Ettore Fieramosca/Capitolo XIV

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Capitolo XIV

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Capitolo XIV.


Mentre Ginevra in quest’angoscia desiderava e temeva che si facesse notte, Pietraccio nascosto nella legnaja sotto le camere di lei, l’aspettava con sospetto ed impazienza, sperando che a sera fosse per venire ad insegnargli il modo di scampare senz’esser veduto.

La finestra che dall’alto gli mandava un po’ di lume, era posta al di fuori di terra e rispondeva in un luogo abbandonato sulla parte di dietro del monastero, ingombro di rovi e d’ortiche, dove non era apparenza che potesse capitar persona: si sbigottì il malandrino udendo passi che si venivano avvicinando fra quelle frasche, e molto più gli crebbe la paura vedendo fermarsi presso la finestra un uomo che tosto riconobbe. Era il Conestabile della torre. Avrebbe voluto meglio appiattarsi fra certe fascine, ma il timore che le foglie secche non lo tradissero lo tenne fisso nel luogo ove stava studiandosi di rattener persino l’anelito, ed udì perciò benissimo le parole che passarono fra il Conestabile e chi era seco.

— Ecco qua, cominciò Martino, quella finestra al primo piano dov’è la gabbia col vaso di fiori, come vedete, anche senza scala per la ferrata della finestra del piano terreno vi si sale senza fatica. Bene... quando siete su, vi trovate in un andito con molte porte, ma tenete bene a mente, la prima a mano manca è la camera di Madonna. Poi già non c’è altra gente in foresteria. A un’ora di notte tutte le monache sono a letto; se sapete fare, potete venir qui verso le tre ore, e portar via la forestiera ed esser già un miglio in mare prima che pensino ai fatti vostri: i cani li chiuderò. Agli [p. 188 modifica]uomini miei ho dato licenza, e vi so dire che chi li vorrà stanotte, dovrà cercarli per l’osterie di Barletta. Così siete serviti; ma badate, e ditelo a quel vostro diavolo di compagno, che badi a fatti suoi, e che non fo conto di perder la provvisione che mi dà la badessa, per quei pochi fiorini; perciò operate con giudizio, che, se la cosa finisce male, ho già pensato il modo di buttar la broda addosso a voi altri, ed aver le spalle al muro. Patti chiari, amici cari.

Boscherino, al quale era diretto tutto questo discorso, tirando leggermente al Conestabile la punta d’un mustacchio, gli disse, scuotendo il capo:

— Per buttar la broda addosso a quello che fa far quest’impresa, troppo l’avresti a buttar alta, e ci vuol altro braccio che il tuo. E ringrazia S. Martino che il castello di Barletta è lontano, ed un tale che è là non t’ha potuto sentire, che ti so dire siamo in aprile e ti farebbe parer gennaio. Dà retta a me, fratello, di tutto questo fatto, vada bene vada male, meno ne parlerai, meglio sarà per te.

Martino che era stato al desinare dato da Consalvo in Barletta, e v’aveva bevuto in modo che si sentiva in petto un cuor di leone, rispose senza sbigottirsi:

— Ed io vi ripeto che non ho una paura al mondo; e se mi son piegato a farvi questo servizio, l’ho fatto più perchè tra soldati s’usa così, che per quei pochi ducati; e non mi sento di romper il collo e perder il pane per chi non conosco: così ve lo dico chiaro; abbiate prudenza, che se siete scoperti saprò come fare a discolparmi; e di quegli che fa far quest’impresa, sia che si vuole, quando sono nella mia torre, me ne rido. Onde siamo intesi; addio.

Ciò detto, se n’andò verso la torre, lasciando che Boscherino avesse agio a considerar bene il luogo: questi lo lasciò scostare guardandogli dietro con un sorriso di compassione, e poi non si potè tenere che non [p. 189 modifica]dicesse con voce abbastanza alta per essere udito da Pietraccio:

— Povero asino! Guarda chi si vuol metter con Cesare Borgia! Avresti proprio trovato chi ti leva la sete col presciutto! Già è il vin d’Alicante che discorre per lui.

Quest’ultime parole, non meno che tutto il dialogo antecedente, con somma attenzione udite ed intese dall’assassino, erano bastate per fargli conoscere in somma, che per commissione del Valentino si stava combinando il ratto della sua protettrice, e che il duca si trovava nella rôcca di Barletta. Si può credere senza far torto a Pietraccio che l’intenzione di difender la donna non fosse il suo primo pensiero: che cosa sapeva egli di gratitudine? Ma la speranza di poter far andar a monte un’impresa del maggior nemico suo, e di sua madre, un’altra speranza più atroce di potersi forse imbattere in lui tra la folla e il disordine della festa, ed ammazzarlo, gli fece ribollir il sangue di gioia, e quando Boscherino dopo non molto se ne fu andato, s’alzò dal luogo ove stava e, cavatosi di seno il pugnale sottile ed acuto che gli aveva dato D. Michele, coll’estremità dell’indice ne tentava la punta stringendo i denti e facendo l’atto di chi mena un manrovescio; poi pensava in qual modo potrebbe di qui condursi salvo a Barletta.

Suonò l’ave maria al monastero: dopo una mezz’ora, risalito piano piano, aprì la porta e guardandosi intorno vide che tutta la spianata era deserta; ma per condursi alla terra ferma non ardì passar sotto la torre nè per il ponte; e conoscendo che il tratto di mare che era fra l’isola ed il lido gli offriva una strada più sicura (erano qualche cento braccia), scese per la scaletta, e giunto all’acqua e spogliatosi, fece de’ suoi panni un fardelletto che si legò in capo, e poi messosi a nuoto, in pochi minuti senza esser veduto nè sentito [p. 190 modifica]si trovò sull’arene della spiaggia. L’aria era quasi oscura, così senza sospetto asciugatosi in fretta e rivestito prese con passo veloce la via della città.

Diego Garcia di Paredes ebbe appena dato sesto alla quistione che la mirabil prova contro il toro avea fatto nascere fra esso e i Francesi, che si ricordò d’aver avuto da Consalvo un incarico d’importanza, ed uscì frettoloso dell’anfiteatro. L’incarico era di aver l’occhio agli apparecchi del grandissimo desinare che dovea farsi in castello; come il tempo stringeva fu tosto in cucina, ed avendo ancor viva la stizza che gli era montata alle parole di La Motta, l’apparir suo fra i cuochi ed i famigli che s’affannavano intorno alle vivande, fu quello d’un uomo che non è disposto a passar sopra a nessuna colpa od inavvertenza de’ suoi soggetti.

— E così? disse, fermandosi sulla porta colle braccia intrecciate al petto, saremo presto in ordine? manca poco meno d’un’ora a dar in tavola.

Il capo de’ cuochi, omaccione grande e grosso, stava al tavolone di mezzo ponendo cacciagione allo spiedo con quella faccia burbera che hanno tutti i suoi pari in simile circostanza, anche quando tutto cammina in regola: esso poi aveva altra maggior cagione d’arrabbiarsi; eran mancate le legne, ed oltre che, non potendo coll’istessa misura continuare i fuochi, veniva a soffrire la cottura delle vivande, v’era il pericolo maggiore di non aver in ordine il pranzo per l’ora fissata, e non poterlo mandar in tavola nè ben nè male, e chi conosce quanto sia geloso l’onor d’un cuoco, potrà figurarsi in che situazione d’anima fosse quegli cui dirigeva lo Spagnuolo la sua interrogazione. Non avrebbe risposto al papa in quel momento, ma a Paredes bisognava rispondere.

Alzò il capo e scuotendo in pugno lo spiedo diceva: — Il diavolo ci ha messe le corna, signor [p. 191 modifica]D. Diego; il diavolo dell’inferno... questo traditore di maggiordomo m’ha lasciato mancar le legneǃ Ho mandato quanti di questi poltroni ho potuto levarmi d’attorno, che ne trovassero dove si poteva, ma voglion esser morti tutti, che non compare più nessuno! e finì le parole dando quel sospiro o vogliam dir ruggito di chi non ne può più.

— O legne, o non legne, cominciò a gridar Paredes, Voto a Dios, che se non sei in ordine per l’ora fissata... majadero; harto de ajos... e venne sfilando la corona di molte simili ingiurie in ispagnuolo dirette al cuoco, il quale non potè sopportar tanto che non rispondesse:

— O Eccellenza! insegnatemi come senza fuoco si può cuocer la carne....

Diego Garcia non era di quei tali forti che vanno in collera contro un debole perchè ha ragione; perciò la risposta del cuoco bensì alla prima gli accrebbe la stizza, ma poi tosto conoscendo che non aveva il torto, disse:

— E questo ladro di maggiordomo dove si è cacciato? e senza aspettar risposta voltategli le spalle risalì in cortile, e gridava come un tuono: Izquierdo, Izquierdo, Maldito de Dios....!

Izquierdo era corso alla legnaja più vicina, e, caricati certi asinelli ajutato dai garzoni del cuoco, se li cacciava dinanzi a bastonate, ed entrava nel cortile quando sentì la voce che lo chiamava, e raddoppiò le legnate per far che la colpa del ritardo cadesse almeno in parte sui poveri asini; e Dio sa se ci avevan che fare!

Giunto a Paredes cominciava a scusarsi, ma questi l’interruppe.

— Animo, presto, meno ciarle, giù quelle legne, o ve le misuro sul capo.

Per andare alla cucina dal cortile, si salivano [p. 192 modifica]prima tre gradini, poi per un passaggio oscuro si giugneva ad un cortiletto, nel mezzo del quale eravi un vano attorniato da un muricciuolo; si scendeva in quel fondo, dove s’apriva l’uscio della cucina, per una scala a chiocciola laterale, e Garcia batteva i piedi d’impazienza, vedendo quanto dovean penare quegli uomini a portar giù le legna a bracciate. Visto che la cosa andava, a parer suo, troppo lenta, preso dalla furia, si chinò sotto il ventre d’uno di quegli asini, ed alzatolo di peso colla soma, afferrate le gambe d'avanti e di dietro come fosse un capretto, lo portò all’orlo di quel muricciuolo, e lo scaricò giù in un fascio, le legne sotto e l’asino sopra, a gambe per aria: e tornato col medesimo furore al secondo ed al terzo fece lo stesso giuoco, onde si vedeva sottosopra in quel fondo non molto largo, un monte di legne, e musi e orecchie e gambe di asini tutti pesti e scorticati che scalpitavano, e que’ garzoni spaventati che si davan da fare a liberarli, prender le legne e buttarle in cucina; ed il furore di Diego Garcia invase persino il cuoco che uscendo ajutava ancor esso, pur guardandosi sul capo di tempo in tempo per vedere se ancor seguitasse la pioggia degli asini, onde aver campo a schivarla; in un baleno le braciajuole de’ cammini furon provviste, e l’impulso dato così stranamente da Paredes fu tanto possente che ogni uomo faceva per tre. Com’ei si fu accertato che le cose andavan bene, scuotendosi d’indosso la polvere e non restando di brontolare, s’avviò a casa sua per rivestirsi, e trovò il cortile pieno della brigata che tornava dalla giostra. Consalvo, il duca di Nemours, le donne e i baroni erano giunti in tempo per vedere l’ultimo di questi asini sulle spalle di Diego Garcia, ed udito come stava la cosa, tutti ridendo e motteggiando diedero il passo al barone spagnuolo, e salendo nelle stanze preparate per la festa rimasero aspettando l’ora di porsi a tavola. [p. 193 modifica]

Nella sala d’ingresso che dava adito alle camere di Consalvo, lunga cento passi andanti, era stata disposta una gran tavola a ferro di cavallo che la girava tutta e poteva servire a circa trecento convitati: nel lato più lontano dalla porta, ed al sommo della parte convessa di questa tavola, erano quattro seggioloni di velluto e frange d’oro per il duca di Nemours, Consalvo, D. Elvira e Vittoria Colonna. Sul loro capo pendevano dalla parete i gonfaloni di Spagna, le bandiere della casa Colonna ed i pennoni dell’esercito tramezzati di trofei composti de’ più ricchi e lucenti arnesi con vaghissimi pennacchi sugli elmi, e tante gale e tante gioje ch’era un tesoro. Da certi buchi lasciati nella tavola, che era larga convenientemente, uscivano ad uguali distanze arbusti d’aranci, mirti, giovani palme, pieni tutti di frutti e fiori, ed un’acqua chiara e fresca condotta per tubi sottili, zampillando di sotto fra quelle frondi, ricadeva in vaschette d’argento, dove guizzavano pesci di cento colori; su pei rami di quegli arboscelli svolazzavano uccelletti, i quali, senza che apparisse, vi stavan legati con crini di cavallo, ed essendo cresciuti in gabbia e domestici, cantavano senza temere la vista o il romore di quella compagnia. Una credenza, grandissima, rimpetto al luogo destinato ai primi convitati, era carica di vasellame d’argento e di larghi piatti di lama battuta, lavorati a disegni arabeschi in rilievo, e nel mezzo, davanti a questa, un sedile piuttosto alto ove il maestro di sala colla sua bacchetta d’ebano dovea stare accennando ai camerieri ed ai famigli. Nello spazio poi in mezzo al ferro di cavallo erano in terra due grandi urne di bronzo piene d’acqua, ove occorresse lavare o sciacquare, quali si vedon dipinte da Paolo Veronese nelle sue cene, e dentro vasi in fresco e guastade di vini di Spagna e di Sicilia. Gli altri due lati della sala, all’altezza di dieci braccia da terra, avean logge [p. 194 modifica]sulle quali erano i musici. Grazie alle cure di Diego Garcia, ed alla diligenza del cuoco, poco dopo mezzogiorno potè entrare il maestro di sala nel luogo ove la brigata stava aspettando, seguìto da cinquanta camerieri vestiti di rosso e giallo con tovaglie, bacini e mescirobe per dar l’acque alle mani, ed annunziare ch’era in tavola. Il duca di Nemours radiante di gioventù, di salute e di quella grazia che tanto adorna la nazion francese, offrì a D. Elvira la mano per condurla al suo luogo. Chi avesse detto in quel momento a questo giovane principe, e che pareva serbato a un avvenire così fortunato e glorioso, che fra pochi giorni i suoi occhi così vivaci, quelle sue membra sì adatte dovrebbero esser fredde ed immobili, composte in una povera bara nella chiesetta della Cerignola, e che una breve pietà di Consalvo sarebbe stato l’ultimo affetto che dovesse destare in un cuore umano!...1

Sedutosi Consalvo fra Vittoria Colonna e il duca, pose alla destra di questi sua figlia, che aveva accanto dall’altra parte Ettore Fieramosca, ed incominciò il convito. I suoi cortesi modi verso D. Elvira erano stati tali in tutto quel giorno, che la giovine spagnuola, di cuore vivissimo, non poteva non sentirsene presa, udendo tanto più lodare da tutti ed aver in pregio quegli che seco gli usava. Sedendo vicini a mensa seguivano fra loro i soliti ragionamenti pieni di piacevolezza; a poco a poco però la fronte dell’Italiano si copriva come d’una nube, le sue risposte erano men pronte, poi quasi non venivano a filo delle proposte. D. Elvira lo guardò sott’occhio con dubbio misto d’una leggera impazienza e vistolo più pallido, e che, abbassati gli occhi, rimaneva come sospeso, quasi si volea persuadere esser essa cagione di questo [p. 195 modifica]cambiamento. Un tal pensiero la rese indulgente; così anch’essa pose fine al discorrere; e rimasero ambedue per lungo tempo in silenzio fra il romore e la festa del resto della brigata. Ma la povera Elvira si lusingava troppo; la cagione del turbamento di Fieramosca era ben tutt’altra, ed era nata per una fortuita combinazione. Al luogo ove sedeva, aveva rimpetto i larghi finestroni della sala divisi da due colonnette gotiche, e pel caldo essendo lasciati aperti, si vedeva al di fuori tutta la marina col Gargano tinto del bel ceruleo che prendono i monti sul mezzogiorno quando l’aria è limpida e serena: fra mezzo sorgeva dal mare l’isoletta e il monastero di S. Orsola, e potevasi discerner persino, come un punto oscuro sulla facciata rossiccia della foresteria, il balcone di Ginevra sotto la vite che gli faceva ombra. Sulla tinta pura di questo quadro vedeva campeggiare la figura oscura di Grajano che stava seduto fra esso ed il barone.

Il contrasto del cielo faceva parer più acceso ed infuocato il color della sua carnagione, ed accresceva l’espressione rozza e non curante della sua fisonomia. Pensando Fieramosca quale fosse l’uomo che avea davanti si sentiva distruggere. Buon per lui che non sapeva in quale maggiore stretta si trovasse allora Ginevra! che appunto in quel momento, avendo udito da Gennaro che Grajano era in Barletta, scendeva in chiesa, e vi fermava il proposito d’abbandonar quei luoghi per sempre.

Nel tumulto d’una mensa tanto numerosa, poco o nulla si badava ad Ettore e a D. Elvira; ma Vittoria Colonna, nella quale era già nato un sospetto, avea posto mente ai visi mutati dei due giovani, e dubitando che fossero tra loro passati ragionamenti più stretti, stava coll’animo sollevato e l’occhio attento osservando gli atti del cavaliere della sua amica, per la quale non poteva a meno di non tremare. Mentre [p. 196 modifica]costoro erano in tal situazione, s’era andato inoltrando il pranzo imbandito con quel profluvio e con quelle varietà di vivande che voleva l’usanza d’allora. Se l’arte della cucina è difficile al nostro tempo, lo era forse più allora, esigendosi da un cuoco in un’occasione come questa prove delle quali non hanno i moderni la menoma idea. Tutti i piatti dovevano non solo piacere al palato, ma dilettare eziandio l’occhio dei commensali. Davanti a Consalvo era un gran pavone con tutte le sue penne spiegate facendo la ruota, e la difficoltà di cuocerlo senza guastarne la vaghezza era stata vinta con tanta fortuna che l’avresti creduto vivo: era attorniato nell’istesso piatto da molti uccelli di minor grandezza che pareva le stesser guardando; tutti ripieni di spezierie e d’aromi: di distanza in distanza sorgevano enormi pasticci alti due braccia, e, quando parve tempo, il maestro di sala diede un cenno, e si vide senz’ajuto d’alcuno alzarsi i coperchi, e dall’interno sorgere dal petto in su altrettanti nani stranamente vestiti che con cucchiai d’argento distribuivano il contenuto e gittavano fiori sui convitati. I piatti di confetti erano formati ora come monticelli sui quali crescevano piante cariche di frutti canditi, ora ad immagine di laghetti d’acque stillate, ne’ quali galleggiavano barchette di zucchero lavorato, piene di dolci; alcuni figuravano un’alpestre montagna con un vulcano sulla cima, ed il fumo che n’usciva era di gratissimi profumi. Aprendola vi si trovavan castagne ed altre frutte che si cuocevano lentamente su fiammelle d’acquavite. Fra molt’altra cacciagione un piccol cignale colla sua pelle, ed a vederlo intatto, pareva assalito colli spiedi da’ cacciatori formati di pasta, e tagliandolo poi si trovava cotto: i cacciatori anch’essi erano distribuiti in pezzi colla stessa vivanda. Verso la fine del convito, entrarono nella sala quattro paggi vestiti a scacchi rossi e gialli cavalcando quat[p. 197 modifica]tro cavalli bianchi, e reggendo un enorme piatto sul quale era un tonno lungo tre braccia, che posarono dinanzi a Consalvo, mentre tutti ammiravano la mole del pesce ed il modo com’era ornato, avendo sulla schiena una figura d’un giovane ignudo colla lira che figurava Arione di Metimna. Volgendosi Consalvo al duca di Nemours gli presentava un coltello pregandolo volesse aprire al pesce la bocca.

Il duca l’aprì e n’uscirono molte colombe che spiegando le ale prendevano il volo per la sala a misura che si trovavan fuori della loro prigione. Questo scherzo fu ricevuto da prima con maravigliosa festa da tutti, ma poi fermandosi le colombe qua e là, si vide che dal collo di ciascuna pendean giojelli e brevi sui quali era scritto un nome.

Accortasi la brigata che in tal piacevol modo voleva il Capitano di Spagna presentare i suoi ospiti, faceva bellissimo vedere lo scompiglio che nasceva dal voler prender quelle colombe, e chi ne coglieva una, leggendo il breve, con gran festa la veniva presentando a quello cui era destinata.

Fanfulla anch’esso si diede a cercar di prenderne qualcuna; ed essendogli volata sul capo quella che portava il nome di D. Elvira, potè così di volo leggere il breve: e piacendogli fieramente il riso della donzella, pose in animo d’esser egli quello che le presentasse il dono. Così appostato l’uccello, agile com’era, tanto fece che l’ebbe in poter suo, e, fattosi largo fra la gente, pose un ginocchio a terra avanti a lei, ed offrendole la colomba, le mostrò che aveva al collo un fermaglio di grossissimi e bel diamanti.

D. Elvira con grata accoglienza prendeva la colomba, e volendosela avvicinare al viso per farle carezze, quella batteva le ale impaurita alzando e scompigliando i capelli biondi ed inanellati sulla fronte bianca della giovane, che si tingeva d’un leggiero incarnato. [p. 198 modifica]Mentre essa voleva staccare il giojello dal collo della colomba, Fanfulla rizzandosi le diceva:

— Io stimo non esser al mondo i più bei diamanti di codesti; ma, damigella, metterli accanto agli occhi vostri è lo stesso che volerli vituperare.

Un sorriso di compiacenza ricompensò Fanfulla delle sue cortesi parole.

Alcuno de’ miei lettori, usato forse alla delicatezza che la civiltà moderna pone in tutte le relazioni sociali, penserà fra sè questo complimento saper troppo di lambicco; lo preghiamo però a riflettere che per un uomo d’arme del cinquecento, con un cervello pazzo quale aveva il giovane lodigiano, fu anche troppo; e ciò che lo assolve meglio di quanto potrei dire, si è che la figlia di Consalvo pensò che avea parlato accortamente e bene.

Ma non potè Fanfulla veder senza invidia ed un po’ di dispetto che, dopo aver molto attentamente guardato e lodato il giojello, voltasi a Fieramosca e presentandogli uno spillone d’oro lo pregò che volesse appuntarglielo al petto. Vittoria Colonna che era vicina si fece avanti con serietà per far quest’ufficio; ed Ettore, conoscendo ciò che la proposta di D. Elvira avea d’inconsiderato, stava per consegnare il fermaglio; ma Elvira che era capricciosa e fatta a suo modo, come i fanciulli che hanno sempre avuto i genitori soverchio indulgenti, entrò in mezzo a loro e disse a Fieramosca con un riso che voleva celare il dispetto:

— Siete tanto avvezzo a maneggiar la spada che sdegnate tener fra le mani uno spillo un momento? Non restava all’Italiano che obbedire. Vittoria Colonna si volse altrove mostrando sul viso bello ed altero quanto sarebbe stata lontana dall’usare tali lusinghe; e Fanfulla rimasto un momento a guardar Fieramosca,

— Buon per te, gli disse; gli altri seminano e tu [p. 199 modifica]raccogli; e s’allontanò zufolando come fosse stato solo per istrada e non in mezzo a tal compagnia.

I doni però di Consalvo non erano soltanto destinati alle donne; aveva pensato anche ai suoi ospiti francesi; ed al duca di Nemours, non meno che a’ suoi baroni, toccarono di ricchi presenti d’anella, di lavori d’oro per portare sulla berretta ed altre coserelle. La sontuosità che il Capitano di Spagna spiegava in questo convito non era senza cagione; voleva mostrare ai Francesi che non solo non gli mancava cosa veruna per provvedere le sue genti, ma che gliene avanzava tanto da poterne usar cortesia.

Il giuoco delle colombe era finito, ed ognuno, ritrovato il suo posto, si stava preparando ai brindisi che si vedevano poco lontani.

Il duca di Nemours, seguendo l’uso di Francia, si rizzò, prese il bicchiere, e volgendosi a D. Elvira, la pregò volesse tenerlo d’allora in poi per suo cavaliere, salva l’ubbidienza del Re Cristianissimo. La donzella accettò e rispose cortesemente; e dopo molti altri brindisi parve tempo a Consalvo d’alzarsi, e seguìto da tutti i convitati uscì su una loggia che guardava la marina, ove spesero in ragionamenti le ore che ancor mancavano al finir di quella giornata.

La maggior parte di questo tempo D. Elvira e Fieramosca lo passarono insieme. Pareva che la giovane non sapesse star un momento discosta da lui: se egli si allontanava, mescolandosi al resto della brigata e fermandosi in qualche crocchio, essa dopo pochi minuti gli si trovava accanto. Ettore, troppo sagace per non avvedersi di questa preferenza, per un giusto sentimento d’onestà non voleva fomentarla, sapendo che non poteva aver lodevol fine, ma legato dalla sua natura e dal dovere di Consalvo non poteva mostrarsi scortese. Molti s’avvidero di questo giuoco, e ne bisbigliavan tra loro sogghignando. Fanfulla che ancor si sentiva [p. 200 modifica]indispettito pel fatto della colomba si rodeva di vedere il compagno in tanto favore, e quando poteva accostarsegli gli diceva mezzo ridendo e mezzo con istizza «me la pagherai ad ogni modo.»

Note

  1. Il duca di Nemours fu morto nella battaglia di Cerignola.