Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri - Vol. II/Avviso

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[p. ix modifica]

MATTEO EGIZIO

A CHI VUOL LEGGERE.


S
Pesse fiate sono andato fra me stesso considerando (Lettor mio gentilissimo) onde ciò avvenuto sia, che avendo ugualmente tutti gli uomini natural vaghezza1 di gir per lo Mondo, nostra comun patria2 peregrinando; pochissimi de’ nostri bene, e saviamente ad effetto l’abbian recata: e coloro per lo contrario, che barbari da’ nostri antichi superbamente appellati venieno, infinita gloria, con tal mezzo, s’abbiano procacciata, e tutto dì di procacciar s’argomentino. Egli non può per alcun modo recarli in dubbio, che prima, e principal cagione ne sia la benignità del nostro clima, di tutte le cose, all’umana vita bisognevoli, largo dispensatore; imperciocchè ogni azione, ed operazione, che l’uom fa, veggiamo sempre, all’acquisto d’alcun bene indrizzarsì, o pure che di bene ha sembianza; adunque colui, il quale, fuor della patria, niun bene crede, trovar si possa uguale, o maggior di quello, che gli sembra di possedere; non così di leggieri s’indurrà, nè anche per brieve spazio, a dipartirsene. Con questa temenza del disagio, di necessità convien, che s’accompagni la pigrezza, e come cagione, e come effetto: della prima maniera, perche il viver lungo tempo senza molestia, e in riposo, fa che il male, che può avvenire, con maggior forza, ne spaventi; e della seconda, perche chiunque, pauroso del male, dall’affaticarsi si ritiene, [p. x modifica]forza è, che alla per fine lento, e scioperato divenga. Quindi per isperienza veggiamo, tutti que’ popoli, i quali dalla Natura in paesi più lieti, e copiosi sono stati allogati, essere il più delle volte inetti al mestiere dell’armi3 sconsigliati, disavveduti, soprammodo schifi di viaggiare. In secondo luogo dee, per mio avviso, incolparsene quel modo, assai strano da accorti, ed ordinati uomini, col quale vegniamo allevati; poichè, giusta il sentimento di Tullio4 gli animi nostri sono tutti dalla Natura ben disposti, a drittamente operare; ma rei, e malvagi poscia divengono, per gli atti men buoni, a’ quali dalla prima giovanezza sogliono essere accostumati:5 ciò che Licurgo a’ suoi Spartani, coll’esemplo di due cagnuoli, altrimente l’un dall’altro nutriti, solea dimostrare. Quindi sapientemente disse il Poeta:6

Nostra natura vinta da costume.

e gli Stoici affermavano, doversi, con severità, gli animi condurre al bene ὅτι διδακτὸν ὰρετὴ: imperocchè la virtù egli è cosa, che puote insegnarsi. Or se i nostri padri d’ogni altra cosa si sono ingegnati di renderne vaghi, fuor che del viaggiare; qual maraviglia ora, che i μαμμόζρεπτοι figliuoli l’abbiano cotanto a vile? Ma come poteano essi destare in altrui l’amor di cosa, del cui piacere giammai non s’erano accesi? vivendo sempre a guisa di alberi (come Seneca direbbe) senza dilungarsi punto dal suol natio? e in cotal non è gran fatto, se molti7

______fugienda patrum vestigia ducunt,
Et monstrata diu veteris tenet orbita culpæ.

Queste due cagioni egli mi pare, che sian [p. xi modifica]potentissime, e valevoli solamente a rattener quelle anime, più nella materia invasare (per favellar da Platonico) le quali niuno onesto fine si propongono, al quale con lodevoli, e gloriose azioni dirittamente debbano pervenire: la terza però, comune anche a’ buoni, e a coloro che serbano più del divino, consiste nella mancanza de’ mezzi necessarj, per potere a così fatto desiderio dar compimento; e quella si è, non saprei dir come, nelle nostre contrade, cotanto universal divenuta, che peggio far non si puote.

Per qualunque di questi versi però il difetto de’ nostri voglia riguardarsi, niuna scusa, per quel ch’io veggo, ci potrà essere per ricoprirlo; imperocchè, oltre esser troppo vano pensiero, il creder noi soli al Mondo da rai difficultà frastornati; egli non v’ha malagevolezza tale, che, colla sofferenza, e col consiglio, dall’uom savio superar non si possa8

Οἱκ ἔςιν γδὲν δεινόν ὧδ᾿ εἰπὶν ἔπος,
Οὺδὲ πάθος, γδὲ ξυμφορἀ θεήλατος,
Ης γκ ἂν ἄρομτ᾿ ἀθτρώπου φύσις.

Sono parole di Euripide, che M. Tullio così tradusse nella Latina favella9

Neque tam terribilis ulla fando oratio est,
Nec fors, nec ira cœlitum investum malum,
Quod non natura humana patiendo ferat.

Ed Orazio10similmente:

Durum, sed leutus sit patientia
Quidquid corrigere est nefas.

Dura cosa è certamente lasciare il natio terreno11 e non senza gran ragione disse Omero:

Ω᾽ς γδεν γλυκίον τῆς παξῖδος ἐςιν εκάςῳ.

cioè: Niente a chi che sia è più dolce della [p. xii modifica]patria; ma a quella dolcezza, ed amor della patria dee andar congiunta l’affezion di giovarla, e colle pregiate opere di procacciarle onore12

Gratum est quòd patriæ civem, populoq; dedisti,
Si facis, ut patriæ sit idoneus ______

Or quanto egli sia commendevole l’andare, per varj paesi, i diversi costumi degli uomini disaminando, le varie forme di Governo, e tutto ciò, che la Natura di più raro produce; e in quanta utilità, e gloria della patria insieme ridondi, non è qui mia intenzion di dimostrare. Ciascheduno che delle buone arti ha qualche contezza, ben sa che l’accortezza, e senno d’Ulisse, per chiara fama a tutto il Mondo palese, non altronde ebbe il suo cominciamento; sicchè Diodoro Siciliano ebbe a dire:13 Egli si fu sapientissimo estimato colui, che sovente la Fortuna trovando nemica, molte Città, e costumi conobbe: e Cassiodoro: Sovente volte egli è d’uopo abbandonar la Patria, per potere savio divenire: Ulisse d’Itaca se a ciò non si fusse condotto, forse che di lui alcun conto non si terrebbe; sentimento tratto da Ennio, il quale cantò:14

Multei, quia domi ætatem agerent, propterea sunt improbati.

E per non andar cercando testimonianze da’ favolosi racconti degli Argonauti, e dalle maravigliose imprese di Ercole, che si vanta a appresso Sofocle15 d’aver tutta la Terra sgombra di mostri; io non veggo laude, ch’agguagliar possa il valore di Amerigo Vespucci, anzi di Cristoforo Colombo, che nel 1492., giusta l’opinion più ricevuta, fu [p. xiii modifica]il primo scopritore di tanta maravigliosa grandezza, e spaziosità di paese, quanta si è quella, che col nome di nuovo Mondo viene appellata (che che sia, che gli antichi16 piena conoscenza ne avessero avuta: di Vasco Gama, che intorno gli stessu tempi, colla navigazione, s’aperse all’Indie Orientali quella strada, che per Terra infinite barbare nazioni chiusa teneano: e degli Ollandesi finalmente, che, con tanta sofferenza, sotto il nostro Polo si sono innoltrati.

Grande in vero si è l’utilità, che nello Stato politico siegue dal viaggiare; ma grandissima, e sopra ogni altra da estimarsi è quella della Repubblica delle lettere: imperocchè sé vorremo gir le antiche cose rivolgendo, troveremo, che Platone non sarebbe altrimente a sì alto grado di sapienza pervenuto, se il desiderio di sapere non l’avesse primamente spinto in Italia, ad apparare alcuna cosa da’ Pittagorici, e poi in Egitto da’Sacerdoti.17 Pittagora stesso, dapoi aver lungo spazio dimorato co’ Maghi Persiani, si condusse, per simigliante cagione a Sparta. Licurgo,18 e Solone19 parimente tutta la Grecia, e l’Egitto visitarono; e tutti gli altri, che dell’ardore di gloria, e di dottrina s’accesero20. Se poi i nostri tempi ci porremo a disaminare, egli non puote in question recarsi, che a’ viaggiatori denno i Musei le più rare, e pregiate iscrizioni, e medaglie; le librarie i più antichi manuscritti; e tutti gli scienziati uomini le più pellegrine notizie. Quanto è ricca oggidì l’Università d’Oxford in Inghilterra, per gli famosi marmi (detti Arundelliani) dalla [p. xiv modifica]Grecia, con tal mezzo arrecati? Quanto onore hannosi molti e molti, in questo secolo, procacciato, col pubblicare, per mezzo delle stampe, quelle antiche scritture, che sepolte giaceano nelle librarie di varj paesi, da essi veduti? Io tacerò di tutti (che lungo fora il rammentargli un per uno) e solamente aver vorrei parole, che agguagliassero in parte il merito dell’eruditissimo Signor Rosgaard; il quale nè a fatica, nè a spesa ha posto mente, per raccoglier sin ora ben mille, e cinquecento pillole di Libanio Sofista, che in molti luoghi, e spezialmente in Roma, e Parigi, stavano disperse. Fortunata la posterità se a’ nostri dì saranno altri così diligenti, e felici investigatori di sì fatte cose. E qui non mi dà l’animo, senz’amaritudine, ridurmi per la memoria, un tal Vvith Ollandese, il quale come che poco, o niente gli era riuscito, in lettere sentir molto avanti; volle dar da parlare di se nella patria, col portarsi via dalla nostra Città (coll’opera d’un uom dabbene, che gli rubò) i migliori manuscritti Greci, e Latini, che nella libraria di S. Gio: a Carbonara si serbassero. Grazie al Cielo, che fra gli altri v’è rimaso un Diodoro Siciliano, che più bello per avventura non se n’è veduto giammai; e nondimeno, per sottrarlo dalla rapacità di simiglianti arpie, al di fuori è notato, MISSALE GRÆCUM.

Molte cose potrei qui andar divisando, intorno all’ajuto, che porge sì fatto studio alla Critica; ma per non vagar cotanto fuor di strada, mi ristrignerò solamente a quello, che tutto dì ne riceve la Geografia. Non [p. xv modifica]tutto ciò, ch’è al Mondo, gli antichi videro; non tutto ciò, che videro, lasciarono in iscrittura; né tutto ciò, ch’eglino di vero in iscrittura lasciarono, tale verrebbe riputato, e forse da alcuno inteso, se il viaggiar de’ moderni certa testimonianza non ne rendesse: e pure dagli eruditi ancora indarno si cercano molti luoghi, dal Mela, da Solino, Strabone, Stefano, e spezialmente da Tolomeo mentovati. Dall’altro canto, se dritto vorrem discernere, gli strabbocchevoli accidenti di Fortuna, avendone, per mille pruove, insegnato, niente esser quaggiù gran tempo durevole; egli è di mestieri, quanto vi ha di pellegrino attentamente riguardare, per poterne almeno a’ nipoti darne alcuna contezza. Non solo gl’Imperj, e le Repubbliche; ma le Città più belle, e grandi ponno ad un’ora esser condotte ad inevitabil fine: ὦ βασιλεῦ μοίραν χειρονα, χὶ χρείςονα γχ’ ἐςιν, γτε ἀνδρὸς, γτε πόλεος ἐναλλάξαι, disse Appiano favellando di Seleucia21 cioè: Non è in poter degli uomini, o delle Città, o Sire, il più o meno cattivo Fato, loro stabilito, schifare. E poco dopo μοὶρα* (*) χὶ πόλεῶν, ῶσπερ χὶ ἀνδρῶν. Hanno il lor Fato le Città, niente meno, che gli uomini. E in vero ben disse Lucano:

Invidia fastorum series, summisque negatum
Stare diu: nimiùmque graves sub pondere lapsus.
In se magna ruunt _____

ed Ovvidio più al nostro proposito:

                              _____ sic tempore verti
Cernimus, atque illas assumere robora gentes:
Concidere bas _____

[p. xvi modifica]Molte Città dalle fiamme, molte annientite dal mare, moltissime da’ tremuoti abbattute, infinite dall’aspre guerre furono al suolo uguagliate; sicchè appena le vestigia de’ già famosi templi, e de’ sepolcri de’ maggiori additar se ne ponno. Dove, per Dio, sono oggidì sette differenti Atene, 22 diciotto Alessandrie, tredici Antiochie, ventiquattro Apollonie, nove Arsinoe, dieci Afrodisie,

venti Eraclee? Dove la quercia di Dodone, e le sorti Prenestine? dove la bella Tempe? dove la calda, e dilettevol Baja? dove Ercolano, e Pompejano, che già furono ornamento de’ nostri lidi? dove l’Apollo di Cuma, colle ridicole reliquie delle ossa della Sibilla, 23 e delle zanne del Cinghial d’Erimanto? Adunque siccome noi molto agli antichi Scrittori siamo tenuti, mercè de’ quali, ne abbiamo al dì d’oggi qualche conoscenza; così, potendo allo stesso infortunio ogni altra Città del Mondo in brieve soggiacere, riconosceranno da noi coloro, che hanno avvenire, il saper quelle cose, che a’ loro tempi più non saranno.

Da tutto ciò che sin’ora è detto, ben puoi, Lettor mio caro, per dritta estimazion comprendere, che l’intento dell’Autore in pubblicando questa opera, non è miga di venire in riputazione di valente uomo, che, per sua modestia, confessa non essere; ma bensì, al meglio che può, manifestandoti quanto, con sommo affanno, e sollecitudine ha veduto, in una lunga peregrinazione di cinque anni, cinque mesi, e ventuno giorni; esserti in qualche modo d’utilità. In ciò ha seguitato prontamentamente l’onesto consiglio di Cicerone, il qual [p. xvii modifica]dice: 24 Ceteros pudeat, si qui ita se cunctos litteris abdiderunt, ut nihil possint ex his neuque ad communem afferre fructum, neque in aspectum, lucemque proferre: e oltreacciò egli si è fuor di dubbio, che 25

                              _______ Quæ fuit durum pati,
Meminisse dulce est._______

Potrebbe anche di leggieri adivenire, che nobil desiderio nella mente ti s’accendesse, di prenderne, con gli occhi proprj, esperienza; ed in tal caso egli sarà molto in acconcio de’ fatti tuoi, sapere mercè di lui, le distanze de’ luoghi; gl’infiniti, e non pensati pericoli, a’ quali apparecchiar ti bisogna; e’l danajo, che mal tuo grado spendere ti converrà: imperocchè molto di rado truovansi di coloro, i quali, come volea Platone 26 siano mansueti, ed umani co’ peregrini. Afferma Diodoro Siciliano 27 buona cosa essere, coll’esemplo altrui, dirizzare a miglior fine il corso di nostra vita; ed io parimente dirolti, colle parole del Comico 28

Scitum est, periculum ex alÿs facere, tibi ex usu quod siet.

Molti senza fallo si sono in ciò prima adoperati; ma tutti coloro, che a nostra conoscenza sono venuti, non tutto ciò, che hanno scritto, aveano per veduta compreso; poiché v’ha ne’ loro libri di quelle cose, che giammai non furono, nè per alcun tempo avvenire saranno. La prudente incredulità, deesi, per comun consentimento de’ savj, ad ogni altra virtude anteporre: 29 onde Epicarmo, ebbe a dire

Νὴφε, χὶμέμνασ’ ἀπιςἑιν ἂρθρἀ ταῦτα τγς φρενῶν.

Cioè: Sij vigilante, e sovvengati di non prestar [p. xviii modifica]fede. Questi sono i membri della Sapienza; con ispezial maniera però sul fatto delle cose da noi lontane disse Plauto:

Non laudandus erst, qui plus credit, quæ audit, quàm quæ videt - - - 30

Gli Scrittori di viaggi, o per soverchia semplicità, han dato fede ad alcune manifeste mensogne, poste loro nel capo dal superstizioso, barbaro, ed ignorante volgo; o per troppo malvagità, e fidanza, di non aversi, per qualsivoglia via, ad iscoprire il vero, le hanno sfacciatamente a gli altri tramandate. Il nostro Autore, quel che afferma, l’ha co’ proprj occhi veduto; e nella stessa guisa appunto, che l’ha veduto, l’ha schietta e pianamente scritto; amando meglio di non destar maraviglia, che, in processo di tempo, essere riputato bugiardo; come degli altri a lui è avvenuto di giudicare.

Del rimanente, se havesse egli per paesi meno barbari fatto cammino, di alcun pregievole manuscritto, o nuova iscrizione (perché le già trascritte egli non facea di mestieri andar copiando) sarebbesi ingegnato per avventura la patria arricchire. Quel ch’è stato in suo potere, volontieri ha fatto incetta di alcuni libricciuoli Cinesi, che forse un dì potranno essere di giovamento, a chi porrà amore a quella nobil favella. Oltreacciò non v’ha fatica, o danajo, che non abbia posto in opera, per informarti della politica, armi, soldati, ed abiti delle principali Corti d’Asia, e d’America; della Religione, riti sacri, e costumanze de’ popoli; del temperamento dell’aria; e in fine di tutto ciò, che di bello, e di utile la provvida Natura, in varj luoghi, produce. [p. xix modifica]Circa il biasimo, o laude; egli suol dire con gli amici: che del primo poco, o nulla gli cale; dell’altra non sente piacere: e perciò viene a lasciare in tuo arbitrio, farne qualunque giudizio più ti sarà in grado. Da certi ser contrapponi, ed Aristarchi salvatichi, che voglion dar di becco in ogni cosa, ha udito mormorare del Titolo stesso del libro, quasi magnifico, e vano. Risponde egli, che se non dà loro nell’umore, è almeno molto acconcio, ad esplicare, e fare una qualche immagine di ciò, ch’è suo proposito di divisare; ch’è il principal fine, a cui, nello intitolare i libri, dee riguardarsi. Lo stile, e la purità della favella, confessa di buon animo, non esser tale, che meriti essere approvato dagli uomini intendenti; imperocchè, come che ha scritto viaggiando, nè sempre con quella tranquillità di mente, che a ben tessere i suoi ragionamenti abbisognava, ben vede (quanto mai ciaschedun’altro) come allo spesso sia andato lungi dalle regole de’ buoni Maestri. Niente però di manco ti avvertisce primamente con Seneca, 31 che: Temeritas est damnare quod nescias; e poi dice cosi:

Referundæ ego habeo linguam natam gratiæ;
Eodem mihi pretio sal perbibetur, quo tibi:
Nisi hæc me, defendat numquam delinguet salem.

32 Cioè a dire, ch’egli sta per renderti frasche per foglie; non essendo al Mondo persona, che di alcun difetto non possa essere incolpata.

Io per me son sicuro, che benignamente userai seco, se vorrai recarti per la memoria, che non v’ha libro cotanto buono, che non contenga alcuna cosa di reo; e per lo [p. xx modifica]contrario: e che ogni uomo, il quale, credendosi di far bene, e di giovare altrui, in qualunque maniera s’affatica, è assai più degno di laude che di riprensione. Vivi felice.



LO STAMPATORE.


Q
Uesta lettera non si pose nel primo volume, perche l’Autore di essa si trovò assente, quando fu d’uopo dar compimento al libro. Ho voluto non pertanto presentarlati adesso; e spero, che me ne saprai grado.


  1. Plin. lib. 17. cap. 10.
  2. Gregor. Nyssen in laudat. S. Theod- Epitetus apud Arrian. lib. I. cap. 9. Senec. de conf. ad Helviam. Cic. 4. de finib. Philo de Mnarchi lib. 2.
  3. Liv. lib. 29. Cic. de natur. Deor, lib. 2.
  4. 1. de legibus, 4. de finib. et Tuscul. quæst. 5.
  5. Plutarch. de educ. pueror.
  6. Petrarca Son. 7.
  7. Iuvenal. Satyr. 14. vers. 36.
  8. Eurip. in Oreste.
  9. Cic. Tuscul. 4.
  10. Horat. i. i. od. 24.
  11. Eurip. in Oreste.
  12. Iuven. sat. 14.
  13. Diod. Sicul. Biblioth. Hist. de doct. gentiŭ univers. Homer. in princip. Odyss. et v. Cass. Ep. 39.
  14. Ennius in Medea.
  15. Sophocl. in Trach.
  16. Plato in Timæo, et in Critia. Diodor. lib. 6. Aristot. io admirand. Lips. Philol. Stoic. lib. 11. dissert. 19.
  17. Diogen. Laërt. in vita Pyth. lib. 3.
  18. Strab. lib. 10.
  19. Plutar. in Solon.
  20. Cic. quæst. Tuscul.
  21. Appian. in Syriac.
  22. Abrah Berkel. in dedie frag. Stephan.
  23. Pansan. in Phocitis.
  24. Cicer. pro Arch. Poëta.
  25. Sen. Herc. Eur. Act. 3.
  26. Plat. de legib. 12.
  27. Proëm. Bi. bliot. Histor.
  28. Terent. in cantontimer. Act. 1. Sc. 2.
  29. Epichar. ap. M. Cicer. epist. ad Att. lib. 1. 19. Q. Cic. de petit. Consul. Eurip. in Helena. Hesiod. oper. et di.
  30. Plaut. in Truculento.
  31. Seneca ep. 92.
  32. Plaut. in Pers. act. 3.