Ettore Fieramosca/Capitolo XV

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Capitolo XV

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Capitolo XV.


Al pian terreno, nella sala maggiore, che tutte le antiche rocche avevan per ritrovo degli uomini d’arme, era stato eretto un teatro formato all’incirca come i moderni, salvo che in quel tempo il sipario in vece d’alzarlo, s’usava lasciarlo cadere nel luogo ove oggi si tiene l’orchestra. Da una città vicina del littorale era stata chiamata una compagnia di comici ambulanti che, dopo aver passato il carnevale in Venezia, veniva da città in città rappresentando drammi e commedie per ritrovarsi poi a Napoli per le feste di S. Gennaro, od a Palermo per S. Rosalia. Dovendo ora comparire innanzi ad un’adunanza così scelta, s’era preparata con ogni studio, onde lo spettacolo riuscisse gradito. Appena fatto notte, s’allogarono gli spettatori, e tosto fu dato ordine d’incominciare. Mandata giù una gran tela che serviva di sipario, apparve un palco, sul quale, da un lato si vedea un portico ricco di colonne e di statue, e che mostrava esser l’ingresso di una reggia, sulla cui porta era scritto a lettere d’oro: Terra di Babilonia, e sotto di esso seduto su un trono ed attorniato da’ suoi baroni un re collo scettro d’oro in mano, vestito alla foggia d’Oriente, con un gran turbante coperto di gemme, e sovr’esso la corona: nel mezzo una spiaggia di mare, e dall’altro lato sotto un’alpestre montagna, piena d’alberi e di rupi, era scavata una caverna, dalla quale un dragone usciva di tempo in tempo facendo vista di guardare una pelle d’ariete coi velli dorati molto rilucente, che stava appesa ad un albero vicino.

Accanto al re, su un trono minore, stava una [p. 202 modifica]donna alta, complessa, di bella faccia, vestita di raso rosso con due braccia di strascico ed un capperone di velluto nero alla francese; un falcione accanto ad uso di storta, ed in mano un libro ed una verga; era Medea.

Poco stante comparve sul lido una nave, dalla quale scesero molti giovani, in abito di soldati, e fra questi uno bellissimo, tutto coperto a piastra e maglia, salvo che il capo: era Giasone; due giovani mori gli portavano l’elmo e lo scudo.

Venuto avanti, e fatta riverenza al re, cominciò costui una parlata in versi ottonarj, che forse non sonarono troppo bene all’orecchie di Vittoria Colonna, come non soneranno a quelle de’ miei lettori, e che cominciava così:

Di cristianità venemo,
Argonauti se chiamemo,
Al soldan de Babilonia,
Che Dio salvi sua corona.

e seguitando su questo metro diceva com’eran venuti per riportarne con loro il vello d’oro. A queste parole il re Oeta, dopo aver tenuto consiglio coi suoi baroni e colla figlia, rispondeva che era contento, e partendo lasciava sola Medea con Giasone. Questi cominciava tosto a vagheggiar la donna, e domandandole il suo ajuto, le prometteva di condurla in cristianità, dove l’avrebbe fatta sua sposa e gran regina. Medea si lasciava facilmente piegare e gl’insegnava certi incanti co’ quali addormentare il drago, raccomandandogli sopra ogni cosa che se voleva poterli usare, non nominasse santi, nè facesse segni di croce, le quali cose li avrebber guastati. Come fu partita, Giasone volto ai compagni diceva non essere opera di buon cavaliere combattere con incanti, e perciò voler prima tentare di vincere il drago colle armi, e [p. 203 modifica]ponendo mano alla spada, coprendosi collo scudo che uno degli scudieri gli avea presentato, mentre l’altro gli allacciava l’elmo, veniva ad assalire il drago. Ma questo uscendo dalla caverna e vomitando fiamme si difendea così bene che, dopo una battaglia di pochi minuti, Giasone dovette rinunziare all’impresa. I suoi compagni allora con molte preghiere l’esortavano a servirsi degli incanti, ed egli così facendo riusciva ad assopire il dragone, e spiccava il vello senza contrasto. Ciò fatto ritornava Medea sollecitando tutti per riporsi in nave con essolei: si udiva allora nella terra dar nelle trombe e sonar cembali, chiarine ed altri stromenti moreschi. Poco dopo usciva un giovane a cavallo in abito saracino a sfidar Giasone, che accettava l’invito ed in pochi colpi l’abbatteva, e mentre volea salire in nave co’ suoi, sopraggiungendo Oeta colla sua baronia, e vista fuggir la figlia e a terra morto il figlio Absirto, ordinava che s’impedisse agli Argonauti di partire. Medea allora cominciava i suoi incanti: l’aria si faceva oscura, e molti uomini stranamente vestiti in sembianza di demoni scorrendo colle fiaccole finivano coll’incendiar Babilonia, e portar con loro il re e tutti i baroni, nel tempo che si scorgeva in fondo gli Argonauti andarsene liberi al loro viaggio. Così finiva il dramma. Quelli fra i nostri lettori che troppo s’invanissero della squisitezza de’ moderni teatri, considerino che il talento, col quale oggi si sa in certi spettacoli cavar gli applausi degli spettatori, e che consiste nel disporre le cose in modo che finiscano sempre con qualche incendio o qualche rovina, o coll’Olimpo, o col Tartaro, non è nuovo nella nostra età, ma serviva già le scene, ed era apprezzato dal pubblico del millecinquecento. La compagnia alla quale si poneva innanzi questo spettacolo, benchè composta in parte di persone non [p. 204 modifica]prive di coltura, ne fu contenta, o almeno mostrò di esserlo, e per verità da comici di quella portata, ed in un luogo come quello in cui si trovavano, fu fatto anche troppo. Ma un’altra porzione fra gl’invitati alla festa, cui per la loro condizione inferiore non veniva permesso di frammischiarsi ai nobili e cavalieri, godeva intanto d’un altro simile spettacolo che le era stato preparato in cortile, e certamente con ischiamazzi e grida dava segni di una più viva approvazione. Alcuni soldati spagnuoli avevan dimandato ed ottenuto la licenza di recitare anch’essi alla meglio una loro commedia nazionale; ed accomodato in un angolo del cortile un luogo con tavole e tele in foggia di teatro, da molti giorni s’erano andati esercitando, ingegnandosi ognuno d’imparare e portar bene la sua parte; ed avean messa insieme una commedia carissima agli Spagnuoli intitolata Las mocedades del Cid, che letteralmente significa le ragazzate del Cid, e più propriamente la sua giovinezza: dopo questa, se avanzava tempo, dovean recitare un Saynetes a guisa di petite pièce, come soglion chiamarle i Francesi. Mentre cominciava in castello l’azione drammatica che abbiam descritta, ebbe principio anche il secondo teatro, e l’udienza era numerosissima, composta di capi squadra, uffiziali, soldati, di molti abitanti, bottegai, e d’infinito popolo minuto. L’aristocrazia di questa adunanza sedeva assai comodamente presso al palco, ed a mano a mano che i raggi della folla si scostavano da questo centro si trovavan sempre individui di più basso stato, e di più povera apparenza, finchè si giugneva agli ultimi che erano monelli, e cenciosi di strada. L’ingresso del cortile era aperto a tutti, perciò la folla era grandissima, e se tutti egualmente per la situazione diversa non potevan godere del divertimento, quelli che ne stavan lontani si rifacevano collo schiamazzare, e cacciar urli e fischi che dai [p. 205 modifica]più vicini al palco eran uditi con segni di sdegno, ed inutilmente repressi con dei zitto lanciati or da un angolo or da un altro, e che invece di servir di freno, eran piuttosto di stimolo ai perturbatori. Fra tanta gente intesa a darsi buon tempo, s’aggirava un uomo che, non ostante la sua povera apparenza ed il vestire dimesso, avea un viso ed un portamento che non permetteva di confonderlo colla rimanente turba, e nel suo aggirarsi irrequieto e sollecito mostrava che il fine che qui lo conduceva era tutt’altro che quello di divertirsi. Quest’uomo era Pietraccio, che venuto sin qui senza ostacolo per ammazzare il Valentino e per avvertire Fieramosca del pericolo di Ginevra, trovandosi ora in mezzo a tutta questa confusione, rimaneva perplesso, conoscendo con quanta difficoltà gli sarebbe venuto fatto di trovar le persone che cercava. Stupirà forse il lettore che un assassino condannato nel capo ardisse venire in città ed esporsi ad esser preso; e certo nel modo onde è composta in oggi la società sarebbe grave imprudenza. Ma gli uomini di quel tempo non avevano come noi leggi ed ufficiali di polizia tutti intesi a vegliare alla loro tranquillità, e Pietraccio ora che la stretta, nella quale s’era messo ammazzando il podestà, era passata, poteva star sicuro in Barletta (tanto più essendo notte) come sarebbe stato in mezzo alle macchie fra suoi. Ma qualunque sia la difficoltà dell’impresa ch’egli tenta è troppo avvezzo a trarsi d’impaccio, e troppo bramoso di sfogare la sua vendetta, per non trovar modo di superare ogni ostacolo: lasciamone il pensiero a lui, e torniamo piuttosto ai principali attori della nostra storia. Le due ore di notte non erano molte lontane, quando finito il teatro, ritornò la comitiva nella sala ove aveva pranzato, la quale cambiata ora negli addobbi era destinata al ballo, e tutta splendeva d’infiniti lumi di [p. 206 modifica]cera disposti intorno in gran candelabri, e nel mezzo in bellissime lumiere che pendevano dalla vôlta. L’orchestra, come al tempo del pranzo, stava sulle logge aperte in giro su in alto a due terzi dello spazio fra il pavimento ed il cornicione: oltre i sonatori, che ne tenevano solo un lato, vi s’era cacciata ogni sorta di gente di minor conto per essere spettatrice d’un divertimento al quale non potea prender parte. Consalvo co’ suoi ospiti e le donne sederono sopra uno strato posto ove dal muro pendevano le bandiere, ed il duca di Nemours alzatosi poi, tosto che fu piena la sala, e pregata D. Elvira, incominciò la danza. Com’ebber finito, e la giovane fu tornata al suo luogo, Fieramosca, volendo anche in questa occasione mostrarsi cortese, venne ad offrirle la mano scusandosi anticipatamente sulla sua imperizia. La proposta fu accettata con visibile allegrezza; si unirono molt’altre coppie, e Fanfulla fra gli altri, non potendo aver D. Elvira, scelse fra le molte donne di Barletta che si trovavano alla festa una che gli parve più leggiadra, e fece di situarsi in modo che in quella che chiameremo contraddanza, si trovasse accanto ad Ettore ed alla sua compagna. Lo studio, col quale coglieva a volo tutti gli atti e le parole di D. Elvira, non dovette troppo riuscirgli grato: negli sguardi tremoli della giovane spagnuola si leggeva quanto le andasse a versi il suo compagno, ed il suono degli stromenti, il moto, il prendersi per la mano spesso, e quella licenza che il ballo mette anche fra persone che in altre circostanze si tratterebbero a vicenda col maggior riguardo, avea prodotto nella figlia di Consalvo un’esaltazione di fantasia che poteva reprimere a stento. Ettore e Fanfulla se ne accorgevano egualmente; il primo ne provava rammarico, il secondo dispetto; e sempre, o con mezze parole o con occhiate d’intelligenza [p. 207 modifica]tribolava Fieramosca, il quale non amando tali scherzi teneva un contegno serio, ed in parte malinconico, interpretato dalla donzella a suo modo, e questo modo era molto lontano dal vero. Alla fine D. Elvira con quell’arrischiata imprudenza, che era tutta sua, cogliendo un momento che teneva Ettore per mano, si piegò verso di lui e gli disse all’orecchio: Finito questo ballo andrò sul terrazzo che dà sul mare; venite, che voglio parlarvi. Fieramosca colpito dolorosamente da queste parole che gli mostravan imminente un gravissimo intrigo, accennò col capo di sì, un poco mutato in viso, e senz’altra risposta. Ma sia che le precauzioni di D. Elvira nell’abbassar la voce non fossero state bastanti, o che Fanfulla troppo stesse sull’avviso, il fatto si è che anch’esso udì quelle malaugurate parole, e bestemmiando in cuor suo la ventura che toccava a Fieramosca e non a lui, diceva fra denti: Che non vi sia modo di farle costar cara a questa pazzerella? Ettore dal canto suo era combattuto da varii pensieri: non gli passava neppur pel capo di dar retta alle lusinghe della bella Spagnuola, prima per esser nel cuor suo troppo viva l’immagine di Ginevra, poi anche senza questo motivo avrebbe avuto senno abbastanza per non volersi dar buon tempo colla figlia di Consalvo: ed essa con siffatti modi non sarebbe mai stata tale da giungere al suo cuore, che non era Ettore di quelli, i quali in questo genere son sempre pronti ad afferrar l’occasione. Per un altro verso gli rincresceva di poter passare per iscortese, villano, e forse peggio, chè pur troppo fra le contraddizioni umane v’è quella di voler chiamar cattive certe cose, e sciocco, e dappoco nello stesso tempo chi non le vuol fare. Durante il resto del ballo andò sempre lavorando colla mente per trovar modo di salvar, come suol dirsi, la capra e i cavoli, e dopo aver molte volte mutato progetto, alla [p. 208 modifica]fine vedendo che il momento s’avvicinava, si dispose risolutamente a correr qualunque rischio prima di esporsi a far torto a Ginevra. E pensando ch’essa, mentre egli si trovava fra quelle feste, era in un povero chiostro in mezzo al mare, abbandonata da tutti e probabilmente col pensiero in lui, si struggeva d’aver avuto anche un momento altri rispetti maggiori dell’amor suo, e perciò, appena finito di ballar con D. Elvira sollecitò a levarsi da quel luogo, e, pensando metter per iscusa uno di quei mal di capo che servivano nel secolo XVI, come servono nel XIX in tante occasioni, si disponeva a lasciare il ballo ed andarsene a casa. I giovani, che avean preso parte a questa contraddanza, per esser più svelti e perchè tale era l’uso, s’eran tolto i mantelli che portavano sulla spalla sinistra, e gli avean tutti insieme deposti in una camera attigua rimanendo in giustacore e calzoni, per la maggior parte di raso bianco. Fanfulla ed Ettore eran vestiti di questo colore e somigliavan per la statura e per il sott’abito l’uno all’altro perfettamente; solo riprendendo i mantelli si sarebbe notata fra loro una differenza: Fieramosca lo portava azzurro ricamato d’argento, quello di Fanfulla era vermiglio. Ettore trovato Diego Garcia, lo pregava volesse scusarlo presso Consalvo e la figlia, se pel dolor di capo era obbligato partirsi, e s’avviò alla camera ov’era il suo mantello; quando fu presso a varcar la soglia, in un momento in cui avendo la folla fatto un poco di largo, egli si trovava non aver presso veruno, si sentì batter sulla spalla una leggera percossa come d’un corpo sodo che cadesse dall’alto, e guardandosi ai piedi ove era di rimbalzo caduto, vide una cartolina piegata che conteneva qualche cosa di grave. Guardò in su alla loggia d’onde pareva venuta, e vide che nessuno fissava lo sguardo in lui. — Stava per passar oltre; pure [p. 209 modifica]si chinò, la raccolse, e spiegatala vi trovò dentro un sassolino che vi era stato posto solo per darle peso, onde gettandola si potesse dirigere. Vi era scritto in modo grossolano ed appena intelligibile: «Madonna Ginevra debb’esser rapita di S. Orsola per volere del duca Valentino al tocco delle tre ore. Chi vi da quest’avviso v’aspetta con tre compagni al portone di Castello ed avrà una zagaglia in mano.» Un brivido scorse ad Ettore fin nelle midolle dell’ossa, e gli si raddoppiò ricordando che le due ore e mezzo eran già sonate all’orologio della torre da un pezzo. Non v’era un momento da perdere: pallido come un uomo che ferito a morte faccia gli ultimi passi e stia per cadere, in un lampo trovò la porta e giù a gambe per lo scalone si gettò a precipizio così come si trovava senza mantello e senza berretta, facendo restare maravigliati quanti s’imbattevano in lui, e correndo quanto poteva, giunse al luogo indicato con tanto impeto, che si dovette attenere per fermarsi al grosso anello di ferro del portone; l’arco dell’entrata era scurissimo; guardò ansando pel correre e per l’angoscia, quando, scostandosi dal muro contra il quale stava appiattato, venne avanti l’uomo della zagaglia. La partita di Feramosca dal ballo, così a furia, tanto mutato in viso, fu osservata da molti, ma non pensarono a seguirlo udendo da Garcia il motivo che ne era stato addotto da Ettore medesimo. Inigo però e Brancaleone, che più degli altri l'amavano, non potendosi così di leggeri soddisfare, gli tennero dietro, e quantunque non lo potesser raggiungere, l’ebbero però sempre in vista, e furono al portone pochi momenti dopo di lui. Trovarono Fieramosca che, afferrato Pietraccio, lo strascinava dicendo: Andiamo dunque, presto, presto. Vide i compagni e disse loro con gran prestezza: Se mi siete amici, venite meco ed aiutatemi contra quel [p. 210 modifica]traditore del Valentino; entriamo in un battello, siam sette uomini, saremo presto a S. Orsola. Brancaleone guardando sè ed i compagni rispondeva: E dove son l’armi? Diffatti nessuno di lor tre avea neppur la spada. Fieramosca dava in ismanie, batteva i piedi, cacciandosi le mani nei capelli e pareva presso ad uscir di senno. Allora Brancaleone, che al bisogno sapeva trovar parole e ripieghi, diceva: Tu Ettore va al mare con costoro, metti in ordine il battello e i remi ed aspettaci; e tu Inigo vien meco; e partì con lui correndo mentre Fieramosca gli gridava dietro: Presto, presto, son tre ore a momenti; e quantunque i suoi amici non intendessero nè il senso di queste parole, nè il motivo di tanta fretta, conoscendo che doveva esser cosa di gravissima importanza, entraron di volo nella casa dei fratelli Colonna e nella saletta terrena ov’eran l’armi, e spiccati dal muro giachi, elmi e spade per tre persone, con egual precipizio si cacciarono a correre, e l’ebber tosto raggiunto che già stava in barca: vi buttaron quelle loro armature e saltandovi dentro Inigo, ch’era rimaso l’ultimo, con un piede appuntato alla riva la spinse in mare, ed arraffati i remi vi si curvavan sopra, e li facevan piegar per lo sforzo. Uscendo dal piccol porto che era dietro la rôcca dovean passar sotto la torre dell’orologio; quando vi furono s’udì su dall’alto quello scattare che fanno le ruote poco prima di batter l’ore. Il povero Ettore si curvò nelle spalle abbassando il capo con un moto istantaneo, come se avesse aspettato che quella torre gli cadesse allora allora sul cranio; dopo alcuni secondi il campanone diede i tre tocchi fatali, e se ne udì il suono cupo che, perdendosi nell’aria in oscillazioni decrescenti, venne debolmente ripetuto da un eco lontano. Prima di veder l’esito del viaggio di costoro ci conviene per poco ritornare nella sala del ballo. [p. 211 modifica] Fanfulla, che il caso o la sua astuzia avea reso padrone del segreto di D. Elvira, s’era disposto in cuor suo di farselo fruttare, ma non sapeva trovarne il modo; finchè, vedendo partire con tanto impeto il suo preferito rivale senza mantello nè berretto, gli nacque un pensier pazzo, ed egli che mai non istava un momento in forse ove si trattasse di soddisfare un capriccio, che che ne dovesse venire, tosto più pazzamente si pose ad eseguirlo. Avea tenuto d’occhio la figlia di Consalvo e l’avea veduta, appena finito il ballo, avviarsi alla loggia e conobbe che non s’era potuta avvedere della partita di Fieramosca. Corse sollecito alla camera dei mantelli ove tutti avean ripreso il loro, e v’era rimasto soltanto oltre il suo quello di Fieramosca e la sua berretta di velluto scuro ornata di molte piume cadenti. Se la pose in capo in modo che le piume gli adombrassero parte del volto; sulle spalle si gettò il mantello azzurro del suo amico, e, a non guardarlo in viso, ognuno avrebbe detto che era Fieramosca. Così vestito s’andò fra gente e gente, cheto cheto sulla loggia, ove non eran lumi, e venivan soltanto dissipate le tenebre dal chiarore di quelli di dentro; molte casse d’agrumi disposte intorno ad una vaschetta, dal mezzo della quale zampillava l’acqua, ingombravano il luogo in modo che era facile celarsi da quelli che vi fosser venuti uscendo dalle sale del ballo. Quando Fanfulla entrò sulla loggia, per sorte non v’era persona, andò avanti cautamente, e vide D. Elvira seduta presso al parapetto che dava sul mare con un gomito appoggiato alla ringhiera di ferro; reggendosi ella il capo colla mano stava immobile guardando il cielo. La luna era oscurata in quel momento da alcune nuvolette che le passavano avanti spinte dal vento. Fanfulla conobbe che se non coglieva quel punto, tornando chiaro, sarebbe stato più probabile che fosse [p. 212 modifica]riconosciuto, s’accostò pianamente in punta di piedi a D. Elvira che non lo sentì finchè le fu vicino, e quando ella volse il capo per guardarlo, Fanfulla abbassando il suo con molta grazia e destrezza in atto di riverenza pose un ginocchio a terra, vicino a lei, e, presale la mano, v’impresse su le labbra, e seppe così ben fare che riuscì a celare il viso interamente, e la figlia di Consalvo non ebbe il più leggier dubbio ch’egli non fosse Fieramosca. Fece per ritrarre a sè la mano, e ciò secondo l’usanza di tutti i tempi, le fu con perdonata violenza vietato: quantunque l’indole di D. Elvira fosse capricciosa, leggiera e fatta a suo modo, vogliamo però credere che il trovarsi in un colloquio così stretto con un giovane le facesse provare un certo rimorso, e tremasse anche in parte pel sospetto di non venir ivi trovata dal padre o più ancora dalla sua severa amica. Un soffio di vento più forte tolse alla luna il velo che la copriva, e questa, essendo piena, rischiarò di un raggio limpidissimo tutto quel luogo, ed il fulgido vestire di Fanfulla e d’Elvira. Forse nessun de’ due se n’accorgeva, ma un grido acutissimo d'una voce femminile, che veniva dal piè della loggia alta poche braccia sul mare, li fece riscuotere, e, conoscendo che altre persone del ballo avendolo udito potevan uscir sulla loggia, sollecitamente tornarono per diverse parti nella sala, ove i pochi che avean posto mente a quel grido, distratti da altre idee, più non se ne curarono. Il primo era però stato seguito da un secondo più debole, e che morendo fra le fauci di quella che lo gettava, fu seguito dallo strepito sordo d’un corpo umano che cadde nel fondo d’un battello; ma la loggia era deserta; nell’interno tutti erano intenti alla festa, nessuno s’affacciò per vedere qual fosse la meschina che domandava soccorso. [p. 213 modifica] Mentre queste cose accadevano nella rôcca, la barchetta, che portava Fieramosca e i suoi compagni, spinta da sette uomini robusti volava ondeggiando sul mare alla volta del monastero lasciandosi dietro una lunga striscia di spuma. Brancaleone vedendo che Fieramosca non pensava che a buttarsi sul remo con quanto n’avea nelle braccia, disse risolutamente: Orsù, Ettore, non so dove ci conduca, ma per certo, non par cosa da motteggio, e se s’ha a far davvero finchè questi giachi sono in fondo alla barca ei vorranno giovar poco. Persuasi da queste parole si misero quell’arme attorno usando cautela che un solo per volta lasciasse il remo per vestirsene. Cintesi le spade ed allacciatisi in capo certi cappelli di ferro leggieri, si diedero a vogare con una nuova furia sempre ficcando gli occhi pel piano del mare se potessero scoprire i loro avversarj: Ettore, strada facendo, raccontò con interrotte parole per qual cagione gli occorresse il loro ajuto: videro in quella una barchetta poco lontana e si torsero a quella volta; ma all’avvicinarsele s’accorsero che era condotta da una sola persona che lentamente andava verso Barletta. Per non perder tempo si drizzarono di nuovo al monastero senza aver potuto chiarirsi della figura di quello che remigava. Inigo consigliava che s’andasse accosto se mai avesse saputo o visto nulla, ma Ettore nol permise; l’ora fissata era trascorsa; e appena poteva sperar di giungere in tempo. Eppure se avesse seguito il consiglio d’Inigo quante sventure avrebbero isfuggite? Il monastero di S. Orsola si veniva facendo più grande. Fieramosca si teneva gli occhi fitti, e vedeva tutte le finestre senza lume; a due tiri d’archibugio, ecco da manca venir un battello basso e lungo che andava come una rondine a fior d’acqua. Ettore, Inigo e Brancaleone dissero sotto voce e tutti insieme: Eccoli, e, voltata la prora a quella banda, raddoppiaron gli [p. 214 modifica]sforzi: l’altra barca, accorgendosi del loro disegno, si mise presto a fuggire; ma ai persecutori parve triplicato il vigore; visibilmente diminuisce lo spazio che separa i due battelli; già si possono udir le parole dall’uno all’altro; già Fieramosca alzandosi quanto può, senza lasciar il remo, scorge una donna stesa a poppa con due uomini che la guardano, e grida: Traditori! con un ruggito che rimbomba entro le mura del monastero. Andiamo, andiamo, voga, arranca, dicevan tutti insieme affannati e co’ denti stretti, ma già quasi colla propra toccano la poppa nemica. Ettore presto come il baleno lascia il remo, e colla spada in alto si lancia fra i nemici che spingendo l’arme innanzi l’aspettavano bene apparecchiati. L’urto, che dovette dar al suo battello per ispiccare il salto, lo fece rimaner addietro dall’altro, onde si trovò solo e ricevette nel busto e nel capo parecchi colpi, dai quali lo scamparono il giaco e la cervelliera. Ma già i suoi compagni, vedutolo in tanto pericolo, lo avevan raggiunto. Pietraccio che si trovava più vicino salta il secondo, ma non fu appena ove credeva trovare il Valentino, che un colpo di remo sul capo lo batte in terra tramortito. Inigo e Brancaleone sono accanto ad Ettore e combattendo in tanta strettezza spada a spada (e tutti la sapean maneggiare), ne essi potean molto nuocere ai nemici, e nè pure riceverne gran danno, avendoli di fronte ristretti nel fondo della barca; onde a vicenda si davano e si ribattevano colpi e stoccate con grandissima prestezza, ed in questa confusione facendo barcollare il battello andavano ora di qua ora di là a rischio di farlo rivoltare. I compagni di Pietraccio non avean potuto venir avanti a combattere, che il luogo non capiva più di tre uomini di fronte; ma non perciò furono inutili. Presero la donna rimasta a poppa, e di peso la portarono nella loro barca. Della qual cosa accortisi i tre [p. 215 modifica]combattenti (così consigliando Brancaleone sotto voce) pianamente si venner ritirando, e saltati a un tratto da questa nella loro, permisero agli altri di scostarsi. Ettore non si sarebbe così facilmente levato dal giuoco, se fra’ nemici avesse ravvisato il Valentino; ma non vedendolo, conobbe che in questo fatto aveva soltanto posto a rischio i suoi bravi, e gli parve troppo bassa impresa imbrattarsi nel loro sangue. Di più, visto che Ginevra era salva (almeno così stimava), credette miglior partito attendere a riconfortarla. D. Michele dall’altra si rose di vedersi rapire il frutto di tante brighe, e di non aver pensato nella prima confusione a metter la donna in salvo a prora; ma la cosa era fatta, e ben sapeva che voler ora tentare contra questi giovani bravissimi di riaver la sua preda, era un voler fare un buco nell’acqua. Ma lo sgherro del Valentino non avea però lasciata la sua sconfitta interamente senza vendetta. Mentre i tre compagni si ritraevano alla lor barca, gli era venuti stringendo colla spada nella diritta e ’l pugnale nella manca: ed a Fieramosca, che era rimasto l’ultimo, vibrò molti colpi, e nell’atto che scavalcava l’orlo gli venne fatto di pungerlo colla daga leggermente nel collo, ma nel calore della mischia Ettore non se n’avvide. Così scostatisi scambievolmente, gli uni seguirono il loro viaggio verso Barletta, e gli altri si drizzarono al monastero. La donna era avvolta in un lenzuolo. Fieramosca tutto ancora ansante la pose seduta meglio che potè, e liberatala dal panno che la copriva, invece di Ginevra trovò Zoraide svenuta: in tutt’altro momento avrebbe benedetto Iddio d’averla liberata, ma allora si trovava non aver fatto nulla quando credeva tutto finito. Che cos’era stato di Ginevra? Come trovava ora qui costei? Sospirò profondamente, battendosi col pugno la fronte, ed affrettando sè e i compagni (stupiti [p. 216 modifica]di non vederlo contento, poichè non conoscevan lo scambio), in pochi momenti si trovò nell’isola, e su per le scale in un lampo fu nella camera di Ginevra, trovò tutto aperto e tutto vuoto, e l’isola e il monastero in profonda quiete. Mentre usciva per cercar altrove qualche contezza, i suoi compagni giungevan nell’andito sorreggendo Zoraide che aveva ripreso gli spiriti e che alle premurose interrogazioni di Fieramosca non sapeva risponder altro se non che verso le tre ore era stata svegliata a un tratto da molti uomini, i quali, entrandole in camera, l’avean avvolta nel lenzuolo e portata con loro in una barca, e d’altro non si ricordava: che di Ginevra non sapeva nulla, non avendola veduta dalla metà dello scorso giorno, in cui essendosi accorta che stava sopra di sè, malinconica, aveva creduto bene di non darle noja, ed all’ora solita era andata a letto senza cercar di lei. Tutta questa storia Ettore l’ascoltava in piedi, cogli occhi fitti in Zoraide, ed alla fine delle sue parole si veniva a mano a mano mutando in viso facendosi pallido ed infossando le gote; all’ultimo dovette sedere, e facendo forza per rialzarsi, le ginocchia gli mancavano. Uno di loro intanto era andato a picchiare alla porta del chiostro, e fatto risentir Gennaro, ritornava col lume. Brancaleone ed Inigo rimaser colpiti all’aspetto di Fieramosca cambiato in pochi momenti da metter spavento, e l’attribuirono alla fatica ed all’angoscia dell’animo. Tentò la seconda volta di rizzarsi, ma le forze l’aveano abbandonato interamente; e ricadendo col capo in dietro sulla sedia disse con voce alterata: Brancaleone! Inigo! io mi sento il maggior male ch’io avessi mai, e non sono da tanto che potessi alzar una penna, non che la spada: il tempo vola, e che cosa sarà di Ginevra? Potessi ritornar gagliardo un’ora!... e poi esser fatto in polvere.... Vi prego, carissimi compagni, non tardate un momento.... [p. 217 modifica]andate voi.... neppur so dirvi dove.... ma tornate a Barletta, cercate, liberate costei, trovatela in tutti i modi. Dio eterno, ch’io non possa far un passo per lei!..., e volle riprovare, ma non gli fu possibile, e di nuovo pregò più caldamente i compagni che lo lasciassero e corressero ad ajutar la donna; ed aggiunse tante istanze che coloro conoscendo non esser tempo da perder in consigliarsi, promettendogli di tornar presto con qualche nuova, lo lasciarono; e, messisi in mare con egual prestezza, si dirizzarono alla città. Zoraide intanto tutta sollecita si dava da fare, per soccorrere il suo liberatore, con parole ed atti pieni di tenera amorevolezza, e slacciatogli l’elmo s’affannava a sfilargli il giaco di maglia: quando vi fu riuscita, nell’asciugargli la fronte e ’l collo dal sudor freddo che ne grondava, s’accorse della ferita che aveva toccata poco sotto il collarino della camicia. — Ohimè! sei ferito! — gridò, e tosto con un panno tergendo il poco sangue che era uscito, e che, nascondendo la ferita, la facea parer maggiore, si racquetava vedendola così leggera, e diceva: — Oh non è nulla! è una scalfittura; ma riguardando poi più attentamente col lume, vedeva intorno alla ferita formarsi come una rosa d’un rosso pavonazzo, ed osservando il viso di Fieramosca vi scorgeva negli occhi e sulle labbra nascere un certo livido, le mani e le orecchie color di bossolo, fredde ed irrigidite. Per esser nata e vissuta in levante, avendo pratica di trattar ferite d’ogni specie, tosto le nasceva il sospetto che il pugnale fosse avvelenato. Pregava il giovane a porsi sul letto, e reggendolo, non senza fatica, riusciva a farvelo salire; tastandogli il polso lo sentiva batter lento lento e come imprigionato. Ma le pene del corpo eran nulla per Fieramosca a petto delle idee angosciose che a mano a mano gli s’andavano moltiplicando presentandosi alla sua mente [p. 218 modifica]sotto forme sempre nuove. I casi accaduti in quella sera, ed il pericolo di Ginevra non gli avean lasciato fin allora pensare ad altro che ad essa; ma come al condannato l’ultima notte della sua vita se può aver qualche ora di sonno, nello svegliarsi gli piomba tutt’a un tratto sul cuore l’idea della morte imminente, nello stesso modo, appena potè Fieramosca risentirsi dallo sbalordimento in cui era, gli sovvenne della sfida, del giuramento prestato di non esporsi a rischi di riportar ferite; pensò della vergogna che era per incontrare mancandovi, del dolore di non poter alzar la spada coi suoi compagni; dello scherno che farebbero i Francesi di lui, del perduto onore italiano; e queste immagini tutte insieme lo saettarono di tanta forza nella parte più sensibile del cuore, che tutti i muscoli del suo corpo si contrassero con un moto convulsivo, e gli uscì dal petto un sospiro così amaro, che Zoraide balzò in piedi sbigottita domandandogliene la cagione. Ettore esclamava: — Io son vituperato per sempre! La sfida, Zoraide, la sfida! (si batteva col pugno la fronte) mancano pochi giorni, e mi sento ridotto di qualità, che non potrei tornar gagliardo neppure in un mese. Oh Dio! per che gran peccato mi tocca questa sciagura! La giovane a queste parole non sapeva che rispondere, ma probabilmente più che alla battaglia pensava al presente pericolo di colui che tanto le stava nel cuore; pericolo che la sua esperienza le mostrava ogni tratto divenir più grave. A quel momento d’orgasmo aveva con un subito passaggio tenuto dietro una specie di letargo: era caduto supino, la testa rovesciata sul guanciale, più pallido che mai; il batter delle vene del collo si mostrava convulso, e, guardando Zoraide la ferita, trovò il rosso attorno cresciuto quasi d’un dito. Ed Ettore pur seguitava a dolersi, e diceva: — Ecco [p. 219 modifica]il campione dell’onore italiano! ecco il glorioso fine della battaglia, delle braverie e dei vanti che n’abbiamo menati! eppure in faccia a Dio, dov’è il mio delitto? potevo fare altrimenti che non ho fatto? Ma queste ragioni eran ben lungi dal recargli sollievo, e pensava; — E a chi racconterò questa storia? a chi dirò le mie ragioni? ed anche dicendole non parrà vero ai nemici poter fingere di non crederle, e dire: Ettore immaginò queste ciance perchè avea paura di noi. Mentre con queste immaginazioni s’agitava la mente, il veleno pur troppo innestatogli dal pugnale di D. Michele faceva progressi serpendogli per le vene che si diramano sulla superficie del cranio, e a gradi a gradi si sentiva intorbidare la vista ed il lume dell’intelletto con uno stiramento alle tempie pel quale gli pareva veder tutti gli oggetti prima traballare, poi dar volte sempre più rapide, sparse di punti lucidi che l’abbagliavano. Zoraide gli stava ritta accanto guardandolo tutta sgomentata e tremante, ed Ettore le teneva in viso gli occhi aperti e fissi. E con quella vacillazione di sensi, al debole chiarore del lumicino che andava morendo, vedeva progressivamente scomporsi le fattezze della giovane e i suoi lineamenti mutarsi in quelli di La Motta: questa larva stirando gli angoli della bocca formava un riso amaro e spaventevole; andava ingrossando e dilatando le labbra, e n’usciva la forma di Grajano d’Asti, che da piccolo a poco a poco cresceva, e spalancate anch’esso le fauci in egual modo, produceva la pallida sembianza del Valentino: così queste forme nascendo l’une dall’altre presentarono come una fantasmagoria di quei personaggi che dovevano a quell’ora star più spiccatamente dipinti nella mente dell’infermo. Fra l’altre venne anche l’immagine di Ginevra alla quale, chiamandola a nome con parole caldissime d’amore, diceva: Lasciarmi morir così! io che t’amai [p. 220 modifica]tanto! levami di questo pozzo.... toglimi queste tarantole che mi strisciano sul viso.... ed altre tali vane parole, al fine delle quali tutte le figure che credeva scorgere si vennero confondendo insieme, formarono dapprima una tinta unita, rossa e tremola come un lampeggiar prolungato, che poi oscurandosi e perdendosi gradatamente si estinse del tutto quando le facoltà morali e corporee del giovane furono interamente sospese.