I Marmi/Parte seconda/Ragionamenti arguti/Giorgio calzolaio, Michel Panichi, e Neri Paganelli

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Giorgio calzolaio, Michel Panichi, e Neri Paganelli

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Giorgio calzolaio, Michel Panichi, e Neri Paganelli
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Giorgio calzolaio, Michel Panichi,
e Neri Paganelli.

Giorgio. Bastavi, che il nostro padre ha fatto una bella prèdica e io l’ho tenuta quasi tutta a mente; e se non fosse stato certi cicaloni che m’eran dietro, la saprei ridir tutta a parola per parola.

Neri. Guardate a non dir bugie.

Giorgio. Dio me ne guardi!

Michele. Non è gran fatto che un par vostro tenga a mente una prèdica, perché voi sapete a mente tutto fra Girolamo.

Giorgio. La memoria, messer Michele carissimo, non mi serve piú, da che mi fu tolto il bastone del padre divoto che io teneva con tanta divozione; io m’ho avuto a dicervellare, perché mi pare d’aver perduta mezza la vita. Oimè! che consolazione aveva io quando lo pigliavo in mano e lo consideravo bene bene, dicendo: — Questo è quel bastone dove il padre s’appoggiava quando andava a spasso; questo lo sosteneva per il viaggio quando ragionava delle cose della santa fede; egli è pure il bastone con il quale egli batté quel cattivo uomo e lo fece diventar buono. — E ora io ne son privo; pensate che ancóra ancóra ne piango!

Neri. Maestro Giorgio, egli v’è stato tolto per salute dell’anima vostra, perché voi avevi piú fede in quel bastone che nelle cose alte: ma lasciate ire queste novelle che non son da ragionare senza fastidio; diteci la prèdica.

Michele. I Marmi non son luoghi da prediche.

Neri. Quella parte solamente dite adunque che fa per i Marmi.

Giorgio. Ve ne dirò un pezzo che vi diletterá, perché la fia tutta tutta storie.

Michele. Piacerá, se le sono di quelle vere e approvate. [p. 221 modifica]

Giorgio. S’io non erro, d’un certo che..., del resto dirò la cosa fedelmente, che fu mirabile.

Neri. Non penso che narriate cosa buona.

Giorgio. Egli messe a campo certi gastighi grandi venuti sopra gli uomini e tutti gli cavò dalle storie.

Neri. Saranno cose masticate mille volte; non ne dite altro, ma rispondetemi a certe minute che io intendo dimandarvi. Èvvi rimasto altro che voi tenghiate caro del fatto suo?

Giorgio. Le sue uose (e per disgrazia mi rimasero!), ch’io l’ho tanto care che voi non lo potresti credere.

Neri. Altro?

Giorgio. Un cappel di paglia.

Neri. Altro?

Giorgio. Un paio di forbicine da mozzarsi l’ugna.

Neri. Altro?

Giorgio. Una pianella vecchia, un cintol da le calze, due stringhe spuntate, una berrettina di saia, una guaina del suo coltello; or be’ una lucernina di latta, tre pallottole da trar con il saeppolo, perché traeva bene di balestro per ricriazione; rimasemi una sportellina che mi mandò con una insalata, un gomitol di refe bianco, un ago, tre magliette, un ganghero, la tondatura d’un suo mantello, una soletta di calza consumata, una ciotola di terra, un fíaschettino di vetrice; rimasemi ancóra un piattello con il segno d’un S. M. che io l’ho pur caro; un mezzo pettine, un pezzo di corona di sicomoro, la fibbia d’una correggia, un granatino vecchio, e cento altre zacchere che io non mi ricordo.

Neri. Pensatevi!

Michele. Piú tosto non le volete dire.

Giorgio. Eh, eh!

Michele. Voi ridete?

Neri. Ride certo, perché voi l’avete indovinata; ma inanzi che voi diciate il resto, e’ pare a me ciò che voi avete redato non vaglia due bianchi: che non le gettate voi via coteste cose?

Giorgio. Oh che Dio ve ’l perdoni! le non si tengano per la valuta. [p. 222 modifica]

Neri. Dite i ducati che vi dette, che furon parecchi sacchetti. Voi ghignate? Tanti n’avessi chi non ha, come e’ furon parecchi migliaia! E per questo ne fate tante sugumere del fatto suo; e credo che in questo caso voi andiate sagacemente fingendo di tenére conto d’una mezza soletta, d’una correggia, d’uno sprone.

Giorgio. Che sprone! Non ho sproni; egli non cavalcava.

Neri. Questo è modo di dire; i ducati, diascolo!, sono quegli che vi fanno torcere il collo, e l’utile che di mano in mano cavate di tante paia di scarpettoni che voi spedite l’anno.

Giorgio. Cosí va ella bene la prèdica: io mi credetti darvi un poco di consolazione e voi date a me assai disturbo. Sará meglio che io vi lasci; restate in pace.

Michele. «La veritá partorisce odio», dice quel motto: ma egli ha fatto bene; perché, s’egli entrava nella prèdica, non usciva stasera. Oh che uomo!

Neri. Credo, se bene ho detto cosí seco, che sia buona persona: egli attende sempre a dir bene e far bene; da queste sue cosette di affezion particolari, certo, non si può dir se non bene.

Michele. Or lasciamo andar. Avete voi inteso di quel monte che s’è aperto in Portogallo e di quell’isola nuovamente trovata in mare? di quella nave che hanno presa, o arrivata ch’io mi voglia dire, nel porto di Talamone i nostri e di quel mostro nato nella Magna?

Neri. Saranno trovati; son novelle che son fatte per dar pasto alla plebe: non le credo.

Michele. Noi altri signori abbiamo le lettere fidelissime.

Neri. Per fare una cacciata tale, potrebbono esser finte.

Michele. La mano e il sigillo si riscontrano.

Neri. Tanto piú credo che vi sia sotto inganno, perché chi fa cotesta professione non vi manca di nulla: ma l’udire i casi forse mi potranno tirare nella vostra opinione. Non sapete voi che ogni anno ci nascono di coteste novelle? Se toccassi a me a regger gran numero di popoli e che il mio stato patisse di qualche cosa, súbito farei venir lettere che trattenessino con isperanza i popoli. [p. 223 modifica]

Michele. Vorresti voi che gli uscisse da voi bugie?

Neri. Non io, ma le farei uscir da altri, con dire che io l’ho detto, ch’io ho ricevuto lettere.

Michele. Come dire, se vi venisse carestia di grano, che fosse cattivo ricolto, far venir lettere che ne venisse qualche gran somma e farne venire parte, tanto che ’ popoli stessero allegri, o veramente che fosse piovuto grano e che fosse fatto un pronostico d’abondanza.

Neri. I pronostici e le novelle, i trovati, le lettere de’ paesi strani son la confezion delle plebe, messer Michel caro. Or dite, via, le nuove.

Michele. E perché io non ci aggiunga o lievi, leggerò la copia della lettera: «Magnifici signori, salute. Qua son cose nuove, rare, non piú udite e sí stupende apparse, che appena noi, che le veggiamo, possiamo crederlo. Egli era qua una altissima montagna nella quale v’erano alcune vene d’oro, e di questa piú e piú anni sono andati cavando in dentro i nostri uomini; onde sono arrivati a una porta, cavando, grandissima, alta delle braccia cinquanta ed è d’una pietra come di rubino, ma piú splendente e piú preziosa, e quelle parti degli lati che s’aprano e serrono son di zaffiro, stupendissimamente intagliate a storie. La prima istoria (perché le sono in sei quadri compartite) è commessa di diamanti, come son le nostre tarsie, e vi si vede un’ombra, in forma d’uomo, che è in mezzo di molte nubi, nelle quali pare che vi si raffiguri confusamente una infinitá di teatri, di stelle, di figure nude, di fuochi, di ghiaccia, di cittá, di splendori, sole, luna, e altre cose confuse, che quel figurone, che sta lá dentro invisibile, va separando con le proprie mani e a parte per parte cerca di farne un ornamento, quasi come se fabricasse una casa per se medesimo: onde chi mira fisso, vi vede certi spiriti di fuoco, certe figure di luce e altri mirabili disegni, e pure è un quadro che è tutto nube. L’altro, che gli è rincontro, mostra come egli ha finita quella abitazione e divisa in cieli, in pianeti e in elementi il mondo; talché, mirando sí fatta fabrica, si stupisce, si maraviglia e si resta attonito; né può esser [p. 224 modifica] capace chi vede tal disegno, quando la cosa s’abbia avuto principio e manco si può conoscere quando l’abbia fine. Il terzo quadro, vi sono sculpiti, e d’ogni sorte, piante, erbe, fiori e frutti; ed è gran cosa questa, che l’è cosí ben fatta questa parte che pare vedere, a chi la considera, crescer del continuo le cose. Oh che bello splendore! o che bei lumi v’è egli in quel quadro quarto! I variati, bizzarri, stravaganti e dilettevoli uccelli sono tutti quivi formati: e nella quinta parte tutto vi si dimostra. Nell’ultimo sono i primi nostri padri con tutta la generazione loro. Dicono adunque quei da ben lavoranti i quali sono uomini che hanno ingegno, che l’è una delle belle opere che si vedesse mai in terra e d’una valuta inestimabile».

Neri. Egli m’è piaciuta cotesta prima parte, perciò che io ho veduto un caos in pittura che mai viddi il piú bello né mi avrei saputo imaginar mai sí bel modo di disegno: se la cosa non è vera, egli è almanco un bel trovato. Leggi, via.

Michele. «Quando ebbero rimirato sí stupendo lavoro, volsero tornare a dietro per far noto al re di questo prezioso tesoro; ma in questo fu aperta loro la gran porta ed entraron dentro, tratti dalla curiositá di vedere il restante delle nuove maraviglie. Era un velo, dentro a questa porta, bianchissimo, ma impalpabile, né si poteva passare: e restati mezzi spauriti, si volevano ritrarre a dietro, quando udirono una voce che disse loro: — Ubidite a chi v’ha dato le leggi. — E, cosí riguardando intorno, viddero scritto sopra la porta questo detto: ‛Lasciate il morto e ripigliate il vivo’. E súbito abagliati da una risplendentissima luce che venne nell’aprirsi del velo, caddero in una cecitá e, aggravati dal sonno, s’adormentarono».

Neri. Lasciate cotesta lettera, ripiegatela e la leggerete poi, quando avrò un poco piú il capo a bottega, perché coteste cose vogliano un poco di elevazion di mente; e, di grazia, spiegatene un’altra.

Michele. Volentieri. «Noi abbiamo, signori illustrissimi, navigato per andare agli antipodi e siamo per fortuna arrivati a un’isola grandissima, sopra della quale smontammo, forzati dall’impeto del mare; e, caminato alquanto, ritrovammo alcune [p. 225 modifica] ombre, che ci parevano in un punto diverse cose e ci rappresentavano varie spezie d’uomini e d’animali, in quel modo che fanno talvolta vedere i cattivi umori a certi paurosi; come, verbigrazia, uno si crede d’avere un uomo dietro e si volta con furia e non v’è nulla; un altro, vedendo un tronco da lontano, al barlume, si imagina di vedere una strana foggia d’un animale, simile a colui che nelle nubi forma diverse bizzarre bestie, giganti e uomini. Ora, noi seguitammo una di quelle ombre, tanto che la vedemmo intrare in una caverna e gli andammo dietro».

Neri. Coteste simil visioni che tengano dall’illusioni diabolice son sorelle di quelle cose che sono spiritate, perché un uomo od una donna viene a vedere un fantoccio di paglia all’improviso e mette un grido; onde si spaventa di sorte che la spirita. Adunque, spiritando, lo spirito viene a uscir di quella cosa che l’ha di paura fatta spiritare; però tutte le cose son piene di spiriti che fanno altrui spiritare. Io conobbi giá uno in Santa Maria nuova, che, per veder rovinare una parte d’un monte d’ossi di morti, si spiritò; onde si diceva poi: «Non andare al monte dell’ossa, ché ti spiriterai». Or via, leggi, che io non ti voglio interrompere.

Michele. «Entrati con forte animo tutti dietro a questa fantasima, n’andarono in una ampia caverna e che teneva grandissimo spazio; la quale era piena piena di sepolture aperte, e tutte al giunger nostro si richiusero, e, stettero per alquanto spazio, si ricominciarono a riaprire. Ecco che nell’aprire d’una, saltò fuori un puzzo intollerabile, in guisa d’un fumo, e in quel fumo era rinchiuso un suono d’una voce asprissima e bestiale che diceva: — O giorni persi e mal dispensate ore! — D’un’altra, tosto che quella si fu rinchiusa, uscí, aprendosi anch’ella, una nebbia folta in picciol gruppo, e la voce che n’usciva andava gridando: — Ben fui tardo a pensare all’esser mio. — Cosí di mano in mano s’aprivano e serravano tutte. D’un sepolcro di candido marmo n’usci una facella accesa e di quella fiamma veniva fuori questo verso: — Il temperar le cose è ’l vero lume. — D’un altro di pietra rossa tutta crepata ne veniva fuori una nube [p. 226 modifica] pregna d’acqua che spruzzolava e diceva il suono delle parole: — Io seguirò del vero i passi e ’l moto. — E ve ne furon molti che dicevano e facevano il simile come questi altri detti: ma, alla fine, ve ne fu uno, che era di terra nera, quasi tutto disfatto, che mandò fuori un razzo come di cometa, e disse: — Felice chi ritrova il porto e ’l molo. — Nel mezzo di questa caverna erano un gran monte di libri, e noi, dopo che veduto avemmo le maravigliose sepolture, ci mettemmo ad aprirgli e leggergli; onde la caverna si scosse e tremò asprissimamente e si fecero tenebre in quel luogo orribili, con tuoni, saette, tempeste e pioggie da non se le imaginare: ma noi, spaventati, con le mani per terra, carponi carponi, ce ne fuggimmo fuori e ritornammo alla nave».

Neri. Di grazia, fa riposar cotesti paurosi e piglia l’altra lettera, perché c’è da pensar sopra un gran pezzo a sí fatta invenzione, e credo che la fia da qualche cosa.

Michele. Chi legge ha caro d’udire il fine di tutte le cose; e voi le cercate di tramezzare.

Neri. L’Ariosto anch’egli lascia sul bel dell’intender della fine e ripiglia nuova istoria; e fa bel sentire quella nuova curiositá. Or date un altro principio.

Michele. «Nel porto nostro, eccellentissimi e illustrissimi signori, è stata dalla fortuna spinta una nave, la quale è molti e molti anni che la va errando per gli altissimi mari, ed è si gran navilio che dieci delle maggior navi che si trovino non son si grande a un pezzo. Ella ha poi gli arbori tutti d’avorio commessi e intagliati i piedi di quelli a storie, nelle quali vi sono i viaggi d’Ulisse; le vele sono di broccato e le corde di seta e d’oro intrecciate; e ciascuna cosa che v’è sopra per uso d’oprare, è d’oro e argento massiccio, come sono tavole, sedie, scanni e vasi d’ogni sorte: una ricchezza da non la potere stimare. Egli v’è sopra una reina con una corte di forse cento donzelle, la piú bella e le piú belle donne mai furon vedute. I lor vestimenti son tutti drappi di seta varii e non piú veduti, che il piú brutto è di piú valuta che i nostri broccati, e fa sí bella vista che poco piú si può desiderare per allegrare ogni malinconico spirito. Le donzelle tengono in loro una lascivia [p. 227 modifica] onesta e un’onestá lasciva; la reina ha poi una maestá (in quella poppa della nave dove ella risiede in seggio trionfante) che la ti forza a temerla per amore e amarla per timore. Onde ciascuno che corse alla nave e vidde síi stupendo spettacolo, restò confuso, attonito, stupefatto, maravigliato e mezzo fuori di se medesimo».

Neri. Sarebbe bene di vender tutto il suo e andare a cercar questo navilio sí stupendo e acconciarsi per poeta o marinaio: questa è una nave molto ricca.

Michele. «Uscirono, in questo che ciascuno stava a vedere, forse trecento uomini di sotto il cassero, giovani d’un trenta anni in circa, con un capitano de’ piú belli uomini che si vedesser mai, e tutto il resto similmente, in ordine d’arme e d’abiti marinareschi secondo l’esercizio di ciascuno, che noi fummo per tal bella veduta per rimanere tante statue di pietra, sí ci maravigliammo: ciascuno si diede ai suoi offizii, chi a salire alle gaggie, chi a tirar le vele, al timone e altre faccende da fare bisognose. Non sí tosto furono in ordine tutte le cose necessarie a far vela, che egli si levò un vento in poppe stupendo e gli cavò del nostro seno».

Neri. Non dicesti voi che la fu presa questa nave?

Michele. Sí, ma udite: e’ credettero pigliare qualche cosa e poi non preser nulla.

Neri. Cotesta fu piú bella che tutte le cose: se la non era nulla, ciò che v’era, veniva a essere invisibile. Seguitate di lèggere.

Michele. «Nel partire che ella fece, s’udirono piú di mille variati stromenti sonare, e ne gittarono in terra infinite zanette di confezioni per allegrezza e spanderono gran somma di dinari, medaglie d’oro e d’argento: onde ciascuno, lasciando le confezioni, attendeva alle monete. Volete voi altro? che in quei confetti grossi v’erano sotto perle stupende, diamanti, rubini e d’ogni pietra preziosa, talmente che tutti furon fatti ricchi, e non si poteva stimare, né s’è ancor potuto, apresso a mille millioni d’oro, quanto sia stato il valore delle cose lasciate in terra». [p. 228 modifica]

Neri. Non dovettero mai piú aver bisogno coloro che ricolsero!

Michele. «Non sí tosto furon vedute e portate le gioie e le monete in cassa che le portarono una maladizione con esso loro unita, e fu questa: che i ricchi gli posero tanto amore che non le volsero mai piú cavarle fuori e i poveri non le stimarono; onde una parte le tien rinchiuse, l’altra le lascia andare. E questo inconveniente pare che si distenda in molti altri paesi».

Neri. La mi diletta insino a qui; all’altra, disse il cacciatore: intanto andrò considerando che sotto tal navilio c’è misterio. Riserrate la lettera e date in quel mostro.

Michele. «Qua in questa nostra parte settentrionale, signori nobilissimi, è nato a un corpo una bambina e un bambino e sono tutti doppi di ciascun membro; ma una parte si ciba di latte e l’altra no, una parla e l’altra tace, una camina e l’altra non può: niente di manco tutte due son vive e vivono. La madre che l’ha partorite e il padre che gli ha generati sono i piú nobili spiriti e i piú mirabili ingegni del mondo. Quella parte che non si nutrisce favella del continuo, quando fa bisogno, con il padre e con la madre; ma altri che loro non possono intendere tal ragionamenti. Mai tocca terra, se non il mostro che si pasce; l’altro non la può patire, anzi mostra grand’affanno, ogni volta che per sorte o per disgrazia tocca con i piedi, con le mani o con altra parte del corpo la terra. Non se gli può mostrar cosa che non conosca e che con suo padre e con sua madre non conferisca in suo linguaggio. L’altra parte che s’empie di cibo mantiene quella che non si pasce, si sono bene organizzate insieme. Chi ha cura di questi mostri e chi n’è patrone ha fatto un certo luogo serrato e ve ne mostra una parte, l’altra ve la dipinge e vi fa chiaro esser vero ciò che egli vi propone di lei, tanto del maschio quanto della femina».

Neri. S’io vi fussi, vorrei vederla tutta cotesta figura e non mezza.

Michele. State a udire: «Il signor della cittá ha ordinato che ciascuno lo vegga tutto una volta e non piú, senza alcun [p. 229 modifica] pagamento e senza angaria di cosa alcuna, acciò che tutti gli uomini possino considerare la infelicitá nostra. Dio vi conservi, eccetera».

Neri. Questa è giá finita?

Michele. Finita.

Neri. Ora che io voleva udire assai di questa cosa, non ce n’è piú: almanco avesse ella durato insin che sonava le tre ore! Perché me ne sarei andato con quella fantasia a casa e travagliatomi su ’ libri della strologia e avrei veduto quel che significa questa cosa; perché non s’ha da pensare che la sia fatta o nata a caso.

Michele. Udite l’ore: voi potete andare strolagando ogni volta che voi volete.

Neri. E il resto delle lettere quando si leggeranno?

Michele. Un’altra volta.

Neri. Pur che le non si smarrischino.

Michele. Io n’avrò cura. Ma ecco maestro Giorgio: voi siate ritornato?

Giorgio. Per che, non indovinareste mai.

Neri. Per dirci la prèdica.

Michele. Anzi per menarci a bere.

Giorgio. Per cotesto, se voi volete; ma io son venuto che mi prestiate quelle lettere di quelle nuove, perciò che domattina io vo alla Maddalena con il padre predicatore e gne ne voglio lèggere.

Michele. Son contento; ma guardate di non le perdere.

Giorgio. Siatene sicuro come voi proprio l’aveste nella cassa.

Michele. Eccovele.

Neri. Fate che le si riabbino, perché voglio udire il resto; e buona notte.

Michele. Mi raccomando.

Giorgio. Rimanete in pace.