra

Se un morto oltraggio, posso averne biasimo.

oreste

Niun v’è che possa fartene rimprovero.

elettra

Maldicente e maligna è la città.

oreste

L’odio che ci divide è senza legge,
senza pietà: parla, se vuoi, sorella.

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elettra
Volge la parola al cadavere di Egisto.

E sia. Ma quali delle ingiurie debbo
dirti in principio, quali in fine, e quali
nel mezzo dei discorso? Eppure, ogni alba
mormoravo fra me — dimenticato
mai non l’ho — quello che t’avrei pur detto
a faccia a faccia, ove un dí fossi libera
dagli antichi terrori. Ora ci siamo:
le contumelie, che da vivo dirti
voluto avrei, riceverai da morto.
Tu m’hai distrutta, ed orfana del padre
me rendesti e costui, che fatto ingiuria
non t’avevamo, e turpemente sposo
fosti a mia madre, e uccidesti lo sposo
suo, che guidati aveva in Frigia gli Èlleni,
e tu non c’eri. E a tal follia giungesti
poi, che, sposata mia madre, credesti
che non sarebbe una compagna trista
per te, mentre insozzato avevi il letto
pur di mio padre. Oh, sappia, chi sedusse
l’altrui consorte nei furtivi amplessi,
ed a sposarla è poi costretto: povero
lui, se s’illude, che serbi con lui
quell’onestà che non serbò con l’altro.
Miserrima era la tua vita, e tu
non la credevi misera. Sapevi
che un’empia sposa era la tua: mia madre
sapeva che il suo sposo era un sacrilego:
entrambi tristi, dissimulavate
essa la tua tristizia, e tu la sua.
E correva per tutta Argo una voce:

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«La moglie è l’uomo, e il marito la donna».
E che vergogna, che la donna in casa
sia padrona, e non l’uomo; e che disgusto,
quando i figli in città vedo che prendono
il nome della madre, e non del padre.
Ma già, chi stringe un matrimonio troppo
al disopra di lui, troppo fastoso,
nessun parla di lui, ma della moglie.
Ma l’ignoranza tua qui fu piú illusa:
tu presumevi d’essere qualcuno
per le tue gran ricchezze; e le ricchezze
durano un tempo assai breve. Il carattere
e non già le ricchezze, è un bene stabile,
che mai non t’abbandona, e i mali supera.
Ma le ricchezze d’empio acquisto, in mano
degli stolti, per breve ora fioriscono,
e vanno in fumo. Delle donne taccio,
che non convien parlarne, ad una vergine;
ma chiari enimmi pur dirò. Sfrontato
eri, ché della reggia eri signore,
e approfittavi della tua beltà.
Oh, mai beltà lo sposo mio non abbia
di fanciulla, bensí viril costume:
son d’un tal uomo i figli a Marte uniti:
i belli sono sol fregio alle danze.
Vanne in malora: infin s’è visto che
nulla intendevi, ed hai pagato il fio.
E niun malvagio, allor ch’à superato
il primo braccio dello stadio, immagini
d’avere vinta la Giustizia, innanzi
che non abbia la mèta ancor toccata,
e non sia giunto della vita al termine.

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corifea

Orrendi i suoi delitti, orrenda fu
la pena: gran potere ha la Giustizia.

oreste

Su, famigli, recar dentro la salma
e celarla nell’ombra occorre: quando
giunga mia madre, scorgere il cadavere
non deve, pria che spenta ella procomba.

elettra

Taci, a un altro discorso ora volgiamoci.
Si vede Clitemnestra giunger da lontano su un cocchio.

oreste

Che vedo? Aiuti da Micene giungono.

elettra

No, ma la madre che mi generò.

oreste

Fulgido il cocchio, e fulgide le vesti.

elettra

In bell’arnese entro le reti piomba.

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oreste

Che far dobbiam di nostra madre? Ucciderla?

elettra

Pietà ti vince, nel veder la madre?

oreste

Ahimè!
Mi generò, mi nutrí! Come ucciderla?

elettra

Com’ella uccise mio padre, tuo padre.

oreste

Febo, quanto fu stolto il tuo responso...

elettra

E chi savio sarà, se stolto è Febo?

oreste

che uccidessi la madre! E come è lecito?

elettra

E danno avrai quando il tuo padre vendichi?

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oreste

Matricida sarò, quand’ero puro!

elettra

Empio sarai, se tuo padre non vendichi.

oreste

A mia madre scontar dovrò la pena.

elettra

E a chi la sconterai, se il padre oblii?

oreste

Non forse il Dio, ma parlò tristo un Dèmone.

elettra

Dal tripode d’Apollo? Io non lo credo.

oreste

Fede io non ho che sia savio responso.

elettra

Non esser fiacco, non codardo: muovi
e tendi a lei la stessa frode ond’essa
lo sposo trucidò, per man d’Egisto.

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oreste

Entro: l’impresa è orribile, ed orribile
è ch’io la compia; ma se i Numi vogliono,
sia: ma per me non è che amaritudine.
Entra in casa.

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Sopra un cocchio giunge Clitemnestra, magnificamente vestita. La segue uno stuolo di schiave troiane.

coro
O Signora che d’Argo hai l’impero,
o figlia di Tíndaro,
o sorella dei due valorosi
figliuoli di Giove, che vivono
fra le stelle, nell’ètra di fiamma,
ed hanno virtú salutari,
fra la romba del mare, per gli uomini,
salute! Io ti venero al pari
degli Dei, per la grande opulenza,
per la prospera sorte. La tua
fortuna, convien che tu sappia
custodire. O regina, salute.

clitemnestra

Discendete, o Troiane, e a me porgete
la man, sí ch’io dal cocchio a terra scenda.
Son delle frigie spoglie i templi adorni:
io queste donne, elette nella Tròade,
della figlia perduta ebbi in compenso:
è piccol dono, eppur la casa adorna.

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elettra

E dunque, io non potrò, poiché bandita
fui dalla casa di mio padre, e vivo
come una schiava in questa casa misera,
toccare, o madre, la tua man beata?

clitemnestra

Le mie schiave ho: per me non affannarti.

elettra

E che? Non m’hai da casa mia bandita,
come schiava di guerra? A sacco fu
posta la casa: al par di queste, ch’orfane
rimasero del padre, io fui prigione.

clitemnestra

Tali i disegni di tuo padre furono,
ch’egli tramò contro chi non doveva,
contro i piú cari suoi. Dirò, sebbene
quando una donna ha mala fama, tutto
ciò ch’ella dice, sa d’amaro, come
avviene a me, pur non a dritto. I fatti
saper bisogna; e quando io meritato
abbia l’odio, sarà giusto odïarmi.
Ma se questo non è, perché tant’odio?
Tíndaro, il padre mio, mi diede al padre
tuo, non perché ponesse a morte me,
né la mia figlia. E quello, col pretesto
delle nozze d’Achille, Ifigenia

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fece venire dalla casa ad Àulide,
l'intoppo delle navi. E qui, distesa
sopra la pira la fanciulla, il candido
fior delle guance ne mieté. Ché s’egli,
per tener lungi dalla patria il sacco,
per giovare alla casa, o per salvezza
degli altri figli, uccisa una ne avesse
a vantaggio di molti, a lui concedere
perdono si potea. Ma no. Perché
Elena fu lasciva, e Menelao
punir non seppe la sua moglie adultera,
morte diede per questo alla mia figlia.
Ma, sebbene oltraggiata, io non per questo
sarei feroce divenuta, e morte
non avrei dato al mio consorte. Ma,
tornò recando una fanciulla, invasa
Mènade,2 e al letto suo l’ebbe compagna;
e due spose eravam sotto un sol tetto.
Lascive son le donne, io non lo nego;
ma quando è pur cosí, se mai lo sposo
rompe la fede e il talamo dispregia,
ciò ch’egli fa vuol far la sposa, e prendere
un altro amante. E poi, tutto lo scandalo
scoppia su noi, né mala fama lucrano
gli uomini, ch’han la colpa. Or dimmi, se
di furto Menelao rapito avessero,
dalla sua casa, avrei dovuto uccidere
Oreste io forse, per salvar lo sposo
di mia sorella, Menelao? Tuo padre
sopportato l’avrebbe? E morte ei dunque
non meritò, quando i miei figli uccise,
ma tollerarlo io devo? Io sí, l’uccisi.
E là mi volsi ove soltanto schiuso

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un tramite vedevo: ai suoi nemici:
ché degli amici di tuo padre, aiuto
chi mai dato m’avrebbe a quell’eccidio?
Ora parla, se vuoi, liberamente:
prova che a torto fu tuo padre ucciso.

corifea

Giusti argomenti adduci, e insieme turpi.
Una moglie assennata, in tutto cedere
deve allo sposo; e le idee d’una femmina
che ciò non crede, io non le so discutere.

elettra

Ricorda, o madre, quanto in fin dicesti:
tu m’hai concessa libera parola.

clitemnestra

Né mi disdico, e lo ripeto, o figlia.

elettra

Vedi che, udendo, poi vorrai punirmi.

clitemnestra

No; voglio ai sensi tuoi dolcezza opporre.

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elettra

Sia, parlerò. Del mio discorso tale
sarà l’esordio: oh, se piú onesto l’animo
tuo fosse stato, o madre mia! Ché lode
di bellezza avevate Elena e tu,
a buon diritto; ma la mente futile
d’entrambe le sorelle era, e di Càstore
non degna. Quella si lasciò rapire
di suo buon grado, e andò in rovina; tu,
al tuo sposo che primo era fra gli Èlleni,
morte infliggesti; ed il pretesto fu
che l’uccidevi a vendicar la figlia.
Però, quello ch’io so, non tutti sanno.
Pria che deciso il sacrificio fosse
della tua figlia, quando appena uscito
era lo sposo dal palagio, tu
allo specchio dinanzi, i biondi riccioli
della chioma aggiustavi; ed una femmina
che quando lungi è suo marito, cura
la sua bellezza, scrivila nel numero
delle malvage. E che bisogno ha mai
di parer bella fuor di casa, quando
non pensa a male? E per le donne ellène
io solo questo so: quando ai Troiani
arrideva fortuna, era una festa
per te: quando perdevano, aggrottavi
il sopracciglio: che il tuo sposo d’Ilio
piú non tornasse, tu bramavi. Eppure,
quali opportunità non ti s’offrivano
di rimanere onesta! Oh, ma d’Egisto
era da men lo sposo tuo, che gli Èlleni
aveano eletto loro duce. Ed era

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cagione a te d’acquistare alta fama
la colpa onde fu rea la tua sorella
Elena: il vizio, col suo triste aspetto,
mette in rilievo la virtú dei buoni.
— Il padre, dici tu, la figlia uccise.
Ma io, ma il fratel mio, che torto dunque
t’abbiamo fatto? E perché, quando ucciso
lo sposo avesti, a noi la casa avita
non consegnasti, e l’altrui ben recasti
al drudo tuo, per conquistare a prezzo
le nuove nozze? Ed esule il tuo sposo
per l’esilio d’Oreste ora non va,
morto non è, per espiar la morte
mia: ché, se morta è pur la mia sorella,
ei due volte, sebben viva, m’uccise.
E se l’eccidio vendicar l’eccidio
deve per giusta legge, Oreste, il tuo
figliuolo, ed io, per vendicare il padre
dovremo uccider te: se fu giustizia
la tua, sarà giustizia anche la nostra.
Oh, stolto l’uomo che, prezzando troppo
ricchezza e nobiltà, sposa una trista
femmina: meglio delle illustri nozze
giova una moglie onesta avere in casa.

corifea

Gli uomini a caso scelgono le mogli:
uno ha prospera sorte, ed uno avversa.

clitemnestra

Del padre amica, o figlia mia, per indole
tu sei. Cosí succede. Alcuni tengono

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dall’uomo, ed altri amano piú la madre.
Ma ti perdóno. Lieta esser di come
ti comporti con me, non posso, o figlia.
Ma cosí, senza bagno, e in vesti misere,
figlia ti trovo, quando sei puerpera,
fresca di parto. Oh me misera, quanto
male avvisata fui! Troppo oltre il segno
mi spinse l’ira contro il mio consorte.

elettra

Tardi tu gemi, quando non c’è farmaco.
Ma perché dall’esilio il figlio tuo
tu non richiami, che fuggiasco vive?

clitemnestra

Temo. A me piú che a lui provvedo; e in furia
è per l'eccidio di suo padre, narrano.

elettra

Come il tuo sposo è contro noi, si dice.

clitemnestra

È l’umor suo. Non sei tu pure acerba?

elettra

Perché soffro. Ma l’ira io deporrò.

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clitemnestra

E anch’ei crudo con te piú non sarà.

elettra

Gran cuore sí. Ma nei miei tetti vive.

clitemnestra

Lo vedi? A nuove liti esca tu porgi.

elettra

Taccio. Come temer lo debbo, il temo.

clitemnestra

Basta. Ma di’, perché m’hai qui chiamata?

elettra

Notizia del mio parto avesti, io credo.
Della decima luna il sacrificio
offri pel bimbo, com’è l’uso: io pratica
non sono, ché finor non ebbi pargoli.

clitemnestra

Di chi raccolse il bimbo è questo il cómpito.

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elettra

Sola il parto affrontai, partorii sola.

clitemnestra

Tanto priva d’amici è la tua casa?

elettra

Nessuno vuole per amici i poveri.

clitemnestra

Allora vado, e il rito ai Numi celebro
per i giorni compiuti. E quando a te
questa grazia avrò resa, ai campi muovo,
dove alle Ninfe il mio sposo offre vittime.
Su, nei presepî questo carro, o servi,
alle greppie recate; e quando tempo
vi parrà che compiuto abbia il mio rito,
tornate: compiacer debbo il mio sposo.
I servi si allontanano col carro.

elettra

Entra nella mia povera capanna:
e bada, ché la volta affumicata
non imbratti il tuo peplo. Il sacrifizio
ai Dèmoni offrirai ch’essi pur chiedono.
Clitemnestra entra.

Pronto è il canestro, e affilato il coltello
che sgozzò il toro, presso cui cadrai

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tu pur colpita: anche in Averno sposa
sarai dell’uom che concubina t’ebbe
pur nella vita. Io tale grazia a te,
tu darai tal compenso al padre mio.
Entra anch'essa.

Note

  1. [p. 282 modifica]Uno di Ftia, un coltello di Ftia, nella Tessaglia, ed è noto che i Tessali erano rinomati come bravi trinciatori di buoi.
  2. [p. 282 modifica]Una fanciulla invasa Menade, cioè Cassandra.