I Viceré/Parte terza/2
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Capitolo 2
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II.
Il ritorno del principe, con lo zio duca, la moglie e la figlia, al principio dell’inverno, diede nuovo alimento alla pubblica curiosità. Aspettavano tutti di vedere in viso questa famosa principessina della cui bellezza si parlava tanto; ma quantunque l’esagerazione delle lodi anticipate avesse disposto la gente alla diffidenza, pure la realtà lasciò molto indietro ogni immaginazione. La bellezza bianca e bionda, fine, delicata, quasi vaporosa della fanciulla, non aveva riscontri nella famiglia dei Vicerè. La vecchia razza spagnuola mescolatasi nel corso dei secoli con gli elementi isolani, mezzo greci, mezzo saracini, era venuta a poco a poco perdendo di purezza e di nobiltà corporea: chi avrebbe potuto distinguere, per esempio, don Blasco da un fratacchione uscito da lavoratori della gleba, o donna Ferdinanda da una vecchia tessitrice? Ma come, nella generazione precedente, s’era vista l’eccezione del conte Raimondo, così adesso anche Teresa pareva fosse venuta fuori da una vecchia cellula intatta del puro sangue castigliano. Alta, magra di spalle, con una vita che le sue due mani quasi arrivavano ad accerchiare e che rendeva più vistosa la curva dei fianchi, Teresa possedeva un'istintiva eleganza, una nobile grazia di portamento, ancora non del tutto liberata dall’impaccio della collegiale, fino a qualche mese addietro costretta nella goffa uniforme. Nei primi giorni, quando ella cominciò ad uscire in carrozza, accanto alla madrigna, la gente si fermava sui marciapiedi, l’aspettava al varco, dinanzi al portone del palazzo, per figgerle gli occhi addosso, a bocca aperta: ella pareva non accorgersi di quella curiosità indiscreta, non guardare anzi nessuno.
In casa, naturalmente, erano venute a trovarla prima di tutte le zie, e Lucrezia s’era quasi attaccata alle gonne della nipote, l’accompagnava per ogni dove, le dava consigli, non parendole vero di poter esercitare su qualcuno la sua smania d’autorità. La principessa la lasciava fare; ma a Chiara non restituì neppure la visita, per via del bastardello. Una ragazza come Teresa, appena uscita di collegio, poteva andare in una casa dove c’erano di quei pasticci? Ella diceva a tutti, cameriere, parenti e conoscenze, con grandi gesti e torcimenti di sguardo: «Posso permettere che mia figlia sappia di queste cose, eh? Tanto peggio se Chiara se ne adonta». E Chiara se ne adontò in malo modo. Aveva rotto con tutti i parenti, oramai, per amore del figlio della cameriera, il quale, guastato dai tanti vizii, la comandava a bacchetta, le dava del tu, all’occorrenza le alzava le mani addosso. Ma ella lo lasciava fare, e se il marchese diceva mezza parola, grida, minacce, un inferno. Dopo gli scrupoli della cognata-cugina, si nettò la bocca contro di lei, tanto più che per ordine di Giacomo, donna Graziella condusse Teresa a baciar la mano allo zio don Blasco. Dal monaco sì, che teneva la Sigaraia e le tre figlie in casa, e da lei no? «Sicuro, perché dal monaco aspettano l’eredità...»
Don Blasco, adesso, era un signore: oltre la casa e i due poderi, aveva messo di bei quattrini da canto; il principe gli faceva la corte per questo. Il Cassinese se la lasciava fare da lui come da Lucrezia e da Chiara; non andava più in casa di nessuno, non potendo più salire scale; ma dettava legge ai nipoti, se ne serviva in tutti i modi, e se qualcuno di costoro lo faceva andare in collera, egli cavava fuori, come donna Ferdinanda, un suo foglio di carta e lo stracciava in mille pezzi: «Neanche un soldo da me!...» La visita della nipote Teresa gli fece piacere; le figliuole non si lasciarono vedere, e la principessa spiegò alla ragazza che donna Lucia era «governante» dello zio.
Del resto, queste precauzioni erano inutili per Teresa. Ella non aveva curiosità sconvenienti, e quando comprendeva che le più grandi avevano da dirsi qualcosa, s’allontanava, andava ad ordinare la sua cameretta o a badare alle sue cosucce. Non era soltanto bella da far strabiliare, ma piena d’ingegno, istruita da dar punti a tanti uomini. Disegnava e dipingeva, parlava il francese e l’inglese come la sua propria lingua, sapeva far versi e comporre musica; e modesta, con questo, semplice, buona, affettuosa da non si dire. Rientrando nella casa dove, bambina, aveva lasciata la sua mamma, e adesso non la trovava più, avevano dovuto sorreggerla e i suoi occhi eran parsi due vive fonti, dal tanto pianto; ma il culto per la santa memoria non le impediva di rispettare e di amare il padre e la madrigna. E timorata di Dio, sempre con qualche libro di preghiere tra le mani, quando non lavorava ai suoi ricami, ai suoi disegni, alla sua musica: certi libri dorati, ricoperti di velluto o di pelle odorosa: mesi di Maria, coroncine della Beata Vergine, vite di Santi, pieni ad ogni pagina d’imagini divine, tutti premii riportati quand’era all’Annunziata. Ma questi sentimenti pii, questo timor di Dio non le impedivano di amare, come conveniva ad una fanciulla della sua età, gli svaghi mondani, le eleganze della moda. Quando aveva da vestirsi per far visite o per riceverne, o per andare al passeggio o al teatro, ella s’indugiava come le altre, dinanzi allo specchio; e aveva un certo modo tutto suo di portare gli abitini più semplici che la faceva parer vestita come per andare a un ballo. Quando passavano dalla modista o dalla sarta, se dovevano sceglier stoffe o guarnizioni o minuti oggetti d’ornamento ella dava prova di gran gusto, scegliendo le cose più belle e più eleganti, persuadendo con buone maniere la zia Lucrezia, la quale, dacchè teneva le chiavi della cassa, si faceva un abito ogni quindici giorni, afferrandosi sempre a quel che c’era di più disgraziato, ed imbronciandosi se non lodavano la sua scelta. Invece la principessa lasciava che la figliastra facesse a modo suo e scegliesse quel che le piaceva; anzi, si rimetteva a lei per le cose sue proprie. «Che gusto, quello della mia figliuola!... Che figliuola modello!...» La lodava specialmente per la dolcezza del carattere e la bontà del cuore; la baciava e l’abbracciava dinanzi a tutti, anche in conversazione; vegliava su lei come una vera mamma.
Era gelosa e scrupolosissima; non permetteva che oltre i libri di religione la figliastra leggesse cose capaci di guastarle la testa; nè che, dinanzi alla giovane, tenessero certi discorsi, per paura che le stesse parole le contaminassero il pensiero. Stava perciò sulle spine quando la cognata Lucrezia narrava certe storie di concubinaggi, di separazioni coniugali, di nascite illegittime. Cominciava allora a tossire per dar sulla voce a quella stravagante malaccorta; e se la tosse non bastava, mutava discorso bruscamente, con un certo modo tutto suo fatto apposta per richiamare l’attenzione sulle cose dalle quali voleva invece stornarla. Ma Lucrezia non si accorgeva di nulla, e anzi non commetteva la sconvenienza di dire spesso alla nipotina, a proposito ed a sproposito, ma più spesso quando si lagnava di Benedetto: «Bada a chi piglierai per marito!» Oppure: «Apri gli occhi, quando sarai maritata?...» La principessa diventava di mille colori, alzava gli occhi al soffitto, facendo sforzi straordinarii per contenersi, per non dire il fatto suo a quella pazza a cui il Signore aveva fatto bene di non dar figlie, se intendeva così l’educazione delle ragazze. «Cognata!... Lucrezia!...» ma nulla serviva, tanto che una volta la principessa mise carte in tavola:
— Scusa, cugina; ma questi discorsi mi sembrano fuor di luogo. Teresa si mariterà quando sarà tempo, e ci penserà suo padre, non dubitare: a me non piace la moda d’oggi, di parlar di queste cose alle ragazze....
Teresa, con gli occhi bassi e le mani in grembo, pareva non ascoltare; Lucrezia ammutolì e andò via dopo un poco, senza salutar nessuno. Ma un altro parlava spesso di cose scabrose e la principessa doveva tenerlo in riga: il cavaliere don Eugenio. Appena saputo l’arrivo del fratello e del nipote, era corso da loro per ricominciare il discorso dell’Araldo Sicolo. Il duca, senza le grida di don Blasco e le commedie di donna Ferdinanda, gli aveva risposto chiaro: «Coi libri, caro mio, nessuno ha mai fatto quattrini; tu ne farai meno degli altri perchè non hai saputo far nulla mai. Se vuoi stampar l’opera, nessuno te lo impedisce; ma io non ho denari da buttar via in queste imprese.» Don Eugenio accettava a capo chino il predicozzo, come riconoscendo di meritarlo, ossequente ed umile dinanzi a quell’imbroglione che sputava sentenze, e come s’era arricchito? a spese delle casse pubbliche, manipolando gli appalti, facendo ogni sorta d’imbrogli!... «Almeno,» don Eugenio insisteva, «farai comprare il libro alle biblioteche dello Stato? A te non costa nulla, sei tanto influente!... Basterà che tu dica una parola....» Il deputato ascoltava la lode a occhi socchiusi, beatamente. Infatti i bei giorni erano tornati per lui; dopo l’atteggiamento preso nella quistione romana aveva rimesso il tallo; l’elezione del novembre Settanta era stata un altro trionfo. Sì, gli sarebbe bastato dire una parola per aiutare il fratello; tuttavia, alle insistenze di costui, rispondeva che avrebbe visto, che ci avrebbe pensato, preso da uno scrupolo: «Che cosa si potrà dire? Che mi giovo del mio credito per procurar favori alla mia famiglia?...»
Don Eugenio allora s’era rivolto al principe. Questi aveva negato sulle prime, come meglio aveva potuto, ma in fin dei conti gli riusciva difficile insistere in un rifiuto crudo crudo, poichè egli non avea tanta confidenza con lo zio da mandarlo a spasso, e nemmeno poteva addurre ragionevolmente la mancanza di quattrini; perciò s’era lasciata strappar la promessa d’una anticipazione d’un par di migliaia di lire, aspettando a sborsarle che la sottoscrizione fosse a buon punto. Frattanto don Eugenio, allettato dalla promessa, veniva a palazzo quasi ogni sera, con grande mortificazione della principessa che non poteva soffrire la vista della famelica faccia e dei miserabili indumenti del cavaliere e stava poi sui carboni ardenti, come un’anima del Purgatorio, quando egli cominciava a raccontare tutti i fatti della società palermitana: «Sasà marita le sue figlie.... La moglie di Cocò ne ha fatta un’altra delle sue.... Il figlio di Jajà è scappato con una ballerina....» Cocò era il principe di Alì, Sasà il duca di Realcastro, Jajà il barone Mortara; e nessuno nominava qualche persona di Palermo senza che egli assicurasse d’essere con questa persona «come fratello....» Tutte le volte che descriveva il suo appartamento il numero delle stanze cresceva: adesso era arrivato a quindici e, non potendolo più ragionevolmente aumentare, aggiungeva: «oltre la stalla e la rimessa....» Il principe lo lasciava dire, ma gli faceva pagare l’attenzione prestatagli e la promessa dei quattrini, giovandosi di lui come di un servo, mandandolo di qua e di là a portar lettere od ambasciate, che gli affidava dandogli tuttavia, per un certo rispetto umano, dell’Eccellenza. Neppure lo metteva a giorno dei proprii affari, nè gli faceva confidenze di sorta; curioso, il cavaliere voleva sapere che pensavano pel matrimonio di Teresa, che cosa faceva Consalvo, quando sarebbe tornato; ma non riusciva ad saper nulla, specialmente riguardo al principino, il quale non scriveva se non a donna Ferdinanda. Le notizie del giovane, a palazzo, venivano per mezzo di Baldassarre, il quale ogni due giorni scriveva al signor principe per riferirgli minutamente la vita del padroncino. Quelle lettere facevano fare schiette risate a Teresina, scritte com’erano in una lingua fantastica, di particolare composizione del maestro di casa. «So Eccellenza sta bene e s’addiverte.... Oggi abbiamo stato al Buà di Bologna, che ci era grande passeggio di carrozze e cavalli e signori e signore accavallo....» Il maestro di casa annunziava ogni giorno il programma del successivo: «Domani andiamo all’Ussaburgo.... domani partiamo per Fontana Bu, vedere il palazzo reale....» ma donna Ferdinanda aspettava la narrazione d’una visita ben altrimenti importante: quella a Sua Maestà Francesco II. Prima che Consalvo partisse, ella gli aveva fatto un obbligo, quando sarebbe passato da Parigi, di «baciare la mano al Re», e appena saputo il nipote nella capitale francese, gli aveva rammentato di mantener subito la promessa. Padre Gerbini che a Parigi era cappellano della Maddalena e andava in casa di tutta la nobiltà legittimista, ed era ammesso, insieme con gli intimi, presso l’ex-re, aveva chiesto l’udienza pel giovanotto siciliano, facendo opportunamente valere la fede serbata dalla più gran parte degli Uzeda alla causa borbonica. In una lunga lettera, della quale donna Ferdinanda diede lettura in mezzo al circolo dei parenti, Consalvo riferiva l’accoglienza affettuosa dell’antico sovrano, la premura con la quale s’era informato di tutta la famiglia e il dono che gli aveva fatto, prima di congedarlo, dopo un lungo colloquio: il proprio ritratto con dedica autografa. «Sua Maestà la Regina» era sofferente, e perciò non aveva potuto riceverlo anche lei; ma il «Re» gli aveva detto che voleva rivederlo prima della sua partenza!... Venne anche la lettera di Baldassarre che riferiva la visita «a So Maistà Francisco secundo, inseme con So Paternità don Placito Gerbini. So Maistà abbia parlato a So Eccellenza della Siggilia e dei signori sigiliani che abbia conosciuto in Napoli e in Pariggi. So Eccellenza ci ha baciato le mani, e So Maistà gli arregalato il suo ritratto, dicendoci che ci deve tornare un’altra volta, per appresentarlo a So Maistà la Reggina.» Infatti prima che padrone e servo partissero da Parigi, tutt’e due annunziarono la seconda udienza, ma questa volta la lettera del maestro di casa al padrone conteneva un particolare del quale non era parola in quella di Consalvo alla zia. «So Maistà abbia fatto una grande festa a So Eccellenza, e quando ci abbia stretto la mano ci ha addomandato chi sa quando ci arrivedremo; e So Eccellenza mi ha contato So Paternità che ci abbia risposto: «Maistà, ci arrivedremo in Napoli, nel palazzo reale di Vostra Maistà!...»
Da Parigi il giovanotto tornò finalmente in Italia, e, restato un poco a Torino e a Milano passò a Roma, che era l’ultima tappa del suo viaggio. Lì si fermò un pezzo; ma, dopo aver scritto un paio di lettere alla zia, non si fece più vivo. Donna Ferdinanda gli aveva anche raccomandato di «baciare il piede al Papa» e Baldassarre infatti, da principio, annunziava che «Monsignori don Lotovico» doveva condurre in Vaticano il nipote, ma poi non disse se la visita era stata fatta; anzi un giorno, inaspettatamente, annunziò per telegrafo l’imminente ritorno. Aspettato alla stazione da donna Ferdinanda e da Teresa — perchè il principe era rimasto ed aveva ordinato alla moglie di rimanere a palazzo, — Consalvo fece una specie d’ingresso trionfale, tra le persone di servizio e gl’impiegati all’amministrazione schierati su due file, che ammiravano la bellissima ciera del signorino e gli davano il bentornato e si facevano in quattro per aiutare Baldassarre a scaricare la gran quantità di bauli, valige, portamantelli e cappelliere di cui era piena la carrozza e un carrozzino da nolo. Il principe, con aria tra dignitosa ed affabile, si fece trovare nella Sala Rossa e gli dette la mano a baciare; altrettanto fece la principessa, ma con maggiori dimostrazioni d’affettuosa premura: «Ti sei divertito?... Avesti buon tempo di mare?... C’è tutta la tua roba?... Le tue camere sono già pronte!...»
La stanchezza del viaggio, lo stordimento dell’arrivo spiegavano naturalmente la poca loquacità di Consalvo in quelle prime ore; infatti la sera, dopo aver mandato in camera del padre, della sorella e della madrigna una quantità di regali, egli cicalò moltissimo, riferì una quantità d’impressioni, narrò certi aneddoti comici su Baldassarre che, all’estero, sconoscendo le lingue, s’era spesso smarrito, aveva attaccato lite con gente alla quale diceva male parole siciliane; e una volta, anzi, a Vienna, aveva corso rischio di dormire al posto di guardia. Il giorno dopo continuò il discorso del viaggio, specialmente su Parigi; ma a poco a poco, e secondo che quell’argomento si esauriva, il giovanotto non prendeva più parte alla conversazione. Se la principessa narrava qualche cosa, e se il principe discorreva degli affari di casa, si contentava di stare a sentire e rispondeva qualche Eccellenza sì o qualche Eccellenza no di tanto in tanto. A tavola, col muso sul piatto, non guardava nessuno e spesso non pronunziava due parole una dopo l’altra. Il principe cominciava a soffiare e ammutoliva anche lui, facendo però certi versacci che non annunziavano niente di buono; la principessa alzava gli occhi al soffitto dalla costernazione, e Teresa, angustiata da quella freddezza, perdeva sin l’appetito. Levandosi di tavola, quando il figlio andava via:
— Cominciamo da capo! — sfogavasi il principe. — State a vedere che cominciamo da capo! Che gli hanno fatto, a cotesta bestia? S’è divertito più d’un anno a viaggiare, non gli è mancato niente, e mi ringrazia così, tenendomi il broncio, avvelenandomi tutti i giorni il desinare!...
Nè era da dire che quella bestia stesse muto per poca voglia di parlare; giacchè, in presenza di estranei, non la finiva più di narrare le sue avventure di viaggio, le grandi cose che aveva viste, le novità di cui in Sicilia non v’era neppur sentore. Con Benedetto Giulente, specialmente, e con la gente più o meno mescolata nelle cose pubbliche, teneva certi discorsi stupefacenti in bocca sua, sull’ordinamento delle guardie di città, sulla manutenzione dei giardini, intorno ai sistemi d’inaffiamento delle vie o d’illuminazione dei teatri. Perchè diamine s’occupava di quelle cose? Per far sapere che era stato fuori via?... Ma nossignore; non solo teneva discorsi diversi dagli usati, mutava anche sistema di vita. Visti una prima volta gli antichi compagni di bagordo, non li aveva più cercati, anzi li evitava; la passione dei cavalli pareva gli fosse interamente finita; non scendeva più nelle stalle, non teneva conversazione coi cocchieri. Non più donne, non più giuoco; passava il suo tempo chiuso nella propria stanza, dove non si sapeva che diamine ordisse. Quando andava fuori, faceva frequenti visite allo zio duca, col quale parlava di cose serie, o si vedeva in compagnia di gente che prima soleva evitare come la peste: parrucconi, politicanti del Gabinetto di lettura, sorci di farmacie, persone occupanti pubbliche cariche, tutto il codazzo del deputato. La posta gli portava ogni giorno una quantità di giornali italiani e francesi, e il libraio, ogni settimana, gli mandava grossi pacchi di libri che egli stesso andava a scegliere e ad ordinare.
— Qual altra pazzia adesso gli salta in capo? — diceva il principe, con tono sempre più acre, alla moglie; ma questa:
— Di che ti lagni? — rispondeva, conciliante. — Non si riconosce più; pare davvero un altro: benedetto questo viaggio, se lo ha fatto cambiare di nero in bianco!
Certi giorni, Consalvo non veniva a tavola; al cameriere che andava a chiamarlo rispondeva, dietro l’uscio, che aveva da fare; e allora il principe buttava via il tovagliolo, stringeva i denti, quasi scoppiava dinanzi ai lavapiatti che assistevano al pranzo. Teresa, a un segno della principessa, andava a cercare il fratello e insisteva tanto, con voce dolce, con persuasioni amorevoli, finchè egli apriva.
— Perchè non vieni? Sai che al babbo dispiace...
— Perchè ho da fare, sto scrivendo, non posso perdere il filo...
— Lascia di scrivere, contentalo, fratellino!... Hai tanto tempo per studiare! Altrimenti, potrebbe parere che tu lo faccia apposta, che tu l’abbia con lui... o con la mamma...
— Io non l’ho con nessuno. Vedi che sto scrivendo?... — infatti la scrivania era piena di carte e di libri aperti.
E quando finalmente veniva a tavola, il principe gonfiava, gonfiava, gonfiava, vedendo il figliuolo taciturno e ponzante come un nuovo Archimede.
— Mangerò solo, se debbo vedere quella faccia da funerale! Tutto il giorno quella faccia ingrottata! È una jettatura! il cibo non mi fa buon sangue! Piglierò una malattia...
Allora Teresa, come la sola capace d’esercitare un’influenza sull’animo del fratello, tornava da lui, gli prendeva le mani, lo scongiurava d’esser buono, gli parlava dei suoi doveri di figlio; e Consalvo la lasciava dire, muto ed immobile. Ma una volta che ella, fra gli altri argomenti, addusse quello della gratitudine che dovevano al padre e alla madrigna, egli rispose, con ironia fredda e tagliente:
— Molta, in verità... Mio padre m’ha voluto sempre bene, fin da quando mi tenne dieci anni chiuso al Noviziato, come ha tenuto in collegio sei anni te! Gli dobbiamo essere molto grati entrambi, perchè non lasciò passare sei mesi dalla morte di nostra madre, che mise un’altra al posto di lei... Anche lei, dal paradiso, deve essergli grata pel rispetto, per l’amore, per le cure di cui la circondò...
— Taci! Taci!... — esclamò Teresa.
— Ho da tacere?... Lo sai dunque quel che fecero soffrire a quella poveretta?... Ma tu eri a Firenze, tu non puoi saper niente...
— Taci, Consalvo!
— Allora, che vuoi? Dimmi tu che debbo fare per contentarlo! Quando stavo tutto il giorno fuori casa, a divertirmi a modo mio, spendendo quattrini: nossignore, bisognava cambiar vita! Adesso che sto sempre dentro, a studiare, continua a rompermi la testa?
Consalvo studiava economia politica, diritto costituzionale, scienza dell’amministrazione. La gente che non sapeva di che cosa s’occupava, ma che vedeva il radicale mutamento operatosi in lui, lo attribuiva al lungo viaggio, al senno che tutti i giovani, o presto o tardi, hanno pure da mettere. E il viaggio, infatti, era stato l’origine della conversione del principino, la sua grande lezione.
La lotta col padre lo aveva disgustato della sua casa ed anche del suo paese, dove la mancanza di quattrini e la pesante autorità paterna non gli consentivano di fare tutto ciò che voleva; pertanto egli aveva accettato con gioia di andar via, di girare un poco il mondo; ma la prima impressione da lui provata, appena fuori di Sicilia, fu quella che proverebbe un vero re in cammino per l’esilio. Il giorno prima, quantunque non potesse sbizzarrirsi a modo suo, era nondimeno un pezzo grosso, il pezzo più grosso del suo paese, dove tutta la gente, in alto e in basso, gli faceva di cappello e s’occupava di lui e delle cose sue; a un tratto egli si svegliava uno qualunque in mezzo alla folla che non gli badava. E se neppur egli avesse visto nessuno, meno male: ma le lettere di presentazione di cui era provvisto lo avevano messo in rapporto, a Napoli, a Roma, a Firenze, a Torino, con altra gente, coi signori di lassù; e allora aveva visto che c’eran pezzi grossi più grossi di lui. Il nome di principino di Mirabella aveva perduto la sua virtù, era diventato quello di un signore come ce n’erano a migliaia. Il lusso vero, e non quello mediocre di suo padre, il gusto fastoso, lo sfarzo elegante di cui non c'era idea in quell’angolo di Sicilia, fuori delle grandi vie del mondo, dov’egli era vissuto, lo costringeva a riconoscere la propria inferiorità. Al club di Catania erano quasi in famiglia ed egli troneggiava; a Napoli e a Firenze otteneva per favore un biglietto per pochi giorni; se fosse rimasto a lungo avrebbe dovuto esporsi ad una votazione, farsi raccomandare, correre, chi sa, il rischio d’essere respinto!... Nella sua testa avveniva una rivoluzione. Soffrendo realmente nell’orgoglio, nella vanità di «Vicerè» quando andava a fare qualche visita in certi palazzi grandi quattro volte l’avito, nei quali invece di botteghe da affittare c’erano gallerie vaste quanto musei, con dentro tesori d’arte, egli smise di frequentare le sue conoscenze, rinunziò a farne di nuove. Per affermare in qualche modo la propria ricchezza, buttava via i quattrini a carrozze di rimessa, o nei caffè, nei teatri, nei negozii dove comperava una quantità di cose inutili, col solo scopo di lasciare il suo indirizzo: Principino di Mirabella, albergo tale — il più caro della città. E meno male ancora a Napoli, dove le tradizioni d’uno spagnolismo in tutto eguale al siciliano gli facevano dare dell’Eccellenza dagli sconosciuti che gli si professavano servi; ma a Firenze, a Milano, gli toccava il semplice signore; e invano Baldassarre, che gli stava sempre a fianco, prodigava il Sua Eccellenza e il Voscenza paesano: la gente sorrideva o restava a bocca aperta alle espressioni stravaganti del maestro di casa.
Così, per evitare queste mortificazioni, il principino passò all’estero più presto del tempo stabilito. In paese straniero, la maggior ricchezza e autorità della gente della sua casta non lo feriva tanto, ma un altro impaccio lo aspettava: col suo povero e mal digerito francese, si sentì come fuor del mondo a Vienna, a Berlino, a Londra: a Parigi fece sorridere come in Italia Baldassarre. Ma frattanto la Sicilia, il suo paese nativo, la sua casa dove la considerazione ed il primato d’un tempo lo aspettavano, erano divenute per lui sempre più piccoli e meschini. Come rassegnarsi a tornare laggiù, dopo aver visto la gran vita delle grandi città? E come tenere un posto mediocre in una capitale? Bisognava dunque essere il primo tra i primi!... E una volta entratagli in testa quest’idea, Consalvo si mise a considerare in qual modo attuarla. Suo padre avrebbe consentito a lasciarlo andar via per sempre? La cosa era dubbia, ma il certo era che, articolo quattrini, ne avrebbe assegnati il meno possibile; e con vincoli umilianti, come durante quel viaggio, tutte le spese del quale dovevano esser fatte personalmente dal maestro di casa! Vivendo il padre, egli non avrebbe dunque potuto conseguire il suo scopo; e il principe poteva vivere cent’anni, come tanti di quegli Uzeda che avevano il cuoio duro, se il vecchio sangue non si scomponeva prima del tempo... E Consalvo che, ragionando freddamente, mettendo a calcolo tutto, faceva i suoi conti sulla morte del padre come sopra un avvenimento necessario alla propria felicità, considerava anche un altro lato della quistione: l’insufficienza di tutta la fortuna paterna, il giorno in cui egli ne sarebbe stato unico padrone, a dargli le soddisfazioni che andava cercando. Grande laggiù, e anche da per tutto, per uno che non avesse voglie smodate, il patrimonio del principe di Francalanza era per Consalvo poco più che la mediocrità, a Roma. La morte del padre era dunque inutile; egli doveva cercare un altro mezzo. E lì alla capitale, quando vi passò di ritorno, egli lo trovò.
Lo zio duca, fra le altre lettere, gliene aveva date parecchie per i colleghi del Parlamento. All’andata, egli aveva visto un momento l’onorevole Mazzarini, giovane avvocato della provincia di Messina, il quale faceva la politica continuando ad esercitare la professione. Di ritorno, Consalvo pensava a tutti fuorchè a costui, pel quale sentiva un profondo disprezzo di razza, quando una sera si vide accostato per via dall’Onorevole. «Di nuovo a Roma, principino? Di ritorno, naturalmente? Ma perchè non m’avete avvertito del vostro arrivo? Sarei venuto a trovarvi, m’avreste fatto tanto piacere! E vi siete divertito certamente, non c’è bisogno di domandarlo!» Colui parlava a vapore, gestendo, dandogli confidenzialmente del voi, mettendogli le mani addosso. E Consalvo, che alle dimostrazioni d’intimità restava freddissimo, si tirava indietro, schifo di quel contatto. L’Onorevole però, quantunque accusasse un gran da fare, e avesse infatti lasciato un crocchio di gente che lo attorniava, lo trattenne un pezzo; prima di lasciarlo gli disse: «Ci vedremo domani; verrò a trovarvi all’albergo...»
Consalvo fu tanto stupito che non ebbe tempo di levarselo dai piedi. Ed il domani Mazzarini, venuto a prenderlo, lo invitò a desinare con lui, trascinandolo al Morteo. V’erano molti altri deputati, una quantità di clienti li circondava; Mazzarini stesso, prima di potersi sedere a tavola, dovette sbarazzarsi di quattro o cinque persone che lo aspettavano, e per tutta la durata del pranzo parlò della moltitudine delle sue faccende, delle combinazioni politiche, degli affari pubblici; un fattorino del telegrafo gli portò due dispacci, dei quali egli firmò la ricevuta masticando a due palmenti, macchiando d’inchiostro il tovagliolo che teneva appeso al collo. Le persone che traversavano il caffè lo salutavano, egli rispondeva loro, interrompendosi con un «Cavaliere!...» o un «Caro commendatore!...» Alle frutta, aveva una piccola corte d’intorno alla quale parlava, con grande animazione, di Roma, di quel che bisognava fare per renderla degna dei suoi destini, per affermarne l’italianità, per tenere a segno il Vaticano. Finito il pranzo, un po’ allegro, prese a braccio Consalvo il quale fremè a quel contatto; ma il deputato, con un sorriso che voleva essere discreto ed era beato, esclamò: «È dura la via della politica, specialmente quando bisogna lavorare per vivere; ma, in fin dei conti, procura anch’essa qualche soddisfazione!... E voi, principino, non pensate di mettervi nella vita pubblica?...»
Parole dette così, sbadatamente, per continuare a parlare; ma Consalvo ne fu abbagliato. Stanco, infastidito, disgustato dalle chiacchiere dell’Onorevole, dalla confidenza con la quale lo trattava, da quell’ignobile pranzo che aveva dovuto ingozzare per forza, egli si vide in un momento schiuder dinanzi, diritta ed agevole, la via che andava cercando, quella che d’un umile faccendiere come Mazzarini faceva un uomo importante, riverito e corteggiato; quella che permetteva di raggiungere la notorietà e la supremazia non in una sola regione o sopra una sola casta, ma in tutta la nazione e su tutti. Deputato, ministro — Eccellenza! — presidente del Consiglio, Vicerè per davvero; che cosa occorreva per ottenere quei posti? Nulla, o ben poco. Mazzarini aveva parlato delle aspre lotte sostenute nel proprio collegio; ma il duca di Oragua non possedeva un feudo elettorale che, naturalmente, sarebbe passato al nipote? Per farsi conoscere, l’avvocato aveva dovuto crearsi pazientemente, accortamente, una clientela: il principino di Mirabella l’aveva già bell’e pronta. Alla cultura, alla competenza, egli non pensava: se aveva potuto fare il deputato un ignorante come suo zio, egli si credeva capace di reggere i destini della nazione. La forza della memoria, la facilità della parola, la sicurezza dinanzi alla folla che erano mancate al duca e lo avevano tormentato per tutta la vita accrescendo la sua miseria intellettuale, Consalvo le possedeva: a San Nicola, dinanzi ai monaci che s’empivano il buzzo di cibo o al cospetto della folla che veniva ad ascoltar le prediche di Natale; più tardi nelle vie della città, nelle taverne, attorniato da gente d’ogni risma, egli aveva fatto sfoggio d’eloquenza: gli sguardi fissi su lui, il silenzio dell’uditorio aspettante non lo avevano mai sgominato. Che altro occorreva?
Aveva promesso alla zia di baciare, oltrechè le mani a Francesco II, anche i piedi al Santo Padre: egli soppresse questa seconda visita, poichè gli conveniva mutare non solo le abitudini ma anche le idee. Fin a quel momento era stato borbonico nell’anima e clericale per conseguenza, quantunque non credente, anzi scettico sulle cose della religione al punto di non andare a sentire la messa: altro capo d’accusa mossogli da quel bigotto di suo padre. Adesso, per mettersi e riuscire nella nuova via, egli doveva essere liberale e mangiapreti come Mazzarini. Andò tuttavia a visitare lo zio Lodovico. Monsignore l’accolse con l’untuosità consueta, con le fredde espressioni d’un sentimento preso ad imprestito per la circostanza. L’antico Priore di San Nicola pareva conservato sott’aceto; asciutto, senza un pelo bianco, con la faccia liscia, nessuno lo avrebbe giudicato sulla cinquantina. Ed i suoi occhi sfavillarono quando, richiesto dal nipote se sarebbe tornato in Sicilia, rispose piano, modestamente:
— No, pel momento. E i miei nuovi doveri mi tratterranno ancora più a Roma...
— Che doveri, zio?
Egli abbassò le ciglia, dicendo:
— Il Beatissimo Padre vuole, senza merito mio, destinarmi alla sacra porpora...
Furbo, quello lì: arrivato a furia di furberia!... Consalvo se lo propose come modello. Frattanto, invece di fuggire Mazzarini, lo andò cercando, si fece guidare da lui alla Camera ed al Senato per esaminar subito il campo della sua azione futura. Allora comprese che se ad occupare un posto di deputato gli mancava soltanto l’età, gli occorreva qualche altra cosa per salire più alto. Per questo, tornato a casa, nessuno lo riconosceva. Persuaso che gli conveniva studiare, cominciò comprare libri su libri, d’ogni genere e d’ogni grossezza: li divorava da cima a fondo o li spilluzzicava prendendo note, pieno di buoni propositi, sul principio, disposto a fare sul serio. Tutte quelle materie erano tali che non occorreva l’opera del maestro: bastava la preparazione superficiale che egli possedeva e la naturale intelligenza. Il latino dei monaci, quello studio detestato, adesso gli giovava a qualche cosa. Più tardi, col fervore d’un neofita, con la presunzione degli Uzeda che non conoscevano ostacoli, comperò grammatiche e libri di lettura spagnuoli, inglesi e tedeschi per apprendere da sè quelle lingue.
La fama della sua conversione si diffuse subito. Stupiti, sospettosi o rallegrati, i parenti, gli antichi amici, gli stessi servi, dissero che stava tutto il giorno a tavolino. Associatosi al Gabinetto di lettura, lui, il fondatore del Club aristocratico, vi andava a discutere di politica e d’amministrazione, a criticare o lodare uomini e cose, a nominare autori e citar opere. Una sera che Giulente e il duca, in casa di quest’ultimo, discutevano a proposito dei dazii di consumo, se convenisse meglio al municipio appaltarli o riscuoterli per conto proprio, Consalvo disse la sua, con grande sfoggio di erudizione. Uscendo di lì, Benedetto esclamò con tono scherzoso di protezione:
— Ti faremo consigliere comunale, appena avrai l’età!...
— Perchè? No!... — esclamò egli. — E poi, come si fa?
— Perchè? Per avere un posto nella rappresentanza del tuo paese! Quanto al modo, è semplicissimo.
Innanzi tutto lo presentò al Circolo Nazionale. Alcuni socii fecero qualche difficoltà. Era degli Uzeda liberali o dei retrivi? Più d’uno assicurò che era borbonico come la zia Ferdinanda; che anzi, a Parigi, era andato a far visita a Francesco II. Ma Giulente si portò garante dei liberi sensi del nipote: all’ex-re aveva fatto, era vero, una visita, ma costretto dai parenti; una visita di pura forma, del resto, che non lo impegnava a niente. Fino a quel momento era stato un ragazzo irresponsabile delle idee che aveva potuto esprimere; adesso, se chiedeva di far parte del Circolo, significava che ne approvava il programma. Nè conveniva rifiutarlo, perchè altrimenti egli avrebbe potuto gettarsi in braccio ai reazionarii... Gli scrupolosi si contentarono di quelle assicurazioni, mormorando tuttavia che, secondo una certa versione, il principino aveva augurato al re spodestato di rivederlo nella reggia di Napoli... Quando Consalvo seppe che correva questa voce, protestò con tutte le sue forze che era una menzogna sfacciata, della quale non capiva l’origine. Ma, preso a quattr’occhi il maestro di casa, che solo poteva averla messa in giro, gli gridò sul muso:
— Tu, bestione, hai scritto che io ho detto a Francesco II che voglio rivederlo a Napoli e il diavolo che ti porti?
Imbarazzato e confuso, Baldassarre rispose:
— Eccellenza, sì...
— E chi t’ha detto una simile bestialità?
— Me lo disse padre Gerbini, che l’udì dire a Vostra Eccellenza...
Alzato il braccio in atto di minaccia, Consalvo ingiunse:
— Un’altra volta che ripeterai simili corbellerie, ti piglierò a scapaccioni, hai capito?
E fu ammesso al Circolo a pieni voti. Allora bisognò sentire donna Ferdinanda! Già ella, subodorato qualcosa dell’apostasia, aveva afferrato pel braccio il nipote, gridandogli: «Bada che non ti guarderò più in faccia! Bada che non avrai un soldo da me!» E Consalvo le aveva risposto facendo l’indiano, protestando la propria innocenza: «Che hanno dato a intendere a Vostra Eccellenza?» Ma Lucrezia le andò un bel giorno a portar la notizia dell’ammissione del nipote al Circolo. Schiumava anche lei dall’indignazione; ma in fondo andava a denunziare Consalvo alla zia per farglielo cader dal cuore, glie ne parlava male per entrar ella nelle sue buone grazie, per vendicarsi della principessa.
— Ah, mala razza!... Ah, gesuiti!... Ed a me diceva che non era vero!...
La vecchia non poteva tollerare sopratutto che quel mariuolo avesse tentato d’infinocchiarla spudoratamente.
— Ma vorranno star freschi tutti quanti!... Vo’ vederli crepare, tutti quanti!...
E andata a prendere, come dieci anni addietro, pel matrimonio di Lucrezia, la solita carta che teneva nell’armadio, la lacerò in mille pezzi dinanzi alla nipote.
— Neanche un soldo! Così!
Anche Chiara, poichè suo marito s’era venuto a poco a poco accostando alle idee liberali, fiottò contro il nipote e contro il marito. Don Blasco, invece, liberale di data oramai quasi antica, approvò la conversione del nipote; il quale, lasciando che ciascuno di quei pazzi dicesse la sua, fece il suo esordio al Circolo, una sera che l’assemblea discuteva intorno ai trattati di commercio. Nella sala, angusta, la gente era stipata e le seggiole si toccavano. Per evitare contatti, Consalvo aveva tirato la sua fuori della fila, distruggendone l’ordine; e, mordendosi i baffetti, stava a sentire con aria di grave attenzione. Ma quando il presidente annunziò: «Se nessuno domanda la parola, metto ai voti le conclusioni della commissione,» il principino s’alzò.
— Domando la parola.
Immediatamente si fece un profondo silenzio, e tutti gli sguardi si diressero su Consalvo. Rivolte le spalle al muro, guardando da un lato l’assemblea, dall’altro la presidenza, egli cominciò:
— Signori, io vi debbo innanzi tutto chieder venia dell’ardimento di cui potrete accusarmi vedendomi, ultimo arrivato fra voi, osare di prender la parola intorno a una grave materia, oggetto di così accurato esame da parte di socii ai quali volendo ma non potendo dare il nome di colleghi, debbo e voglio dare quello di maestri.
Il laborioso periodo fu detto con tanta sicurezza, uscì così filato, era così abile ed opportuno, sollecitava tanto l’amor proprio dei precedenti oratori, riusciva così inaspettato sulla bocca d’un giovanotto conosciuto fino a quel momento solo per le sue prodigalità ed i suoi vizii, che molti mormorarono: «Bravo!... Bene!...»
Egli continuò. Disse che se il suo ardimento poteva giudicarsi grande, egli sapeva che non meno grande era l’indulgenza del suo uditorio. Qualificò come «modello del genere» la relazione della commissione, la disse «degna veramente d’un Parlamento.» Ne citò due o tre paragrafi quasi letteralmente; quel prodigio di memoria sollevò un lungo mormorio ammirativo. Ma forse l’indulgente assemblea aspettavasi che egli esprimesse la propria opinione? E questa egli esprimeva «con peritanza di discepolo ma saldezza di apostolo.» Egli era per la libertà; per la libertà «che è la più grande conquista dei nostri tempi;» della quale «non si può mai abusare,» perchè essa «è correttivo a sè stessa.» I vantaggi del libero regime erano infiniti, perchè «come dice il celebre Adamo Smith nella sua grande opera...» e infatti «opina anche il grande Proudhon...» ma quantunque «il famoso Bastiat non ammetta,» pure «la scuola inglese è del parere....» Lo stupore e il piacere erano grandi e generali, tutt’intorno; Benedetto godeva come d’un personale trionfo, pareva dicesse: «Avete visto? E quand’io vi garentivo?...» Salve d’applausi interrompevano tratto tratto quel discorso che tutti credevano improvvisato, con tanta disinvoltura era detto; ma un vero trionfo successe all’argomentazione finale: la necessaria corrispondenza tra la libertà economica e la politica: «le più grandi garanzie di benessere e di felicità, le ragioni d’essere di questa giovane Italia, ricomposta ad unità di nazione libera e forte per virtù di popolo e Re!...